La parola ci fa uguali 1. L’unificazione linguistica degli italiani e i maestri degli esclusi

by gabriella

don Roberto Sardelli

Il testo seguente è la prima di tre lezioni di sociolinguistica dedicate alla comprensione del rapporto tra pensiero e linguaggio, tra condizione sociale e competenze cognitivo/espressive.

In questa parte si affrontano i problemi dell’unificazione linguistica degli italiani dialettofoni dopo l’unità politica e l’introduzione della scuola media unificata del 1963. La lezione approfondisce le difficoltà scolastiche dei ragazzi di estrazione popolare e la lezione dei nuovi maestri, da don Milani a Mario Lodi, da Bruno Ciari a Orlando Spigarelli a Maria Maltoni e Don Roberto Sardelli.

Nella seconda parte si prendono in esame i contributi dei sociolinguisti anglosassoni Basil Bernstein e William Lavov.

Nella terza e ultima lezione si approfondiscono i problemi dell’analfabetismo strumentale, funzionale e di ritorno attraverso gli studi di Tullio De Mauro.

Le prime due lezioni sono state elaborate a partire da testi di Maria Giuseppa Lo Duca.

Finché ci sarà uno che conosce 2000 parole e un altro che ne conosce 200,
questi sarà oppresso dal primo. La parola ci fa uguali.

Gli allievi di don Roberto Sardelli

Indice

1. L’Italiano nell’Italia preunitaria

1.1 Dal fiorentino alla lingua letteraria

2. La diffusione dell’italiano nel secondo dopoguerra e l’insuccesso scolastico

2.1 I maestri

2.1.1 Don Lorenzo Milani
2.1.2 Bruno Ciari
2.1.3 Mario Lodi
2.1.4 Orlando Spigarelli, Maria Maltoni
2.1.5 Don Roberto Sardelli

 

1. L’italiano nell’Italia preunitaria

1.1 Dal fiorentino alla lingua letteraria

Il primo dato storico e sociologico da avere ben chiaro è che l’idioma chiamato, a partire dal Cinquecento, «italiano» (formatosi attraverso la stilizzazione del dialetto fiorentino trecentesco, arricchito di latinismi e depurato di tratti locali), questo idioma è rimasto per secoli appannaggio nemmeno delle classi dirigenti, ma (fuori di Firenze, delle maggiori città toscane e di Roma) appannaggio quasi esclusivo della gente di lettere.

A metà Ottocento, da Torino a Napoli, da Milano a Venezia, sappiamo che la grande borghesia urbana e le residue aristocrazie conoscevano, come lingua di cultura, assai meglio il francese che non l’italiano… Fuori della Toscana e di Roma, l’italiano era una lingua puramente libresca, nota, come tale, soltanto a una minoranza esigua della popolazione: lo 0’8%. L’italiano era una lingua straniera in patria. Negli Stati regionali preunitari, e nelle varie regioni dell’Italia unita, classi borghesi e popolari si incontravano e intendevano grazie all’uso dei dialetti e di altri idiomi, le lingue minoritarie (De Mauro, 1977b, 96-97).

Dopo l’unificazione politica le cose cominciarono lentamente a cambiare: la centralizzazione amministrativa e la leva obbligatoria ebbero tra gli altri effetti quello di far sentire a tutti, o a quasi tutti, il disagio di una pluralità linguistica che non comportava ancora la contemporanea presenza di una lingua unitaria, una lingua cioè che consentisse ai cittadini di uno stesso stato di comunicare e di intendersi.

Altri noti fattori di unificazione linguistica furono l’industrializzazione e la mobilità interna, soprattutto dal sud al nord, l’urbanizzazione ed i fenomeni migratori dalle campagne alle città, la diffusione della scolarità elementare prima, postelementare poi, infine la diffusione dei mezzi di comunicazione di massa, la radio e il cinema prima, la televisione poi, che hanno contribuito in modo determinante a diffondere una competenza almeno passiva dell’idioma nazionale.

