L’introduzione di Bauman a La società dell’incertezza, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 7-25.
Nel 1929 comparve a Vienna Das Unbehagen in der Kultur, un saggio che inizialmente doveva essere intitolato Das Unglück in der Kultur. Il suo autore era Sigmund Freud. In italiano l’opera è nota come Il disagio della civiltà (Torino, Boringhieri, 1978). La stimolante e provocante lettura freudiana delle pratiche della modernità entrò nella coscienza collettiva e finì per strutturare profondamente il modo di valutare le conseguenze (intenzionali e non) dell’avventura moderna. Anche se Freud aveva preferito parlare di Kultur o di «civiltà», sappiamo ora che il libro riguarda la storia della modernità; solo la società moderna era in grado di pensare se stessa come fermento «culturale» o «civilizzatore» e di agire sulla base di questa autocomprensione producendo gli esiti che Freud si proponeva di indagare; per questo motivo, l’espressione «civiltà moderna» è pleonastica.
Nello scambio, qualcosa si guadagna e qualcosa va irrimediabilmente perduto: questo era il messaggio di Freud. Come «cultura» o «civiltà», la modernità ha a che fare con la bellezza («questa cosa inutile che ci aspettiamo la civiltà stimi»), la pulizia («ogni genere di sporcizia ci sembra incompatibile con la civiltà») e l’ordine («ordine è una specie di coazione a ripetere che decide, grazie ad una norma stabilita una volta per tutte, quando, dove e come una cosa debba essere fatta, in modo da evitare esitazione e indugio in tutti i casi simili tra loro»). La bellezza (cioè tutto ciò che produce il piacere sublime dell’armonia e la perfezione della forma), la pulizia e l’ordine sono acquisizioni non trascurabili a cui certamente non si rinuncia senza dispiacere, dolore, o rimorso. Ma neppure si possono ottenere senza pagare un prezzo elevato. Gli esseri umani non hanno alcuna predisposizione «naturale» a ricercare e preservare la bellezza, a fare le pulizie e ad osservare la routine dell’ordine. Anche se in qualche occasione sembrano mostrare un tale «impulso», si tratta sempre di una inclinazione inventata, acquisita e coltivata, il segno più evidente di un processo di incivilimento in atto. Gli uomini devono essere costretti a rispettare e ad apprezzare l’armonia, la pulizia e l’ordine. La loro libertà di agire sulla base di impulsi deve essere limitata e sottoposta a restrizioni. I vincoli imposti sono dolorosi: offrono protezione alla sofferenza ma generano ulteriore tormento.
«La civiltà è costruita su una restrizione delle pulsioni». In particolare, la civiltà (leggi modernità), «impone grandi sacrifici» alla sessualità e all’aggressività dell’uomo. «Il desiderio di libertà, perciò, si volge o contro forme e pretese particolari della civiltà, o contro la civiltà tutta». E non può essere altrimenti. La vita civile, così dice Freud, propone in una unica soluzione, piaceri e sofferenze, soddisfazione e disagio, obbedienza e ribellione. La civiltà – l’ordine imposto sul disordine naturale dell’umanità – è un compromesso, un contratto continuamente messo in discussione e da rinegoziare. Il principio di piacere è in questo caso ridotto in funzione del principio di realtà, mentre le norme definiscono chiaramente ciò che si deve intendere per «realtà».
«L’uomo civile ha scambiato una parte delle sue possibilità di felicità per un po’ di sicurezza». Per quanto realistici e plausibili possano essere i nostri tentativi di agire migliorando le imperfezioni delle condizioni attuali, «forse è bene abituarsi a pensare che ci sono alcune difficoltà intrinseche alla natura della civiltà in grado di resistere a qualsiasi tentativo di intervento».
Freud parlava dell’ordine, orgoglio della modernità e punto di partenza di ogni altra sua realizzazione (sia che si manifestasse sotto la stessa dimensione dell’ordine o si celasse sotto le categorie della bellezza e della pulizia), in termini di «coazione», «regolazione», «soppressione» o «rinuncia forzata». Il disagio, profondamente intrecciato alla modernità, nasceva da un «eccesso di ordine» e dalla sua inseparabile compagna: la morte della libertà. Esposta alla triplice minaccia della caducità del corpo, dell’incontrollabilità della natura selvaggia, e dell’aggressività del prossimo, la condizione di sicurezza richiedeva il sacrificio della libertà: prima di tutto, della libertà individuale di procurarsi il piacere. Nella cornice di una civiltà ripiegata sulla sicurezza, maggiore libertà significava minore frustrazione. In una civiltà che sceglie di limitare la libertà in nome della sicurezza, l’incremento dell’ordine implica la crescita della frustrazione.
Il nostro, però, è un tempo di deregulation. Il principio di realtà è chiamato a difendersi, oggi, di fronte ad un tribunale in cui il principio di piacere è il giudice che presiede la corte. «L’idea che ci siano difficoltà intrinseche alla natura della civilizzazione che resistono a qualsiasi tentativo di intervento» sembra aver perduto la sua originaria inequivocabile evidenza. La coazione e la rinuncia forzata che un tempo erano irritanti necessità, combattono oggi la loro battaglia contro la libertà individuale senza avere garanzie di successo.
