Il dibattito sulla famiglia
1.I cambiamenti della convivenza in Occidente e le diversità culturali in relazione alla parentela
Il materialismo storico

Ludwig Feuerbach
Con Marx ed Engels, la filosofia europea arriva a una nuova definizione dell’umano: noi siamo non solo il risultato delle esperienze e degli stimoli che abbiamo ricevuto, ma anche i creatori e produttori di queste esperienze e stimoli, dunque l’uomo è creatore di se stesso.
Di qui la spiegazione della storia, dei valori, dello spirito dei tempi che cambia in funzione delle scelte e dello sguardo degli uomini che costruiscono le condizioni di esperienza delle generazioni successive.
Gli idealisti tedeschi arrivano, con Feuerbach a concepire la coscienza umana come un prodotto delle condizioni in cui singoli e collettività vivono, cioè come un prodotto della loro esistenza.
Marx oltrepassa questa prospettiva per indicare l’uomo come l’essere che trasforma il mondo ed è egli stesso il prodotto della propria creazione (cioè delle trasformazioni operate dalle generazioni precedenti).
Melissa Pignatelli, Cos’è l’identità? E’ in realtà una domanda sulle differenze
Tratto da Larivistaculturale.com.
[…] l’identità non solo non ha nulla di essenziale, di puro, di definito o perdurante nel tempo, ma emerge per contrasti e contrapposizioni di caratteristiche che conferiscono una peculiarità temporale sia alle persone che ai gruppi di persone che si riconoscono in una certa selezione del senso del sé.
Nella definizione proposta da Dizionario di Antropologia di Ugo Fabietti e Francesco Remotti, leggiamo infatti che:
“Il discorso sull’identità a livello della persona come dei gruppi è strettamente connesso a una riflessione sulle differenze, siano esse culturali, di genere, o etniche. Questo sia che si considerino i contesti di comunicazione e contrapposizione fra il sé e l’altro, sia che si studino le diverse forme di raggruppamento da cui è costituita la realtà sociale: la dimensione dell’identità personale e il discorso sulle identità sociali e culturali sono strettamente correlati, poiché i modelli attraverso cui vengono interpretati i sé e gli altri possono essere considerati come espressioni simboliche della cultura. E’ inoltre implicito in questa tematica il problema della continuità, cioè l’analisi di quegli elementi costitutivi che, nel tempo, conferiscono alla persona o a una collettività le sue caratteristiche peculiari, permettendo di distinguerla dalle realtà che la circondano”.
In questo senso, nei momenti di confronto con identità che si costituiscono attorno ad orizzonti di significati diversi da quelli in cui ci riconosciamo possono emergere delle criticità (i.e. viaggio, trasloco, emigrazione, etc.). Infatti nel ricercare un senso, un’etichetta, una categoria, una classificazione di persone che si aggiungono ad un determinato gruppo sociale, le difficoltà nell’includere nel gruppo originario sembrano appartenere più a coloro che considerano la loro identità come assodata in maniera imperitura piuttosto che a coloro che la vedono come parte di un flusso di significati che circola e si ricostituisce sulla superficie di un mondo sempre più interconnesso.
E prosegue così Alice Bellagamba, autrice della voce identità nel sopracitato dizionario:
“Non è infatti possibile pensare l’identico (ciò che si conserva per un certo periodo simile a se stesso) se non tracciando un confine rispetto all’altro: l’uomo circondato dalla non umanità, la nobiltà del libero sullo sfondo della naturalità dello schiavo, la comunità dei vivi e le sue relazioni con il mondo degli antenati. In ogni società esiste un paradigma di principi di base per l’identificazione e la differenziazione delle persone.
Sul piano teorico l’identità non è un oggetto dotato di autonomia e di realtà, anche se talvolta l’antropologia stessa sollecitata dalle situazioni incontrate, può essere tentata di fornire un supporto realista alle rivendicazioni identitarie, elaborando gli strumenti attraverso cui gruppi o persone si richiamano al singolare e al locale. Essa è piuttosto come ricorda Levi-Strauss un luogo virtuale al quale è necessario far riferimento per spiegare una pluralità di fenomeni e di cui è opportuno osservare i processi di produzione e riproduzione: si tratta infatti di un progetto in cui si ritrovano simultaneamente coinvolti i singoli e le formazioni sociali. All’interno dei quadri culturali che modellano le abitudini e le memorie gli attori sociali operano infatti delle scelte di identificazione, variabili in intensità, natura e livello, attraverso cui vengono posti in gioco i rapporti con la società e le istituzioni nel loro complesso, da un lato e con i gruppi e le comunità locali dall’altro”.