E la scuola? Sempre De Mauro ricorda il ruolo fondamentale svolto dalla scuola nel processo di diffusione di una lingua comune. Tuttavia subito dopo l’unità e per tutto il secolo si scontrarono sulla questione due posizioni abbastanza inconciliabili:

I manzoniani avevano sperato di poter condurre attraverso la scuola una duplice lotta, volta da un lato a sradicare la «malerba dialettale», dall’altro a imporre come tipo linguistico unitario il fiorentino. Altri, come il De Sanctis, l’Ascoli, il d’Ovidio erano decisamente sfavorevoli ad una lotta indiscriminata contro i dialetti, nei quali scorgevano i depositari di un ethos locale da non disperdere… i dialetti, perciò, non andavano messi in ridicolo, ma studiati e confrontati con la lingua, sicché dalla riflessione emergesse tutto il senso della diversità di lingua e dialetto e si diffondesse tra tutti la conoscenza della lingua senza isterilire quel che di vitale poteva esservi nei dialetti (De Mauro 19723, 88-89).

E’ noto che l’atteggiamento ufficiale delle autorità fu vicino alle posizioni dei manzoniani, anche se non era facile per nessuno controllare la neonata macchina statale. E infatti, vuoi per lo scarso adempimento dell’obbligo scolastico previsto dalla legge Casati (1859) (sembrerebbe che “intorno al 1870 oltre il 62% della popolazione in età scolastica evadesse in realtà l’obbligo”, De Mauro 1973, 90); vuoi per la scarsa efficienza delle istituzioni scolastiche primarie (“carenze legislative, povertà delle finanze comunali, ostilità del clero, degli amministratori locali e del ceto dirigente conservatore per la diffusione dell’istruzione” ivi, 91), fatto sta che quando, agli inizi del nuovo secolo, un alto burocrate del ministero dell’istruzione, Camillo Corradini, ebbe l’incarico di stendere una relazione sulla situazione scolastica italiana, delineò un quadro sconfortante.

In particolare sul piano linguistico la situazione era tutt’altro che incoraggiante: nonostante gli sforzi per insegnare l’italiano a tutti, sforzi che spesso però si concentravano nel tentativo di insegnare le regole della buona lingua italiana, i bambini continuavano a rivelare gravi carenze linguistiche, e questo perché, tra le altre cose, i maestri tendevano ad usare in classe il dialetto o «un misto di dialetto e lingua letteraria», il che «val peggio dell’uso del puro dialetto» (Relazione, in De Mauro 19723, 93).

Dunque, la dialettofonia diffusa, e l’imposizione di un modello letterario di italiano: queste, secondo il Corradini, le principali cause del fallimento scolastico nella diffusione di una lingua unitaria. Alle quali non sarà difficile aggiungere l’illusione di poter insegnare l’italiano attraverso la presentazione e l’insegnamento esplicito delle sue regole. Il processo di unificazione linguistica andò comunque avanti, a dispetto delle inefficienze scolastiche e grazie ai quei grandiosi fenomeni sociali di cui si parlava.

 

2. La diffusione dell’italiano nel secondo dopoguerra e l’insuccesso scolastico

Nel secondo dopoguerra, il boom economico indotto dalla ricostruzione fu un altro potente fattore di mobilità interna, e quindi di incontro di lingue e di culture. Quando poi nel 1962 fu introdotta in Italia la scuola media unica che innalzava l’obbligo scolastico a 14 anni (legge del 31 dicembre 1962, n. 1859, in Cives 1990, 443), un nuovo pubblico di scolari tradizionalmente fermi all’istruzione elementare, vale a dire i figli delle classi operaie e contadine, si affacciarono per la prima volta alla scuola superiore, e questa radicale trasformazione nella composizione del pubblico scolastico non fu indolore.

C’è da dire che la scuola era nel frattempo profondamente mutata: i maestri avevano smesso da tempo di parlare in dialetto con i loro allievi, avevano anzi adottato unanimemente un atteggiamento di totale espulsione del dialetto dalla scuola, e alla lunga si era imposto in classe un modello di italiano paludato ed arcaico, che sarebbe forse troppo generoso definire letterario, anche se letterari erano per lo più i modelli di riferimento.

