Terza lezione di sociolinguistica dedicata al rapporto tra pensiero e linguaggio e, specificamente, alla comprensione del rapporto tra pensiero e linguaggio, tra condizione sociale e competenze cognitivo/espressive.
In questa parte si affrontano l’analfabetismo strumentale, funzionale e di ritorno attraverso gli studi di Tullio De Mauro e si cerca di dare risposta alle domande: quanti sono gli italiani che non comprendono le istruzioni di un foglio illustrativo? di un semplice nesso di causalità, oppure il lessico tecnico degli economisti e dei meteorologi e i termini in inglese dell’informazione quotidiana dal Fiscal Compact alla Spending Review?
La prima lezione è stata dedicata ai problemi dell’unificazione linguistica italiana e ai maestri degli esclusi, da don Milani a Bruno Ciari a don Sardelli. La seconda, invece, al contributo dei sociolinguisti anglosassoni Basil Bernstein e William Labov.
Indice
1. La camera ardente di De Mauro e l’attacco alla scuola
2. L’analfabetismo strumentale e la battaglia per l’alfabetizzazione in Italia
3. L’analfabetismo funzionale
3.1 Gli studi di Tullio De Mauro sull’analfabetismo
4. L’analfabetismo di ritorno
4.1 Paolo Di Stefano, Se sette italiani su dieci non capiscono la lingua
1. La camera ardente di De Mauro e l’attacco alla scuola
Quelle diseguaglianze [sociali] danno luogo a diseguaglianze di trattamento che producono risultati diseguali, da cui nascono diseguali capacità di orientarsi nei percorsi scolastici, che danno luogo a una molto diversa qualità dei titoli ottenuti, da cui infine si determinano diseguali possibilità di inserimento nel lavoro e nella vita sociale.
Tullio De Mauro, Internazionale, 1176, 21 ottobre 2016
Nel giorno della camera ardente di Tullio De Mauro [il 6 gennaio scorso], la ministra Fedeli ha esteso la sperimentazione della secondaria breve ad altre quaranta scuole, facendo toccare il numero di 100 agli istituti che diplomano gli studenti con un anno di anticipo.
Non è chiaro se l’iniziativa, intrapresa dai precedenti governi, abbia altro obiettivo oltre quello di togliere altre risorse alla formazione e far passare più rapidamente i nostri diciottenni dalla condizione di studente a quella di disoccupato, sottooccupato o universitario in difficoltà.
Ed è stata proprio quest’ultima fattispecie ad attirare l’attenzione del Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità che, indifferente ai provvedimenti che continuano a demolire scuola ed università, preferisce concentrarsi sugli effetti, manifestando sconcerto e sorpresa alla scoperta che
«i nostri diciottenni padroneggiano sempre meno la lingua madre e manifestano in numero crescente gravi difficoltà logico-espressive».
L’appello del Gruppo di Firenze per fronteggiare l’emergenza «analfabetismo funzionale» dei giovani, si risolve così nella richiesta di ritocco delle Indicazioni nazionali per la scuola primaria e di un controllo che gli insegnanti della scuola superiore dovrebbero esercitare sui loro colleghi, partecipando come esterni alle prove degli alunni della scuola primaria e secondaria di primo grado.
De Mauro avrebbe reagito [qui la sua opinione sulla “buona scuola” e sui continui tagli all’istruzione]. Secondo gli studi del linguista appena scomparso, 2 italiani su 3 non sono in grado di capire un testo scritto o di decodificare il significato di un discorso complesso, ma l’unica possibilità per modificare un quadro così allarmante è potenziare la scuola e investire risorse nel futuro dei cittadini più giovani.
2. L’analfabetismo strumentale e la battaglia per l’alfabetizzazione in Italia
A partire dall’unità d’Italia, i dati relativi all’analfabetismo sono raccolti nei censimenti che si tengono ogni 10 anni.
Il primo censimento, del 1861, mostra che circa l’80% della popolazione femminile era completamente analfabeta, un po’ meglio per la popolazione maschile in cui il dato scendeva al 60% circa. Le serie storiche dell’Istat ricavano il dato dal numero di certificati di matrimonio firmati con la sola X.