Settantanni dopo la stesura de Il disagio della civiltà, la libertà individuale regna sovrana; è il valore in base al quale ogni altro valore deve essere valutato e la misura con cui la saggezza di ogni norma e decisione sovra-individuale va confrontata. Ciò non significa, però, che gli ideali di bellezza, pulizia e ordine, che avevano accompagnato gli uomini e le donne nel loro viaggio dentro la modernità, siano stati abbandonati o che abbiano perso il loro lustro originale. Al contrario, essi oggi devono essere perseguiti – e realizzati – attraverso sforzi, percorsi e volontà individuali. Nella sua attuale versione postmoderna, la modernità sembra avere trovato la pietra filosofale che Freud aveva congedato come fantasia ingenua e dannosa: essa si propone di fondere il prezioso metallo di un «ordine puro» e di una «pulizia meticolosa» estraendo direttamente la materia prima dalla umana (troppo umana) ricerca di piaceri, sempre più numerosi e sempre più appaganti – una ricerca che un tempo era del tutto screditata e condannata come autodistruttiva. La«mano invisibile», uscita indenne, forse perfino rinvigorita, da due secoli di tentativi diretti a rinchiuderla nel guanto d’acciaio delle regole e del controllo razionali, ha riguadagnato fiducia e successo. La libertà individuale, un tempo un peso e un problema (forse il problema) per tutti i costruttori dell’ordine, è diventata il vantaggio e la risorsa maggiore nel continuo processo di autocreazione dell’universo umano.
Nello scambio, qualcosa si guadagna e qualcosa va irrimediabilmente perduto: la vecchia regola rimane vera oggi come un tempo. Solo che i guadagni e le perdite hanno invertito le loro posizioni: gli uomini e le donne postmoderni scambiano una parte delle loro possibilità di sicurezza per un po’ di felicità. Il disagio della modernità nasceva da un tipo di sicurezza che assegnava alla libertà un ruolo troppo limitato nella ricerca della felicità individuale. Il disagio della postmodernità nasce da un genere di libertà nella ricerca del piacere che assegna uno spazio troppo limitato alla sicurezza individuale.
Ogni valore acquista rilevanza (come Georg Simmel osservava molto tempo fa) nella misura in cui, per poterlo ottenere, si devono abbandonare e sacrificare altri valori. D’altra parte, quanto meno un valore è disponibile e tanto più si fa intenso il suo bisogno. Il valore della libertà esercita il fascino maggiore quando deve essere sacrificata sull’altare della sicurezza. Quando è la sicurezza a dover essere sacrificata nel tempio della libertà individuale, essa assorbe tutto lo splendore della sua precedente vittima. Se la noia e la monotonia pervadono le giornate di coloro che inseguono la sicurezza, l’insonnia e gli incubi infestano le notti di chi persegue la libertà. In entrambi i casi, la felicità va perduta. Ascoltiamo di nuovo Freud:
«Noi siamo fatti in tal modo da essere in grado di ricavare un piacere intenso solo dal contrasto e molto poco dal normale stato delle cose». Perché? Perché «ciò che chiamiamo felicità […] deriva dalla soddisfazione (di solito improvvisa) di bisogni che sono stati accuratamente repressi e per sua natura è possibile solo in quanto fenomeno episodico».
In questo modo, una condizione di libertà senza sicurezza non assicura una quantità di felicità maggiore rispetto ad una sicurezza senza libertà. Un mutamento nella configurazione delle faccende umane non rappresenta sempre un passo avanti verso uno stato di felicità più intensa, anche se può sembrare tale nel momento in cui si compie. La rivalutazione di tutti i valori è un momento felice ed esaltante, ma i valori rivalutati non garantiscono necessariamente uno stato di beatitudine.
Non ci sono guadagni senza perdite, ed è inutile sperare in una loro prodigiosa separazione: anzi, i guadagni e le perdite specifici di ogni accordo di convivenza umana vanno accuratamente conteggiati in modo da poter cercare l’equilibrio ottimale tra i due; anche se (o, piuttosto, poiché) la sobrietà e la saggezza faticosamente acquisite prelevano noi, uomini e donne postmoderni, dall’abbandonarci al sogno ad occhi aperti di un resoconto in cui compaia mio il consuntivo dei nostri crediti.
L’ultima parola spetta alla libertà
Ogni gioco prevede vincitori e perdenti. Nel gioco della libertà, però, la differenza tra le due categorie tende ad funere sfumata, se non del tutto cancellata. Chi ha perso si consola con la speranza di vincere la prossima volta, mentre la gioia del vincitore è offuscata dal presentimento della perdita. Per entrambi, la libertà significa che nulla è stabito in modo permanente e che la ruota della fortuna può ancora girare. I capricci della sorte rendono incerta la condizione di entrambi. Ma l’incertezza è portatrice di messaggi differenti: ai perdenti dice che non tutto è ancora perduto, mentre ai vincenti sussurra che ogni trionfo tende ad filiere precario. Nel gioco della libertà, il perdente si ferma prima della disperazione e il vincitore si ferma prima di raggiungere l’assoluta certezza dei propri mezzi. Entrambi scommettono sulla libertà ed entrambi hanno motivo di lamentarsi. Nessuno accetterebbe chiaramente restrizioni alla libertà, ma nessuno è totalmente sordo al fascino della certezza, che in realtà si propone di curare i mali della libertà uccidendo il paziente.
