UDINE. Il professor Philippe van Parijs, sessantacinque anni atleticamente portati, parla da circa quattro decenni della stessa cosa.
Sarà che nel ‘91, in polemica con John Rawls sulla teoria della giustizia, scrisse un articolo sul perché anche i surfisti avevano diritto a essere sfamati (con i soldi dei contribuenti), ma più che in cattedra all’Università cattolica di Lovanio te lo immagini sulla cresta di un’onda a Malibù, appunto.
Al centro dei suoi interessi accademici c’è il reddito di base incondizionato. Guadagnandosi etichette da libertario di sinistra a neo-marxista ne ha sostenuto le virtù insegnando da Harvard all’École Normale Supérieure. Tra pochi giorni uscirà in America Basic Income. A radical proposal for a free society and a sane economy scritto con Yannick Vanderborght [nel frattempo uscito anche nella traduzione italiana, NDR]. L’ho incontrato a margine del festival Vicino/lontano a Udine, giardiniere tenace di un’idea il cui tempo sembra forse arrivato.

Reddito di base o di cittadinanza, minimo, di partecipazione: facciamo un po’ di chiarezza?

«C’è in effetti molta confusione in Italia, dove si parla soprattutto di reddito minimo garantito, una misura che esiste già in quasi tutti i Paesi europei. Ma, a differenza di ciò che io chiamo reddito di base, è condizionata in tre sensi».

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