Étienne De La Boétie, Discorso sulla servitù volontaria (1549)

by gabriella

Étienne de La Boétie

Nel Discours de la servitude volontaire un diciottenne La Boétie riflette sul malencontre, il «tragico evento», il «malaugurato accidente» in seguito a quale l’uomo rinunciò alla propria natura, «l’esser nato propriamente per vivere libero», scegliendo invece la servitù e la rassegnazione alla sottomissione. La storia nasce proprio da quella rinuncia cioè, come notò Pierre Clastres, da «quella rottura fatale, quell’evento irrazionale che noi chiamiamo “nascita dello Stato”» che non ha nulla di necessario né dal punto di vista economico, né politico, né biologico.

La Boétie scrive negli anni che vedono l’acuirsi delle guerre di religione in Francia dopo il massacro degli ugonotti nella notte di S. Bartolomeo intorno al 1576 (anno presunto della pubblicazione), mentre cominciano a delinearsi le basi dello Stato assoluto: perché gli uomini, fatti per essere liberi, rinunciano con tanta naturalezza alla loro libertà? Perché la volontà di servire, come servitude volontaire, alberga nell’animo degli individui, come desiderio di identità e di riconoscimento e non è, invece, una costrizione che li piega al dominio del tiranno? Queste le sue domande.

Siate dunque decisi a non servire mai più e sarete liberi. […] la prima ragione per cui gli uomini servono di buon animo è perché nascono servi e sono allevati come tali.

Étienne de la Boétie

«No, non è un bene il comando di molti; uno sia il capo, uno il re», così Ulisse, secondo il racconto di Omero, si rivolse all’assemblea dei Greci. Se si fosse fermato alla frase «non è un bene il comando di molti» non avrebbe potuto dire cosa migliore. Ma mentre, a voler essere ancora più ragionevoli, bisognava aggiungere che il dominio di molti non può essere conveniente dato che il potere di uno solo, appena questi assuma il titolo di signore, è terribile e contro ragione, al contrario il nostro eroe conclude dicendo: «uno sia il capo, uno il re».

E tuttavia dobbiamo perdonare a Ulisse di aver tenuto un simile discorso che in quel momento gli servì per calmare la ribellione dell’esercito adattando, penso, il suo discorso più alla circostanza che alla verità. Ma in tutta coscienza va considerata una tremenda sventura essere soggetti ad un signore di cui non si può mai dire con certezza se sarà buono poiché è sempre in suo potere essere malvagio secondo il proprio arbitrio; e quanto più padroni si hanno tanto più sventurati ci si trova. Ma non voglio ora addentrarmi nella questione così spesso dibattuta se gli altri modi di governare la cosa pubblica siano migliori della monarchia. Se dovessi entrare in merito a tale questione, prima di discutere a quale livello si debba collocare la monarchia tra i diversi tipi di governo, porrei il problema se essa si possa dir tale, dato che mi sembra difficile credere che ci sia qualcosa di pubblico in un governo dove tutto è di uno solo. Ma riserviamo ad un altro momento la discussione di questo problema che richiederebbe di essere trattato a parte e si trascinerebbe dietro ogni sorta di disputa politica.

Per ora vorrei solo riuscire a comprendere come mai tanti uomini, tanti villaggi e città, tante nazioni a volte sopportano un tiranno che non ha alcuna forza se non quella che gli viene data, non ha potere di nuocere se non in quanto viene tollerato e non potrebbe far male ad alcuno, se non nel caso che si preferisca sopportarlo anziché contraddirlo. E‘ un fatto davvero sorprendente e nello stesso tempo comune, tanto che c’è più da dolersene che da meravigliarsene, vedere milioni e milioni di uomini asserviti come miserabili, messi a testa bassa sotto ad un giogo vergognoso non per costrizione di forza maggiore ma perché sembra siano affascinati e quasi stregati dal solo nome di uno di fronte al quale non dovrebbero né temerne la forza, dato che si tratta appunto di una persona sola, né amarne le qualità poiché si comporta verso di loro in modo del tutto inumano e selvaggio. Noi uomini siamo così deboli che sovente dobbiamo ubbidire alla forza; in questo caso è necessario prender tempo, non potendo sempre essere tra i più forti. Dunque se una nazione è costretta dalla forza delle armi a sottomettersi ad uno, come la città d’Atene ai trenta tiranni, non bisogna stupirsi della sua servitù ma compiangerla, o meglio ancora né stupirsi né lamentarsi ma sopportare la disgrazia con rassegnazione e prepararsi per un’occasione migliore nel futuro.

La natura umana è fatta in modo tale che i doveri dell’amicizia assorbono buona parte della nostra vita. E’ del tutto ragionevole amare la virtù, avere stima delle buone azioni, essere riconoscenti del bene ricevuto e a volte anche mettere un limite al nostro benessere per aumentare l’onore e i vantaggi di coloro che amiamo e che meritano di esserlo. Orbene, ammettiamo che gli abitanti di un paese riescano a trovare uno di quei grandi personaggi che ha saputo dar loro prova di grande preveggenza su cui fare affidamento, di grande coraggio a loro difesa, di cura premurosa da poterli governare. Se ad un certo punto si trovano a loro agio nell’obbedirgli e gli danno fiducia fino a riconoscergli una certa supremazia, non saprei proprio dire se è agire con saggezza toglierlo da dove faceva bene per metterlo in una posizione dove potrebbe fare male; in ogni caso ci risulta naturale volergli bene senza temere di riceverne del male. Ma, buon Dio, che faccenda è mai questa? Come spiegarla?