Questo modello di italiano fu definito, dai linguisti che lo scoprirono qualche anno più tardi soprattutto analizzando le correzioni degli insegnanti agli elaborati scritti dei loro allievi, ‘italiano scolastico’, a sottolineare l’artificiosità di una varietà di lingua diffusa solo a scuola. Sul versante linguistico l’innalzamento della scolarità obbligatoria ebbe, comunque effetti immediati. Diversamente che nel passato, e certo in misura ben più massiccia, diventò normale la circolazione nella scuola di idiomi diversi, frutto di provenienze geografiche diverse e di differenti situazioni socio-culturali.

La dialettofonia diffusa nelle classi popolari si abbatté sugli insegnanti della ‘nuova’ scuola media unificata cogliendoli del tutto impreparati. Anche perché costoro, a differenza dei maestri elementari da tempo abituati al modesto compito di istruttori di tutti i cittadini nelle abilità di base del ‘leggere, scrivere e far di conto’, non erano affatto rassegnati alla perdita di un ruolo considerato di prestigio, quello cioè della preparazione della futura classe dirigente del paese attraverso una paziente opera di filtro (o di selezione, come si disse dal ’68 in poi)3.

I problemi legati all’imperfetto uso della lingua nazionale da parte dei figli dei contadini e degli operai avrebbero richiesto ben altra attenzione, ben diversa preparazione linguistica e didattica rispetto a quella normalmente posseduta da un insegnante di lettere, formatosi in una Università in generale ancora troppo poco permeabile alle moderne scienze del linguaggio e alle didattiche disciplinari.

Non tutti, ad esempio, si accorsero della centralità del problema linguistico per i bambini dialettofoni, costretti dalla scuola a parlare e scrivere in una lingua ‘straniera’ per comunicare complessi contenuti disciplinari. Le ‘insufficienze’ accumulate nelle diverse materie erano per lo più interpretate come il frutto di disattenzione, scarsa applicazione allo studio, quando non di scarsa intelligenza. Il risultato fu che molti ragazzi, immessi per obbligo nella scuola media, ne venivano espulsi dopo uno o più anni di frustranti esperienze. La fuga dalla scuola, e quindi l’evasione dall’obbligo, fu per molti di quei ragazzi la soluzione quasi scontata del problema.

La parola ci fa uguali

La parola ci fa uguali 2. Gli studi sociolinguistici di Basil Bernstein e William Labov

 

2.1. I maestri

2.1.1 Don Lorenzo Milani

Si ricorderà come Lettera a una professoressa sia un singolarissimo libro collettivo, scritto dai ragazzi che frequentavano la scuola di Barbiana, una scuola popolare allestita da don Milani nell’intento di fornire l’istruzione obbligatoria ai bambini ed ai ragazzi di un isolato villaggio di montagna, Barbania, appunto, all’epoca tagliata fuori da altre possibilità educative.

La Lettera si presenta formalmente come una lunga lettera che un non meglio precisato ragazzo di Barbiana scrive, assieme ai suoi compagni, ad una innominata professoressa, simbolo delle ottusità e delle arretratezze del sistema scolastico italiano. A lei i ragazzi raccontano le loro difficoltà nel rapportarsi con una istituzione che ignora tutto della loro lingua e della loro cultura; denunciano le  contraddizioni di una scuola pubblica dimentica persino del dettato costituzionale; descrivono le modalità di lavoro messe in atto a Barbiana, e le raffrontano con le pratiche normalmente in uso a scuola.

A lei soprattutto raccontano di aver capito la centralità dello strumento linguistico nella formazione dell’uomo e del cittadino, in totale sintonia con le opinioni espresse in più occasioni dal loro maestro:

Io son sicuro… che la differenza fra il mio figliolo e il vostro non è nella quantità né nella qualità del tesoro chiuso dentro la mente e il cuore, ma in qualcosa che è sulla soglia fra il dentro e il fuori, anzi è la soglia stessa: la Parola.
I tesori dei vostri figlioli si espandono liberamente da quella finestra spalancata. I tesori dei miei sono murati dentro per sempre e isteriliti. Ciò che manca ai miei è dunque solo questo: il dominio sulla parola. Sulla parola altrui per afferrarne l’intima essenzasulla propria perché esprima senza sforzo e senza tradimenti le infinite ricchezze che la mente racchiude
Quando il povero saprà dominare le parole come personaggi, la tirannia del farmacista, del comiziante e del fattore sarà spezzata… chiamo uomo chi è padrone della sua lingua”.