L’esperienza di coloro che sono coinvolti nel gioco della libertà è incerta, contingente e senza fine come la loro sorte. Implica gioia e dolore; genera solidarietà ed egoismo; promuove la passione ma anche l’odio verso il mutamento. L’ambivalenza della sorte e gli atteggiamenti contraddittori che alimenta spingono molti osservatori a parlare di «crisi di intelligibilità»2; le radici dell’ambivalenza esperienziale sono riconducibili al collasso dell’ordine avvenuto a tutti i livelli immaginabili – globale, nazionale, istituzionale, ambientale – e all’assenza di una visione della buona società in grado di controllare un consenso universale o quasi universale. Mancano gli strumenti concettuali – così si dice – per risistemare un quadro contorto e frammentato, per immaginare un modello coerente e integrato che emerga da un’esperienza confusa e incoerente, per legare e tenere insieme gli eventi disseminati. In realtà, se vogliamo capire la logica delle cose (cioè: le cause determinanti, le finalità a priori, la certezza dell’esito finale prima che gli eventi accadano), allora «le leggi del mercato» sono un povero surrogato delle «leggi della natura» o delle «leggi della storia», per non parlare delle «leggi del progresso». Non sorprende che l’ambivalenza dell’esperienza e la conseguente incoerenza di desideri e atteggiamenti si siano proiettati nella sconfitta dell’ordine mondiale e nel fallimento dell’audacia intellettuale e delle sue possibilità di comprensione.
Tuttavia, c’è una domanda che rimane in sospeso. La questione riguarda quali strumenti concettuali siano necessari (e quali sarebbero sufficienti) a far tornare i pensatori esiliati e nostalgici al paradiso perduto della certezza. Le «leggi della storia» non apparivano forse così scontate e ovvie, così facili da individuare e da illustrare nei dettagli, grazie all’azione di poteri che si impegnavano sia ad adattare la storia alle leggi sia a stabilire le leggi a cui la storia avrebbe dovuto assoggettarsi? «La legge del progresso» non si era forse affermata grazie a poteri sufficientemente abili, intraprendenti e tenaci da favorire l’esistenza e la crescita del «progressivo» e da soffocare ed eliminare «l’antiprogressivo»? Fu solo un caso se le leggi della storia e del progresso giunsero a dominare il pensiero intellettuale proprio quando quegli stessi poteri erano riusciti a dominare il mondo? Ed è solo un caso se, a meno della restaurazione degli antichi poteri, è improbabile che dalle ceneri postmoderne possano rinascere la moderna certezza del progresso e, più in generale, del senso della storia?
Per molte ragioni, il ritorno della certezza moderna non sembra imminente. E un bene o un male? Nonostante le indubbie attrattive offerte dalla certezza, l’interrogativo apre un dibattito complesso e probabilmente interminabile; non tanto perché non sia chiaro se i vantaggi procurati riescano i bilanciare le perdite, ma perché troppe persone hanno conosciuto i costi della guerra contro l’ambivalenza e il prezzo da pagare per ottenere il sostegno della certezza, e perché troppe persone si sono scottate le dita (e non solo quelle), e prudentemente non vogliono sopportare un’altra volta gli stessi costi. Se la storia è in grado di insegnare qualcosa, ha reso evidente un aspetto che qualsiasi calcolo futuro delle posibilità deve tenere a mente. Come ha detto Odo Murquard, l’autore di Apologie des Zufälligen e di Abschied vom Prinzipiellen3, nel suo stile inimitabile:
«Se – in riferimento al testo sacro – due interpreti, in controversia fra loro, affermano: “io ho ragione, la mia comprensione del testo é la verità, la verità necessaria alla salvezza”, si può arrivare allo scontro violento». Ma se i due contendenti concordano che «il testo si presta a diverse interpretazioni, sempre nuove e originali», possono iniziare a dialogare «e chi si apre al dialogo non uccide più». L’ermeneutica «pluralizzante» si differenzia dalla ermeneutica «singolarizzante», perché istituisce «l’essere per uccidere» con «l’essere per il testo»4.
La storia è piena di massacri e omicidi di massa commessi nel nome della «unica e sola» verità (ad essere precisi, l’ultima espressione è un pleonasmo: la verità può solo essere «unica» oppure falsa; per ricorrere all’idea di verità, è necessario che la falsità di ogni altra convinzione sia implicita, mentre «verità» al plurale è una contraddizione in termini). Al contrario, è difficile individuare anche un solo esempio di atto di crudeltà perpetrato in nome della pluralità e della tolleranza. Gli intrepidi conquistatori degli infedeli, i cardinali della Santa Inquisizione, i leader delle guerre di religione non eccellevano più di Hitler o Stalin quanto a relativismo o amore del pluralismo. Eppure capita di sentire ancora che «se Dio non esiste, allora tutto è permesso», sebbene la storia insegni che si è verificato proprio l’opposto: se Dio c’è, non c’è crudeltà, anche atroce ed efferata, che non si possa commettere nel Suo nome. Come conseguenza ancor più decisiva, gli uomini che perpetrano tali crudeltà non si riconoscono alcuna responsabilità e quindi non corrono il rischio di essere condannati dalla loro coscienza per le atrocità commesse.