Questi dati iniziano a calare con la scolarizzazione, i cui momenti fondamentali sono l’introduzione dell’obbligo a due anni di scuola nel 1859 (Legge Casati), diventati tre nel 1877, con la legge Coppino e cinque nel 1904 con la legge Orlando, e la prima riforma organica della scuola promossa da Giovanni Gentile, con la quale l’obbligo sale a 14 anni.
Nell’Italia repubblicana, l’obbligo scolastico gratuito di 8 anni (elementari e medie) entra nella Costituzione con l’art. 34.
Nel 1963, infine, la riforma della scuola media unica porta al crollo del tasso di analfabetismo e, per la prima volta, introduce i ragazzi di estrazione popolare negli studi post-elementari.
3. L’analfabetismo funzionale
“di comprendere, valutare, usare e farsi coinvolgere con testi scritti per intervenire attivamente nella società, per raggiungere i propri obiettivi e per sviluppare le proprie conoscenze e potenzialità”.
Un analfabeta funzionale, apparentemente, non deve chiedere aiuto a nessuno, come invece succedeva una volta, quando esisteva una vera e propria professione – lo scrivano – per indicare le persone che, a pagamento, leggevano e scrivevano le lettere per i parenti lontani.
Anche se apparentemente autonomo, un analfabeta funzionale non capisce però i termini di una polizza assicurativa o il senso di un articolo pubblicato su un quotidiano, non è capace di riassumere e di appassionarsi ad un testo scritto, non è in grado di interpretare un grafico. Non è capace, quindi, di leggere e comprendere la società complessa nella quale si trova a vivere.
3.1 Gli studi di Tullio De Mauro sull’analfabetismo
Più del 50% degli italiani, secondo i dati di Tullio De Mauro, si informa (o non si informa), vota (o non vota), lavora (o non lavora), seguendo soltanto una capacità di analisi elementare: una capacità di analisi, quindi, che non solo sfugge la complessità, ma che anche davanti ad un evento complesso (la crisi economica, le guerre, la politica nazionale o internazionale, lo spread) è capace di trarre solo una comprensione basilare.
Un analfabeta funzionale, quindi, traduce il mondo paragonandolo esclusivamente alle sue esperienze dirette (la crisi economica è soltanto la diminuzione del suo potere d’acquisto, la guerra in Ucraina è un problema solo se aumenta il prezzo del gas, il taglio delle tasse è giusto anche se corrisponde ad un taglio dei servizi pubblici…) e non è capace di costruire un’analisi che tenga conto anche delle conseguenze indirette, collettive, a lungo termine, lontane per spazio o per tempo.
Dalla Storia linguistica dell’Italia unita del 1963, De Mauro ha raccolto dati sia sull’analfabetismo strumentale (totale incapacità di decifrare uno scritto) e funzionale (incapacità di passare dalla decifrazione e faticosa lettura alla comprensione di un testo anche semplice).
Dai tardi anni novanta dello scorso secolo, per merito di Statistics Canada (il centro statistico nazionale canadese) sono state promosse accurate indagini comparative e osservative su estesi campioni statistici delle popolazioni per determinare diversi gradi di analfabetismo nei diversi paesi del mondo.
Nel 2014 è stata completata la terza indagine comparativa OCSE (l’Organizzazione di cooperazione e sviluppo economico) PIAAC, Programme for International Assessment of Adult Competencies) che ha esaminato la situazione di 30 paesi, tra cui l’Italia, e definito cinque livelli di alfabetizzazione in literacy e numeracy delle popolazioni in età di lavoro (16-65 anni), dal livello minimo di analfabetismo strumentale totale, a un secondo livello quasi minimo e comunque insufficiente alla comprensione e scrittura di un breve testo, ai successivi tre gradi di crescente capacità di comprensione e scrittura di testi, calcoli, grafici.