Quale disgrazia, quale vizio, quale disgraziato vizio fa sì che dobbiamo vedere un’infinità di uomini non solo ubbidire ma servire, non essere governati ma tiranneggiati a tal punto che non possiedono più né beni, né figli, né genitori e neppure la propria vita? Vederli soffrire rapine, brigantaggi, crudeltà, non da parte di un’armata o di un’orda di barbari contro cui si dovrebbe difendere la vita a prezzo del proprio sangue, ma a causa di uno solo, e non già di un Ercole o di un Sansone ma di un uomo che nella maggior parte dei casi è il più molle ed effeminato di tutta una nazione, che non ha mai provato la polvere delle battaglie e neppure quella di un torneo; non solo incapace di imporsi agli uomini ma preoccupato di servire la più trascurabile donnicciola. Ebbene, è forse debolezza tutto questo? Chiameremo vili e codardi tutti coloro che gli si sono assoggettati? Che due, tre o quattro persone si lascino sopraffare da uno è strano, tuttavia può accadere; in questo caso si potrà ben dire che è mancanza di coraggio. Ma se cento, se mille persone si lasciano opprimere da uno solo chi oserà ancora parlare di viltà, di timore di scontrarsi con lui, anziché affermare che si tratta di mancanza di volontà e di grande abiezione? E se vediamo non cento o mille persone, ma cento villaggi, mille città, milioni di uomini che non fanno nulla per attaccare e schiacciare uno solo che li tratta nel migliore dei casi come servi e schiavi, come potremo qualificare un simile fatto? Si tratta ancora di viltà? Ma in tutti i vizi ci sono dei limiti oltre i quali non si può andare; due uomini, ammettiamo anche dieci, possono aver paura di uno. Ma se mille persone, che dico, mille città non si difendono da uno solo questa non è viltà, non si può essere vigliacchi fino a questo punto, così come aver coraggio non significa che un uomo si debba metter da solo a scalare una fortezza, attaccare un’armata, conquistare un regno! Che razza di vizio è allora questo se nonmerita neppure il nome di viltà, se non si riesce a qualificarlo con termini sufficientemente spregevoli, se la natura stessa lo disapprova e il linguaggio rifiuta di nominarlo?

Si mettano cinquantamila uomini armati da una parte e dall’altra; si schierino per la battaglia e combattano tra loro, gli uni per la propria libertà, gli altri per toglierla ai primi. A chi presumibilmente toccherà la vittoria? Saranno più coraggiosi in battaglia quelli che sperano di ottenere in premio il mantenimento della
loro libertà o coloro che come ricompensa delle percosse date e subite non avranno se non la servitù altrui? I primi hanno sempre davanti agli occhi la felicità del tempo passato e l’attesa di una vita altrettanto lieta per l’avvenire; non si preoccupano delle sofferenze che durano il tempo di una battaglia ma piuttosto pensano a tutte quelle che dovranno sopportare per sempre loro stessi, i figli e tutti i discendenti. Gli altri invece non hanno nulla che possa dar loro slancio se non una punta di cupidigia che subito svanisce di fronte al pericolo; in ogni caso il loro coraggio si ferma alla vista della più piccola goccia di sangue appena inizia ad uscire da una ferita. Ripensiamo alle famose battaglie di Milziade, di Leonida, di Temistocle, avvenute duemila anni fa ma ancor oggi così vive nel ricordo dei libri e degli uomini come se fossero successe l’altro giorno, combattute in Grecia per il bene dei greci ma anche come esempi per il mondo intero. Ebbene domandiamoci: da dove venne a così pochi uomini, come a quel tempo i greci, non dico la forza ma il coraggio di respingere flotte talmente potenti e numerose da coprire il mare, e di sconfiggere così tante nazioni i cui eserciti avevano più capitani di quanto non fossero tutti i soldati greci messiassieme? A mio avviso solo dal fatto che in quelle gloriose giornate non ci fu semplicemente una battaglia di greci contro persiani, bensì avvenne la vittoria della libertà contro la tirannia, della liberazione contro l’oppressione.