Non voglio impegnarmi in una disputa teologica sull’esistenza o sulla non esistenza di Dio. Nel discorso precedente (e, ancora più importante, nell’uso/abuso politico filosofico del suo nome) «Dio» sta per l’idea di «unico e solo», rimanda all’idea del «tu non avrai altro dio all’infuori di me» in tutte le sue possibili interpretazioni e incarnazioni: Ein Volk, ein Reich, ein Führer, unico partito, unico verdetto della storia, unica direzione del progresso, unico modo di essere umani, unica ideologia (scientifica), unico vero significato, unica filosofia riconosciuta. In tutti questi esempi, «unico/a» trasmette un solo messaggio: il diritto al monopolio del potere per alcuni, il dovere della totale obbedienza per altri.
Proprio nella battaglia contro questa «unicità», l’individuo ha potuto affermarsi come soggetto morale, come soggetto responsabile che prende coscienza della propria responsabilità. La «molteplicità», dice Marquard, «proprio la diversità molteplice, rappresenta la possibilità umana della libertà». Marquard usa le affinità etimologiche del tedesco Zweifel (dubbio) con zwei (due): la presenza di due (o più) convinzioni – che attraverso la loro controversia perdono gran parte della propria forza – permettono all’essere umano «come un Terzo che ride e piange, di emanciparsi dal potere di entrambe». E vantaggioso per l’uomo, in quanto individuo, «avere molte convinzioni», «avere molte tradizioni e storie e molte anime nel petto», «avere molti dei e molti punti di orientamento»5.
Se il monoteismo significa mancanza di libertà, la libertà che nasce da una realtà politeistica non implica il nichilismo, come sostengono i suoi detrattori. Essere libero non significa non credere in nulla, ma riporre la propria fiducia in molte cose: troppo numerose per il conforto spirituale di una cieca obbedienza; significa essere consapevoli che vi sono troppe credenze e convinzioni egualmente importanti e convincenti perché si possa assumere un atteggiamento sbadato o nichilista di fronte al compito di una scelta responsabile tra di esse. E sapere che nessuna scelta mette al riparo dalla responsabilità delle sue conseguenze. E che perciò scegliere non significa aver risolto il problema della scelta una volta per sempre e neppure il diritto a mettere a riposo la propria coscienza.
La voce della coscienza, che è la voce della responsabilità, è percepibile solo nella discordanza di suoni dissonanti. Il consenso e l’unanimità preannunciano la tranquillità del cimitero (la «comunicazione perfetta» di Habermas, che misura la propria perfezione sulla base del consenso e dell’eliminazione del dissenso, è un altro sogno mortale che propone una cura definitiva ai mali della libertà); nel cimitero del consenso universale, la responsabilità, la libertà e l’individuo esalano il loro ultimo respiro.
La voce della responsabilità è il primo vagito dell’individuo umano. La sua presenza è il segno della vita individuale. Non necessariamente, però, è indice di una vita felice, se felicità significa l’assenza di preoccupazioni (una definizione di felicità altamente discutibile, anche se molto diffusa). L’accettazione della responsabilità non è un compito facile: non solo perché introduce il tormento della ferita (che comporta sempre una perdita e un guadagno), ma anche perché preannuncia la perenne preoccupazione di avere compiuto un errore.
In questo modo, la libertà di chi è libero e l’individualità dell’individuo non sono minacciate solo da coloro che detengono il potere. Questi ultimi sostengono la libertà individuale come il nodo scorsoio sostiene l’impiccato: l’individuo che si rende consapevole della propria responsabilità rappresenta l’incubo di ogni potere. Chi esercita il potere riconosce solo una forma di responsabilità ai propri sudditi. Nel linguaggio del potere, essere responsabile significa obbedire agli ordini, mentre «avere potere» significa essenzialmente privare qualcuno del diritto ad assumersi ogni altra responsabilità: in altri termini privarlo della libertà. Il problema non termina qui. Le forze che intendono restringere la libertà non hanno sempre bisogno di ricorrere alla coercizione per raggiungere il loro obiettivo. Come hanno chiaramente dimostrato le esperienze totalitarie della nostra epoca, la volontà di privare la libertà si accompagna spesso al desiderio di rinunciare ad essa. Spesso la libertà è usata per fuggire dalla libertà: una fuga dall’avere coscienza propria verso l’essere cosciente; una fuga dalla fatica di dover sostenere la propria posizione per rifugiarsi nella convinzione che tutte le posizioni valide sono già state individuate.
Ma il terribile compito di resistere al fascino della fuga non è ancora la fine della storia. C’è ancora un’altra trappola, un’altra tentazione a cui è ancor più difficile resistere, di fronte alla quale ci arrendiamo ogni volta: è la tentazione di gustare a pieno il piacere di scegliere senza la paura di pagare le conseguenze di una scelta errata; la spinta a cercare di ottenere una ricetta infallibile, brevettata e garantita per compiere sempre la giusta scelta: la tentazione di una libertà finalmente priva di angosce. Ci deve essere qualcuno che sa discernere la decisione giusta da quella sbagliata, un gran maestro nell’arte di essere libero, un professionista o un geniale teorico della giusta scelta. Il trucco è trovare un simile individuo, comprare la sua formula magica, impararla e metterla in pratica fin nei minimi dettagli.
