Vaneigem et moi

vaneigemUne école où la vie s’ennuie n’enseigne que la barbarie

Raoul Vaneigem, Avertissement aux écoliers et lycéens, I

Raoul Vaneigem ha scritto l’Avviso agli studenti nel 1995 quando, esaurite le narrazioni emancipative, si faceva strada una scuola subordinata alle esigenze di mercato, a vocazione professionalizzante, orientata retoricamente alla valutazione e al merito.

A distanza di vent’anni, la condizione scolastica, in particolare italiana, si è significativamente degradata, così che questo testo diagnostico, non meno che terapeutico, è diventato sempre più prezioso per muoversi nel mare di disagio delle nostre classi ed evitare, se possibile, di alimentarlo.

Sintetizzo sotto i passi più incisivi – di seguito il testo integrale (in traduzione italiana e nell’originale francese). Il riferimento a Rousseau è mio.

Vivre est le métier que je lui veux apprendre. En sortant de mes mains, il ne sera j’en conviens, ni magistrat, ni soldat, ni prêtre; il sera premièrement homme : tout ce qu’un homme doit être, il saura l’être au besoin tout aussi bien que qui que ce soit ; et la fortune aura beau le faire changer de place, il sera toujours à la sienne.

Jean-Jacques Rousseau, Émile, I

 Che le scuole siano i frutteti di un gaio sapere, come gli orti che i disoccupati e i più deboli non hanno ancora avuto l’immaginazione di piantare nelle grandi città sfondando il bitume e il cemento.

La scuola ricorda i penitenziari, osserva Vaneigem, la sua bruttezza e il suo degrado incitano al vandalismo. Bisogna allora distruggerla? Domanda doppiamente assurda. Prima di tutto perché è già distrutta. Sempre meno interessati da ciò che insegnano e studiano – e soprattutto dalla maniera di istruire e istruirsi – professori e allievi non sono forse indaffarati a far colare a picco insieme il vecchio piroscafo pedagogico che fa acqua da tutte le parti?

plutotlavie2La noia genera la violenza, la bruttezza degli edifici incita al vandalismo, le costruzioni moderne, cementate dal disprezzo degli impresari immobiliari, si screpolano, crollano, prendono fuoco, secondo l’usura programmata dei loro materiali di paccottiglia. Alle stupide pretese del maestro di regnare tirannicamente sulla classe rispondono con eguale stupidità il baccano e il chiasso che servono da sfogo alle energie represse.

Ovunque la prigione, il ghetto, la corazza caratteriale impongono la loro strategia di clausura, lo slancio della disperazione leva il pugno del devastatore. La mano dello scolaro si vendica mutilando tavoli e sedie, macchiando i muri di segni insolenti, strappando gli orpelli della bruttezza, sacralizzando un vandalismo in cui la rabbia di distruggere compensa il sentimento di essere distrutti, violentati, messi a sacco dalla trappola pedagogica quotidiana.

Le bocche si aprono in grida stizzose di protesta, gli occhi attingono nella sfida il bagliore di entusiasmo che è loro rifiutato. Così i movimenti di contestazione periodicamente risvegliati dalle direttive di istanze burocratiche e governative scadono – per assenza di creatività – nello stesso grigiore e nella stessa stupidità del potere inconsistente che li ha provocati. Che ci si può aspettare da manifestazioni gregarie in cui l’intelligenza degli individui, in mancanza di un progetto di cambiamento radicale, si riduce, secondo il comun denominatore delle folle, al più basso livello di comprensione?

Per evitare l’esplosione dei desideri rimossi alla rinfusa, le autorità hanno saputo approntare sacche di decompressione e di trasgressioni controllate. Il lassismo non è il soffio della libertà, è il fiato della tirannia. La scuola è al centro di una zona di turbolenza dove gli anni giovanili rovinano nella tetraggine, dove la nevrosi coniugata dell’insegnante e dell’allievo imprime il suo movimento al bilanciere della rassegnazione e della rivolta, della frustrazione e della rabbia. Ma essa è anche il luogo privilegiato di una rinascita. Porta in gestazione la coscienza che è al centro della nostra epoca: assicurare la priorità di ciò che vive sull’economia di sopravvivenza.

Che l’infanzia sia caduta nella trappola di una scuola che ha ucciso il meraviglioso invece di esaltarlo indica abbastanza in quale urgenza si trovi l’insegnamento, se non vuole cadere in seguito nella barbarie della noia, di creare un mondo di cui sia permesso meravigliarsi. Ci vuole tutta la stupidità dei pedagoghi specializzati per stupirsi che tanti sforzi e fatiche inflitti agli scolari portino a risultati così mediocri. Che cosa aspettarsi quando il cuore è assente? Charles Fourier, nel corso di un’insurrezione, osservando con quale cura e quale ardore gli agitatori disselciavano i sanpietrini di una strada e alzavano una barricata in qualche ora, notava che per la stessa opera ci sarebbero voluti tre giorni di lavoro ad una squadra di sterratori agli ordini di un padrone.

Perché diventare ciò che si è esige la più intransigente delle risoluzioni. Ci vuole costanza e ostinazione. Se non vogliamo rassegnarci a consumare delle conoscenze che ci ridurranno al miserabile stato di consumatori, non possiamo ignorare che, per uscire dall’imbroglio in cui si è impantanata la società del passato, dovremo prendere l’iniziativa di una spinta nel senso opposto. Ma come? Vi si vede pronti a battervi e a schiacciare gli altri per ottenere un impiego ed esitereste ad investire le vostre energie in una vita che sarà tutto l’impiego che farete di voi stessi?  Noi non vogliamo essere i migliori, noi vogliamo che il meglio della vita ci appartenga, secondo quel principio di inaccessibile perfezione che abolisce l’insoddisfazione in nome dell’insaziabilità.

Si è al di sotto di ogni speranza di vita finché si resta al di qua delle proprie capacità.

Ma ormai la scuola è un carcere affollato. Rassegnatevi dunque al partito preso della stupidità che implica lo stato gregario, perché per educare una classe di trenta allievi non vedo che la sferza o l’astuzia. Ma non invocate l’impossibilità materiale di promuovere un insegnamento personalizzato. Gli sviluppi delle tecniche audiovisive non potrebbero permettere ad un grande numero di studenti di ricevere individualmente ciò che un tempo apparteneva al maestro di ripetere fino a memorizzazione (ortografia, grammatica elementare, vocabolario, formule chimiche, teoremi, solfeggio, declinazioni…)? Oppure di verificare come in un gioco il grado di assimilazione e di comprensione?

Così liberato di un’occupazione ingrata e meccanica, l’educatore non avrebbe più che da dedicarsi all’essenziale del suo compito: assicurare la qualità delle informazioni globalmente ricevute, aiutare alla formazione di individui autonomi, dare il meglio del suo sapere e della sua esperienza aiutando ciascuno a leggersi e a leggere il mondo.

Avertissement aux écoliers et lycéens, 1995 (originale francese)

Avviso agli studenti e ai liceali

Che le scuole siano i frutteti di un gaio sapere, come gli orti che i disoccupati e i più deboli non hanno ancora avuto l’immaginazione di piantare nelle grandi città sfondando il bitume e il cemento.

Raoul Vaneigem

Indice

Capitolo I.  Avviso Agli Studenti

Una scuola dove la vita si annoia insegna solo le barbarie

Capitolo II. Farla finita con l’educazione carceraria e la castrazione del desiderio

Una scuola che ostacola i desideri stimola l’aggressività
Come può esserci conoscenza dove c’è oppressione?
Imparare senza desiderio vuol dire disimparare a desiderare
Errore non vuol dire colpa
Solo coloro che posseggono la chiave dei campi e la chiave dei sogni apriranno la scuola su una società aperta

Capitolo III. Smilitarizzare l’insegnamento

Ciò che si insegna attraverso la paura rende il sapere timoroso
Liberare dalla costrizione il desiderio di sapere

Capitolo IV. Fare della scuola un centro di creazione di vita, non l’anticamera di una società parassitaria e mercantile

Delle nuove leve per gestire il fallimento
La fine del lavoro forzato inaugura l’era della creatività
Privilegiare la qualità

Capitolo V. Imparare l’autonomia, non la dipendenza

L’alleanza con il bambino è un’alleanza con la natura
Sull’aiuto indispensabile al rifiuto dell’assistenza permanente
Il denaro del servizio pubblico non deve più essere al servizio del denaro

————

L’essere umano deve potere tutto, e non dovere niente.
Non c’erano che poche cose, in effetti, di cui non si credeva capace.
Non contava che tutto quello che faceva gli riuscisse: spesso non gli riusciva.
Ma lo poteva lo stesso.

Georg Groddeck

 Capitolo I

Avviso agli studenti

La scuola è stata, con la famiglia, la fabbrica, la caserma e accessoriamente l’ospedale e la prigione, il passaggio ineluttabile in cui la società mercantile piegava a suo vantaggio il destino degli esseri che si dicono umani.

Il governo che essa esercitava sulle nature ancora appassionate delle libertà dell’infanzia l’apparentava, infatti, a quei luoghi poco propizi alla realizzazione e alla felicità che furono – e che restano in diversa misura – il recinto familiare, l’officina o l’ufficio, l’istituzione militare, la clinica, le carceri.

La scuola ha forse perso il carattere ributtante che presentava nel XIX e XX secolo, quando rompeva gli spiriti e i corpi alle dure realtà del rendimento e della servitù, facendosi gloria di educare per dovere, autorità e austerità, non per piacere e per passione? Niente è meno certo, e non si potrà negare che sotto l’apparente sollecitudine della modernità, numerosi arcaismi continuano a scandire la vita di studentesse e studenti.

L’impresa scolastica non ha forse obbedito fino ad oggi a una preoccupazione dominante: migliorare le tecniche di ammaestramento affinché l’animale sia redditizio?

Nessun ragazzo supera la soglia di una scuola senza esporsi al rischio di perdersi: voglio dire di perdere questa vita esuberante, avida di conoscenze e di meraviglie, che sarebbe così esaltante nutrire, invece di sterilizzarla e farla disperare con il noioso lavoro del sapere astratto. Che terribile constatazione quegli sguardi così brillanti di colpo sbiaditi!

Ecco quattro muri. Il consenso generale decide che, con ipocriti riguardi, vi saremo imprigionati, costretti, colpevolizzati, giudicati, onorati, puniti, umiliati, etichettati, manipolati, vezzeggiati, violentati, consolati, trattati come aborti che questuano aiuto e assistenza. Di che cosa vi lamentate? obbietteranno gli autori di leggi e decreti. Non è forse il modo migliore di iniziare i novellini alle regole immutabili che reggono il mondo e l’esistenza? Senza dubbio. Ma perché i giovani dovrebbero ancora accontentarsi di una società senza gioia e senza avvenire, che gli stessi adulti sopportano ormai rassegnati, con un’acrimonia e un malessere crescenti?

Una scuola dove la vita si annoia insegna solo la barbarie

Il mondo è cambiato più in trent’anni che in tremila. Mai – perlomeno nell’Europa occidentale – la sensibilità dei ragazzi ha tanto deviato dai vecchi istinti predatori che fecero dell’animale umano la più feroce e la più distruttrice delle specie terrestri.

