Massimo Recalcati, Incubi della modernità: madre coccodrillo o madre narciso

by gabriella

la-famiglia-patriarcaleIl doppio volto della patologia della maternità: l’eccessiva presenza, l’assenza di distanza, il cannibalismo divorante, o l’indifferenza, l’assenza di amore, la lontananza, l’esaltazione narcisistica di se stessa. Tratto da Repubblica, 28 febbraio 2015.

Nella cultura patriarcale la madre era sintomaticamente destinata a sacrificarsi per i suoi figli e per la sua famiglia, era la madre della disponibilità totale, dell’amore senza limiti. I suoi grandi seni condensavano un destino: essere fatta per accudire e nutrire la vita. Questa rappresentazione della maternità nascondeva spesso un’ombra maligna: la madre del sacrificio era anche la madre che tratteneva i figli presso di sé, che chiedeva loro, in cambio della propria abnegazione, una fedeltà eterna. È per questa ragione che Franco Fornari aveva a suo tempo suggerito che i grandi regimi totalitari non fossero tanto delle aberrazioni del potere del padre, ma un’“inondazione del codice materno”, una sorta di maternage melanconico e spaventoso.

coccodrillo

La madre-coccodrillo della famiglia patriarcale

La sicurezza e l’accudimento perpetuo in cambio della libertà. Sulla stessa linea di pensiero Jacques Lacan aveva una volta descritto il desiderio della madre come la bocca spalancata di un coccodrillo, insaziabile e pronta a divorare il suo frutto. Era una rappresentazione che contrastava volutamente le versioni più idilliache e idealizzate della madre. Quello che Lacan intendeva segnalare è che in ogni madre, anche in quella più amorevole, che nella struttura stessa del desiderio della madre, troviamo una spinta cannibalica (inconscia) ad incorporare il proprio figlio. È l’ombra scura del sacrificio materno che, nella cultura patriarcale, costituiva un binomio inossidabile con la figura, altrettanto infernale, del padre-padrone. Era la patologia più frequente del materno: trasfigurare la cura per la vita che cresce in una gabbia dorata che non permetteva alcuna possibilità di separazione.

madre narciso

La madre narciso della famiglia post-moderna

Il nostro tempo ci confronta con una radicale trasformazione di questa rappresentazione della madre: né bocca di coccodrillo né ragnatela adesiva né sacrificio masochistico né elogio della mortificazione di sé. Alla madre della abnegazione si è sostituita una nuova figura della madre che potremmo definire “narcisistica”. Si tratta di una madre che non vive per i propri figli, ma che vuole rivendicare la propria assoluta libertà e autonomia dai propri figli.

L’ultimo capolavoro del giovanissimo e geniale regista canadese Xavier Dolan titolato Mommy ( 2014) mostra il passaggio delicatissimo tra l’una e l’altra di queste rappresentazioni della maternità. Per un verso la coppia madre-figlio del film assomiglia alla coppia simbiotica tipica della patologia patriarcale della maternità: non esiste un altro mondo al di fuori di essa, non esiste un terzo, non esiste padre, non esistono uomini, non esiste nulla. È una negazione che il regista trasferisce abilmente in una opzione tecnica traumatica: le riprese a tre quarti — l’assenza di fuori campo, come ha fatto notare recentemente Andrea Bellavita — evidenziano un mondo che non conosce alterità, che non ha alcun “fuori” rispetto al carattere profondamente incestuoso di questa coppia. Ma è l’atteggiamento finale della madre che risulta inedito rispetto alla rappresentazione sacrificale del desiderio materno. Ella non trattiene il figlio problematico (la diagnosi psichiatrica lo classifica come “iperattivo”), ma — seppur contraddittoriamente — vorrebbe liberarsene. Il suo desiderio non è più quello rappresentato dalla madre-coccodrillo e dalla sua spinta fagocitante, ma quello di risultare, come afferma in una battuta finale, «vincente su tutta la linea »; per questo decide di affidare il figlio intrattabile ad una Legge folle che prescrive il suo internamento forzato.

La madre descritta in Mommy rappresenta il doppio volto della patologia della maternità: da una parte l’eccessiva presenza, l’assenza di distanza, il cannibalismo divorante, dall’altra l’indifferenza, l’assenza di amore, la lontananza, l’esaltazione narcisistica di se stessa. Il problema della madre narcisista non è più, infatti, quello di separarsi dai propri figli, ma di doverli accudire; non è più quello di abolirsi masochisticamente come donna nella madre, ma vivere il proprio diventare madre come un attentato, un handicap, anche sociale, al proprio essere donna.

