Umberto Galimberti, Identità e libertà

by gabriella

Allora la prima cosa da tenere presente è che le risposte uccidono le domande le chiudono; non bisogna avere un’ansia di risposte, perché le risposte non sono mai le risposte che salvano le situazioni, bisogna invece incrementare le domande e incominciare per esempio a domandarsi “che cos’è l’identità”, oppure che cos’è l’io?

Quindi non è interessante dare dell’io una risposta, quello che si può dire è che l’identità non è una dote naturale, noi non nasciamo con un’identità sociale: l’identità ce la danno gli altri,l’identità è frutto del riconoscimento. 

Se una mamma dice al suo bambino “sei bravo” e la maestra gli dice “sei intelligente”, il bambino costruirà un’identità positiva, se la mamma gli dice “sei un cretino” e poi glielo ribadisce la maestra, crescerà con un’identità negativa.

Quando gli antichi greci definirono l’uomo un animale sociale, sapevano benissimo  che l’identità singolare di ciascuno di noi e il prodotto del riconoscimento degli altri, gli altri ci danno un’identità e questo non solo da bambini, anche gli adulti che vanno a lavorare e anche se non lo sanno sono funzionari di apparati tecnici, dove collocano la loro identità? La collocano nel ruolo e quando il loro ruolo aumenta nel senso salgono in una posizione sociale più significativa, hanno  un incremento della loro identità, quando sono messi da parte hanno un decremento con conseguente svalutazione della loro identità.

L’identità è un dono sociale. 

Questo cose i greci le avevano capite.

Aristotele dice: se uno entra nella città e pensa di poter fare a meno degli altri o è bestia o è Dio. E a proposito di Dio dice non sappiamo se Dio è felice perché è monacos, è solo. Ecco questo sta a dire che gli uomini hanno bisogno del riconoscimento degli altri .

Bisogna creare allora delle figure di riconoscimento, riconoscimento che non viene tanto dalla sua comprensione nei confronti di suo figlio ma nella creazione di luoghi in cui suo figlio può essere riconosciuto. Ha mai pensato qual è la virtù di suo figlio, la sua vocazione, ciò per cui è nato, ciò a cui tende, il suo demone, che cosa vuol fare? E perché non lo mettiamo in un contesto in cui questa sua virtù può essere riconosciuta? Vuol fare teatro? Vuol fare il calciatore? Vuole fare che cosa? Perché non lo mettiamo lì dove può avere riconoscimenti non tanto nel che cosa si risponde a un bullo, quanto piuttosto creare le condizioni del riconoscimento della propria virtù. 

Jacques Derrida (1930 – 2004)

Per quanto poi riguarda l’io, io, io , come dice bene Jacques Derrida, un filosofo francese morto qualche anno fa: l’io è sempre uno pseudonimo. Perché la nostra identità muta col tempo. Dipendendo dagli altri, dal riconoscimento degli altri, io, di volta in volta oscillo nella mia identità. 

Fenomeni di esaltazione e di depressione sono un andar su e giù con la propria identità. L’identità è mobile, l’io non è  qualcosa di stabile. L’io è semplicemente uno pseudonimo di tanti moti d’animo che compongono la nostra identità.

Potremmo dire che l’Io non esiste non è una cosa è il percorso della nostra esistenza, mutevole non identificatorio, flessibile capace di adattarsi alle situazioni, indossando talvolta una maschera perché la società richiede, talvolta Il volto della sincerità, ma il nostro io è questo giocoliere di tante forme per cui non c’è un “Io”: Io, dice bene Derrida, è solo uno pseudonimo di tante manifestazioni in cui la nostra identità si produce.

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