Eppure, l’intelligenza resta fossilizzata, quasi impotente a percepire la mutazione che si opera sotto i nostri occhi. Una mutazione paragonabile all’invenzione dell’utensile, che produsse un tempo il lavoro di sfruttamento della natura e generò una società composta di padroni e di schiavi. Una mutazione in cui si rivela la vera specificità umana: non la produzione di una sopravvivenza sottomessa agli imperativi di un’economia lucrativa, ma la creazione di un ambiente favorevole a una vita più intensa e più ricca.

Il nostro sistema educativo si inorgoglisce a ragione di aver risposto con efficacia alle esigenze di una società patriarcale un tempo onnipotente, tenendo conto di un solo dettaglio: che una tale gloria è al contempo ripugnante e superata.

Su cosa poggiava il potere patriarcale, la tirannia del padre, la potenza del maschio? Su una struttura gerarchica, il culto del capo, il disprezzo della donna, la devastazione della natura, lo stupro e la violenza oppressiva. Questo potere, la storia lo abbandona ormai in uno stato di avanzata decomposizione: nella comunità europea, i regimi dittatoriali sono scomparsi, l’esercito e la polizia virano all’assistenza sociale, lo Stato si dissolve nelle acque torbide degli affari e l’assolutismo paternalistico non è altro che un ricordo di marionette.

Bisogna davvero coltivare la stupidità con una prolissità ministeriale per non revocare immediatamente un insegnamento che il passato impasta ancora con i lieviti ignobili del dispotismo, del lavoro forzato, della disciplina militare e di quell’astrazione, la cui etimologia – abstrahere, tirar fuori da – esprime bene l’esilio da sé, la separazione dalla vita.

Finalmente agonizza quella società in cui si entrava vivi solo per imparare a morire. La vita riprende i suoi diritti timidamente come se, per la prima volta nella storia, essa si ispirasse ad un’eterna primavera anziché mortificarsi di un inverno senza fine.

Odiosa ieri, la scuola oggi è soltanto ridicola. Essa funzionava implacabilmente secondo i meccanismi di un ordine che si credeva immutabile. La sua perfezione meccanica tetanizzava l’esuberanza, la curiosità, la generosità degli adolescenti per meglio integrarli nei cassetti di un armadio che l’usura del lavoro trasformava a poco a poco in bara. Il potere delle cose usciva vincitore sul desiderio degli esseri.

La logica di un’economia allora fiorente era irrefrenabile, come lo sgranarsi delle ore della sopravvivenza che suonano con costanza a raccolta verso la morte. La potenza dei pregiudizi, la forza d’inerzia, la rassegnazione abitudinaria esercitavano così comunemente la loro presa sull’insieme dei cittadini che ad eccezione di qualche renitente, amante dell’indipendenza, la maggior parte delle persone trovava il proprio tornaconto nella miserabile speranza di una promozione sociale e di una carriera garantita fino alla pensione.

Non mancavano dunque delle eccellenti ragioni per spingere il ragazzo sulla retta via della convenienza, perché rimettersi ciecamente all’autorità professorale offriva all’impetratore gli allori di una ricompensa suprema: la certezza di un lavoro e di un salario.

I pedagoghi dissertavano sul fallimento scolastico senza preoccuparsi dello scacchiere su cui si tramava l’esistenza quotidiana, giocata ad ogni passo nell’angoscia del merito e del demerito, della perdita e del profitto, dell’onore e del disonore. Una costernante banalità regnava nelle idee e nei comportamenti: c’erano i forti e i deboli, i ricchi e i poveri, i furbi e gli imbecilli, i fortunati e gli sfortunati.

Certo la prospettiva di dover passare la propria vita in una fabbrica o in un ufficio a guadagnare il denaro del mese non era atta ad esaltare i sogni di felicità e di armonia che l’infanzia nutriva. Essa produceva in serie degli adulti insoddisfatti, frustrati di un destino che avrebbero desiderato più generoso. Delusi e istruiti dalle lezioni dell’amarezza non trovavano, nella maggior parte dei casi, altra scappatoia al loro risentimento che dispute assurde, sostenute dalle migliori ragioni del mondo. I conflitti religiosi, politici, ideologici procuravano loro l’alibi di una Causa – come dicevano pomposamente – che nascondeva loro di fatto la triste violenza del male di sopravvivere di cui soffrivano. Così la loro esistenza scorreva nell’ombra ghiacciata di una vita assente. Ma quando l’aria è ammorbata, gli appestati dettano legge. Per inumani che fossero i principi dispotici che reggevano l’insegnamento e inculcavano ai ragazzi le sanguinose vanità dell’età adulta – quelli che Jean Vigo beffeggia nel suo film Zero in condotta -, partecipavano della coerenza di un sistema preponderante, rispondevano alle ingiunzioni di una società che non si riconosceva altro motore principale se non il potere e il profitto.

Ma oramai, anche se l’educazione si ostina ad obbedire agli stessi moventi, la coerenza è scomparsa: c’è sempre meno da guadagnare e sempre più vita sprecata a raschiare gli avanzi.

L’insopportabile predominanza degli interessi finanziari sul desiderio di vivere non riesce più a ingannare. Il tintinnio quotidiano dell’esca del guadagno risuona assurdamente nella misura in cui il denaro si svaluta, che un fallimento comune livella capitalismo di Stato e capitalismo privato, e che scivolano verso la fogna del passato i valori patriarcali del padrone e dello schiavo, le ideologie di destra e di sinistra, il collettivismo e il liberalismo, tutto ciò che si è edificato sullo stupro della natura terrestre e della natura umana in nome della sacrosanta merce.

Un nuovo stile sta nascendo, dissimulato soltanto dall’ombra di un colosso i cui piedi di argilla hanno già ceduto. La scuola rimane confinata nella penombra del vecchio mondo che sprofonda.

Bisogna distruggerla? Domanda doppiamente assurda

Prima di tutto perché è già distrutta. Sempre meno interessati da ciò che insegnano e studiano – e soprattutto dalla maniera di istruire e istruirsi – professori e allievi non sono forse indaffarati a far colare a picco insieme il vecchio piroscafo pedagogico che fa acqua da tutte le parti?

La noia genera la violenza, la bruttezza degli edifici incita al vandalismo, le costruzioni moderne, cementate dal disprezzo degli impresari immobiliari, si screpolano, crollano, prendono fuoco, secondo l’usura programmata dei loro materiali di paccottiglia.

In secondo luogo, perché l’istinto di annientamento si iscrive nella logica di morte di una società mercantile la cui necessità lucrativa esaurisce la parte viva degli esseri e delle cose, la degrada, la inquina, la uccide. Accentuare la rovina non dà profitti solo agli avvoltoi dell’immobiliare, agli ideologi della paura e della sicurezza, ai partiti dell’odio, dell’esclusione, dell’ignoranza, dà anche garanzie a quell’immobilismo che non cessa di cambiare abiti nuovi e maschera la sua nullità dietro a riforme tanto spettacolari quanto effimere.

La scuola è al centro di una zona di turbolenza dove gli anni giovanili rovinano nella tetraggine, dove la nevrosi coniugata dell’insegnante e dell’allievo imprime il suo movimento al bilanciere della rassegnazione e della rivolta, della frustrazione e della rabbia. Essa è anche il luogo privilegiato di una rinascita. Porta in gestazione la coscienza che è al centro della nostra epoca: assicurare la priorità di ciò che vive sull’economia di sopravvivenza.

Essa detiene la chiave dei sogni in una società senza sogno: la risoluzione di cancellare la noia sotto il rigoglio di un paesaggio in cui la volontà di essere felici bandirà le fabbriche inquinanti, l’agricoltura intensiva, le prigioni di ogni genere, i laboratori di affari sospetti, i depositi di prodotti sofisticati, e quelle cattedre di verità politiche, burocratiche, ecclesiastiche che chiamano lo spirito a meccanizzare il corpo e lo condannano a claudicare nell’inumano.

Stimolato dalle speranze della Rivoluzione, Saint-Just scriveva: «La felicità è un’idea nuova in Europa». Ci sono voluti due secoli perché l’idea, cedendo al desiderio, esigesse la sua realizzazione individuale e collettiva.

Ormai, ogni bambino, ogni adolescente, ogni adulto si trova all’incrocio di una scelta: sfinirsi in un mondo sfinito dalla logica della redditività ad ogni costo, o creare la propria vita creando un ambiente che ne assicuri la pienezza e l’armonia. Perché l’esistenza quotidiana non può essere confusa più a lungo con questa sopravvivenza adattativa a cui l’hanno ridotta gli uomini che producono la merce e dalla quale sono prodotti.

Noi non vogliamo più una scuola in cui si impara a sopravvivere disimparando a vivere. La maggior parte degli uomini non sono stati altro che animali spiritualizzati, capaci di promuovere una tecnologia al servizio dei loro interessi predatori ma incapaci di affinare umanamente la vita e raggiungere così la propria specificità di uomo, di donna, di fanciullo. Al termine di una corsa frenetica verso il profitto, i topi in tuta e in giacca e cravatta scoprono che non resta più che una misera porzione del formaggio terrestre che hanno rosicchiato da ogni lato. Dovranno progredire nel deperimento, o operare una mutazione che li renderà umani.

É tempo che il memento vivere prenda il posto del memento mori che bollava le conoscenze sotto il pretesto che niente è mai acquisito.

Ci siamo lasciati troppo a lungo persuadere che non c’era da attendere altro dalla sorte comune che la decadenza e la morte. É una visione da vegliardi prematuri, da golden boys caduti in senilità precoce perché hanno preferito il denaro all’infanzia. Che questi fantasmi di un presente coniugato al passato cessino di occultare la volontà di vivere che cerca in ciascuno di noi la via della sua sovranità!

Per spezzare l’oppressione, la miseria, lo sfruttamento, non basta più una sovversione avvelenata dai valori morti che essa combatte. É venuta l’ora di scommettere sulla passione incomprimibile di ciò che è vivo, dell’amore, della conoscenza, dell’avventura che chiunque abbia deciso di crearsi secondo la sua “linea di cuore” inaugura ad ogni istante.

La società nuova comincia dove comincia l’apprendistato di una vita onnipresente. Una vita da percepire e da comprendere nel minerale, nel vegetale, nell’animale, regni da cui l’uomo deriva e che porta in sé con tanta incoscienza e disprezzo. Ma anche una vita fondata sulla creatività, non sul lavoro; sull’autenticità, non sull’apparire; sull’esuberanza dei desideri, non sui meccanismi di rimozione e di sfogo. Una vita spogliata della paura, dell’obbligo, del senso di colpa, dello scambio, della dipendenza. Perché essa coniuga inseparabilmente la coscienza e il godimento di sé e del mondo.