E’ una cosa davvero straordinaria osservare il coraggio che la libertà mette in animo a coloro che la difendono; ma quel che avviene in tutti i paesi, fra tutti gli uomini, tutti i giorni, e cioè che uno solo opprime cento, mille persone e le priva della loro libertà, chi potrebbe mai crederlo se fosse semplicemente una notizia che ci giunge alle orecchie e non capitasse invece davanti ai nostri occhi? E se questo accadesse in paesi lontani e qualcuno venisse a raccontarcelo, chi di noi non penserebbe che si tratta di una pura invenzione? Va aggiunto inoltre che non c’è bisogno di combattere questo tiranno, di toglierlo di mezzo; egli viene meno da solo, basta che il popolo non acconsenta più a servirlo. Non si tratta di sottrargli qualcosa, ma di non attribuirgli niente; non c’è bisogno che il paese si sforzi di fare qualcosa per il proprio bene, è sufficiente che non faccia nulla a proprio danno. Sono dunque i popoli stessi che si lasciano, o meglio, si fanno incatenare, poiché col semplice rifiuto di sottomettersi sarebbero liberati da ogni legame; è il popolo che si assoggetta, si taglia la gola da solo e potendo scegliere fra la servitù e la libertà rifiuta la sua indipendenza, mette il collo sotto il giogo, approva il proprio male, anzi se lo procura. Se gli costasse qualcosa riacquistare la libertà non continuerei a sollecitarlo; anche se riprendersi i propri diritti di natura e per così dire da bestia ridiventare uomo dovrebbe stargli il più possibile a cuore. Tuttavia non voglio esigere da lui un tale coraggio; gli concedo pure di preferire una vita a suo modo sicura anche se miserabile ad una incerta speranza in una condizione migliore. Ma se per avere la libertà è sufficiente desiderarla con un semplice atto di volontà si troverà ancora al mondo un popolo che la ritenga troppo cara, potendola ottenere con un desiderio? Può esistere un popolo che non se la senta di riavere un bene che si dovrebbe riscattare a prezzo del proprio sangue, un bene la cui perdita rende insopportabile la vita e desiderabile la morte, almeno per chi ha un minimo di dignità? Come il fuoco che da una piccola scintilla si fa sempre più grande e più trova legna più ne brucia, ma si consuma da solo, anche senza gettarvi sopra dell’acqua, semplicemente non alimentandolo, così i tiranni più saccheggiano e più esigono, più distruggono e più ottengono mano libera, più li si serve e più diventano potenti, forti e disposti a distruggere tutto; ma se non si cede al loro volere, se non si presta loro obbedienza allora, senza alcuna lotta, senza colpo ferire, rimangono nudi e impotenti, ridotti a un niente proprio come un albero che non ricevendo più la linfa vitale dalle radici subito rinsecchisce e muore.

Gli uomini coraggiosi per conquistare il bene che desiderano non temono di affrontare il pericolo; la gente intraprendente non rifiuta la fatica. Invece gli uomini deboli e pressoché storditi non sanno né sopportare il male, né ricercare il bene, limitandosi a desiderarlo. La debolezza del loro animo toglie loro l’energia per arrivare al bene; mantengono solo quel desiderio che è insito nella natura umana. Questa aspirazione è comune ai saggi e agli ignoranti, ai coraggiosi ed ai pusillanimi e fa sì che essi continuino ad avere il desiderio di tutte quelle cose che li potrebbero rendere felici. In una sola cosa, non so come mai, sembra che la natura venga meno così che gli uomini non hanno la forza di desiderarla: si tratta della libertà, un bene così grande e dolce che una volta perduto vengono dietro tutti i mali, mentre tutti i beni che solitamente l’accompagnano, corrotti dalla servitù, non hanno più né gusto né sapore. E’ così che gli uomini tutto desiderano eccetto la libertà forse perché l’otterrebbero semplicemente desiderandola; è come se si rifiutassero di fare questa conquista perché troppo facile.

Povera gente insensata, popoli ostinati nel male e ciechi nei confronti del vostro bene! Vi lasciate portar via sotto gli occhi tutti i vostri migliori guadagni, permettete che saccheggino i vostri campi, rubino nelle vostre case spogliandole dei vecchi mobili paterni. Vivete in condizione da non poter più vantarvi di tenere una cosa che sia vostra; e vi sembrerebbe addirittura di ricevere un gran favore se vi si lasciasse la metà dei vostri beni, delle vostre famiglie, della vostra stessa vita. E tutti questi danni, queste sventure, questa rovina vi vengono non da molti nemici ma da uno solo, da colui che voi stessi avete reso tanto potente; è per suo amore che andate così coraggiosamente in guerra, è per la sua vanità che non esitate ad affrontare la morte. Costui che spadroneggia su di voi non ha che due occhi, due mani, un corpo e niente di più di quanto possiede l’ultimo abitante di tutte le vostre città. Ciò che ha in più è la libertà di mano che gli lasciate nel fare oppressione su di voi fino ad annientarvi. Da dove ha potuto prendere tanti occhi per spiarvi se non glieli avete prestati voi? Come può avere tante mani per prendervi se non è da voi che le ha ricevute? E i piedi coi quali calpesta le vostre città non sono forse i vostri? Come fa ad avere potere su di voi senza che voi stessi vi prestiate al gioco? E come oserebbe balzarvi addosso se non fosse già d’accordo con voi? Che male potrebbe farvi se non foste complici del brigante che vi deruba, dell’assassino che vi uccide, se insomma non foste traditori di voi stessi? Voi seminate i campi per farvi distruggere il raccolto; riempite di mobili e di vari oggetti le vostre case per lasciarveli derubare; allevate le vostre figlie per soddisfare le sue voglie e i vostri figli perché il meglio che loro possa capitare è di essere trascinati in guerra, condotti al macello, trasformati in servi dei suoi desideri e in esecutori delle sue vendette; vi ammazzate di fatica perché possa godersi le gioie della vita e darsi ai piaceri più turpi; vi indebolite per renderlo più forte e più duro nel tenervi corta la briglia. Eppure da tutte queste infamie che le bestie stesse non riuscirebbero ad apprendere e che comunque non sopporterebbero, potreste liberarvi se provaste, non dico a scuotervele di dosso, ma semplicemente a desiderare di farlo. Siate dunque decisi a non servire mai più e sarete liberi. Non voglio che scacciate il tiranno e lo buttiate giù dal trono; basta che non lo sosteniate più e lo vedrete crollare a terra per il peso e andare in frantumi come un colosso a cui sia stato tolto il basamento.