Questo scriveva Don Milani in una lettera del 1956 al «Giornale del mattino» (in Renzi-Cortelazzo 1977, 45-46). Gli fanno eco i suoi ragazzi, che nella Lettera scrivono con lui:

Voi dite che Pierino del dottore scrive bene. Per forza, parla come voi. Appartiene alla ditta. Invece la lingua che parla e scrive Gianni è quella del suo babbo. Quando Gianni era piccino chiamava la radio lalla. E il babbo serio: «Non si dice lalla, si dice aradio». Ora, se è possibile, è bene che Gianni impari a dire anche radio. La vostra lingua potrebbe fargli comodo. Ma intanto non potete cacciarlo dalla scuola. «Tutti i cittadini sono uguali senza distinzione di lingua». L’ha detto la Costituzione pensando a lui. Ma voi avete più in onore la grammatica che la Costituzione….” (Lettera a una professoressa, 18-19).

Don Lorenzo Milani (1923 – 1967)

Traspare da queste parole la convinzione, maturata nel corso dell’attività pastorale da don Milani, che “i poveri” siano vittime di un deficit linguistico che li priva della possibilità di partecipare in modo attivo e costruttivo alla vita sociale e politica della comunità. E dunque la responsabilità della scuola, nel momento in cui non prova a colmare questo deficit, ma anzi lo aggrava e approfondisce sempre più, è enorme. La scarsa, anzi nulla, considerazione per la lingua dei poveri e per la loro cultura ha infatti come conseguenza la emarginazione dei figli dei contadini e degli operai, che spesso vengono semplicemente espulsi dalla scuola, quindi tagliati fuori da qualsiasi possibilità di emancipazione e di riscatto.

Si attua così un processo circolare, per cui lo status sociale condiziona la lingua e la capacità d’uso della lingua rafforza le differenze sociali (Cortelazzo-Mora-Scorretti 1975, 237).

A queste accuse generali si aggiunge un’accusa particolare, che si connette strettamente alle modalità di scrittura della Lettera: leggiamo direttamente cosa scrivono i ragazzi di Barbiana.

C’è una materia che non avete nemmeno in programma: arte dello scrivere.
Basta vedere i giudizi che scrivete sui temi. Ne ho qui una piccola raccolta. Sono constatazioni, non strumenti di lavoro…
«Cerca di migliorare la forma. Forma scorretta. Stentato. Non chiaro. Non costruito bene. Varie improprietà. Cerca d’essere più semplice. Il periodare è contorto… Devi  controllare di più il tuo modo di esprimere le idee». Non gliel’avete mai insegnato, non credete nemmeno che si possa insegnare, non accettate regole oggettive dell’arte, siete fissati nell’individualismo ottocentesco…
Consegnandomi un tema con un quattro lei mi disse: «Scrittori si nasce, non si diventa».
Ma intanto lei prende lo stipendio come insegnante d’italiano.
La teoria del genio è un’invenzione borghese. Nasce da razzismo e pigrizia mescolati insieme…
L’arte dello scrivere si insegna come ogni altr’arte… (Lettera a una professoressa, 124-125).

Dunque si accusa la scuola di non insegnare a scrivere. Al contrario a Barbiana si mette a punto un metodo pionieristico, che può considerarsi il modello di tanti laboratori di scrittura che nasceranno anni, se non decenni dopo nelle scuola d’avanguardia e nelle classi sperimentali.

Noi dunque si fa così: Per prima cosa ognuno tiene in tasca un notes. Ogni volta che gli viene un’idea ne prende appunto. Ogni idea su un foglietto separato e scritto da una parte sola. Un giorno si mettono insieme tutti i foglietti su un grande tavolo. Si passano a uno a uno per scartare i doppioni. Poi si riuniscono i foglietti imparentati in grandi monti e son capitoli.

Ogni capitolo si divide in monticini e son paragrafi. Ora si prova a dare un nome a ogni paragrafo. Se non si riesce vuol dire che non contiene nulla o che contiene troppe cose. Qualche paragrafo sparisce. Qualcuno diventa due. Coi nomi dei paragrafi si discute l’ordine logico finché nasce uno schema. Con lo schema si riordinano i monticini. Si prende il primo monticino, si stendono sul tavolo i suoi foglietti e se ne trova l’ordine.