Dati analitici sull’Italia e altri paesi si trovano nel più recente Storia linguistica dell’Italia repubblicana (Laterza, Bari 2014).
Come in Spagna, il 70% della popolazione in età di lavoro si colloca sotto i due primi livelli.
Soltanto un po’ meno di un terzo della popolazione ha quei livelli di comprensione della scrittura e del calcolo dal terzo livello in su che vengono ritenuti necessari per orientarsi nella vita di una società moderna.
Il fenomeno ha gravi dimensioni in tutti i paesi studiati, anche se nessuno raggiunge i livelli negativi di Italia e Spagna.
Più della metà della popolazione è in condizioni che potremmo dire “italo-spagnole” negli USA e (a decrescere), in Francia, Gran Bretagna, Germania ecc. Perfino in paesi virtuosi, per eccellenza dei sistemi scolastici e diffusione della lettura, si trovano percentuali di analfabeti funzionali prossime al 40%: così in Giappone, Corea, Finlandia, Paesi Bassi.
Il problema dunque, pur a diversi livelli di gravità, non è solo italiano.
4. L’analfabetismo di ritorno
Anche dopo avere acquisito buoni livelli di literacy e numeracy in età scolastica, in età adulta le popolazioni sono esposte al rischio della regressione verso livelli assai bassi di alfabetizzazione, a causa di stili di vita che allontanano dalla pratica e dall’interesse per la lettura o la comprensione di cifre, tabelle, percentuali. In questi stili di vita, ha osservato De Mauro,
ci si chiude nel proprio particolare, si sopravvive più che vivere e le eventuali buone capacità giovanili progressivamente si atrofizzano e, se siamo in queste condizioni, rischiamo di diventare, come diceva Leonardo da Vinci, transiti di cibo più che di conoscenze, idee, sentimenti di partecipazione solidale.
I problemi legati all’analfabetismo sono molti. Economisti come Luigi Spaventa e Tito Boeri hanno evidenziato che il grave analfabetismo strumentale e funzionale incide negativamente sulle capacità produttive del paese e, a loro avviso, è responsabile del grave ristagno economico che affligge l’Italia dai primi anni novanta.
Oltre ai problemi economici, ci sono quelli politici: la percentuale di italiani che ha una comprensione dei discorsi politici o che capisca come funzioni la politica italiana è certamente inferiore al 30%.
“Purtroppo l’analfabetismo è oggettivamente un instrumentum regni, un mezzo eccellente per attrarre e sedurre molte persone con corbellerie e mistificazioni”.
Inoltre, all’interno del 30% di meglio alfabetizzati solo una percentuale modesta ha una buona conoscenza delle lingue straniere e di linguaggi tecnico-scientifici. In attesa dei risultati di indagini specifiche, in corso, si può ipotizzare che solo il 10% della popolazione in età di lavoro capisca bene tecnicismi e termini stranieri.
In sintesi, ha osservato, De Mauro, le conseguenze per la democrazia sono che:
«mancano gli strumenti di controllo del flusso di decisioni e realizzazioni [infatti] la valutazione corretta di questi gruppi dirigenti [quelli che smantellano la scuola, ndr.] probabilmente è che lo sviluppo adeguato di questi mezzi [intellettuali] mette in crisi la persistenza di questi gruppi stessi».
In altre parole, se gli italiani non fossero in massa degli analfabeti funzionali, potrebbero agire elettoralmente a proprio vantaggio.
4.1 Paolo Di Stefano, Se sette italiani su dieci non capiscono la lingua
Tratto dal Corriere della Sera del 28 dicembre 2011.
«Voi sapete che, quando un popolo ha perduto patria e libertà e va disperso pel mondo, la lingua gli tiene luogo di patria e di tutto…».
Così Luigi Settembrini ricordava quanto conti la lingua nell’identità e nella coesione di un popolo. Purtroppo, se oggi si dovesse giudicare dal livello di padronanza dell’italiano il grado di attaccamento alla nazione, saremmo davvero messi molto male. La salute della nostra lingua, infatti, sembra piuttosto allarmante, almeno a giudicare dai dati che Tullio De Mauro ha illustrato ieri a Firenze, durante un convegno del Consiglio regionale toscano intitolato «Leggere e sapere: la scuola degli Italiani».