Una donna che ha la sfortuna di abitare un paese incancrenito dalla barbarie e dall’oscurantismo scriveva: «In Algeria si insegna al bambino a lavare un morto, io voglio insegnargli i gesti dell’amore». Senza scadere in tanta morbosità, il nostro insegnamento, sotto la sua apparente eleganza, troppo spesso, non è stato che un abbigliamento dei morti. Si tratta ora di ritrovare fin nelle formulazioni del sapere i gesti dell’amore: la chiave della conoscenza è la chiave della libertà dove l’affetto è offerto senza riserve.

Che l’infanzia sia caduta nella trappola di una scuola che ha ucciso il meraviglioso invece di esaltarlo indica abbastanza in quale urgenza si trovi l’insegnamento, se non vuole cadere in seguito nella barbarie della noia, di creare un mondo di cui sia permesso meravigliarsi.

Guardatevi tuttavia dall’attendere aiuto o panacea da qualche salvatore supremo. Sarebbe vano, sicuramente, accordare credito a un governo, a una fazione politica, accozzaglia di gente preoccupata di sostenere prima di tutto l’interesse del loro potere vacillante; e nemmeno a tribuni e maitres à penser, personaggi massmediatici che moltiplicano la loro immagine per scongiurare la nullità che riflette lo specchio della loro esistenza quotidiana. Ma sarebbe soprattutto andare contro se stessi, inginocchiarsi come un questuante, un assistito, un inferiore, mentre l’educazione deve avere per scopo l’autonomia, l’indipendenza, la creazione di sé, senza la quale non vi è vero aiuto reciproco, autentica solidarietà, collettività senza oppressione.

Una società che non ha altra risposta alla miseria che il clientelismo, la carità e l’arte di arrangiarsi è una società mafiosa. Mettere la scuola sotto il segno della competizione è incitare alla corruzione, che è la morale degli affari.

La sola assistenza degna di un essere umano è quella di cui ha bisogno per muoversi con i propri mezzi. Se la scuola non insegna a battersi per la volontà di vivere e non per la volontà di potenza, essa condannerà intere generazioni alla rassegnazione, alla servitù e alla rivolta suicida. Rovescerà in soffio di morte e di barbarie ciò che ciascuno possiede in sé di più vivo e di più umano.

Io non immagino altro progetto educativo che quello di formarsi nell’amore e nella conoscenza di ciò che è vivo. Al di fuori di una scuola della vita* dove la vita si trova e si cerca senza fine – dall’arte di amare fino alle matematiche speculative – non vi è che la noia e il peso morto di un passato totalitario.

Nota:

* Nel testo école buissonnière. Faire l’école buissonière significa marinare la scuola, ma nel contesto significa una struttura di apprendimento senza rigidità, aperta alla vita (N. d. T.).

 

Capitolo II

Farla finita con l’educazione carceraria e la castrazione del desiderio

Ancora ieri istillato fin dalla più tenera infanzia, il sentimento di colpa erigeva intorno a ciascuno la più sicura delle prigioni, quella in cui sono murati i desideri. Per interi millenni, l’idea di una natura sfruttabile e soggetta a servitù a piacere ha condannato al peccato, al rimorso, alla penitenza, alla rimozione amara e allo sfogo compulsivo la semplice inclinazione a godere di tutti i piaceri della vita.

Quale dovrebbe essere la preoccupazione essenziale dell’insegnamento? Aiutare il fanciullo nel suo approccio alla vita per fargli imparare a sapere ciò che vuole e volere ciò che sa; cioè a soddisfare i suoi desideri, non nella soddisfazione animale ma secondo gli affinamenti della coscienza umana.

Si è prodotto l’opposto. L’apprendimento si è fondato sulla repressione dei desideri. Si è rivestito il fanciullo di abiti angelici sotto i quali non ha mai smesso di fare la bestia, una bestia snaturata per di più. Come stupirsi che le scuole imitino così bene, nella loro concezione architettonica e mentale, i penitenziari dove i reprobi sono esiliati dalle gioie ordinarie dell’esistenza?

Una scuola che ostacola i desideri stimola l’aggressività

Gli antichi edifici scolastici ricordano i penitenziari. Le finestre poste in alto non permettevano allo sguardo dell’allievo che un’occhiata verso il cielo, unico spazio riservato alla felicità delle anime, se non dei corpi. Perché il corpo, immobilizzato su un banco di studio presto trasformato in banco di tortura, subiva nell’imbarazzo ordinario il suo destino terrestre.

Prevaleva allora l’opinione che per istruirsi (come per essere belli) bisognava imparare a soffrire. Entrare nell’età adulta, non era forse rinunciare ai piaceri dell’infanzia per progredire in una valle di lacrime, di decrepitezza, di morte?

I pedagoghi hanno sempre affermato che la disciplina e il mantenimento dell’ordine formavano la conditio sine qua non di tutta l’educazione. Oggi percepiamo meglio fino a che punto la loro pretesa scienza discendeva di fatto da una comunissima pratica repressiva: incoraggiare il disprezzo di sé e vessare gli “appetiti carnali” allo scopo di elevare l’uomo al settimo cielo dello spirito strappandolo alla materia terrestre.

Una volta declassato il corpo allo stato di oggetto e, nel caso specifico, di materiale scolastico, l’istruttore trovava ancor più facile far entrare nel cranio dello studente delle nozioni rispettabili e rispettose dell’autorità. Sollecitare l’intelligenza astratta e la ragione “obiettiva” contribuiva a nascondere quell’intelligenza sensibile e sensuale incastrata ai desideri, quella piccola luce del cuore che si accende quando il fanciullo, ritrovandosi solo con se stesso, si pone la domanda: tutte queste conoscenze, assestate con la forza e la minaccia, quanto mi aiuteranno a sentirmi bene nella mia pelle, a vivere più felice, a diventare ciò che sono?

I metodi educativi hanno rinunciato alle punizioni corporali all’epoca in cui lo schiaffo e il calcio nel culo hanno smesso di costituire l’essenziale di un’educazione familiare che, a detta dei torturatori, aveva sempre dato prova di sé.

Eccome!

Questo non significa tuttavia che il corpo sfugga ormai alle vessazioni, alla mortificazione, al disprezzo. I sensi non sono forse posti sotto alta sorveglianza durante le ore di studio e nello spazio che è loro riservato? L’occhio ha il dovere di incollarsi ai gesti del maestro. La bocca non si aprirà che all’invito del mentore, e guai a ciò che oserà profferire! Risposte sbagliate, proposizioni scandalose suscitano la bastonata, il rabbuffo, la presa in giro, l’umiliazione; mentre la parola pertinente o servile si attira la lode che il bilancio promozionale di fine anno si incaricherà di contabilizzare. La mano, infine, si leverà con educazione per sollecitare l’attenzione del pedante, con il rischio, fino a poco tempo fa, di farsi battere sulle dita con la regola del retto buon senso.

Ci si accorge, con la distanza del tempo, che studenti e studentesse sono stati trattati secondo i procedimenti dello scienziato staliniano Pavlov che, tra i cani del suo laboratorio, ricompensava la buona risposta con uno zuccherino e puniva l’errore con un choc elettrico. Non fu forse necessario che il disprezzo fosse la norma di un’epoca perché dei pedagoghi preconizzassero un metodo educativo che nessun essere umano degno di questo nome infliggerebbe oggi a un cane? Ed è poi così sicuro che la scuola non resti, nella vigliaccheria di un consenso generale, un luogo di ammaestramento e di condizionamento, al quale la cultura serve da pretesto e l’economia da realtà?

Come può esserci conoscenza dove c’è oppressione?

Mantenute dalla paura di muoversi in una prigione di muscoli tetanizzati, le emozioni rimosse instaurano tra l’oppressore e l’oppresso una logica di distruzione e di autodistruzione che spezza ogni forma di comunicazione illuminata.

Alle stupide pretese del maestro di regnare tirannicamente sulla classe rispondono con eguale stupidità il baccano e il chiasso che servono da sfogo alle energie represse.

Ovunque la prigione, il ghetto, la corazza caratteriale impongono la loro strategia di clausura, lo slancio della disperazione leva il pugno del devastatore. La mano dello scolaro si vendica mutilando tavoli e sedie, macchiando i muri di segni insolenti, strappando gli orpelli della bruttezza, sacralizzando un vandalismo in cui la rabbia di distruggere compensa il sentimento di essere distrutti, violentati, messi a sacco dalla trappola pedagogica quotidiana.

Le bocche si aprono in grida stizzose di protesta, gli occhi attingono nella sfida il bagliore di entusiasmo che è loro rifiutato. Così i movimenti di contestazione periodicamente risvegliati dalle direttive di istanze burocratiche e governative scadono – per assenza di creatività – nello stesso grigiore e nella stessa stupidità del potere inconsistente che li ha provocati. Che ci si può aspettare da manifestazioni gregarie in cui l’intelligenza degli individui, in mancanza di un progetto di cambiamento radicale, si riduce, secondo il comun denominatore delle folle, al più basso livello di comprensione?

Per evitare l’esplosione dei desideri rimossi alla rinfusa, le autorità hanno saputo approntare sacche di decompressione e di trasgressioni controllate. Il lassismo non è il soffio della libertà, è il fiato della tirannia.

Il cortile di ricreazione previsto in prigioni, caserme e scuole permette all’energia libidica compressa dai rigori della disciplina di sfogarsi a piacimento. Esso conserva la separazione fra la testa – il “capo” – e il resto del corpo, che per principio le è sottomesso, ma rovescia l’ordine gerarchico stabilito durante il tempo dello studio. L’ultimo vi diviene il primo: il cattivo scolaro e il bruto muscoloso diventano i leader e la fanno pagare al primo della classe. Nulla è cambiato se non che le pulsioni della vita oppressa si sfogano in pulsioni di morte.

Una volta chiusa la parentesi del disordine tollerato, lo spirito riprende i suoi diritti, con la missione di regnare sul caos. Quelli che il potere professorale ha aureolato della santità del sapere riprendono il loro posto in testa al plotone. La loro intellettualità rigetta nelle tenebre la bestia che si aggira nel profondo dell’essere, mentre la loro superiorità si afferma sull’orda degli indisciplinati, degli svagati, degli ultimi della classe, chiamati bestioni, secondo un insulto che meriterebbe di essere analizzato più a fondo (quando si prenderà coscienza che rinnegare l’animalità delle pulsioni invece di affinarle non conduce all’umanità ma ad una bestialità dal volto umano).

Esiste evidentemente un ritmo naturale dello sforzo e del riposo, della concentrazione e del rilassamento, ma l’organizzazione sociale del lavoro ha sostituito alla semplice alternanza di contrazione e decontrazione il meccanismo psicologico di rimozione e sfogo. Il comportamento ordinario dello sfruttatore che accorda agli sfruttati un periodo di ricreazione per rinviarli ben disposti alla fabbrica e all’ufficio si è espresso perfettamente nell’affermazione del generale de Gaulle irritato dalla rivoluzione del 1968: «È ora di fischiare la fine dell’ora di ricreazione».