Ora si butta giù il testo come viene viene. Si ciclostila per averlo davanti tutti eguale. Poi forbici, colla e matite colorate. Si butta tutto all’aria. Si aggiungono foglietti nuovi. Si ciclostila un’altra volta. Comincia la gara a chi scopre parole da levare, aggettivi di troppo, ripetizioni, bugie, parole difficili, frasi troppo lunghe, due concetti in una frase sola. Si bada che non siano stati troppo a scuola. Gli si fa leggere a alta voce. Si guarda se hanno inteso quello che volevamo dire. Si accettano i loro consigli purché siano per la chiarezza. Si rifiutano i consigli di prudenza …. (Lettera a una professoressa, 126-127).

Ritroviamo, espresse con il linguaggio semplice e diretto della Lettera, tante delle idee e delle ipotesi di lavoro che saranno messe a punto dai ricercatori e dagli insegnanti che si impegneranno nel campo della didattica della scrittura: l’idea, innanzitutto, che il processo di scrittura sia un compito complesso, scomponibile in vari sotto-processi, i quali possono essere descritti e insegnati; l’idea che prima di scrivere sia necessario raccogliere le idee, vale a dire tutte le informazioni utili allo svolgimento del compito (è il momento importantissimo e ineliminabile dell’ideazione, che nella retorica classica prendeva il nome di inventio); l’idea che la raccolta delle informazioni richiede tempo, e non può essere troppo compressa, come normalmente succede quando si debba scrivere un tema d’italiano nelle due o tre ore canoniche previste dall’esercitazione in classe; l’idea che, una volta raccolte, le informazioni vanno riesaminate, filtrate, selezionate sulla base del piano, vale a dire del proprio progetto di scrittura; l’idea che scrivere comporta la scelta di una scansione e di una successione dei contenuti (il momento della dispositio nella retorica classica), e che tale scansione si articola in paragrafi e sottoparagrafi i quali devono avere una loro unità concettuale esprimibile attraverso un titolo; l’idea che il processo di revisione debba essere continuo e accompagnare ogni fase della scrittura, consentendo ad esempio di aggiungere nuove idee o sequenze (i foglietti) non previste dal piano iniziale.

Infine, la Lettera contiene indicazioni precise sul piano linguistico, tali da configurare uno stile: sintassi breve e asciutta, lessico comune, aggettivazione essenziale, la chiarezza e la comprensibilità come obiettivi irrinunciabili (per un’analisi della Lettera come ‘manuale’ ed ‘esempio’ di scrittura si veda anche Cortelazzo 2000).

Va da sé che non c’è spazio in questo progetto educativo per il tema d’italiano, cui i ragazzi di Barbiana si sottopongono solo per superare l’esame che li attende nella scuola pubblica.

A giugno del terzo anno di Barbiana mi presentai alla licenza media come privatista. Il tema fu:«Parlano le carrozze ferroviarie». A Barbiana avevo imparato che le regole dello scrivere sono: Aver qualcosa di importante da dire e che sia utile a tutti o a molti. Sapere a chi si scrive. Raccogliere tutto quello che serve. Trovare una logica su cui ordinarlo. Eliminare ogni parola che non serve. Eliminare ogni parola che non usiamo parlando. Non porsi limiti di tempo. Così scrivo coi miei compagni questa lettera. Così spero che scriveranno i miei scolari quando sarò maestro.

Ma davanti a quel tema che me ne facevo delle regole umili e sane dell’arte di tutti i tempi? Se volevo essere onesto dovevo lasciare la pagina in bianco. Oppure criticare il tema e chi me l’aveva dato.Ma avevo quattordici anni e venivo dai monti. Per andare alle magistrali mi ci voleva la licenza. Quel fogliuccio era in mano a cinque o sei persone estranee alla mia vita e a quasi tutto ciò che amavo e sapevo. Gente disattenta che teneva il coltello dalla parte del manico. Mi provai dunque a scrivere come volete voi. Posso ben credere che non ci riuscii. Certo scorrevano meglio gli scritti dei vostri signorini esperti nel frigger e nel rifrigger luoghi comuni …. (Lettera a una professoressa, 20-21).