L’identità si configura dunque come un processo in fieri nel quale siamo tutti contemporaneamente coinvolti e che contribuiamo a costruire e ridefinire, produrre e riprodurre in quel flusso inarrestabile di senso e di significati che scandiscono il fluire della nostra vita quotidiana.
Melissa Pignatelli
Fonte: Identità in Dizionario di Antropologia, a cura di Ugo Fabietti e Francesco Remotti. Voce a cura di Alice Bellagamba, Zanichelli, Bologna, 1997.
Tzvetan Todorov, Sul buono e cattivo uso della natura umana

Tzvetan, Todorov (1939 – 2017)
L’ultima riflessione di Tzvetan Todorov, uscita postuma su Micromega (3/2007).
Il saggio, dedicato alla ‘natura umana’, illustra le opposte radicalizzazioni di Montaigne [‘tutto è cultura’] e Diderot [‘tutto è natura’] dalla prospettiva rousseauiana che l’autore riafferma.
Se per Montaigne “tutto è cultura” e per Diderot “tutto è natura”, l’approccio di Rousseau è infatti differente: non rinuncia all’universalismo e a una sua fondazione come Montaigne per cui non vi è natura ma solo cultura e consuetudine; né cerca, come Diderot, di fondare la natura umana e la sua universalità sul fatto, ma assume la “socialità” della natura umana come fondamento della moralità (Gianfranco Marini).
Ai giorni nostri si ha qualche ripugnanza a riferirsi alla «natura umana». Questa espressione sembra aver partecipato al naufragio generale delle pompose astrazioni ereditate dal passato. E se lo stesso naufragio appartenesse a tali astrazioni? Il nostro vocabolario odierno non è meno pomposo di quello dei nostri predecessori; ma, ammaliati dalla novità delle formule, stentiamo a giudicarle con serenità. In luogo della natura e dell’uomo compaiono però vocaboli che non vogliono necessariamente dire altro né sono generalizzazioni più felici.
La natura umana 2. Linguaggio, indeterminatezza, neotenia

Arnold Gehlen (1904 – 1976)
La seconda parte della lezione sulla natura umana, dedicata a una panoramica storica delle concezioni antropologiche note come «tradizione della modestia» che, da Pico a Gehlen definisce l’uomo per sottrazione, più che per il possesso di specifiche qualità. Qui la prima parte.
Perciò accolse l’uomo come opera di natura indefinita e postolo nel cuore del mondo, così gli parlò: non ti ho dato, Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché tutto secondo il tuo desiderio e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai senza essere costretto da nessuna barriera, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai […]. Non ti ho fatto né celeste, né terreno, né mortale, né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto.
Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate
Indice
1. L’animale linguistico
1. L’animale linguistico
Secondo Chomsky, la natura umana «dal Cro-Magnon in avanti» sarebbe caratterizzata da tratti stabili, il principale dei quali è la facoltà di linguaggio.
Oltre alle obiezioni di Foucault, dalle scienze sociali si obietta a Chomsky che una facoltà articolata in una grammatica, in strutture profonde e regole universali non è più una facoltà, ma una superlingua universale.
Esiste una natura umana?

Blaise Pascal (1623 – 1662)
La prima parte della lezione sulla natura umana dedicata a tre dibattiti filosofici: quello cinquecentesco Montaigne, Las Casas e Oviedo, quello seicentesco tra Cartesio e Pascal e quello contemporaneo di Eindhoven tra Chomsky e Foucault. Qui la seconda parte.
Ho una gran paura che questa natura [la natura umana]
sia anch’essa un primo costume, così come il costume è una seconda natura […]. Il costume è la nostra natura.
Blaise Pascal, Pensée,
Indice
1. Montaigne
2. Las Casas vs Oviedo
3. Pascal vs Cartesio
4. Il dibattito di Eindhoven
4.1 Chomsky
4.2 Foucault
1. L’uomo ha una «natura»?
Un modo classico per argomentare intorno all’esistenza o meno di una «natura umana» è quello di comparare comportamenti e costumi di persone appartenenti a culture diverse.
