Archive for Settembre, 2012

30 Settembre, 2012

La propaganda elettorale del 1948

by gabriella

Riprendo da storiadigitale.it i manifesti della Democrazia Cristiana per la campagna elettorale del 1948.

Si tratta di manifesti prodotti dalla Spes e promossi dai cosiddetti comitati civici, creati solamente nel febbraio del 1948, a pochi mesi dalle elezioni, ma che riuscirono a produrre ugualmente un volume di propaganda notevole.

Il fondatore dei comitati civici fu Luigi Gedda, personaggio legato agli ambienti della Chiesa e che dalla Chiesa, direttamente dalla persona del Papa Pio XII aveva ottenuto di fondare i comitati civici allo scopo di far fronte alla organizzazione capillare del Partito Comunista Italiano. E’ fondamentale ricordare che la struttura messa in opera da Gedda, servì a dare voce alle altre associazioni cattoliche che non potevano fare politica dovendo attenersi alle norme concordatarie del 1929 che proibivano alla Chiesa di fare propaganda. Oltre ai cinquanta manifesti citati vi fu una grande produzione di volantinaggio e la stampa di un periodico in 250.000 copie denominato il “Collegamento” e che ebbe grande diffusione nel Paese.

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29 Settembre, 2012

Rodolfo Ricci, Populismo

by gabriella

Uno spettro si aggira per l’Europa: il Populismo.

Cosa sia di preciso nessuno lo ha capito, ma il termine prolifera: in bocca a sprovveduti di varia provenienza, riempie ormai i comizi d’amore e d’odio, le pagine di tanta stampa, in Europa e in Italia soprattutto, dopo il varo della campagna d’autunno del partito di Repubblica, rinvigorito da quella altrettanto possente de L’Unità.

Fino a qualche decennio fa, lo spettro si aggirava per altri lidi. In particolare in America Latina dove alcuni sostengono che sia nato all’epoca di Jan Domingo Peron. Oppure per il vasto panorama del terzo mondo asiatico e africano, i cui leader nazionalisti (in particolare i nazionalizzatori delle risorse locali) erano spesso aggettivati come tali: populisti.

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28 Settembre, 2012

Sandro Mezzadra, Europa, una democrazia in cerca di radicalità. Marino Badiale, Ancora un tradimento dei chierici?

by gabriella

La recensione di Sandro Mezzadra a Cittadinanza di Etienne Balibar e, in coda, il seguito del dibattito con l’ottima  critica di Badiale.

1. Intervenendo nel dibattito aperto quest’estate da Jürgen Habermas sulla crisi europea (“il Manifesto”, 20 settembre), Étienne Balibar ha riproposto una tesi formulata ormai da diversi anni: l’idea cioè che l’Europa politica sia sì necessaria, ma che al tempo stesso – per essere “legittima e quindi possibile” – essa debba realizzare un “sovrappiù” di democrazia rispetto agli Stati nazione che la compongono. Il punto è, tuttavia, che questo “sovrappiù” di democrazia non sembra più pensabile nei termini di una continuità lineare con i processi di “democratizzazione” che hanno caratterizzato la storia dello Stato nazione in Europa: con quei processi cioè che, per quanto contraddittoriamente (e con la cesura dei fascismi), a partire dall’Ottocento hanno determinato una progressiva estensione del suffragio e un arricchimento “intensivo” dei diritti di cittadinanza, culminato nella costruzione dello Stato sociale democratico.

Balibar lo riconosce, e introduce – come a saggiarne la produttività – una serie di categorie che all’interno dei dibattiti critici vengono impiegate per “reagire” a questa soluzione di continuità, che rende problematica ai suoi occhi l’insistenza di Habermas su un «costituzionalismo normativo»: democrazia partecipativa, governance, democrazia conflittuale, costruzione del comune, contro-democrazia. Si tratta di ipotesi teoriche non necessariamente compatibili l’una con l’altra: ma Balibar, lungi dal proporre una sintesi tra di esse, sembra essere interessato – coerentemente con il suo stile di pensiero – a porle in tensione, con l’obiettivo di produrre un campo teorico e politico al cui interno sia possibile avanzare nella ricerca di un’uscita in avanti, a sinistra, dalla crisi europea.

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28 Settembre, 2012

Roberto Ciccarelli, Rapporto OCSE sulla scuola italiana: la bolla formativa è esplosa

by gabriella

Il Rapporto OCSE 2011 sulla scuola italiana fotografa con impietosa chiarezza i risultati delle politiche dell’istruzione degli ultimi vent’anni, dal berlingueriano 3+2 all’inasprimento gelminiano del numero chiuso. Il risultato è stato, non sorprendentemente, l’esclusione da scuola e lavoro per un giovane (19-25enne) su 4.