Imparare senza desiderio vuol dire disimparare a desiderare

Il disprezzo di sé e degli altri è inerente al lavoro di sfruttamento della natura terrestre e della natura umana. Ecco perché pochi pensano ad indignarsi del fatto che sia moneta corrente negli scambi tra professori e allievi. Sarebbe illusorio credere che una pratica talmente intollerabile possa cessare per effetto di una scelta etica, di una volontà di cortesia, di qualche formula del tipo «le sarei grato di non parlarmi su questo tono». Ciò che è in gioco è una rifondazione radicale della società e di un insegnamento che non ha ancora scoperto che ogni bambino, ogni adolescente possiede allo stato bruto l’unica ricchezza dell’uomo, la sua creatività.

Come si può eccitare la curiosità in esseri tormentati dall’angoscia della colpa e la paura delle sensazioni? Certo esistono professori sufficientemente entusiasti da appassionare il loro uditorio e far dimenticare per un istante le condizioni detestabili che degradano il loro mestiere. Ma quanti, e per quanti anni?

Mettete da una parte i burocrati che terrorizzano la loro classe e ne sono a loro volta terrorizzati, e dall’altra gli artisti, saltimbanchi e funamboli del sapere, capaci di conquistare l’attenzione senza doversi mai trasformare in guarda-ciurme o in caporali.

Non si tratta qui di giudicare, né di entrare nella pratica imbecille del merito e del demerito, vituperando i primi e lodando i secondi. No, ciò che importa è far di tutto perché l’insegnamento mantenga sveglia quella curiosità naturale e così piena di vita che permise a Sheherazade il privilegio di tenere in scacco la morte di cui la minacciava un tiranno.

L’aberrazione del mondo a rovescio ha pesato per secoli sull’educazione del fanciullo.

Cha tanti sforzi e fatica siano richiesti da parte del maestro e dell’allievo per ravvivare un’avidità di sapere così freneticamente espressa nella primissima infanzia dice abbastanza chiaramente che un’evoluzione è stata brutalmente interrotta. La curiosità è stata veramente soffocata in un periodo in cui essa partecipava dello sviluppo ludico dell’infanzia, quando era divertente eppure gettava le basi di una gaia scienza, incompatibile con la visione austera degli adulti, per i quali la scienza si veste della serietà degli affari e deve propagarsi tramite verità secche, noiose, astratte.

Ricordatevi delle mille domande che il bambino pone su se stesso e sul mondo che scopre con uno stupore senza fine. Perché piove? Perché il mare è blu? Perché mio fratello mi prende i giocattoli? Le risposte ricevute erano nella maggior parte dei casi solo frasi evasive e sgarbate. Finché stanco di un procedimento di cui gli veniva fatta sentire la sconvenienza, si lasciava penetrare dall’impressione di non essere né degno né capace di capire. Come se ogni tappa dello sviluppo psicologico non avesse il suo modo di comprensione adeguato.

Quando, finalmente disgustato da tante domande giudicate senza interesse, entra nel ciclo degli studi, gli si danno risposte di cui ha perduto il desiderio. Ciò che con passione aveva voluto conoscere qualche anno prima, è costretto a studiare per forza e sbadigliando di noia.

La differenza tra sensazioni di felicità e di infelicità aveva fatto nascere in lui quella coscienza sperimentale che permetteva di migliorare le prime ed evitare le altre. Sostenuta da una pedagogia parentale piena di attenzione, di sollecitudine e di affetto, una tale motivazione psicologica l’avrebbe spinto a desiderare senza fine, a volerne sapere di più, ad affrontare il mondo con una curiosità senza limiti. Per la semplice ragione che le conoscenze obbedivano allora alla più naturale delle pulsioni: rendersi felici.

Se l’insegnamento è ricevuto con reticenza, e perfino con ripugnanza, vuol dire che il sapere filtrato dai programmi scolastici porta il segno di un’antica ferita: è stato castrato della sua sensualità originaria.

La conoscenza del mondo senza la coscienza dei desideri di vita è una conoscenza morta. Essa non ha utilità che al servizio dei meccanismi che trasformano la società secondo le necessità dell’economia. I lenimenti che essa procura alla sorte degli uomini, non li cede che a malincuore, e sotto la minaccia di un rigore futuro che ne cancellerà gli effetti.

Dopo aver strappato lo scolaro alle sue pulsioni di vita, il sistema educativo si industria per ingozzarlo artificialmente allo scopo di immetterlo sul mercato del lavoro, dove continuerà a ripetere stentatamente il lietmotiv dei suoi anni giovanili fino al disgusto: vinca il migliore!

Vincere che cosa? Più intelligenza sensibile, più affetto, più serenità, più lucidità su se stesso e sul mondo, maggiori mezzi di agire sulla propria esistenza, più creatività? Niente affatto, più denaro e più potere, in un universo che ha usato il denaro e il potere a forza di essere usato da loro.

Errore non vuol dire colpa

Il sistema educativo non si è accontentato di murare i desideri d’infanzia nella corazza caratteriale dove i muscoli tetanizzati, il cuore indurito e lo spirito impregnato dall’angoscia non favoriscono davvero l’esuberanza e la realizzazione. Non si è limitato a collocare lo scolaro in edifici senza gioia, destinati a ricordargli, nel caso se ne dimenticasse, che non è lì per divertirsi. Ha anche sospeso sulla sua testa la spada di Damocle, al contempo ridicola e minacciosa, di un verdetto.

Ogni giorno l’allievo penetra, che lo voglia o no, in un pretorio dove compare davanti ai suoi giudici sotto l’accusa di presunta ignoranza. Sta a lui dimostrare la sua innocenza rigurgitando a richiesta teoremi, regole, date, definizioni che contribuiranno al suo rilascio alla fine dell’anno scolastico.

L’espressione “mettere in esame”, cioè procedere, in materia criminale, all’interrogatorio di un sospetto e all’esposizione delle accuse, rievoca la connotazione giudiziaria che rivestono la prova scritta e orale inflitte agli studenti.

Nessuno intende qui negare l’utilità di controllare l’assimilazione delle conoscenze, il grado di comprensione, l’abilità sperimentale. Ma è necessario per questo travestire in giudice e in colpevole un maestro e un allievo che chiedono soltanto di istruire ed essere istruito? Di quale spirito dispotico e desueto si investono i pedagoghi per erigersi a tribunale e tranciare nel vivo col rasoio del merito e del demerito, dell’onore e del disonore, della salvezza e della dannazione? A quali nevrosi e ossessioni personali obbediscono per osar segnare con la paura e la minaccia di un giudizio sospensivo il cammino di fanciulli e adolescenti che hanno soltanto bisogno di attenzione, di pazienza, di incoraggiamenti e di quell’affetto che conosce il segreto di ottenere molto esigendo poco?

Non sarà che il sistema educativo persiste a fondarsi su un principio ignobile, frutto di una società che non concepisce il piacere se non al vaglio di una relazione sadomasochista tra maestro e schiavo: “Chi più ama più punisce”?

È un effetto della volontà di potenza, non della volontà di vivere, il pretendere di determinare con un giudizio la sorte altrui.

Giudicare impedisce di comprendere per correggere. Il comportamento di questi giudici, allontana dall’allievo impegnato nella sua lunga marcia verso l’autonomia delle qualità indispensabili: l’ostinazione, il senso dello sforzo, la sensibilità all’erta, l’intelligenza aperta, la memoria sempre in esercizio, la percezione della vita sotto tutte le sue forme e la presa di coscienza dei progressi, dei ritardi, delle regressioni, degli errori e della loro correzione.

Aiutare un fanciullo, un adolescente a rinsaldare la maggiore autonomia possibile implica senza alcun dubbio una lucidità costante sul grado di sviluppo delle capacità e sull’orientamento che le favorirà. Ma che cosa c’è di comune tra il controllo al quale l’allievo si sottometterebbe, una volta pronto a superare una tappa della conoscenza, e la messa in esame davanti ad un tribunale professorale? Lasciate dunque il senso di colpa agli spiriti religiosi che non si occupano che di tormentarsi tormentando gli altri.

Le religioni hanno bisogno della miseria per perpetuarsi, esse la mantengono per dare maggior risalto ai loro atti di carità. Ebbene, il sistema educativo agisce forse diversamente quando presuppone nell’allievo una debolezza costitutiva, sempre esposta al peccato di pigrizia e di ignoranza, da cui può assolverlo solo la missione per così dire sacra del professore? È ora di finirla con queste frottole del passato!

Ognuno possiede la sua propria creatività. E non tollera più che venga soffocata trattando come un crimine passibile di punizione il rischio di sbagliarsi. Non ci sono colpe, ci sono solo errori, e gli errori si correggono.

Solo coloro che posseggono la chiave dei campi e la chiave dei sogni apriranno la scuola su una società aperta

La prospettiva di una redditività a tutti i costi è la cortina di ferro di un mondo chiuso dall’economia. La prospettiva di vita si apre su un mondo dove tutto è da esplorare e da creare. L’istituzione scolastica, invece, appartiene al mondo degli affari che la vorrebbe gestire cinicamente, senza l’ingombro del vecchio formalismo umanitario. Resta da sapere se allievi e professori si lasceranno ridurre alla funzione di meccanismi lucrativi, o se, non aspettandosi niente di buono dalla gestione, alla quale li si invita, di un universo in rovina, scommetteranno sull’ipotesi di imparare a vivere anziché a economizzarsi. Tutto si gioca su un cambiamento di mentalità, di visione, di prospettiva.

Infilzare una farfalla su uno spillo non è la miglior maniera di fare la sua conoscenza. Chi trasforma ciò che è vivo in cosa morta, qualunque ne sia il pretesto, dimostra soltanto che il suo sapere non gli è neppure servito a diventare umano.

Esiste, in compenso, un approccio che svela l’irraggiamento della vita in seno a un cristallo, in una poesia, un’equazione, una formula chimica, una pianta, un manufatto. Questo approccio stabilisce tra osservatore e osservato un rapporto di osmosi in cui tutto è distinto senza che niente sia separato.

La coscienza di una presenza viva nel soggetto e nell’oggetto non è di natura tale da manifestare quanto vi è di maestro nell’allievo e di allievo nel maestro? Dove manca l’intelligenza della vita ci sono soltanto rapporti tra bruti. Ciò che non si sprigiona da quanto vi è in noi di più vivo per farvi ritorno devia verso la morte, per la gloria più grande degli eserciti e delle tecnologie di profitto. È il motivo per cui la maggior parte delle scuole sono dei campi di battaglia, dove il disprezzo, l’odio e la violenza devastatrice definiscono il fallimento di un sistema educativo che obbliga l’insegnante al dispotismo e l’allievo al servilismo.

Questa rassegnazione nella clausura spacciata per studio in cui l’allievo è invitato a sacrificarsi e a sbattere sulla sua felicità la porta della rinuncia! E come istruirà i fanciulli che ha davanti a sé l’educatore che non è nemmeno più capace di ritornare bambino rinascendo ogni giorno a se stesso? Colui che porta nel suo cuore il cadavere della propria infanzia non educherà mai nient’altro che delle anime morte.