L’inconveniente, però, è che le ricette infallibili stanno alla libertà, alla responsabilità e alla libertà responsabile come l’acqua sta al fuoco. Evidentemente non esiste alcuna ricetta per la libertà, ma la forte e costante richiesta favorisce la crescita di un numero sempre più grande di persone che si offrono di scriverla. E non esiste nemmeno una libertà affrancata dall’inquietudine e dalle preoccupazioni: ma poiché molti vorrebbero vedere realizzato questo sogno perenne dell’umanità, c’è poco da meravigliarsi se molti altri trovano vantaggioso continuare ad alimentare il sogno.
D’altra parte, non è per nulla scontato quale soluzione preferirebbero gli uomini e le donne contemporanei se avessero la possibilità di scegliere tra i tormenti della libertà, e la tranquillità della certezza che solo la mancanza di libertà può offrire. Il punto, però, è che tale possibilità di scelta non è data. La libertà è il nostro destino: una sorte che non può essere ignorata e non ci abbandona mai. Viviamo in un mondo diversificato e polifonico dove ogni tentativo di imporre il consenso si rivela solo una continuazione del dissenso sotto altre spoglie. Questo mondo ha subito per lungo tempo (e con ogni probabilità continuerà a subire ancora per molto) un processo di radicale e inesorabile «aumento dell’incertezza» (uncertainization) (la nota «scomparsa del lavoro» è solo una delle dimensioni, altamente simbolica, di tale processo; una dimensione che esercita un impatto psicologico enorme poiché tende ad essere proiettata sulla percezione di ogni altro aspetto dell’esistenza. In Francia, per esempio, il 70% dei nuovi impieghi nel 1994 era temporaneo o a tempo determinato; nello stesso anno, la percentuale di lavori che presentavano un certo grado di stabilità riguardava non più il 76% (dato del 1970) ma il 58% della popolazione attiva7. Negli Stati Uniti, il 90% dei posti di lavoro vacanti offerti nel 1993 erano lavori part- time, che non avevano valore ai fini assicurativi e pensionistici8). Le persone lottano strenuamente contro un mondo sempre più incerto e per riuscire a vivere in esso mettono a punto e organizzano senza sosta la ricerca febbrile di mezzi per trarre il massimo vantaggio da una condizione di libertà forse non scelta, ma assolutamente reale.
Alcuni scrittori descrivono il mondo degli individui liberi, «senza vincoli» e sempre più fiduciosi dei propri mezzi, come una utopia realizzata; altri preferiscono parlare del tramonto di un ideale. Nessuna delle due versioni manca di argomenti convincenti per sostenere il proprio giudizio. La disputa tra entusiasti e delusi è destinata a rimanere aperta, così come il processo di «aumento dell’incertezza» è destinato a continuare. Forse, invece di cercare invano di risolvere le differenze di valutazione, è più ragionevole provare a fare un inventario dei guadagni e delle perdite che la nuova situazione comporta. Ciò significa accettare il fatto che qualsiasi rimedio o soluzione parziale dovranno essere pensati per un mondo già del tutto «individualizzato»; dovranno tenere conto, in altri termini, delle strategie che gli individui, «gettati» in una condizione di libertà e di autorealizzazione, potrebbero scegliere e perseguire. In qualunque luogo si voglia andare, tutte le strade partono da qui.
Una conseguenza universalmente riconosciuta della progressiva emancipazione della libertà individuale di scelta9, è la divisione sempre più profonda tra i ricchi e chi non possiede nulla. Sulla scala sociale, la distinzione tra le due categorie ha raggiunto oggi una proporzione che da oltre un secolo non si era più verificata e che, fino a poco tempo fa, era stata «culturalmente rimossa». La povertà relativa degli esclusi dal banchetto del consumismo sta crescendo, mentre si attenua la speranza di una sua imminente diminuzione; da qui la disperazione profonda degli esclusi e i vigorosi tentativi di tutti gli altri, salvati fino ad ora dal loro destino, di «rimuovere culturalmente» l’importanza morale del ritorno del povero e dell’afflitto. Un obiettivo da perseguire attraverso un processo surrettizio di «degradazione» del povero e la conseguente «criminalizzazione» e «medicalizzazione» della povertà, in base a un modello ampiamente diffuso e praticato nel XIX secolo ma criticato e abbandonato con lo sviluppo del welfare state. La decostruzione postmoderna delle istituzioni moderne rimuove gli ultimi ostacoli alle iniziative di chi intende riproporre un tale modello; ma, ancora una volta, rivela il volto inaccettabile di una modernità spietata e cinica.