Penultimi nella classifica Ocse per la spesa pubblica nell’istruzione (il 4,7 per cento del Pil, contro una media del 5,8) OCSE, Education at a glance 2011 (versione italiana). I docenti della scuola (età media 50 anni) che percepiscono un reddito decisamente più basso rispetto ad altri lavoratori con un’istruzione universitaria. Nel dodicesimo rapporto Ocse Education at a glance presentato ieri a Parigi l’Italia si piazza al 24° posto (su 27 paesi) per gli insegnanti della primaria, al 23° per le superiori. La percentuale dei suoi laureati resta tra le più basse dell’area che riunisce i paesi più industrializzati: tra i 25 e i 64 anni sono il 15 per cento, contro una media Ocse del 31 per cento. Tutto questo mentre la disoccupazione aumenta significativamente tra i laureati (5,6 per cento), ma non tra i diplomati.

Nel paese del precariato di massa, e dei redditi sotto della soglia di povertà, l’Ocse conferma che nessuna istituzione, né tanto meno il mercato del lavoro, garantiscono ai laureati una retribuzione dignitosa, né un lavoro adeguato alla loro preparazione. È il ritratto più sincero che raramente è capitato di leggere nelle dichiarazioni dei governi in questa legislatura, per non parlare di quelle precendenti. Quella dell’esplosione della bolla formativa è una storia recente, che si può tradurre in una sola parola: fallimento.

La favola del «3+2»

Fallimento, ad esempio, della riforma Berlinguer-Zecchino del 2000 che varò il cosiddetto «3+2», tra le mirabolanti promesse della «società della conoscenza» in cui il centro-sinistra prodiano credeva fermamente. «Un’occasione mancata – l’hanno definita i tecnici Ocse – colpa anche della contrazione dei posti nella dirigenza delle pubbliche amministrazioni, che erano in passato lo sbocco privilegiato per i vostri laureati, e del boom di offerta di corsi i cui profili non trovano corrispondenza sul mercato».

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28 Settembre, 2012

Roberto Ciccarelli, Il concorso e la scuola ai “giovani”

by gabriella

Questo articolo di Roberto Ciccarelli illustra il significato politico del concorso per la scuola varato dal governo Monti. Dietro alla vulgata “la scuola ai giovani professori” si cela infatti la concretizzazione della delegalizzazione dei titoli di studio e dellaccountability, la valutazione permanente dogma della governamentalità neoliberale [per approfondimenti cliccare su INVALSI nel tag cloud] e strumento cardine dell’esclusione dal lavoro in una società sempre più per pochi.

Sentirsi “traditi dallo Stato”. La prima volta che ho ascoltato questa espressione è stato durante una manifestazione di insegnanti precari contro il concorso “truffa” della scuola. Centosessantamila persone abilitate, plurititolate e pluriesaminate saranno costrette a sottoporsi ad una lotteria fatta di quiz, prove scritte e orali e ad una lezione di mezz’ora per aspirare a uno degli 11.542 posti messi a disposizione dal ministro Profumo. D’ora in poi le “graduatorie” dove questi docenti sono iscritti da anni non avranno valore ai fini dell’assunzione. Il concorso tornerà ad essere l’unico modo per avere un lavoro dignitoso. Anni di esperienza verranno così bruciati e con essi la fiducia nelle indicazioni impartite dallo Stato a persone che si sono sottoposte ad un lungo, e tortuoso, percorso di qualificazione e autodisciplinamento che si è tradotto nel precariato di massa che tiene ancora in piedi la scuola. In questo contesto, il tradimento è un atto politico irrevocabile compiuto dallo Stato rispetto ad almeno due generazioni di insegnanti.

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26 Settembre, 2012

Codocenza filosofia-storia. 4F

by gabriella
26 Settembre, 2012

Angelo d’Orsi, Rovescismo, fase suprema del revisionismo. Michele Serra sul Mussolini equestre nel liceo marchigiano

by gabriella

Il libro di Giampaolo Pansa La grande bugia, sulle zone d’ombra della Resistenza, di cui La Stampa ha parlato il 3 ottobre (2006, ndr), scatena polemiche. Lunedì sera, a Reggio Emilia, è stato duramente contestato: esponenti dei centri sociali hanno occupato la sala cantando Bella ciao. Hanno fatto seguito una rissa, lo sgombero della sala da parte della polizia e perfino l’evocazione di un famoso collega di Pansa: i dimostranti hanno gridato «Viva i fratelli Cervi! Viva Giorgio Bocca!». Ieri sera, il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha espresso al giornalista «la sua profonda deplorazione per gli atti di violenza di cui è stato oggetto». Sull’opera di Pansa interviene criticamente lo storico Angelo d’Orsi.

Angelo d’Orsi, Rovescismo, fase suprema del revisionismo

Chi sospetta che le ambizioni del giornalista Pansa siano di tipo politico, può ritenersi accontentato, sia pure col beneficio del dubbio: il «caso» è diventato un problema di ordine pubblico, dopo gli insulti e le baruffe a Reggio Emilia tra giovani di sinistra che contestavano Pansa e giovani di destra che ne prendevano le parti e intervento finale della polizia.