Impartire la conoscenza è risvegliare la speranza di un mondo meraviglioso che la gioventù ha nutrito e di cui l’uomo non cessa di nutrirsi. Bisogna ancora, allo stesso tempo, spezzare la maledizione dei pregiudizi e non curarsi di quei contabili del potere e del profitto che hanno escluso così bene dalla loro realtà il meraviglioso che l’impazienza infantile relega nel regno delle fate e l’impotenza dei vecchi nella palude dell’utopia.

Il corpo umano, il comportamento animale, il fiore, la speculazione filosofica, la coltura del grano, l’acqua, la pietra, il fuoco, l’elettricità, la lavorazione del legno, l’equitazione, la fisica quantica, l’astronomia, la musica, un improvviso momento privilegiato nella vita quotidiana, tutto nasce dal meraviglioso, non per mistica contemplativa, ma perché la scelta di una preminenza di ciò che è vivo cessa di piegarsi agli imperativi tradizionali dello sfruttamento lucrativo.

Quando la foresta è il polmone della terra e non il prezzo di un certo numero di are o uno spazio da devastare per interesse immobiliare, allora si manifesta il senso umano di una natura che offre le sue risorse energetiche a chi l’affronta senza violentarla.

L’apprendimento della vita è una passeggiata nell’universo del dono. Un andar per funghi per così dire, dove la guida insegna a distinguere i funghi commestibili dagli altri, inadatti al consumo, se non mortali, ma dai quali un trattamento appropriato può trarre virtù curative.

Invece di una trincea dove langue tristemente una manodopera di riserva, perché non fate della scuola un parco di attrazioni del sapere, un luogo aperto in cui i creatori verrebbero a parlare del loro mestiere, della loro passione, della loro esperienza, di ciò che gli sta a cuore?

Un liutaio, un ortolano, un ebanista, un pittore, un biologo hanno certamente da insegnare più o meglio di quegli uomini d’affari che vengono a sostenere l’adattamento alle leggi aleatorie del mercato.

Che l’apertura sul mondo culturale sia anche l’apertura sulla diversità delle età! Perché riservare ai giovani il diritto all’istruzione, escludendo gli adulti interessati ad iniziarsi alla letteratura o alla matematica? Non avremmo tutti da guadagnare da un contatto che rompesse l’opposizione fittizia tra le classi di età?

Ma non esiste né ricetta né panacea. Appartiene solo alla volontà di vivere di ciascuno di aprire ciò che è stato chiuso dalla violenza del totalitarismo economico. In questo l’immaginazione dimostrerà la sua potenza.

Non passa anno che dozzine di maestri e professori inventivi non suggeriscano metodi di insegnamento fondati su un nuovo accordo degli esseri e delle cose. Voi che vi lamentate del numero di burocrati che usurpano il nome di insegnante, e che gettano sul pianeta il freddo sguardo delle cifre a forza di limitare il loro interesse alla busta paga, quando mai avete rivendicato che fossero portate più avanti le idee di Freinet e di qualche altro dal sapere generoso? Quando mai avete opposto ai distillatori di noia che vi governano dei progetti di educazione ludica e vivente? Avete mai cercato di sostituire al rapporto gerarchico tra maestro e allievo un rapporto fondato non più sull’obbedienza, ma sull’esercizio della creatività individuale e collettiva?

Quando degli uomini politici di una costernante mediocrità vi invitano a sottoporre loro le vostre rivendicazioni, non hanno forse la soddisfazione di scoprirvi miserabili quanto loro, se non finanziariamente, almeno per intelligenza e immaginazione? Non abbiate dubbio che al prezzo scontato a cui vi svendete, vi concedano senza indugiare il diritto di deriderli in grandi manifestazioni catartiche.

La peggior rassegnazione è quella che veste gli abiti della rivolta. Nutrite per voi stessi così poca stima da non prendere il tempo di riconoscere i vostri desideri di vita, da non sapere quale esistenza volete condurre? Non concepite dunque altra scelta che l’alternativa che vi è ufficialmente proposta tra la povertà del ricco e la miseria del povero?

Il desolante avvenire di una vita passata a racimolare il denaro del mese deve sembrarvi luminoso solo perché l’ombra della disoccupazione cresce ovunque regni il sole mediatico del pieno impiego? Nulla uccide con più sicurezza che accontentarsi di sopravvivere.

 

Capitolo III

Smilitarizzare l’insegnamento

Lo spirito da caserma ha regnato sovrano nelle scuole. Vi si marciava al passo, ubbidendo agli ordini dei sorveglianti ai quali non mancavano che l’uniforme e i galloni. La configurazione dell’edificio obbediva alla legge dell’angolo retto e della struttura rettilinea. Così l’architettura si impegnava a sorvegliare le trasgressioni con la rettitudine di un’austerità spartana.

Fin negli anni sessanta, l’istituzione educativa rimase impastata delle virtù guerriere che prescrivevano di andare a morire alle frontiere piuttosto che dedicarsi ai piaceri dell’amore e della felicità. Una tale ingiunzione cadrebbe oggi nel ridicolo ma, a dispetto della mutazione cominciata nel maggio ’68 e del discredito nel quale è caduto l’esercito di un’Europa senza conflitti (ad eccezione di qualche guerra locale in cui disdegna di intervenire), sarebbe eccessivo pretendere che sia caduta in desuetudine la tradizione dell’ingiunzione vociferata, dell’insulto abbaiato, dell’ordine senza replica e dell’insubordinazione che ne è la risposta appropriata.

L’autorità quasi assoluta di cui è investito il maestro serve piuttosto all’espressione di comportamenti nevrotici che alla diffusione di un sapere. La legge del più forte non ha mai fatto dell’intelligenza altro che una delle armi della stupidità. Molti arricciano il naso, sicuramente, per il fatto di non avere che il diritto di tacere. Ma finché una comunità di interessi non situerà al centro del sapere le inclinazioni, i dubbi, i tormenti, i problemi che ciascuno risente giorno dopo giorno – cioè quel che forma la parte più importante della sua vita -, non vi sarà che l’obitorio e il disprezzo per trasmettere dei messaggi il cui senso non ci riguarda veramente in quanto esseri di desiderio.

Ciò che si insegna attraverso la paura rende il sapere timoroso

L’autorità legalmente accordata all’insegnante dà un gusto così amaro alla conoscenza che l’ignoranza arriva a drappeggiarsi degli allori della rivolta. Chi dispensa il suo sapere per piacere non sa che farsene di imporlo, ma l’irreggimentazione educativa è tale che bisogna istruire per dovere, non per piacere.

Provate un po’ a sostenere una mutua comprensione tra un professore che entra nella classe come in una gabbia di fiere e degli studenti abituati a schivare la frusta e pronti a divorare il domatore! Mentre, in Europa occidentale, l’autocratismo è ovunque attaccato, la scuola resta dominata dalla tirannia. Si fa a chi abbaia più forte in un’arena in cui le frustrazioni si sbranano.

Niente è più ignobile della paura, che abbassa l’uomo alla bestia braccata, ed io non concepisco che la si possa tollerare né da parte dell’allievo né da quella del professore. Nulla progredisce attraverso il terrore se non il terrore stesso. Quand’anche le direttive pedagogiche si sfiancassero a privilegiare il principio che mi sembra la condizione di un vero apprendimento della vita: togliere la paura e dare la sicurezza, bisognerebbe, per applicarlo, fare della scuola un luogo in cui non regnano né autorità né sottomissione, né forti né deboli, né primi né ultimi. Finché non formerete una comunità di allievi e di insegnanti appassionati a perfezionare ciò che ciascuno ha di creativo in sé, avrete un bell’indignarvi della barbarie sotto ogni forma, del fanatismo religioso, del settarismo politico, dell’ipocrisia e della corruzione dei governanti, non scaccerete né gli integralismi, né le mafie della droga e degli affari, perché vi è nell’organizzazione gerarchizzata dell’insegnamento un fermento sornione che predispone al loro dominio.

Ora che le ideologie di sinistra e di destra si sciolgono al sole della loro comune menzogna, l’unico criterio di intelligenza e di azione risiede nella vita quotidiana di ciascuno e nella scelta alla quale ogni istante lo confronta, tra ciò che afferma la propria vita e ciò che la distrugge. Se tante idee generose sono diventate il loro contrario, è perché il comportamento che militava in loro favore ne era la negazione. Un progetto di autonomia e di emancipazione non può fondarsi, senza vacillare, sulla volontà di potenza che continua ad imprimere nei gesti il segno del disprezzo, della servitù, della morte.

Non intravvedo altro modo di finirla con la paura e la menzogna che ne consegue se non in una volontà ravvivata incessantemente di godere di sé e del mondo. Imparare a sgarbugliare ciò che ci rende più vivi da ciò che ci uccide è la prima delle lucidità, quella che dà il suo senso alla conoscenza.

Le tecniche più elaborate mettono a nostra disposizione una notevole quantità di informazioni. Tali progressi non sono da sottovalutare ma resteranno lettera morta se un rapporto privilegiato tra educatori e piccoli gruppi di scolari non innesterà la rete delle conoscenze astratte sul solo “terminale” che ci interessa: quello che ciascuno vuole fare della sua vita e del suo destino.

Liberare dalla costrizione il desiderio di sapere

Lo sfruttamento violento della natura ha sostituito la costrizione al desiderio; esso ha propagato ovunque la maledizione del lavoro manuale e intellettuale, e ridotto ad un’attività marginale la vera ricchezza dell’uomo: la capacità di ricrearsi ricreando il mondo.

Producendo un’economia che li economizza fino a farne l’ombra di se stessi, gli uomini non hanno fatto altro che ostacolare la loro evoluzione. È per questo che l’umanità resta da inventare.

La scuola porta il marchio visibile di una frattura nel progetto umano. Vi si percepisce sempre di più come e in quale momento la creatività del bambino vi è fatta a pezzi sotto il martellamento del lavoro. La vecchia litania familiare: “Prima lavora, ti divertirai in seguito” ha sempre espresso l’assurdità di una società che ingiungeva di rinunciare a vivere per meglio consacrarsi a una fatica che distruggeva la vita e non lasciava ai piaceri che i colori della morte.

Ci vuole tutta la stupidità dei pedagoghi specializzati per stupirsi che tanti sforzi e fatiche inflitti agli scolari portino a risultati così mediocri. Che cosa aspettarsi quando il cuore è assente? Charles Fourier, nel corso di un’insurrezione, osservando con quale cura e quale ardore gli agitatori disselciavano i sanpietrini di una strada e alzavano una barricata in qualche ora, notava che per la stessa opera ci sarebbero voluti tre giorni di lavoro ad una squadra di sterratori agli ordini di un padrone. I salariati non avrebbero trovato altro interesse nella faccenda che la paga, mentre la passione della libertà animava gli insorti. Solo il piacere di essere sé e di appartenersi darebbe al sapere quell’attrazione passionale che giustifica lo sforzo senza ricorrere alla costrizione.

Perché diventare ciò che si è esige la più intransigente delle risoluzioni. Ci vuole costanza e ostinazione. Se non vogliamo rassegnarci a consumare delle conoscenze che ci ridurranno al miserabile stato di consumatori, non possiamo ignorare che, per uscire dall’imbroglio in cui si è impantanata la società del passato, dovremo prendere l’iniziativa di una spinta nel senso opposto. Ma come? Vi si vede pronti a battervi e a schiacciare gli altri per ottenere un impiego ed esitereste ad investire le vostre energie in una vita che sarà tutto l’impiego che farete di voi stessi?