Certo, i medici dicono che è inutile tentare di guarire le piaghe incurabili e in questo senso ho forse torto a voler dare consigli al popolo che da molto tempo ha perso del tutto conoscenza riguardo al male che l’affligge e proprio perché non lo sente più dimostra ormai che la sua malattia è mortale. Cerchiamo allora di scoprire per tentativi come questa ostinata volontà di servire ha potuto radicarsi a tal punto che lo stesso amore per la libertà non sembra più essere tanto naturale.

Prima di tutto credo sia fuori di dubbio che se vivessimo con quei diritti che la natura ci ha dato e secondo quegli insegnamenti che essa ci ha impartito saremmo senz’altro obbedienti verso i genitori, soggetti alla ragione e servi di nessuno. Si tratta di un’obbedienza che ciascuno, senza altra spinta che non sia quella della natura, rende a suo padre e sua madre; di questo tutti gli uomini possono essere testimoni di fronte a se stessi. Quanto invece al problema se la ragione sia innata o no (questione dibattuta a fondo nelle accademie e affrontata da tutte le scuole filosofiche) penso di non sbagliarmi dicendo che c’è nella nostra anima un seme naturale di ragione il quale, una volta che sia mantenuto da buoni consigli e abitudini, fiorisce in virtù, mentre a volte non potendo resistere ai vizi che sopraggiungono col tempo, muore soffocato. Ma certamente, se c’è una cosa chiara ed evidente così che nessuno può permettersi di non vedere è che la natura stabilita da Dio a governare gli uomini ci ha fatti tutti allo stesso modo, vale a dire dallo stesso stampo, così che potessimo riconoscerci l’un l’altro come compagni o piuttosto come fratelli. E se nel distribuire i doni sia del corpo che dello spirito ha largheggiato più con alcuni che con altri, tuttavia non per questo ha voluto metterci al mondo come in una sorta di recinto da combattimento, e non ha certo creato i più forti e i più furbi perché si comportassero come i briganti nella foresta che danno addosso ai più deboli. Piuttosto bisogna credere che la natura, dando agli uni di più agli altri di meno, abbia voluto porre le condizioni per un affetto fraterno che tutti potessero esercitare, avendo gli uni la forza di recare aiuto, gli altri bisogno di riceverne. Così dunque questa buona madre ha dato a tutti noi la terra da abitare, mettendoci in certo modo in un’unica grande casa, ci ha fatti tutti con lo stesso impasto così che ognuno potesse riconoscersi nel proprio fratello come in uno specchio. Se dunque a tutti noi ha fatto il grande dono della parola per comunicare, diventare sempre più fratelli e arrivare tramite il continuo scambio delle nostre idee ad una comunione di volontà; se ha cercato in tutti i modi di stringere sempre più saldamente il vincolo che ci lega in un patto di convivenza sociale; se insomma sotto ogni punto di vista ha mostrato chiaramente di averci voluti non solo uniti ma addirittura una cosa sola, allora non c’è dubbio che tutti siamo liberi per natura, poiché siamo tutti compagni e a nessuno può venire in mente che la natura, dopo averci messi tutti quanti insieme come fratelli, abbia potuto porre qualcuno nella condizione di servo.

Ma forse non vale la pena discutere se la libertà sia naturale, dato che è impossibile tenere qualcuno in schiavitù senza fargli un grande torto e nessuna cosa al mondo è più contraria alla natura, dove tutto è razionale, della ingiustizia. Dunque la libertà è naturale e a mio giudizio siamo nati non solo padroni della nostra libertà ma anche dotati della volontà di difenderla. Ora se per caso qualcuno nutrisse ancora dei dubbi su questo e si fosse talmente depravato da non riconoscere più neppure i beni della propria natura umana e gli affetti che gli sono originari, è necessario rendergli l’onore che si merita e mettergli in cattedra per così dire le bestie prive di ragione che gli possano insegnare quale sia la sua natura e la sua condizione.

Sì le bestie stesse, per Dio, a meno che gli uomini vogliano fare i sordi, continuamente gridano: viva la libertà! Infatti la maggior parte degli animali muore appena catturata. Come il pesce muore appena lo si toglie dall’acqua così tutti gli animali chiudono gli occhi alla luce del mondo piuttosto che continuare a vivere dopo aver perso la loro naturale condizione di libertà. E se gli animali avessero tra loro diversi gradi d’importanza penso che l’esser liberi costituirebbe la loro massima nobiltà. Altri animali, dal più grande fino al più piccolo, quando li si vuol prendere oppongono una tale resistenza con le unghie, le corna, il becco o i piedi, che dimostrano in modo evidente quanto sia loro caro ciò che stanno per perdere. Poi, una volta catturati, danno chiari segni di malessere e si può benissimo notare che dal momento della cattura il loro non è un vivere ma un languire, e stanno in vita più per lamentarsi della libertà perduta che per rassegnazione alla prigionia. E quando l’elefante, dopo essersi difeso fino all’estremo delle forze, non avendo più via di scampo ed essendo oramai sul punto di essere preso, si avventa con le mascelle contro gli alberi e si spezza le zanne, non dimostra forse il suo grande desiderio di restare libero com’è per natura, cercando di venire a patti con i cacciatori e di lasciar loro i suoi denti pur di riuscire ad andarsene e in cambio dell’avorio riacquistare la libertà? E così il cavallo; appena nato lo addestriamo a servire, ma nonostante tutte le nostre attenzioni e carezze, quando lo vogliamo domare dobbiamo ricorrere ai colpi di sperone per fargli mordere il freno, quasi volesse far vedere alla natura che se deve servire non lo fa di suo istinto ma per costrizione altrui. Che dire ancora?