Sarebbe tuttavia un errore isolare Pansa: ormai si deve parlare di tutta una categoria di «rovistatori» della Resistenza, che grattano il fondo del barile per vedere dove si annidi (eventualmente) il marcio, e anche se non c’è, lo si inventa, lo si amplifica, e lo si sbatte in prima pagina. Che questa operazione sia fatta senza alcun criterio storico, senza le cautele minime di qualsivoglia studioso, poco importa. Se gli autori di libri di tal fatta, vendono, troveranno editori disposti a scommettere su di loro, media pronti a parlarne (e come si fa a non parlarne?), e un pubblico via via più incuriosito.

Una categoria inesauribile

Ma anche i rovistatori della Resistenza rientrano in una categoria più ampia, che sembra inesauribile e dalla quale ci dobbiamo aspettare altre puntate, sempre più clamorose. Noi sappiamo bene che esiste una differenza essenziale tra la revisione, momento irrinunciabile del lavoro del ricercatore storico, e il revisionismo, che possiamo definire come l’ideologia e la pratica della revisione programmatica.

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25 Settembre, 2012

Anselm Jappe, Cambiare cavallo

by gabriella

«Quando gli artigiani comunisti si riuniscono, essi hanno primamente come scopo la dottrina, la propaganda, ecc. Ma con ciò si appropriano insieme di un nuovo bisogno, del bisogno della società, e ciò che sembra un mezzo, è diventato scopo. Questo movimento pratico può essere osservato nei suoi risultati più luminosi, se si guarda ad una riunione di “ouvriers” socialisti francesi. Fumare, bere, mangiare, ecc. non sono più puri mezzi per stare uniti, mezzi di unione. A loro basta la società, l’unione, la conversazione che questa società ha a sua volta per scopo; la fratellanza degli uomini non è presso di loro una frase, ma una verità, e la nobiltà dell’uomo s’irradia verso di noi da questi volti induriti dal lavoro».[1]

Quando a 26 anni Marx scrisse uno dei suoi testi più importanti, i Manoscritti economico-filosofici del 1844, viveva a Parigi e frequentava le associazioni operaie in cui si parlava del socialismo. Marx ha sempre attribuito una grande importanza a questo primo incontro con degli uomini che si proponevano di rovesciare praticamente l’ordine borghese. Nel paragrafo citato (che si trova all’interno di un’analisi consacrata alla degenerazione del bisogno nella società capitalista) ha reso loro un bell’omaggio – non solo alle loro dottrine (che presto inizierà a criticare senza pietà), ma anche al loro spirito di fraternità: nella loro esistenza quotidiana, nei loro atti più semplici, essi vivevano già in una maniera diversa rispetto a quella della società che intendevano combattere.

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18 Settembre, 2012

Amicizia, bande e gruppi di coetanei. Schema della lezione

by gabriella

16 Settembre, 2012

Girolamo De Michele, Sulla pop-filosofia e la rinascita della filosofia

by gabriella

Può la filosofia continuare a vivere tenendosi a distanza dalla chiacchiera filosofica? Certo, se evita il vuoto della banalizzazione come il gergo della pura autocelebrazione baronale: «c’è molta spazzatura, nel campo della pop filosofia. Ma potremmo dire cosa diversa nel campo della “filosofia filosofante”?» Il peggior trash alligna tra quegli «ermeneuti che non riuscendo a trovare l’ago si cimentano in una interminabile fenomenologia del pagliaio, affabulatori per i quali basta che il discorso (o il monologo recitato agli yes men) filosofico non abbia per obiettivo incidere nella carne del mondo»; in breve la chiacchiera più perniciosa si annida tra gli effetti di potere dello sproloquio prezzolato, perché «la chiacchiera che sostituisce alla verifica il principio di autorità (o di autoaffermazione), ha sempre a che fare, presto o tardi, con una qualche forma di fascism0». Questa è l’opinione che oggi Girolamo ha affidato a Carmilla in uno scritto dei suoi migliori.

L’antefatto

Roberto Esposito ha argomentato questa estate contro la possibilità che la filosofia possa essere popular, ossia possa essere praticata secondo modalità pop. Col suo testo il professor Esposito ha avuto il merito di fornire un buon argomento contro la “pop filosofia”: confutato il quale, credo si possano fare alcune puntualizzazioni sulla pop filosofia, la sua pratica e la sua utilità. Scopo di questo mio intervento è dimostrare che i limiti della pop-filosofia coincidono con quelli di una diffusa e prevalente pratica (pseudo-)filosofica, e che c’è un reale (e urgente) bisogno di pop filosofia, non solo per il bene della filosofia: e, una volta fatto ciò, di liberarsi dall’inutile fardello di simili dibattiti.

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