Noi non vogliamo essere i migliori, noi vogliamo che il meglio della vita ci appartenga, secondo quel principio di inaccessibile perfezione che abolisce l’insoddisfazione in nome dell’insaziabilità.

 

Capitolo IV

Fare della scuola un centro di creazione di vita, non l’anticamera di una società parassitaria e mercantile

Nel dicembre 1991 la Commissione europea ha pubblicato un memorandum sull’insegnamento superiore. Vi si raccomandava alle università di comportarsi come imprese sottoposte alle regole concorrenziali del mercato. Lo stesso documento auspicava che gli studenti fossero trattati come dei clienti, incitati non ad apprendere ma a consumare.

I corsi diventavano così dei prodotti, i termini “studenti”, “studi”, lasciavano il posto ad espressioni più appropriate al nuovo orientamento: “capitale umano”, “mercato del lavoro”.

Nel settembre 1993 la stessa Commissione recidiva con un Libro verde sulla dimensione europea dell’educazione. Vi si precisa che, sin dalla scuola materna, bisogna formare delle «risorse umane per i bisogni esclusivi dell’industria» e favorire «una maggiore adattabilità di comportamento in maniera da rispondere alla domanda del mercato della manodopera».

Ecco come lo zoom insudiciato del presente proietta come futuro radioso la forza esaurita del passato!

Una volta eliminato quel che sussisteva di mediocremente redditizio nella scuola di ieri – il latino, il greco, Shakespeare e compagnia -, gli studenti avranno finalmente il privilegio di accedere ai gesti che salvano: equilibrare la bilancia dei mercati producendo dell’inutile e consumando della merda.

L’operazione è sulla buona strada perché per quanto si dicano diversi, i governi aderiscono all’unanimità al principio: «L’impresa deve essere impostata sulla formazione e la formazione sui bisogni dell’impresa».

Delle nuove leve per gestire il fallimento

Non è inutile precisare, per aiutare alla comprensione della nostra epoca, attraverso quale processo lo sviluppo del capitalismo sia sfociato in una crisi planetaria che è la crisi dell’economia nel suo funzionamento totalitario.

Ciò che ha dominato, dall’inizio del XIX secolo, l’insieme dei comportamenti individuali e collettivi, è stata la necessità di produrre. Organizzare la produzione tramite il lavoro intellettuale e il lavoro manuale esigeva un metodo direttivo, una mentalità autoritaria, se non dispotica. Erano i tempi della conquista militare dei mercati. I paesi industrializzati depredavano senza scrupoli le risorse delle nuove colonie.

Quando il proletariato iniziò a coordinare le sue rivendicazioni, subì, a dispetto della sua spontaneità libertaria, l’influenza autocratica che la preminenza del settore produttivo esercitava sui costumi. Sindacati e partiti operai si danno una struttura burocratica che avrebbe finito per ostacolare le masse laboriose con il pretesto di emanciparle.

Il potere rosso si stabilisce tanto più facilmente perché riesce a strappare alla classe sfruttatrice porzioni dei benefici, tradotte in aumenti salariali, miglioramenti del tempo lavorativo (la giornata di otto ore, le ferie pagate), vantaggi sociali (sussidio di disoccupazione, mutua).

Gli anni ‘20 e ‘30 spingono al suo stadio supremo la centralizzazione della produzione. Il passaggio dal capitalismo privato al capitalismo di Stato avviene brutalmente in Italia, in Germania, in Russia, dove la dittatura di un partito unico – fascista, nazista, stalinista – impone la statalizzazione dei mezzi di produzione.

Nei paesi in cui la tradizione liberale ha salvaguardato una democrazia formale, la concentrazione monopolistica che attribuisce allo Stato una vocazione padronale si compie in modo più lento, sornione, meno violento.

È negli Stati Uniti che si manifesta per la prima volta un nuovo orientamento economico, votato ad uno sviluppo che trasformerà sensibilmente le mentalità e i costumi: l’incitamento al consumo infatti diventa più forte della necessità di produrre.

A partire dal 1945 il piano Marshall, destinato ufficialmente ad aiutare l’Europa devastata dalla guerra, apre la via alla società dei consumi, identificata ad una società del benessere.

L’obbligo di produrre a qualunque prezzo cede il posto ad un’impresa addobbata con gli ornamenti della seduzione, sotto la quale si nasconde nei fatti un nuovo imperativo prioritario: consumare. Consumare qualunque cosa, ma consumare.

Si assiste allora ad un’evoluzione sorprendente: un edonismo da supermercato e una democrazia da self-service, propagando l’illusione dei piaceri e della libera scelta riescono a minare – in modo più sicuro di quanto lo avrebbero sperato gli anarchici del passato – i sacrosanti valori patriarcali, autoritari, militari e religiosi che un’economia dominata dagli imperativi della produzione aveva privilegiato.

Si misura meglio oggi quanto la colonizzazione delle masse lavoratrici, attraverso l’incitamento pressante a consumare una felicità secondo i propri gusti, abbia rallentato la stretta dell’economia sulle colonie d’oltremare e abbia favorito il successo delle lotte di decolonizzazione.

Se la libertà degli scambi e la loro indispensabile espansione hanno contribuito alla fine della maggior parte dei regimi dittatoriali e al crollo della cittadella comunista, hanno svelato assai rapidamente i limiti del benessere consumabile.

Frustrati da una felicità che non coincideva propriamente con l’inflazione di gadgets inutili e di prodotti adulterati, a partire dal 1968, i consumatori hanno preso coscienza della nuova alienazione di cui erano fatti oggetto. Lavorare per un salario che si investe nell’acquisto di merci di un valore d’uso aleatorio, suggerisce meno lo stato di beatitudine che l’impressione spiacevole di essere manipolati secondo le esigenze del mercato. Coloro che subivano l’officina e l’ufficio durante la giornata ne uscivano solo per entrare nelle fabbriche meno coercitive ma più menzognere del consumabile.

I falsi bisogni prevalendo su quelli veri, questo “gadget qualunque” che bisognava comprare ha finito per generare a sua volta una produzione sempre più aberrante di servizi parassitari, orditi intorno al cittadino con il compito di rassicurarlo, inquadrarlo, consigliarlo, sostenerlo, guidarlo, in breve di inglobarlo in una sollecitudine che lo assimila a poco a poco a un handicappato.

Si sono visti così i settori prioritari sacrificati a vantaggio del settore terziario, che vende la propria complessità burocratica sotto forma di aiuti e protezioni. L’agricoltura di qualità è stata schiacciata dalle lobbies dell’agroalimentare che producono in eccesso surrogati di cereali, carni e verdure. L’arte di abitare è stata sepolta sotto il grigiore, la noia e la criminalità del cemento che assicura le entrare dei gruppi di affari.

Per quanto riguarda la scuola, essa è chiamata a servire da riserva per gli studenti d’élite ai quali è promessa una bella carriera nell’inutilità lucrativa e nelle mafie finanziarie. Il circolo è chiuso: studiare per trovare un impiego, per quanto aberrante sia, si è riallacciato con l’ingiunzione di consumare nel solo interesse di una macchina economica che si blocca da tutte le parti in Occidente – anche se gli specialisti ci annunciano ogni anno la sua trionfale ripresa.

Ci impantaniamo nelle paludi di una burocrazia parassitaria e mafiosa in cui il denaro si accumula e circola in circuito chiuso anziché investirsi nella fabbricazione di prodotti di qualità, utili al miglioramento della vita e del suo ambiente. Il denaro è ciò che manca di meno, contrariamente a quello che vi rispondono i vostri deputati, ma l’insegnamento non è un settore redditizio.

Esiste tuttavia un’alternativa all’economia di deperimento e al suo impossibile rilancio. Allontanandosi dal fossato che si scava sempre di più tra gli interessi della merce e l’interesse di ciò che vive, l’alternativa propone di riconvertire al servizio dell’umano una tecnologia che l’imperialismo lucrativo ha disumanizzato, fino a farne – nel caso della fissione nucleare e della sperimentazione genetica – delle temibili nocività. Essa esige di accordare la priorità alla qualità della vita e a quelle attività di base che l’assurdità del capitalismo arcaico condanna precisamente a cadere a pezzi sotto i colpi di continue restrizioni di bilancio: l’abitazione, l’alimentazione, i trasporti, l’abbigliamento, la salute, l’educazione e la cultura.

Una mutazione si mette in moto sotto i nostri occhi. Il neocapitalismo si prepara a ricostruire con profitto ciò che il vecchio ha rovinato. A dispetto delle resistenze del passato, le energie naturali finiranno per sostituirsi ai mezzi di produzione inquinanti e devastanti.

Come la rivoluzione industriale ha suscitato, dall’inizio del XIX secolo, un numero considerevole di inventori e di innovazioni – elettricità, gas, macchina a vapore, telecomunicazioni, trasporti rapidi -, così la nostra epoca esprime una domanda di nuove creazioni che prenderanno il posto di ciò che oggi serve la vita solo minacciandola: il petrolio, il nucleare, l’industria farmaceutica, la chimica inquinante, la biologia sperimentale… e la pletora di servizi parassitari dove prolifera la burocrazia.

La fine del lavoro forzato inaugura l’era della creatività

Il lavoro è una creazione abortita. Il genio creatore dell’uomo si è trovato preso in trappola in un sistema che l’ha condannato a produrre potere e profitto, non lasciando altro sfogo al suo rigoglio che l’arte e il sogno.

Ora, questo lavoro di sfruttamento della natura, così spesso esaltato come la potenza prometeica che trasforma il mondo, ci consegna oggi il suo bilancio definitivo: una sopravvivenza confortevole le cui risorse ed il cui cuore si consumano nel circolo vizioso del profitto.

Come potrebbe un lavoro così inutile e così nocivo alla vita non esaurirsi a sua volta? Ieri procurava l’automobile e la televisione, al prezzo dell’aria inquinata e dei palliativi di una vita assente. Oggi resta solo un salvagente aleatorio di una società paralizzata dall’inflazione burocratica, dove niente è più garantito, né il salario, né la casa, né i prodotti naturali, né le risorse energetiche, né le conquiste sociali.

In un’atmosfera resa oppressiva dalla rarefazione degli affari, la diminuzione del lavoro è evidentemente sentita come una maledizione. La disoccupazione è un lavoro svuotato. Una stessa rassegnazione vi fa attendere un’elemosina come il lavoratore attende il suo salario dedicandosi ad un’occupazione che lo annoia (anche se ormai giudica imprudente confessarlo).

Mentre tutto va alla malora sul filo di una disperazione ispirata dall’autodistruzione planetaria economicamente programmata, un mondo è là, lasciato all’abbandono, un mondo che bisogna restaurare, spogliare delle sue nocività e ricostruire per il nostro benessere, come se, spezzandosi, lo specchio delle illusioni consumistiche avesse messo la felicità alla nostra portata, dopo averne mostrato il falso riflesso.