Poiché le spese per il welfare e i sussidi sociali vengono tagliate, il costo della polizia, delle prigioni, dei servizi di sicurezza, delle guardie armate e dei sistemi di allarme per case, uffici e automobili cresce a dismisura. Una volta avviata, la politica di tagli al welfare segue ben presto una curva ascendente, mentre la povertà, ridefinita come problema di ordine o come problema medico-legale, sviluppa un sempre maggiore bisogno di risorse. Di conseguenza, chi è già escluso o chi si trova sulla soglia dell’esclusione viene sospinto a forza (e saldamente rinchiuso) all’interno dei muri invisibili, ma del tutto tangibili, che delimitano i nuovi territori dell’emarginazione. Tuttavia, la libertà individuale di chi è già libero non guadagna molto, in termini di risorse, da questa eliminazione. L’unico esito assicurato, sembra essere la percezione di una sensazione sempre più universale e condivisa di insicurezza e incertezza.
Tagliare e restringere le libertà degli esclusi non aggiunge nulla alla libertà di chi è libero; al contrario, sottrae a molti altri la possibilità di sentirsi liberi e di godere delle proprie libertà. La strada dei tagli al welfare può condurre ovunque tranne che a una società di individui liberi: anzi, per le esigenza della libertà, è come imboccare un vicolo cieco. Seguire la strada dei tagli conduce a stravolgere l’equilibrio tra i due versanti della libertà: in qualche luogo, lungo questa strada, il piacere della libera scelta si dissolve mentre acquistano vigore la paura e l’angoscia. La libertà di chi è libero richiede, per così dire, la libertà di tutti.
Nella classica formulazione di Guido de Ruggiero,
«la libertà è la capacità di fare ciò che piace, una libertà di scelta che implica il diritto dell’individuo a non essere ostacolato da altri nello svolgimento della sua attività»;
perciò, la libertà esprime se stessa come resistenza all’oppressione, come «forza critica»10.
In questa definizione, il ruolo decisivo viene assegnato alla capacità di fare e alla capacità di resistere; ma una tale capacità richiede più di una semplice acquisizione di diritti: la capacità è una qualità pratica che non è distribuita in modo eguale tra tutti gli individui che godono dei diritti del cittadino. Ho sostenuto altrove che la libertà è una relazione sociale11; anche in questo libro affermo12 che il potere limitante, oppressivo e paralizzante esercitato dagli «altri» non è un carattere che deriva da una condizione esterna, da una presunta qualità deplorevole intrinseca agli «altri», un esito o una proiezione della mancanza di risorse di chi è espropriato delle proprie facoltà.
Riprendendo questo nesso tra libertà e risorse, Sir William Beveridge ha dichiarato che il suo grande progetto di un welfare garantito dallo stato è «una proposta essenzialmente liberal: un decisivo passo avanti nel nuovo mondo della grande tradizione del liberalismo». Inoltre ha affermato che è nel nome della libertà di tutti, e non solo di quelli che per qualche motivo non sono in grado di esercitare la loro libertà, che è necessario impegnarsi affinché ogni cittadino
«abbia un reddito in grado di garantirgli sussistenza dignitosa: un reddito che sia sufficiente nel caso il cittadino non possieda nient’altro; un reddito che sia sufficiente e che non venga tagliato in base agli accertamenti delle condizioni economiche, nel caso qualcuno possieda già altri beni»13.
Nella prospettiva di Beveridge, una tale garanzia estesa ad ogni cittadino in qualsiasi condizione economica sarebbe l’unica cura preventiva contro la paura della povertà e della indigenza: una paura che inizia a divorare le menti molto prima che la povertà e l’indigenza si diffondano e che consuma anzitutto la fiducia, l’audacia e la determinazione che sostengono la «forza critica» di cui parlava de Ruggiero e che sono necessarie per tenere povertà e indigenza a distanza di sicurezza.
Beveridge, da «radicale liberale» qual è, dà per scontato che la libertà individuale abbia bisogno di una protezione sociale. Oggi, molti di coloro che si autoproclamano portavoce del liberalismo sostengono e tentano di rendere altrettanto ovvia la posizione opposta: la libertà individuale deve fare a pezzi tutte le reti di protezione tessute collettivamente: in parte perché le reti impediscono una completa autodeterminazione delle azioni, ma soprattutto perché sono costose (in altri termini, i costi di mantenimento gravano sulle risorse disponibili per l’autoaffermazione dei singoli).
Per confermare questa visione, i politici liberali tendono a rendere le reti di protezione sempre più misere, insignificanti e logore: in questo modo cresce il numero di individui che si domanda quale tipo di vantaggio o di beneficio possano offrire. Se «il gruzzolo personale» cresca mano a mano che le reti di protezione vanno a pezzi rimane una questione discutibile; di certo la povertà e l’indigenza si diffondono, facendo aumentare il numero dei senza dimora disagiati e minacciando le dimore dei più agiati.
Sono lungi dal voler suggerire che gli errori evidenti di una strategia siano prove sufficienti per dimostrare le immacolate virtù dell’altra. La saggezza, triste e difficile da accettare, ma liberatrice, del postmoderno ci suggerisce che nessuna strategia è infallibile: ancor meno lo sono quelle che si autodefiniscono tali e che proprio per questo sono inconsapevoli dei pericoli che comportano e dei rischi a cui possono esporsi. Il nostro zelo legislatore si è attenuato scoprendo la dura verità espressa dall’ammonimento lanciato nel 1939 da Thomas Mann secondo cui «il processo di riconciliazione tra libertà ed eguaglianza non è mai del tutto realizzato. Rimane una questione umanitaria aperta, a cui cercare sempre nuove soluzioni». Nei termini usati da Michael Walzer, l’impegno morale è e rimarrà sempre «qualcosa di cui si deve discutere» e lo si può (e lo si deve) fare, ricreando continuamente gli ambiti e le possibilità di discussione14.