«Il bue stesso sotto il giogo si lamenta e geme l’uccellin rinchiuso in gabbia» come ho scritto una volta quando per passatempo mi divertivo a comporre poesie; e scrivendo a te, Longa (2), non dubito affatto che mi riterrai un vanitoso se mi permetto di inserire la citazione delle mie rime, che non leggerei mai se tu non riuscissi a darmi da intendere che ti piace ascoltarle. Così dunque se ogni essere che ha sentimento della propria esistenza vive l’infelicità della soggezione e corre dietro la libertà, se gli animali, che pur sono fatti per servire l’uomo, non riescono ad abituarsi senza manifestare allo stesso tempo un istinto contrario, quale oscuro male ha potuto snaturare a tal punto l’uomo, l’unico ad essere nato propriamente per vivere libero, da fargli perdere la memoria del suo primo stato e il desiderio di riacquistarlo?

Vi sono tre tipi di tiranni: alcuni ottengono il potere in base alla scelta del popolo; altri con la forza delle armi; gli ultimi infine per successione dinastica.Coloro che l’hanno avuto per diritto di guerra si comportano nel modo che tutti ben conoscono, trovandosi, come si usa dire, in terra di conquista. Chi invece nasce re non è certo migliore, anzi essendo nato e cresciuto in seno alla tirannia la natura di despota l’ha succhiata con il latte: considera infatti i popoli che gli sono sottomessi alla stregua di servi avuti in eredità e, secondo l’inclinazione che si ritrova, tratta il regno da avaro o da scialacquatore come fosse cosa sua propria. Infine per quanto riguarda colui che ha ricevuto il potere dal popolo, mi sembra che dovrebbe essere più sopportabile e credo lo sarebbe se non fosse per il fatto che una volta vistosi innalzato sopra tutti gli altri, gonfiato da un sentimento che non saprei definire ma che tutti chiamano senso di grandezza, decide di non scenderne più. Di solito poi costui fa conto di lasciare ai figli il potere che il popolo gli ha affidato; e dal momento che essi si mettono in testa questa idea è uno spettacolo tremendo osservare come sanno superare in ogni tipo di vizi e perfino in crudeltà gli altri tiranni, non trovando altro metodo per rafforzare la nuova tirannia se non quello di accrescere la schiavitù e di sradicare la libertà dall’animo dei loro sudditi a tal punto che, per quanto l’abbiano ben presente nella memoria, riescono a fargliela perdere.

Così, a dir la verità, vedo che tra i vari tipi di tirannide vi è qualche differenza ma non noto che vi sia la possibilità di una scelta, poiché pur essendo diverse le vie per arrivare al potere il modo di regnare è sempre più o meno lo stesso. Coloro che sono eletti dal popolo lo trattano come un toro da domare; chi ha conquistato il regno pensa di avere su di lui il diritto di preda; chi infine lo ha ereditato considera i sudditi come suoi schiavi naturali. A questo proposito però vorrei chiedere: ammettiamo per caso che oggi nasca un tipo di gente del tutto nuovo, non abituata alla servitù né allettata dalla libertà, che non sappia assolutamente nulla dell’una e dell’altra cosa se non a malapena i nomi; se a costoro venisse presentata l’alternativa tra l’esser servi o il vivere liberi secondo quelle leggi che stabiliranno fra loro di comune accordo, che cosa sceglierebbero? Non c’è dubbio che avrebbero più caro ubbidire soltanto alla ragione piuttosto che servire ad un uomo, a meno che siano come quei d’Israele che senza alcuna costrizione o necessità si crearono un tiranno (3). E devo confessare che non riesco mai a leggere la storia di questo popolo senza provare una stizza tale da diventare quasi inumano nei suoi confronti, arrivando al punto di rallegrarmi per tutte le disgrazie che gli sono poi capitate. Certamente perché tutti gli uomini (fin quando almeno hanno qualcosa di umano) si lascino assoggettare è necessario una delle due: esservi costretti o ingannati.

Costretti dalle armi straniere, come Sparta e Atene dall’esercito di Alessandro, o dalle fazioni in gioco, come il governo di Atene prima di cadere nelle mani di Pisistrato. Per inganno gli uomini perdono sovente la loro libertà; in questo un poco sono sedotti da altri, più spesso però accade che siano loro stessi ad ingannarsi. Così gli abitanti di Siracusa, la principale città della Sicilia, assaliti da ogni parte e preoccupati solo di salvarsi dal pericolo imminente, chiamarono Dionigi Primo e gli diedero l’incarico di guidare l’esercito contro il nemico, senza badare al fatto di averlo reso così potente che una volta tornato vittorioso questo furfante, come se avesse sconfitto non dei nemici ma i suoi stessi concittadini, da capitano si fece promuovere re e da re tiranno. E nessuno crederebbe come un popolo, dopo essere stato sottomesso, sprofondi subito in una tale dimenticanza della libertà che non gli è più possibile risvegliarsene per riacquistarla, ma serve così di buon grado il tiranno che a vederlo si direbbe non già che ha perso la sua libertà ma che si è guadagnato la sua servitù. E’ pur vero che all’inizio l’uomo serve a malincuore, costretto da forza maggiore; ma quelli che vengono dopo, non avendo mai visto la libertà e non sapendo neppure cosa sia, servono senza alcun rincrescimento e fanno volentieri ciò che i loro padri hanno fatto per forza. E così gli uomini che nascono con il giogo sul collo, nutriti e allevati nella servitù, senza sollevare lo sguardo un poco in avanti si accontentano di vivere come sono nati, e non riuscendo a immaginare altri beni e altri diritti da quelli che si sono trovati dinnanzi prendono per naturale la condizione in cui sono nati. E tuttavia non c’è erede tanto spensierato e incurante che qualche volta non dia un’occhiata ai registri di famiglia per vedere se gode di tutti i diritti di successione o se invece non sia avvenuta qualche macchinazione contro di lui o contro i suoi predecessori. Ma è anche vero che la consuetudine, la quale ha un grande influsso su tutte le nostre azioni, esercita il suo potere soprattutto nell’insegnarci a servire, e come Mitridate che si abituò a bere il veleno, ci rende alla fine assuefatti a trangugiare normalmente il veleno della servitù senza sentirne l’amaro. Certamente nel tendere verso il bene o verso il male gioca in gran parte la natura che ci spinge dove vuole; ma bisogna ammettere che essa ha meno potere su di noi di quanto non l’abbia la consuetudine, perché la nostra indole, per quanto possa essere buona, va persa se non si cerca di mantenerla.