Diminuire il tempo di lavoro per meglio distribuirlo? Sia pure. Ma in quale prospettiva e con quale coscienza? Se l’obbiettivo dell’operazione è, per i più, aumentare la produzione di beni e di servizi utili al mercato e non alla vita, in cambio di un salario che ne pagherà il consumo crescente, allora il vecchio capitalismo non avrà fatto altro che recuperare a suo profitto ciò che finge di abbandonare al profitto di tutti.

Al contrario, se la stessa pratica ubbidisce alle sollecitazioni di un neocapitalismo che cerca nell’investimento ecologico un’arma contro l’immobilismo di un padronato senza immaginazione, mancherà soltanto una presa di coscienza perché il salario garantito e il tempo di lavoro ridotto aprano a ciascuno il campo di una libera creazione e la libertà di ritrovarsi ed essere infine se stessi.

Perché, a dispetto dell’occultazione che intrattengono intorno ad essa le burocrazie della corruzione e le mafie affariste, esiste una domanda economico-sociale che va controcorrente rispetto alle grida di soccorso del disastro ordinario. Essa reclama un ambiente che migliori la qualità della vita, una produzione senza oppressione né inquinamento, dei rapporti autenticamente umani, la fine della dittatura che la redditività esercita sulla vita. Sta a voi – e alla nuova scuola che inventerete – impedire che la creatività, obiettivamente stimolata dalla promessa di impieghi di utilità pubblica, si intrappoli nell’alienazione economica, tagliandosi fuori dalla creazione di sé.

Se vi dimenticate di ciò che siete e in quale vita volete essere, non sperate in un altro destino che quello di una merce buona da buttare appena superata la cassa.

Privilegiare la qualità

A forza di obbedire al criterio della quantità, la corsa al profitto scade nell’assurdità della sovrapproduzione. Produrre molto aumentava ieri il plusvalore dei padroni, che non esitavano a distruggere le eccedenze di caffé, di carne, di grano per impedire un abbassamento dei pressi sul mercato.

Lo sviluppo del consumo, toccando un più vasto settore della popolazione, ha permesso di assorbire in una certa misura una crescente quantità di merci concepite piuttosto a scopo di guadagno che per il loro uso pratico. La qualità di un prodotto è stata considerata con tanta più disinvoltura in quanto non era questa a determinare il livello delle vendite, ma la menzogna pubblicitaria di cui era rivestita per sedurre il cliente. Ma a forza di lavare sempre più bianco anche la menzogna finisce per logorarsi. Offesa dall’eccesso di disprezzo, la clientela ha finito per recalcitrare. Si è mostrata critica, ha rifiutato di ingoiare ciecamente quello che il cucchiaino dello slogan gli infilava ad ogni momento negli occhi, in bocca, nelle orecchie, in testa.

Molti hanno dunque deciso di non lasciarsi più consumare da un’economia che se ne infischia della loro salute e della loro intelligenza. Esigendo la qualità di ciò che viene loro proposto, scoprono o riscoprono la loro qualità di esseri, la loro specificità di individui lucidi, che era stata occultata da quella riduzione allo stato gregario provocata e intrattenuta dalla propaganda consumistica.

Ma, mentre gli organismi di difesa dei consumatori organizzano il boicottaggio dei prodotti snaturati da un’agricoltura che inonda il mercato di cereali forzati, di ortaggi concimati, di carni provenienti da animali martirizzati in allevamenti-lager, sembra che nelle scuole ci si rassegni a vedere la cultura avviarsi sulla stessa strada della peggiore agricoltura.

Se gli uomini politici nutrissero nei riguardi dell’educazione le buone intenzioni che proclamano a ogni piè sospinto, non dovrebbero mettere in opera tutto per garantire la qualità? Tarderebbero forse a decretare le due misure che determinano la condizione sine qua non di un apprendimento umano: aumentare il numero di insegnanti e diminuire il numero di allievi per classe, in modo che ciascuno sia trattato secondo la sua specificità e non nell’anonimato di una folla?

Ma, apparentemente, l’interesse ha per loro una connotazione più economica che semplicemente umana. Se i governi privilegiano l’allevamento intensivo di studenti consumabili sul mercato, allora i principi di una sana gestione prescrivono di stivare nello spazio scolastico più piccolo la quantità minima di teste, modellabili dal minimo personale possibile. La logica è perfetta e nessuna società protettrice degli animali insorgerà contro il consumo forzato di conoscenze sottoposte alla legge della domanda e dell’offerta, né contro gli usi da mercanti di cavalli che regnano sulla fiera del lavoro.

Rassegnatevi dunque al partito preso della stupidità che implica lo stato gregario, perché per educare una classe di trenta allievi non vedo che la sferza o l’astuzia.

Ma non invocate l’impossibilità materiale di promuovere un insegnamento personalizzato. Gli sviluppi delle tecniche audiovisive non potrebbero permettere ad un grande numero di studenti di ricevere individualmente ciò che un tempo apparteneva al maestro di ripetere fino a memorizzazione (ortografia, grammatica elementare, vocabolario, formule chimiche, teoremi, solfeggio, declinazioni…)? Oppure di verificare come in un gioco il grado di assimilazione e di comprensione?

Così liberato di un’occupazione ingrata e meccanica, l’educatore non avrebbe più che da dedicarsi all’essenziale del suo compito: assicurare la qualità delle informazioni globalmente ricevute, aiutare alla formazione di individui autonomi, dare il meglio del suo sapere e della sua esperienza aiutando ciascuno a leggersi e a leggere il mondo.

Informazione al massimo numero di soggetti possibili, formazione per piccoli gruppi. Al centro di una vasta rete di irrigazione che dreni verso ogni allievo la molteplicità delle conoscenze, l’educatore avrà finalmente la libertà di diventare ciò che ha sempre sognato di essere: il rivelatore di una creatività di cui non vi è nessuno che non possieda la chiave, per quanto nascosta essa sia sotto il peso delle passate costrizioni.

 

Capitolo V

Imparare l’autonomia, non la dipendenza

La scuola ha promulgato per secoli il sequestro del fanciullo da parte della famiglia autoritaria e partiarcale. Ora che si abbozza tra i genitori e la loro progenie una comprensione reciproca fatta di affetto e di autonomia progressiva, sarebbe un peccato che la scuola cessasse di ispirarsi alla comunità familiare.

Paradossalmente il sistema educativo, che accoglie con i giovani ciò che cambia di più, è anche quello che meno è cambiato.

La famiglia tradizionale preferiva fabbricare dei bambini in serie piuttosto che offrire la vita a due o tre piccoli esseri ai quali avrebbe dedicato senza riserve amore e attenzione. Quelli che non morivano in tenera età serbavano nel cuore il più delle volte una ferita segreta. La tirannia, il senso di colpa, il ricatto affettivo generarono in tal modo generazioni di spacconi che nascondevano sotto la durezza del carattere un infantilismo che imponeva loro di cercare un sostituto del padre e della madre in quelle famiglie a prestito che erano le chiese, i partiti, le sette, il gregarismo nazionale e i corpi di armata di ogni genere. La storia non ha conosciuto, per la sua disumanità, che dei bravacci in carenza di affetto. Ci voleva un bel po’ di cinismo per evocare la “selezione naturale”, tipica della specie animale, quando la produzione di carne da cannone e da fabbrica implicava la sua correzione statistica, e l’economia familiare di procreazione comportava un vizio di forma in cui la morte svolgeva la sua parte.

L’evoluzione dei costumi ci fa guardare oggi come ad una mostruosità questa proliferazione bestiale di vite irrimediabilmente condannate a venir riassorbite sotto i colpi di machete della guerra, del massacro, della carestia, della malattia. Eppure: stigmatizzare la sovrappopolazione dei paesi dove l’oscurantismo religioso si nutre della miseria che consciamente mantiene, e accettare che in Europa uno stesso spirito arcaico e sprezzante continui a trattare gli studenti come bestiame denota un’evidente incoerenza.

Perché il sovraffollamento delle classi non è solo causa di comportamenti barbari, di vandalismo, di delinquenza, di noia, di disperazione, perpetua per di più l’ignobile criterio della competitività, la lotta concorrenziale che elimina chiunque non si conformi alle esigenze del mercato. Il bruto arrivista ha la meglio sull’essere sensibile e generoso, ecco ciò che i disonesti al potere chiamano anch’essi, come i brillanti pensatori di un tempo, una selezione naturale.

Non ci sono bambini stupidi, ci sono solo educazioni imbecilli. Forzare lo scolaro a issarsi fino in cima al cesto contribuisce al progresso laborioso della rabbia e della furbizia animali, non certo allo sviluppo di un’intelligenza creatrice e umana.

Ricordate che nessuno è paragonabile né riducibile a nessun altro, a niente altro. Ciascuno possiede le sue proprie qualità, non gli resta che affinarle per il piacere di sentirsi in accordo con ciò che vive. Che si cessi dunque di escludere dal campo educativo il fanciullo che si interessa più ai sogni e ai criceti che alla storia dell’Impero romano. Per chi rifiuta di lasciarsi programmare dai calcolatori della vendita promozionale, tutte le strade portano verso di sé e verso la creazione.

Ieri ci si doveva identificare al padre, eroe o cretino dai così dolci sarcasmi. Ora che i padri si accorgono che la loro indipendenza progredisce con l’indipendenza del bambino, ora che sentono abbastanza l’amore di sé e degli altri per aiutare l’adolescente a disfarsi della loro immagine, chi sopporterà che la scuola proponga ancora come modelli di realizzazione il finanziere efficace e corrotto, l’uomo politico energico e rimbecillito, il mafioso che regna con il clientelismo e la corruzione, mentre l’uomo d’affari trae i suoi ultimi profitti dal saccheggio del pianeta?

Ricercare la propria identità in una religione, un’ideologia, una nazionalità, una razza, una cultura, una tradizione, un mito, un’immagine vuol dire condannarsi a non raggiungersi mai. Identificarsi a ciò che si possiede in sé di più vivo, questo solo emancipa.

L’alleanza con il bambino è un’alleanza con la natura

La violenza esercitata contro il bambino da parte della famiglia patriarcale partecipava dello stupro della natura operato dal lavoro della merce. Che la coscienza di un saccheggio planetario sia passata dalla difesa dell’ambiente ad una volontà di approccio non violento alle risorse naturali ha contribuito non poco a spezzare il giogo che lo sfruttamento economico faceva pesare sull’uomo, la donna, il bambino, la fauna e la flora.

Il sentire che noi deriviamo da una matrice comune, la terra, il cui ricordo si ravviva al momento della gestazione nel ventre materno, ha tanto meglio nutrito la nostalgia di un’età dell’oro e di un’armonia originale quanto più il lavoro forzato ci separava dalla natura e da noi stessi con uno strappo a lungo percepito come un tormento esistenziale, una sofferenza dell’essere.