Il punto che va sempre sottolineato, poiché tende ad essere spesso trascurato o dimenticato, è che l’attuale dibattito non costituisce una versione aggiornata della vecchia, sterile e, in fondo, ipocrita disputa sul presunto conflitto di interesse tra individuo e società e su quale criterio potrebbe o dovrebbe fondarsi una riconciliazione, un compromesso o un armistizio tra essi. Fra chi partecipa al dibattito, pochi chiederebbero oggi il sacrificio delle libertà individuali «per il bene della società»; non è la libertà individuale che deve legittimarsi per la sua utilità sociale, ma è la società che deve legittimarsi in termini di servizio reso alla libertà del singolo. Nelle politiche postmoderne, la libertà individuale è il valore supremo e il metro in base al quale ogni virtù e ogni vizio della società intera va valutato. Tuttavia, grazie a tentativi laboriosi e ad ancor più costosi errori, abbiamo cominciato a realizzare, ad accettare e a convenire che la libertà individuale non si ottiene solo con gli sforzi individuali: per mettere in grado il singolo di godere pienamente e in modo sicuro di tale libertà, occorre creare le condizioni che estendano tale possibilità a tutti. Ma per svolgere questo compito, i singoli individui possono impegnarsi solo collettivamente, unendo le proprie energie in una impresa comune: la comunità politica.
La comunità politica dovrebbe essere concepita sul piano discorsivo e non come referente empirico. La politica riguarda la costituzione teorico-ideale della comunità politica, non ciò che si verifica al suo interno. La comunità politica […] esige un’idea correlata di bene comune, ma un bene comune concepito come «il punto di fuga prospettico», qualcosa a cui dobbiamo costantemente far riferimento ma che non può mai essere raggiunto […]. Una comunità politica pienamente inclusiva non può mai realizzarsi […]. La condizione della possibilità della comunità politica è al tempo la condizione dell’impossibilità della sua piena realizzazione15.
Così Chantal Mouffe suggerisce ciò che si deve fare e come, se si vuole intraprendere il tentativo, forse mai definitivo ma indispensabile e proficuo, di creare e mantenere viva la comunità politica degli individui liberi. Ora, l’idea di «bene comune» che si pone come «punto di riferimento» per ridea di tale comunità (forse Tunica idea che è in grado di farlo) non coincide certamente con l’idea del sacrificio della libertà individuale a favore dei veri o presunti «interessi generali», ma corrisponde a quella secondo cui la libertà di ogni individuo, e il suo pieno godimento, richiedono la libertà di tutti; e che la libertà di ciascuno vuole essere garantita e assicurata dagli sforzi congiunti di tutti. Perché ogni individuo libero possa affrancarsi dalla paura della povertà e della indigenza, è necessario che tutti siano sgravati dalla povertà e dalla indigenza concrete e reali.
Vi sono ragioni più che sufficienti per essere diffidenti di fronte agli appelli a sacrificare l’individuo sull’altare della «società intera» – che è sempre un nome in codice per indicare dominio e oppressione. E nel tempo si sono accumulati argomenti più che sufficienti da opporre alle richieste di un tale sacrificio. E noto che tentare di costruire una «comunità politica» su queste basi si riduce, di regola, alla imposizione di un potere non richiesto e ad un generale processo di indebolimento e impoverimento degli individui. Sgomberare la scena politica dalle nostre memorie collettive condivise al fine di mettere nuovamente in scena la rappresentazione di un rigido progetto legittimato di felicità programmata sembra essere, nelle attuali circostanze, una prospettiva improbabile e poco realistica. L’obiettivo della politica postmoderna non coincide con questa idea di comunità, poeticamente descritta dal pensiero moderno come una entità più grande della somma delle singole parti» e perciò legittimata ad esigere un atteggiamento docile e la loro completa sottomissione. Una politica che si ispira alla saggezza postmoderna si orienta verso una continua ri-affermazione del diritto degli individui liberi a perpetuare e garantire le condizioni della loro libertà.
Una politica postmoderna che aspiri alla creazione di una comunità politica vitale ha bisogno di essere guidata (come ho suggerito nelle conclusioni di Modernity and Ambivalence) dal triplice principio di Libertà, Differenza e Solidarietà; la solidarietà è la condizione necessaria e il contributo collettivo essenziale alla vitalità della libertà e della differenza. Nel mondo postmoderno i primi due elementi della formula hanno molti alleati, alcuni palesi e altri meno visibili. Uno dei più importanti è la forte spinta alla deregulation e alla «privatizzazione» esercitata dall’espansione del mercato globale. Ciò che invece il mondo postmoderno non è in grado di generare da solo – cioè senza un intervento politico – è la solidarietà; ma senza solidarietà, come abbiamo sostenuto in precedenza, nessuna libertà è sicura, mentre le differenze e il tipo di «politica dell’identità» che tendono a sviluppare conducono, non di rado, ad una interiorizzazione dell’oppressione, come ha sottolineato David Harvey16.