Se, infatti, si riesce a dimostrare l’esistenza di invarianti, cioè di tratti e modi di fare universali, che non cambiano nel tempo o nello spazio, allora è possibile (ma non necessario) parlare di un modo di essere dell’uomo, di una sua «natura» appunto, che sarebbe a monte, verrebbe prima, di qualunque tratto culturale. Se, invece, questa uniformità non si può rintracciare in alcun modo, viene a cadere anche l’ipotesi che prima di immergersi in una cultura particolare, un individuo abbia delle caratteristiche che condivide con ogni altro essere umano e che prescindono dal condizionamento culturale.
Per questa ragione, le prime osservazioni intorno all’esistenza della «natura umana» iniziano nell’incontro con l’alterità culturale: con i barbari da parte dei Greci e con gli indigeni da parte dei conquistadores.
1.1 Montaigne

Hans Staden, Cannibalismo in Brasile (1557)
L’incontro con le popolazioni americane e le civiltà precolombiane del Messico e del Perù nel ‘500 agì da autentico choc culturale sulla mentalità europea.
Ai resoconti di viaggio e ai trattati etnografici dei primi esploratori e missionari seguirono le riflessioni di giurisiti, teologi, filosofi e moralisti tese a inquadrare in categorie politico-religiose, l’incontro-scontro con quelle popolazioni diverse da noi.
Le posizioni iniziali, motivate da consistenti interessi economici, furono decisamente etnocentriche: gli europei si considerarono cioè i rappresentanti dell’unica civiltà e religione universale, quella cristiana, di fronte a un’umanità guardata come inferiore e barbara.
Alla formazione di questo giudizio (o, più propriamente, pregiudizio), contribuirono le descrizioni dei costumi e delle pratiche delle popolazioni caraibiche, più arretrate di quelle incontrate poi dai conquistadores sul territorio americano.
Il nome stesso, Caraibi, significa infatti in spagnolo “cannibali“, e dipinge in modo inconfondibile il senso di disprezzo e di estraneità degli europei rispetto alle popolazioni autoctone.
Gli indigeni americani non furono dunque riconosciuti come portatori di una cultura, per quanto diversa dalla nostra, ma giudicati sul metro della civiltà europea come “selvaggi”, esseri semi-ferini da trattare senza scrupoli eccessivi.
Clifford Geerz, La formazione di sé a Giava
Nel brano seguente, tratto da Dal punto di vista dei nativi [in Antropologia interpretativa, Il Mulino, Bologna, pp. 76-79], Clifford Geerz illustra il punto di vista giavanese sull’identità e la formazione di sé (o del carattere) in relazione all’espressione dei sentimenti e ai comportamenti tenuti in pubblico.
L’antropologo fa risaltare, in questo modo, il significato profondo della compostezza e dell’essere alus, divenire capaci di «appiattire le vallate e le colline delle proprie emozioni».
A Giava, dove ho lavorato negli anni Cinquanta, ho studiato un piccolo e grigio posto di provincia; due strade assolate formate da negozi di legno bianco e da uffici, e dei tuguri ancora più fragili di bambù tirati su in fretta e furia dietro di essi, il tutto circondato da un grande semicerchio di villaggi densamente popolati e dalla forma di tazze di riso.
Vi era scarsità di terra, di lavoro, la situazione politica era instabile, la salute scarsa, i prezzi in aumento, e la vita non era certo promettente, una sorta di stagnazione agitata in cui, come ho detto una volta, pensando alla curiosa mistura di frammenti di modernità presi a prestito e di relitti di tradizione ormai logori che caratterizzavano il luogo, il futuro sembrava altrettanto lontano del passato.
Tuttavia nel mezzo di questa scena deprimente vi era una vitalità intellettuale assolutamente sorprendente, una passione filosofica, oltre che popolare, a interrogarsi sulle questioni dell’esistenza.
Poveri contadini discutevano i problemi connessi al libero arbitrio (concezione della libertà individuale che ritiene possibili scelte autonome senza costrizioni esterne, NDR), commercianti analfabeti discutevano delle proprietà divine, lavoratori comuni avevano teorie sui rapporti tra ragione e passione, la natura del tempo, o l’affidabilità dei sensi. E, forse ancora più importante, il problema del Sé – la sua natura, funzione e modo di operare – era analizzato con quel tipo di intensità riflessiva che tra noi occidentali si può trovare solo negli ambienti più ricercati.
Le idee centrali nei termini in cui procedeva la riflessione, e che quindi definivano i suoi confini e il senso giavanese di che cos’è una persona, si collocavano in due coppie di contrasti, fondamentalmente religiosi, uno tra “interiore” e “esteriore” e l’altro tra “raffinato” e “volgare”.