Il fallimento di un’economia di saccheggio e di inquinamento e l’emergere di un progetto di ricreazione simbiotica dell’uomo e del suo ambiente naturale ci sbarazzano ormai di un paradiso perduto il cui fantasma ha ossessionato la storia impotente a costruirsi umanamente: il mito del buon selvaggio, del comunismo primitivo, del millenarismo apocalittico che, dopo aver fatto i bei giorni del nazismo, rinasce sotto il nome di integralismo.

Almeno avremo imparato che la vita non è una regressione allo stadio protoplasmatico ma un processo di affinamento e di organizzazione dei desideri.

Nella lotta contro il cancro, è prevalsa a lungo l’idea che si dovessero distruggere le cellule che un’improvvisa e frenetica proliferazione condannava al deperimento. Si ritiene oggi preferibile rafforzare il potenziale di vita delle cellule periferiche sane e favorire la riconquista di ciò che è vivo piuttosto che annientare quelle di cui la morte si è impadronita. Mi piacerebbe molto che un simile atteggiamento determinasse sovranamente il nostro rapporto con noi stessi, coi nostri simili e con il mondo.

Al contrario di tante generazioni abbrutite che fecero della sensibilità una debolezza, da cui molti si premunivano diventando sanguinari, noi sappiamo ormai che l’amore di ciò che vive risveglia un’intelligenza senza pari misura con lo spirito contorto che regna sugli universi totalitari.

Un’etica del rispetto degli esseri, altamente stimabile, prescrive di non uccidere un animale, di non abbattere un albero senza aver tentato di tutto per evitarlo. Ciò nondimeno, quel che una tale raccomandazione comporta di artificio e di costrizione, non eliminerà mai la convinzione come la coscienza che il danno che si fa a ciò che è vivo lo si fa a se stessi, se non si fa attenzione, perché ciò che è vivo non è un oggetto ma un soggetto che merita di essere trattato secondo il diritto imprescrittibile di ciò che è nato alla vita.

Sull’aiuto indispensabile al rifiuto dell’assistenza permanente

Il cammino dell’autonomia è simile a quello del bambino che impara a camminare.

Non ci si riesce senza lacrime e sforzi. Il rischio di cadere, di farsi male, di soffrire aggiunge ai primi passi l’ostacolo della paura. Tuttavia il soccorso di un affetto che incoraggia a rialzarsi, a ricominciare, ad ostinarsi, a coordinare i gesti dimostra che la padronanza dei movimenti si acquisisce meglio e più presto che nelle condizioni di un tempo in cui si trattava di progredire non solo sotto i fuochi incrociati della vanità beffarda, della minaccia diffusa, dell’angoscia di non essere più amati se non ci si applica, ma soprattutto attraverso un malessere, discretamente nutrito dall’ambiguità dei genitori desiderosi e nello stesso tempo timorosi che il loro bambino faccia i suoi primi passi verso un’autonomia che lo sottrarrebbe alla loro autorità tutelare e toglierebbe loro la sensazione di essere indispensabili.

L’insegnamento dei più piccini si è modellato senza fatica sulle attitudini familiari che fanno di tutto per assicurare la felicità nell’indipendenza – tant’è vero che i genitori la recuperano non appena l’adolescente ne prende possesso. Ispirandosi a quella comprensione osmotica dove si educa lasciandosi educare, le scuole materne attingono al privilegio di accordare il dono dell’affetto e il dono delle prime conoscenze – e che una qualità tanto preziosa all’esistenza degli individui e delle collettività sia considerata degna dei salari più bassi da parte dell’affarismo governativo la dice lunga su quale disprezzo dell’utilità pubblica raggiunga la logica del profitto.

La rottura è brutale all’ingresso nelle superiori. Si regredisce nella famiglia arcaica dove il fanciullo imparava a cavarsela da solo unicamente firmando un atto di una riconoscenza eterna a coloro che avevano assicurato il suo ammaestramento. La fiducia in sé, minata e compensata con l’insolenza, ricompone la ripugnante mescolanza di superbia e servilità che formava, nel passato, la norma del comportamento sociale.

Al desiderio sincero di fare dell’adolescente un essere umano a tutti gli effetti si sovrappone in un evitabile malessere l’esercizio di un potere al quale la struttura gerarchica costringe l’insegnante. Come potrebbe non vincere la tentazione di rendersi indispensabile e di coltivare nello studente una debolezza che ne rende più facile il dominio? Chi vende stampelle ha bisogno di zoppi.

Usciamo appena e con pena da una società in cui, non avendo mai potuto credere in se stessi, gli individui hanno accordato la loro credenza a tutti i poteri che li storpiavano facendoli marciare. Dio, chiese, Stato, patria, partito, leaders e piccoli padri dei popoli, tutto è stato ragionevole pretesto per non dover vivere da se stessi. Questi bambini che un tempo rialzavamo per farli cadere, è tempo di insegnar loro a imparare da soli. Che sia infine rotta l’abitudine di essere in domanda anziché essere in offerta, e che sia archiviata la miserabile società di assistiti permanenti la cui passività fa la forza dei corrotti.

Il denaro del servizio pubblico non deve più essere al servizio del denaro

L’educazione appartiene alla creazione dell’uomo, non alla produzione di merci. Avremmo dunque revocato l’assurdo dispotismo degli dei per tollerare il fatalismo di un’economia che corrompe e degrada la vita sul pianeta e nella nostra esistenza quotidiana?

La sola arma di cui disponiamo è la volontà di vivere, alleata alla coscienza che la propaga. A giudicare dalla capacità dell’uomo a sovvertire ciò che lo uccide, può essere un’arma assoluta.

La logica degli affari, che tenta di governarci, esige che ogni retribuzione, sovvenzione o elemosina consentita si paghi con la massima obbedienza al sistema mercantile. Non avete altra scelta che seguirla o rifiutarla seguendo i vostri desideri. O entrerete come clienti nel mercato europeo del sapere lucrativo – cioè come schiavi di una burocrazia parassitaria, condannata a crollare sotto il peso crescente della sua inutilità -, o vi batterete per la vostra autonomia, getterete le basi per una scuola ed una società nuove, e recupererete, per investirlo nella qualità della vita, il denaro dilapidato ogni giorno nella corruzione ordinaria delle operazioni finanziarie. “Il Sindacato nazionale unificato delle imposte valuta a 230 miliardi di franchi, cioè quasi l’ammontare del deficit del bilancio francese, la frode imputabile ai gruppi di affari come lo dimostra il velo appena sollevato sulle pratiche di corruzione dei grandi gruppi industriali e finanziari.” *

Il denaro rubato alla vita è messo al servizio del denaro. Tale è la realtà nascosta dall’ombra assurda e minacciosa delle grandi istituzioni economiche: Banca mondiale, Fondo monetario internazionale, Organizzazione di cooperazione e di sviluppo economico, Accordo generale sulle tariffe doganali e il commercio, Commissione europea, Banca di Francia, eccetera. Il loro sostegno alle fondazioni e ai centri di ricerca universitaria richiede in cambio che sia propagato il vangelo del profitto, facilmente trasfigurato in verità universale dalla venialità della stampa, della radio, della televisione.

Ma per quanto sembri formidabile, la macchina gira a vuoto, si sfascia, lentamente; finirà come nella Colonia penale di Kafka, per scolpire la sua Legge nella carne del suo padrone.

Non si vede forse, col favore di una reazione etica, qualche magistrato coraggioso spezzare l’impunità che garantiva l’arroganza finanziaria? Tassare le grandi fortune (l’1% dei francesi possiede il 25% della ricchezza nazionale e il 10% ne detiene il 55%), tassare gli introiti incassati dagli uomini d’affari, denunciare lo scandalo delle spese di rappresentanza, colpire con pesanti multe i gestori della corruzione, bloccare gli averi della frode internazionale indicando a sufficienza, su una carta leggibile da tutti, gli accessi al tesoro che i cittadini alimentano e di cui sono sistematicamente spogliati. Non è meno vero che la pista si confonderà sotto l’effetto devastante della rassegnazione se il denaro non sarà recuperato per essere investito nel solo campo che sia veramente di interesse generale: la qualità della vita quotidiana e del suo ambiente.

Certo i magistrati integri dispongono dell’apparato della giustizia, e voi non avete niente perché non avete creato niente che possa sostenervi. Eppure voi possedete sulla repressione, per quanto giusta si ritenga, un vantaggio di cui questa non potrà mai avvalersi: la generosità di ciò che è vivo, senza la quale non c’è né creazione né progresso umano.

L’insegnamento si trova nello stato di quegli alloggi non occupati che i proprietari preferiscono abbandonare al degrado perché lo spazio vuoto è redditizio mentre accogliervi degli uomini, delle donne, dei bambini, spogliati del loro diritto all’habitat, non lo è. Come viene accertato da The Economist, “La subordinazione del commercio ai diritti dell’uomo avrebbe un costo superiore ai benefici previsti” (9 Aprile 1994). Tuttavia, requisire un edificio per trovare un riparo alla miseria – voglio dire installarvisi passivamente perché ci si sta al caldo – non sfugge in ultima istanza al piano di distruzione dei beni utili al quale conducono l’inflazione dei settori parassitari e la burocrazia proliferante da lei generata.

Ciò di cui vi impadronirete vi apparterrà veramente soltanto se lo renderete migliore; nel senso stesso in cui vivere significa vivere meglio. Occupate dunque gli edifici scolastici anziché lasciarvi possedere dal loro sfacelo programmato. Abbelliteli secondo il vostro gusto, ché la bellezza incita alla creazione e all’amore, mentre la bruttezza attira l’odio e l’annientamento. Trasformateli in ateliers creativi, in centri di incontro, in parchi dell’intelligenza attraente. Che le scuole siano i frutteti di un gaio sapere, come gli orti che i disoccupati e i più deboli non hanno ancora avuto l’immaginazione di piantare nelle grandi città sfondando il bitume e il cemento.

Gli errori e i tentativi di chi intraprende di creare e di crearsi non sono niente a confronto del privilegio che conferisce una tale decisione: abolire il timore di essere se stessi che segretamente nutre e solletica le forze della repressione.

Noi siamo nati, diceva Shakespeare, per camminare sulla testa dei re. I re e i loro eserciti di boia sono ormai polvere. Imparate a camminare soli e sfiorerete coi piedi quelli che, nel loro mondo che muore, non hanno che l’ambizione di morire con lui.

Sta alle collettività di allievi e professori il compito di strappare la scuola alla glaciazione del profitto e renderla alla semplice generosità dell’umano. Perché bisognerà presto o tardi che la qualità della vita trovi accesso alla sovranità che un’economia ridotta a vendere e a valorizzare il suo fallimento le nega.

Dal momento in cui voi formulerete il progetto di un insegnamento fondato su un patto naturale con la vita, non dovrete più mendicare il denaro di quelli che vi sfruttano e vi disprezzano approfittando di voi. Quel denaro lo esigerete perché saprete come e perché impadronirvene.

Si è al di sotto di ogni speranza di vita finché si resta al di qua delle proprie capacità.

20 febbraio 1995

 Nota:

* C. de Brie, “La politica pervertita dai gruppi d’affari”, Le Monde Diplomatique, ottobre 1994

Print Friendly, PDF & Email

Comments are closed.