L’educazione insomma lascia sempre la sua impronta malgrado le tendenze naturali. I semi del bene che la natura mette dentro di noi sono così piccoli e fragili che non possono resistere al benché minimo impatto con un’educazione di segno contrario. Inoltre non è semplice conservarli poiché con molta facilità si chiudono in sé, degenerano e finiscono in niente, né più né meno degli alberi da frutta che hanno ognuno la loro particolarità e la mantengono se li si lascia crescere in modo naturale, ma perdono ben presto le loro caratteristiche e producono frutti estranei se si operano degli innesti. Perfino ogni erba ha le sue proprietà naturali; tuttavia il gelo, il tempo, il terreno e la mano del giardiniere influiscono molto sulla loro qualità, sia nel peggiorarla che nel migliorarla: una pianta vista in un dato luogo, in un altro si riconosce a fatica. Chi vedesse i veneziani, questo piccolo popolo, vivere una vita così libera che il più meschino tra loro non si sognerebbe di diventare re, nati e allevati in modo tale da avere una sola ambizione, quella di dare ognuno miglior prova dell’altro nel conservare gelosamente la libertà; educati fin dalla culla in questo senso così che non cederebbero neppure un’oncia della loro libertà in cambio di tutte le altre felicità della terra; ebbene dicevo, chi vedesse questa gente e poi se ne andasse nelle terre di colui che chiamiamo gran signore trovandovi un popolo nato per servire e votato per tutta la vita a mantenere il suo potere, riuscirebbe mai a pensare che gli uni e gli altri sono della stessa natura o piuttosto non crederebbe di essere uscito da una città di uomini per entrare in un parco di animali?

Si dice che Licurgo, il legislatore di Sparta, avesse allevato due cani, tutti e due fratelli e allattati dalla stessa cagna, tenendone uno a ingrassare in cucina e abituando l’altro a correre nei campi al suono della tromba e del corno. Volendo far vedere agli spartani che gli uomini sono come li fa l’educazione, portò i cani in piazza e mise loro vicino una minestra e una lepre: il primo si buttò sulla scodella, l’altro corse dietro alla lepre. Eppure – concluse Licurgo – sono fratelli!Così questo grand’uomo con le sue leggi seppe dare una tale educazione agli spartani che ciascuno di loro avrebbe avuto più caro morire mille volte piuttosto che riconoscere altro signore all’infuori della legge e della ragione.

A questo proposito vorrei ricordare la conversazione che si tenne tra uno dei più alti rappresentanti di Serse, il grande re dei persiani, e due spartani. Durante i preparativi per la conquista della Grecia, Serse mandò i suoi ambasciatori nelle città di quella regione a chiedere l’acqua e la terra (formula con la quale i persiani erano soliti intimare alle città di sottomettersi). Ma ad Atene e Sparta non ne inviò ricordandosi che quando Dario suo padre li aveva voluti mandare, furono buttati dagli ateniesi in un fosso e dagli spartani in un pozzo e si sentirono rivolgere:

«Prendete pure da qui tutta l’acqua e la terra che volete e portatela al vostro re».

A tal punto giungeva la loro insofferenza anche per la più piccola parola che suonasse offesa alla loro libertà. Tuttavia per aver agito in questo modo gli spartani si accorsero di aver provocato l’ira degli dei, soprattutto di Taltibio, dio dei messaggeri. Allora per rabbonire Serse pensarono di mandargli due cittadini perché li trattasse a suo arbitrio e potesse così vendicarsi degli ambasciatori che erano stati uccisi a suo padre. Due spartani, l’uno chiamato Sperto l’altro Buli, si offrirono volentieri per andare a pagare di persona questo debito. Giunsero così al palazzo di un persiano chiamato Gidarno, luogotenente del re per tutte le città della costa asiatica. Costui fece loro grandi onori e conversando su vari argomenti con i suoi ospiti ad un certo punto chiese per quale motivo rifiutassero così decisamente l’amicizia del suo grande re. E aggiunse:

«Guardate me per esempio e noterete allora come il re sa ricompensare coloro che se ne rendono degni; credetemi, se vi metteste al suo servizio si comporterebbe allo stesso modo anche verso di voi. Son sicuro che se vi conoscesse ognuno di voi diventerebbe signore di una città della Grecia».«In queste cose Gidarno non puoi darci alcun consiglio – risposero gli spartani – perché tu hai gustato il bene che ci prometti ma non conosci quello che godiamo noi. Tu hai provato i favori del re, ma non sai che sapore abbia la libertà e quanto essa sia dolce. Se l’avessi anche solo sfiorata tu stesso ci consiglieresti di difenderla non soltanto con la lancia e lo scudo ma con le unghie e i denti».