Queste glosse sono ovviamente rozze e imprecise; determinare in modo esatto che cosa questi termini significavano, far emergere le ombre dei loro significati, era tutto ciò che si proponeva la discussione. Ma insieme esse formavano una concezione particolare del Sé che, tutt’altro che essere puramente teorica, era quella nei cui termini i Giavanesi percepivano se stessi e gli altri.
L’identità culturale
Il tema dell’identità attraversa problemi e concetti trasversali a tutte le scienze umane e richiede di essere studiato con strumenti antropologici, sociologici, storici, giuridici, psicologici e pedagogici.
Nel testo seguente cerchiamo di mettere a fuoco il problema della costruzione del Sé (collettivo, attraverso l’appartenenza a gruppi – famiglia, classi, nazione ecc. – e individuale, attraverso la formazione della personalità) e dell’Altro, partendo dalla definizione dell’identità sociale per arrivare a quella fisica e psicologica.
Indice
1. La questione dell’identità
1.1 Appartenenza e distinzione
1.2 Il campanile e il palo sacro
1.3 I rischi dell’identità
2. Il corpo
2.1 La conoscenza incorporata
2.2 Modellare il corpo, differenziarsi dalla natura
2.2.1 Capelli
2.2.2 Decorazioni temporanee e tatuaggi
2.2.3 Modellamento
2.2.4 Mutilazioni
2.2.5 Vestirsi e svestirsi
2.3 Il caso del velo islamico
2.4 Il mercato di organi: una forma di neocannibalismo contemporaneo
3. In tutte le culture l’uomo è soggetto (o persona), solo per l’Occidente è individuo
3.1 Sesso e genere
4. Emozioni e sentimenti come elementi costitutivi del sé
5. Identità e alterità collettive
5.1 Hutu e Tutsi
5.2 Classi e caste
5.3 Classi o caste nel Medioevo: la società dei tre ordini
Videolezioni: 1. Introduzione all’identità (a cura di Francesco, Andrea, Celeste e Chiara, 3F)
Test: Introduzione
1. La questione dell’identità
Gli esseri umani percepiscono e organizzano concettualmente il mondo che li circonda (la natura e i fatti umani) attraverso gli strumenti forniti loro dalla cultura.
L’indeterminatezza e la natura “culturale” dell’uomo

Sandro Botticelli, Ritratto di uomo con la medaglia di Cosimo il vecchio, 1474-75 – probabile ritratto di Pico
La lezione introduttiva del corso di antropologia, illustrativa dei concetti di indeterminatezza umana (neotenia), cultura, inculturazione.
Indice
1. L’animale indeterminato
2. La neotenia o infanzia cronica dell’uomo
3. L’importanza del gruppo d’appartenenza
[…] Prese pertanto l’uomo, fattura priva di un’immagine precisa e, postolo in mezzo al mondo, così parlò «Adamo, non ti diedi una stabile dimora, né un’immagine propria, né alcuna peculiare prerogativa, perché tu devi avere e possedere secondo il tuo voto e la tua volontà quella dimora, quell’immagine, quella prerogativa che avrai scelto da te stesso.
Una volta definita la natura alle restanti cose, sarà pure contenuta entro prescritte leggi. Ma tu senz’essere costretto da nessuna limitazione, potrai determinarla da te medesimo, secondo quell’arbitrio che ho posto nelle tue mani. Ti ho collocato al centro del mondo perché potessi così contemplare più comodamente tutto quanto è nel mondo.
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2. Educazione informale, educazione formale
Indice
1. L’educazione informale nelle società prive di scrittura
1.2 Bernardo Bernardi, L’educazione informale
2. L’educazione formale
2.1 L’apprendimento scolastico
1. L’educazione informale delle società prive di scrittura
Uno degli obiettivi fondamentali dell’educazione è la conservazione e la trasmissione della tradizione culturale alle generazioni più giovani.
Nelle società senza scrittura manca, però, lo strumento indispensabile per tramandare una concezione del mondo al di là del qui ed ora. L’educazione perciò deve essere assicurata attraverso il passaggio diretto e personale di valori, pensieri, modi di vita.
Questa trasmissione diretta e personale è raggiunta con l’educazione informale che viene realizzata dal gruppo familiare, dai coetanei e dagli adulti della comunità.
Si tratta di una forma di educazione basata quasi esclusivamente sull’osservazione e sull’esperienza diretta che sostituisce in gran parte ciò che nelle società alfabetiche è fornito dalla scuola.
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