Ritroviamo anticipate in questo passo molte delle critiche che verranno fatte al tema d’italiano nei decenni successivi, da parte di linguisti ed insegnanti. Letta dai giovani e diventata ben presto una specie di bandiera dei contestatori del sistema, la Lettera ebbe un impatto enorme, suscitando simpatie appassionate e furibonde opposizioni. Vogliamo sperare che, decantata dal tempo e dalle profonde trasformazioni che nel frattempo hanno cambiato in modo forse radicale la società italiana, la Lettera possa oggi venire riletta con uno spirito diverso, e rivelare, al di là di un linguaggio forse datato e di schematizzazioni politico-sociali troppo semplicistiche che possono anche infastidire, la passione educativa di un maestro d’eccezione dal quale abbiamo ancora da imparare.

 

2.1.2 Bruno Ciari

Bruno Ciari (1923 – 1970)

La vicenda di Don Lorenzo Milani, unica ed eccezionale per molti versi, va tuttavia collegata ad altre esperienze educative, ad altre figure esemplari di maestri che negli anni stessi in cui maturava l’esperienza di Barbiana, o negli anni immediatamente successivi, provarono a rinnovare i modi tradizionali dell’insegnamento linguistico dall’interno della stessa istituzione scolastica.

Una panoramica di queste esperienze è in Renzi-Cortelazzo 1977, 305-357, cui rimandiamo per una sintesi delle posizioni più significative. Qui ci limitiamo a ricordare brevissimamente alcune delle figure più interessanti, come ad esempio Bruno Ciari, maestro e organizzatore culturale. Oltre che impegnarsi attivamente nel Movimento di Cooperazione Educativa (MCE), una delle prime associazioni di insegnanti a porre con forza sul tappeto il problema di una rinnovata educazione linguistica, Ciari mise a punto la tecnica del cosiddetto ‘testo libero orale’:

Ogni giorno appena entrati in aula, sarà bene riunirsi intorno alla cattedra o comunque in gruppo, e discutere, comunicarsi reciprocamente le esperienze, a cominciare dall’insegnante medesimo, il quale, col modo suo di ‘centrare certi particolari della sua esperienza’, porrà in atto un utile stimolo per orientare i suoi ragazzi (Ciari 1976, cit. tratta da Renzi-Cortelazzo 1977, 306).

Questa tecnica si rivela preziosa non solo come stimolo all’uso orale del linguaggio, ma anche come primo passo e  incentivo all’uso scritto della lingua, uso che deve essere sempre motivato da reali esigenze comunicative. Non si dovrebbe scrivere per il maestro, affinché faccia sui testi dei segnacci rossi o dia il suo voto, ma per comunicar qualcosa agli altri, vicini e lontani, e per fermare il proprio pensiero in modo da serbarlo come un patrimonio prezioso. In ogni caso, sia che il pensiero assuma la forma del racconto libero, o quella del diario, della corrispondenza, della relazione, della poesia o della novella, la sua destinazione è la comunità sociale della classe prima di tutto, e poi comunità più remote, in un sempre più vasto orizzonte (ivi, 317).

Si noti come Ciari rifiuti l’idea di una scrittura scolastica artificiosa, esclusivamente finalizzata alla valutazione, e pensi già alla scrittura come esercizio di trasposizione del pensiero in forme testuali definite e soprattutto motivanti per gli allievi (il racconto, la lettera,il diario ecc.). Nel far ciò anticipa alcune delle piste di lavoro più promettenti che la linguistica del testo suggerirà qualche anno dopo alla didattica della scrittura La tecnica del ‘testo libero orale’ o, come anche si disse, della discussione di classe fu adottata da un altro eccezionale uomo di scuola, Mario Lodi, che la rese famosa grazie al successo di pubblico ottenuto dai suoi libri (tra i quali ricordiamo Il paese sbagliato, 1970, e C’è speranza se questo accade al Vho, 1972).