Solo gli spartani erano nel giusto; ma è certo che gli uni e gli altri parlavano come erano stati educati. Era infatti impossibile al funzionario persiano rimpiangere la libertà non avendola mai provata, così come gli spartani non potevano sottomettersi al giogo avendola gustata appieno.

Catone l’Uticense, quando era ancora fanciullo e sotto la guida del precettore, si trovava spesso a casa di Silla il dittatore alla quale aveva libero ingresso sia per il rango della famiglia cui apparteneva sia per la stretta parentela. Ci andava sempre in compagnia del suo precettore com’era abitudine dei figli di nobile famiglia e frequentando questa casa si accorse che in presenza di Silla oppure su suo ordine c’era chi veniva messo in prigione, un altro che veniva condannato, uno che veniva esiliato, un altro strangolato, e vi erano poi coloro che facevano richiesta di confisca ai danni di un cittadino o addirittura ne chiedevano la testa. In poche parole sembrava di essere non a casa di un rappresentante della città ma a palazzo di un tiranno del popolo, non a un tribunale di giustizia ma in una spelonca di tiranni. Allora questo giovanetto rivolgendosi al precettore disse: «Perché non mi date un pugnale che possa nascondere sotto il vestito? Io entro spesso in camera di Silla prima che si alzi e ho il braccio abbastanza forte per liberarne la città». Ecco un discorso davvero da Catone, l’inizio di una vita in nulla inferiore alla dignità della sua morte.

Lasciamo pur perdere il nome e l’origine di questo personaggio. Si presenti l’episodio per quello che è; il fatto parla da solo e senza pensarci su molto si potrà arrivare a dire che quel ragazzo era romano, nato nel cuore della vera Roma quando essa era libera. Perché dico questo? Non certo perché ritenga che il luogo o il clima possano giovare a qualcosa, dato che in ogni paese e sotto qualsiasi latitudine è amara la servitù e dolce la libertà, ma perché sono del parere che si debba aver pietà di coloro che fin dalla nascita si sono trovati il giogo sul collo, che li si scusi o comunque li si perdoni se non avendo mai visto neppure l’ombra della libertà e non avendone mai avuto sentore non si accorgono di quel grave danno che è l’essere servi. Se ci fossero veramente dei paesi (come racconta Omero a proposito dei Cimmeri) dove il sole si mostra in modo tutto diverso da come appare a noi, illuminandoli per sei mesi di seguito e per gli altri sei lasciandoli completamente al buio senza farsi rivedere, ci si potrebbe meravigliare se coloro che nascono durante questa lunga notte si abituassero a vivere nelle tenebre dove sono nati senza desiderare la luce del giorno, non avendone mai sentito parlare e non avendola mai vista? Non si può rimpiangere quello che non si ha mai avuto e il rammarico vien solo dopo il piacere; e sempre la conoscenza del male fa nascere il ricordo della felicità del tempo passato. Per natura l’uomo è e vuole essere libero; ma anche la sua natura è fatta in modo tale da prendere la piega che gli dà l’educazione. Diciamo dunque che tutto ciò cui l’uomo si abitua fin da bambino gli diventa naturale; ma in lui di propriamente naturale e originario vi è solo quello a cui lo sollecita la natura semplice e schietta. Così la prima ragione della servitù volontaria risulta essere la consuetudine. Proprio come quei destrieri cortaldi (4) che all’inizio mordono il freno ma poi ci piglian gusto, e mentre nei primi giorni si mostrano recalcitranti appena si mette loro sopra la sella, in seguito imparano a sfilare nelle loro ricche bardature e se ne vanno tutti fieri e orgogliosi dei loro finimenti.

A volte si sente affermare tranquillamente di essere stati sempre sottomessi e che già i padri hanno vissuto in queste condizioni; costoro pensano di essere obbligati a sopportare questo danno, si persuadono l’un l’altro con degli esempi, e sono loro stessi col trascorrere del tempo a legittimare il potere di coloro che li tiranneggiano. Ma il passare degli anni, a ben vedere, non dà certo diritto a comportarsi male, anzi aggrava l’ingiustizia. E’ ben vero che si trova sempre qualcuno più fiero degli altri che sente il peso del giogo, non può trattenersi dallo scuoterlo e non riesce ad abituarsi alla servitù. Costui, come Ulisse che per mare e per terra cercava continuamente di rivedere il fumo della sua casa, non riesce a dimenticare i suoi naturali diritti, a non pensare a coloro che l’hanno preceduto e alla condizione in cui vivevano. Sono proprio persone di questo tipo che avendo chiari intendimenti e spirito lungimirante non si accontentano come la plebaglia di guardare a ciò che sta loro immediatamente dinnanzi, ma hanno l’occhio attento al passato e a ciò che potrà accadere nel futuro; si rifanno alle cose avvenute un tempo per giudicare il presente e discutere dell’avvenire. Costoro avendo avuto per natura uno spirito acuto l’hanno saputo anche educare con lo studio e la scienza; e quand’anche la libertà fosse andata completamente perduta e scomparsa dalla faccia della terra essi, rivivendola nel proprio spirito, riuscirebbero ancora ad assaporarla, e mai la servitù sarà di loro gusto, per quanto possa mascherarsi o abbellirsi.