Tra i numeri evocati da De Mauro e fondati su ricerche internazionali, ce ne sono alcuni particolarmente impressionanti: per esempio, quel 71 per cento della popolazione italiana che si trova al di sotto del livello minimo di comprensione nella lettura di un testo di media difficoltà. Al che corrisponde un misero 20 per cento che possiede le competenze minime
«per orientarsi e risolvere, attraverso l’uso appropriato della lingua italiana, situazioni complesse e problemi della vita sociale quotidiana».
Basterebbero queste due percentuali per far scattare l’emergenza sociale. Perché di vera emergenza sociale si tratta, visto che il dominio della propria (sottolineato propria) lingua è un presupposto indispensabile per lo sviluppo culturale ed economico dell’individuo e della collettività.
Fu lo stesso Tullio De Mauro, quasi cinquant’anni fa, in un libro diventato un classico, Storia linguistica dell’Italia unita, a segnalare il contributo non solo della scuola ma anche della televisione nell’apprendimento di una lingua media che superasse la frammentazione dialettale. Si assisteva in quegli anni al declino del dialetto e contemporaneamente al trionfo di quell’italiano popolare unitario che avrebbe portato, secondo le previsioni dei linguisti, a un innalzamento delle conoscenze linguistiche in parallelo con il progresso economico, culturale e civile.
Nel 1973, Pier Paolo Pasolini aprì una discussione: il tramonto del dialetto equivaleva per lui all’abbandono dell’età dell’innocenza e all’entrata nella civiltà dei consumi e nell’età della corruzione. Gli fu risposto che la conquista dell’italiano da parte delle classi subalterne, come si diceva allora, era piuttosto la premessa e la promessa della loro promozione sociale.
Oggi, a quarant’anni da quelle accesissime polemiche tra apocalittici e integrati, tra nostalgici delle parlate locali e fautori delle magnifiche sorti e progressive, sembrano tutti sconfitti di fronte al pauroso ristagno economico, culturale e linguistico. L’allarme lanciato da De Mauro chiama in causa anche il nuovo governo, che finora, ha detto lo studioso, «sembra aver dimenticato l’istruzione».
Istruzione e scuola sono i due concetti chiave. Se nel dopoguerra, fino agli anni Novanta, il livello di scolarità è cresciuto fino a una media di dodici anni di frequenza scolastica per ogni cittadino (nel ’51 eravamo a tre anni a testa), oggi si registra, con il record di abbandoni scolastici, un incremento pauroso del cosiddetto analfabetismo di ritorno, favorito anche dalla dipendenza televisiva e tecnologica.
Non deve dunque stupire che il 33 per cento degli italiani, pur sapendo leggere, riesca a decifrare soltanto testi elementari, e che persista un 5 per cento incapace di decodificare qualsivoglia lettera e cifra.
Del resto, pare che la conoscenza delle strutture grammaticali e sintattiche sia pressoché assente persino presso i nostri studenti universitari, che per quanto riguarda le competenze linguistiche si collocano ai gradini più bassi delle classifiche europee (come avviene per le nozioni matematiche).
Non bisognerebbe mai dimenticare che la conoscenza della lingua madre è il fondamento per lo studio delle altre discipline scolastiche e delle altre lingue (inglese compreso), così come è alla base della capacità di orientarsi nella società e di farsi valere nel mondo del lavoro. Sembrano constatazione banali, ma non lo sono affatto in un contesto in cui l’insegnamento dell’italiano nelle scuole soccombe all’anglofilia diffusa e la lettura, sul piano sociale, è nettamente sacrificata rispetto all’approccio visivo, comportando vere mutazioni psichico-cognitive. Se ciò risulta vero, non è eccessivo affermare che l’emergenza culturale, nel nostro Paese, dovrebbe preoccupare almeno quanto quella economica.
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