 

2.1.3 Mario Lodi

Riportiamo qui sotto un brano tratto da Il paese sbagliato, da cui si evince come la discussione di classe, guidata dalle domande-stimolo del maestro, diventi occasione per osservare, riflettere, raccontare esperienze personali, fare ipotesi, argomentare. L’occasione è data dalla ricorrenza della Pasqua. Il maestro Lodi presenta ai bambini alcune riproduzioni di dipinti famosi, poi chiede loro quale preferiscano:

Con sorpresa vedo scelto all’unanimità il Cristo morto del Mantegna, l’unico che ha colori spenti.
Fabio: A me piace il lenzuolo perché pare proprio vero così bianco e scuro. Bianco dove ci va su la luce.
Carolina: Le donne piangono, una ha il fazzoletto all’occhio e se lo asciuga. Piangono perché Cristo è su un tavolo, morto. Una donna tiene le mani come quando pregano.
Fiorella: Gesù pare proprio morto perché è sul letto con le mani molli e ha la testa di traverso…
Lorena: Com’è brutta la faccia: ha la barba scura e i capelli disordinati. Prima gli hanno messo le spine e poi gliele hanno levate e i capelli sono rimasti in su e disordinati…
Katia:… Ha i capelli come mio zio di Calvatone, ricciolati…
Maestro: Perché avete preferito questo quadro, che non ha colori vivaci, mentre a voi piacciono i colori forti e belli?
Anna: Perché ha i colori chiari.
Umberta: Io dico che il pittore ha pitturato così perché quando moriamo siamo bianchi.
Fabio: Io dico perché è notte.

Anna: E poi Gesù è diventato brutto.
Lorena: E’ morto un uomo e c’è il dispiacere. Quando è morto il mio papà la mamma
non voleva più mettere il paltò chiaro, adesso l’ha nero.
Umberta: I colori sono giusti perché il quadro rappresenta la morte.
Ileana: E non ci vogliono i colori vivaci.
Angelo: L’altro quadro, che ha i colori vivaci, non va bene…
Maestro: C’è qualcosa che non capite in questo quadro?
Ileana: Io non capisco perché un braccio è bianco e l’altro verde…
Fabio: Io non capisco perché gli ha fatto gli occhi chiusi. Quando muoiono hanno gli
occhi aperti. I cavalli che uccide mio papà hanno gli occhi aperti.
Ileana: Anche i conigli.
Lorena: Quando è morto, il mio fratellino aveva gli occhi aperti…
Angelo: E’ meglio gli occhi chiusi perché quando uno muore, gli chiudono gli occhi.
Anna: Io sono andata a vedere il mio nonno morto: aveva gli occhi chiusi.
Fabio: Se li faceva aperti, sembrava vivo…” (cit. tratta da Renzi-Cortelazzo 1977, 327-328).

Vale la pena di notare come il maestro Lodi miri in alto, presentando ai suoi bambini le riproduzioni di alcuni dei massimi capolavori della pittura italiana (oltre al Cristo morto del Mantegna, la Deposizione di Lorenzetti, La crocifissione di Masaccio, la Crocifissione di Antonello da Messina, La pietà di Giovanni Bellini, Il Calvario del Veronese). Ma non sovraccarica gli allievi di informazioni, e non dà loro alcuna lente per ‘leggere’ il quadro prescelto: lascia che sia il quadro a parlare, e soprattutto lascia parlare i bambini.

 

2.1.4 Orlando Spigarelli e Maria Maltoni

Maria Maltoni (1890 – 1964)

Ricordiamo ancora il maestro umbro Orlando Spigarelli e Maria Maltoni della scuola di San Gersolè, entrambi impegnati sul fronte della valorizzazione della lingua e delle connesse esperienze di vita dei loro bambini. Il primo non reprime il dialetto dei suoi allievi, anzi li incoraggia a produrre deliziosi pezzi mistilingui, in cui l’alternanza tra italiano e dialetto non è mai gratuita, risultando al contrario imposta dalle situazioni e dai personaggi di volta in volta chiamati in causa:

Ieri è venuto a casa mia un uomo che si chiama Primino, è uno che va a comperare semi di zucca, penne, uova ecc.
Alla nonna ha detto: -Vo’ n’me conoscete, io so’ Primino l’uomo più bello del mondo. Le donne tutte me guardono, io so’ ‘n grèn galantuomo! Volete ‘l baccalà, le renghe?!
Mentre beveva del vino, il gattino nero che Stefano chiama Michele, furbo gli è entrato dentro la sua macchina e ha  mangiato le aringhe. La nonna gli ha chiesto:
– Co’ v’ha portèto via?
Lui ha risposto inferocito:
-M’ha portèto via ‘na renga!!
La mamma rideva a squarciagola:
-Lascètelo fè, almeno ha fatto colazione.