La spinta divoratrice della madre-coccodrillo si è trasfigurata nell’ossessione per la propria libertà e per la propria immagine che la maternità rischia di limitare o di deturpare. Il figlio non è una proprietà che viene rivendicata, ma un peso dal quale bisogna sgravarsi al più presto. Si tratta di una inedita patologia (narcisistica) del materno. Ne avevamo avuto un’anticipazione significativa in altri film, come Sinfonia d’autunno (1978) di Ingmar Bergman e Tacchi a spillo di Pedro Almodovar (1991), o, in una forma ancora più traumatica, in Mammina cara (1981) di Frank Perry, tratto dalla biografia dell’attrice Joan Crawford scritta dalla figlia adottiva che fornisce il ritratto di una madre instabile e totalmente immersa nel proprio fantasma narcisistico.

In essi emerge una rappresentazione della maternità profondamente diversa, ma egualmente patologica, da quella imposta dalla cultura patriarcale. Si tratta di donne che vivono innanzitutto per la loro carriera e, solo secondariamente e senza grande trasporto, per i loro figli. In gioco è la rappresentazione inedita di una madre che rifiuta (giustamente) il prezzo del sacrificio rivendicando il diritto di una propria passione capace di oltrepassare l’esistenza dei figli e la necessità esclusiva del loro accudimento.

È il dilemma di molte madri di oggi. Il problema però non consiste affatto in quella rivendicazione (legittima e salutare anche per gli stessi figli), ma nell’incapacità di trasmettere ai propri figli la possibilità dell’amore come realizzazione del desiderio e non come il suo sacrificio mortifero. Se la maternità è vissuta come un ostacolo alla propria vita è perché si è perduta quella connessione che deve poter unire generativamente l’essere madre all’essere donna. Se c’è stato un tempo — quello della cultura patriarcale — dove la madre tendeva ad uccidere la donna, adesso il rischio è l’opposto; è quello che la donna possa sopprimere la madre.

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Chiara Saraceno, Non c’è scampo per le madri

La risposta a Massimo Recalcati della sociologa della famiglia su da Repubblica del 2 marzo 2015.

saracenoNon c’è scampo per le madri. O sono troppo accudenti, al punto da soffocare la capacità di autonomia dei figli (soprattutto maschi) — le madri coccodrillo lacaniane. Oppure, se hanno anche una vita e interessi fuori e accanto alla maternità — vita e interessi che per altro costituiscono un argine ad ogni tentazione divorante — rischiano di essere madri senza cuore, incapaci di accudimento. Le madri narcisiste, esito delle battaglie emancipazioniste di donne che non vogliono essere solo madri, sono la contemporanea iattura che può toccare ai figli, secondo l’analisi di Massimo Recalcati, psicoanalista lacaniano, su Repubblica del 28 febbraio.

Donne che cancellano (in sé) la madre perché non sono capaci

“di trasmettere ai figli la possibilità dell’amore come realizzazione del desiderio e non come il suo sacrificio mortifero”.

Se la maternità è vissuta come un ostacolo alla propria vita non è, come si potrebbe ingenuamente pensare, perché tuttora l’organizzazione sociale poco sostiene le mamme lavoratrici, in carriera o meno. Neppure perché una definizione della paternità invece tutta incentrata sul desiderio e la necessità di essere altrove, senza essere vincolati dalle necessità della cura, rende difficile per le madri conciliare più dimensioni, più passioni. O perché alcuni psicanalisti condividono il senso comune ancora diffuso in Italia per cui “un bambino in età prescolare soffre se la mamma lavora”, legittimando ogni forma di colpevolizzazione delle madri lavoratrici, specie se, come si dice “non ne avrebbero necessità” e ancor più se vogliono anche una carriera. È perché “si è perduta quella connessione che deve poter unire generativamente l’essere madre all’essere donna”.

wollstonecraftFacendo riferimento a casi estremi tratti dalla pratica clinica, o alla letteratura e filmografia, Recalcati rischia di ridurre al vecchio aut aut (o la maternità o la carriera) il ben più complesso dilemma Wollstonescraft al centro di moltissime riflessioni femministe: come far riconoscere il valore e il diritto a dare e ricevere cura senza perdere il diritto ad essere anche altro (cittadine, diceva Wollstonecraft). In particolare, sembra pensare che, sia sacrificio o desiderio, l’amore materno, a differenza di quello paterno, deve essere al riparo da altre passioni, desideri, attività. E che la generatività delle madri si esaurisca nel, certo importantissimo, amore (e accudimento) per i figli, non anche nella capacità di essere individue distinte dai propri figli, con un pensiero e progetti su di sé che non si esauriscono nella maternità, anche se la comprendono.

Questa seconda generatività sembra esclusivamente appannaggio dei padri, loro sì capaci di separarsi e separare. Suggerisco di leggere il dialogo tra Mariella Gramaglia e sua figlia Maddalena Vianello (Tra me e te, edizioni et al.): dialogo difficile, anche conflittuale, dove madre e figlia si confrontano sì sulla cura data e ricevuta, ma anche sulla visione del mondo e l’azione nel mondo che la madre ha lasciato alla figlia e con cui questa deve fare i conti. Spero nessuno consideri Mariella e quelle come lei, come me, terribili madri narcisiste, perché il loro “desiderio” si è diretto anche oltre, non contro, la maternità.

 

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