È fin troppo facile abusare del principio di solidarietà; invece non è facile, e forse è impossibile, dire con precisione dove è posto il confine della solidarietà rispetto alla differenza e dove inizia la connivenza con l’oppressione. Come tutte le politiche basate su principi, anche la politica postmoderna non è esente dal rischio di contravvenire ai propri ideali; a questo proposito l’unico vantaggio rispetto alle altre impostazioni politiche è l’essere pienamente consapevole di tale pericolo e perciò in grado di monitorare attentamente il processo della sua realizzazione. Inoltre, è ragionevolmente consapevole di dover affrontare un compito enorme in cui non è possibile trovare soluzioni perfette e strategie garantite, mentre ci si impegna in sforzi di cui non si conosce l’esito. E forse questa la migliore difesa a disposizione per evitare la trappola in cui i tentativi politici moderni di costruzione della comunità sono spesso caduti: quella di aver generato oppressione invece che emancipazione.
Albert Camus scriveva nel 1953 in Retour à Tipasa: «c’è la bellezza e ci sono gli oppressi. Per quanto difficile possa essere, io vorrei essere fedele ad entrambi». A questa professione di fede si potrebbe solo aggiungere che sarebbe da condannare il tentativo di realizzare una «fedeltà selettiva», poiché difficilmente ci può essere bellezza senza solidarietà con gli oppressi.
Note
1. Più o meno contemporaneamente, apparve la traduzione inglese per la quale lo stesso Freud aveva suggerito il titolo Man’s Discomfort in Civilization. Come ha rivelato in seguito James Strachey (curatore inglese delle opere di Freud), la traduttrice, Joan Riviere, in un primo tempo era orientata ad utilizzare il concetto di «malessere» (malaise), ma alla fine optò per Civilization and its Discontents.
2. Si veda, per esempio, Un monde sans cap di Ignacio Ramonez, in «Le Monde Diplomatique», ottobre 1995.
24
3. O. Marquard, Apologie des Zufälligen (1987) e Abschied vom Prinzipiellen (1991); trad. it. parziale in Apologia del caso, Bologna, Il Mulino, 1991.
4 Ibidem, pp. 75-77.
5 Ibidem, pp. 156-157.
6 II riferimento è al termine «insécurisation» proposto da Jean-Luc Mathieu in L’insécurité, Paris, Presses Universitaires de France, 1995.
7 Cfr. A. Gorz, Vers une société post-marchande, in «Transversales science culture», settembre-ottobre 1955; B. Cassen, Chômage, des illusions au bricolage, in «Le Monde Diplomatique», ottobre 1995.
8 Cfr. J. Rifkin, The End o/Work: The Décliné of the Global Labour Torce and thè Dawn of thè Post-Market era, New York, Tarcher-Putnam; trad. it. La fine del lavoro: il declino della forza lavoro globale e Vavvento dell’era post-mercato, Milano, Baldini & Castoldi, 1997.
9 Questo processo, di solito, è denominato deregulation. C’è da chiedersi, però, in quale misura questa definizione nasconda, invece di rivelare, la vera essenza del processo a cui si riferisce. Di certo, alcuni tipi di attività sono deregolamentati mentre altri – oppure intere dimensioni delle attività vitali – sono soggetti ad una regolamentazione più severa e, in qualche caso, opprimente; e la coincidenza dei due processi in contrasto non sembra casuale. In realtà, gli stati non producono un numero di leggi inferiore rispetto al passato; e la quota di reddito nazionale destinata a sostenere i tentativi di regolamentazione non mostra segni di diminuzione. Accade solo che gli obiettivi e le strategie di regolamentazione siano ridefiniti mentre la spesa statale è destinata a fini differenti. In particolare, i nuovi poveri sono i soggetti di una legislazione sempre più rigorosa e pignola, diretta a limitare più che a svincolare la loro libertà di scelta e il loro diritto ad agire di propria iniziativa. Come ha detto giustamente Martin Woollacott, i costi «sono dirottati dal “prendersi cura” al “controllare”, dallo stato che assiste (welfare state) allo stato che incatena (lock-up state)». Cfr. M. Woollacott, Dismembering values, in «The Guardian», 9 dicembre 1995.
10 G. de Ruggiero, The History of European Liberalism, Boston, Beacon Press, 1959, pp. 350-351; trad. it. Storia del liberalismo europeo, Roma, Laterza, 1995.
11 Cfr. Z. Bauman, Freedom, Milton Keynes, Open University Press, 1989.
12 Infra, cap. 2.
13 Cfr. W. Beveridge, Liberal radicalism and liberty, in Western Liberalism: A History in Documents from Locke to Croce, a cura di E.K. Bramsted e K.J. Melhuish, London, Longman, 1978, pp. 712-717.
14 M. Walzer, Interpretation and Social Criticism, Cambridge, Mass., Harvard University Press, 1987, p. 32; trad. it. Interpretazione e critica sociale, Roma, Edizioni Lavoro, 1990.
25
Commenti recenti