Lui ha rimbeccato:
-Que? Je l’ho da passè io, cocchina? Ve la farìa paghè…” (Spigarelli 1973, cit. tratta da Renzi-Cortelazzo 1977, 336).

I ragazzi di Maria Maltoni raccontano di sé usando un italiano semplice e scarno, certo favoriti dalla loro origine toscana, sempre tuttavia preoccupati di rendere i loro testi comprensibili anche a chi non condivida le loro particolarissime esperienze:

Il secondo giorno ci si alzò presto e si andò alla carbonaia dove si doveva mettere fuoco, e si cominciò a fare il trito per accenderla. (Fare il trito vuol dire prendere tanti pezzi di legna fine e tagliarla, e farla lunga come i diti; quello si chiama trito). Dopo averne fatti un paio di corbelli si messe a fuoco e poi si finì il trito per riboccarla e si andò a principiare l’altra carbonaia. Quando era verso l’undici io andai a prendere la ricotta… Arrivai là, chiamai: –
Padrona!- e si affacciò. – Che vi è venuta la ricotta?
– Mah… son qui che la fo ora, non lo so se mi verrà; tu hai a venir su, tu aspetti, se la mi viene te la do.
– Sì, – e andai su.
Mentre ero lì ad aspettare, mi domandava dove stavo, se facevo volentieri il carbonaio eccetera. Io gli rispondevo di sì o di no. Poi bollì il paiolo della ricotta e andò a farla.
Venne una bella tazza, e mi disse:
– Ti piace lo scotto?
– Sì
– Allora te lo do – (Lo scotto è quell’acqua che rimane nel paiolo dopo aver levata la ricotta)…” (Maltoni 1963, cit. tratta da Renzi-Cortelazzo 1977, 332).

Se confrontiamo questi testi con le produzioni scritte della scuola ufficiale, possiamo forse capire lo scandalo che questi maestri rappresentarono nella scuola del tempo. C’era tuttavia, dietro questa scelta apparentemente lassista e permissiva, l’idea che il retroterra linguistico degli allievi fosse non già un insieme di cattive abitudini da correggere e possibilmente sradicare, ma un patrimonio da salvare, un mezzo in grado di veicolare esperienze di vita importanti, delle quali la scuola doveva insegnare a parlare, e a scrivere, con i dovuti mezzi e con il dovuto rispetto.

 

2.1.5 Don Roberto Sardelli

Ricordiamo infine un’altra figura di prete eccezionale, don Roberto Sardelli, certo meno noto di don Lorenzo Milani, ma non per questo meno importante nella storia dell’educazione linguistica. Don Sardelli svolse la sua opera educativa nelle borgate romane, tra i ragazzi del sottoproletariato urbano, di cui colse lo sradicamento culturale e linguistico. Con uno stile e un linguaggio che ricordano Lettera a una professoressa, i suoi allievi scrivono cose non molto dissimili.

Per molti essere colti significa saper leggere e scrivere. Siccome molti operai non sanno leggere né scrivere, passano per ignoranti. Ma noi vediamo che i contadini e gli operai tra di loro parlano. Essi conoscono lo strumento più antico e più facile per comunicare tra di loro. Ma questi conoscono poche parole. Se dovessero parlare in consiglio comunale i borghesi gli riderebbero in faccia. Se emigrano all’estero o si spostano da una regione all’altra dell’Italia, né capiscono né si fanno capire. Allora stanno zitti. Finché ci sarà uno che conosce 2000 parole e un altro che ne conosce 200, questi sarà oppresso dal primo. La parola ci fa uguali(Scuola 725, 13-14).

Wikiradio, La scuola 725 raccontata da Alessandro Portelli

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La parola ci fa uguali 2. Gli studi sociolinguistici di Basil Bernstein e William Labov

La parola ci fa uguali 3. Analfabetismo strumentale, funzionale e di ritorno

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