Il Gran Turco si è ben accorto che sono i libri e l’insegnamento molto più di ogni altra cosa a mettere nel cuore degli uomini il sentimento di sé, il riconoscimento della propria dignità e l’odio per il tiranno: per questo sento dire che nelle sue terre non vi sono molte persone di scienza e neppure le richiede. Comunque lo zelo di tutti coloro che malgrado i tempi sono rimasti attaccati alla libertà, per quanto numerosi essi siano, rimane senza effetto perché non si conoscono tra loro. Sotto la tirannia ogni libertà di fare, di parlare, e quasi di pensare viene loro tolta: così rimangono tutti soli e isolati nei loro desideri. Va dunque riconosciuto che Momo, il dio burlone, non scherzava poi tanto quando trovava da ridire sull’uomo che aveva creato Vulcano, perché non gli era stata messa una piccola finestra sul cuore così da poterne leggere i pensieri.

Si dice che quando Bruto e Cassio si misero all’impresa di liberare Roma o per meglio dire il mondo intero, non vollero che Cicerone, questo grande uomo pieno di zelo per il bene comune come mai ve ne fu, si schierasse dalla loro parte, perché ritenevano che avesse il cuore troppo debole per partecipare ad un evento così decisivo; credevano nella sua buona volontà ma non facevano affidamento sul suo coraggio. E tuttavia chi vorrà tornare a riflettere sui fatti del passato e consultare antichi annali, passando in rassegna tutti coloro che vedendo il proprio paese alla deriva e in cattive mani si misero all’opera per liberarlo con intenzione sincera e dedizione totale, ne troverà ben pochi che non abbiano raggiunto lo scopo, perché la libertà si fa largo per conto suo. Armodio, Aristogitone, Trasibulo, Bruto il vecchio, Valerio e Diones, tutti quanti concepirono questo giusto progetto e lo realizzarono felicemente; in questi casi alla buona volontà non manca quasi mai la fortuna. Anche Bruto il giovane e Cassio riuscirono ad eliminare la causa della schiavitù; fu invece nel tentativo di riportare la libertà a Roma che essi morirono, non miseramente (sarebbe veramente una infamia cercare nella vita o nella morte di questi eroi indegnità e miserie), ma certo con grave danno, sventura perenne e definitiva rovina della repubblica che, mi sembra, fu sotterrata con loro. Le imprese successive compiute contro gli imperatori romani non furono altro che congiure di gente ambiziosa, la quale non deve certo essere compianta per gli inconvenienti cui andò incontro, essendo a tutti evidente che desideravano semplicemente far cadere una corona, non togliere il re, cacciare sì il despota, ma tenere in vita la tirannide. Riguardo a costoro sarei dispiaciuto se fossero riusciti nel loro scopo, e sono ben contento che oggi possano essere portati a dimostrazione del fatto che non bisogna abusare del santo nome della libertà per compiere imprese malvagie.

Ma per tornare al nostro argomento che avevo quasi perso di vista, la prima ragione per cui gli uomini servono di buon animo è perché nascono servi e sono allevati come tali. Da qui deriva quest’altro fatto:  molto facilmente sotto la tirannia ci si rammollisce e si diventa effeminati. Fu Ippocrate, il padre della medicina, ad accorgersi di questo e a scriverlo in uno dei suoi libri dal titolo “Le malattie” (6), e di questa sua intuizione dobbiamo essergli assolutamente grati. Questo personaggio aveva senza dubbio un cuore generoso e lo dimostrò in un’occasione. Poiché il grande sovrano (7)lo voleva presso di sé e lo sollecitava continuamente con varie profferte e con grandi donativi, Ippocrate un giorno gli rispose in tutta franchezza che avrebbe avuto dei problemi di coscienza nel mettersi a curare dei barbari che volevano uccidere il suo popolo e nel rendersi condiscendente al loro re che si stava preparando ad assoggettare la Grecia. La lettera che Ippocrate inviò al re contenente queste affermazioni si può leggere ancora oggi nelle sue opere e rimarrà per sempre una testimonianza del suo coraggio e del suo nobile carattere.

E’ ormai certo che con la libertà si perde allo stesso tempo anche il coraggio. Gli uomini sottomessi vanno in battaglia senza alcuna baldanza e ardimento, affrontano il pericolo l’uno appiccicato all’altro, intorpiditi, tanto per adempiere ad un obbligo e non si sentono bollire il sangue nelle vene per l’ardore della libertà che sola fa disprezzare il pericolo e nascere il desiderio di acquistare l’onore della gloria fra tutti i compagni con un bel morire. Al contrario fra gente libera si fa a gara per vedere chi è il migliore, combattendo per sé e per il bene comune, aspettando tutti di avere la propria parte di bene in caso di vittoria o la parte di male nella sconfitta; invece la gente asservita non ha più questo coraggio da guerrieri, anzi non riesce neppure ad essere vivace nelle altre cose, poiché possiede un animo ristretto e incapace di aspirare a qualcosa di grande. I tiranni sanno bene tutto questo e vedendo i loro sudditi prendere una simile piega li spingono in questa direzione così da renderli ancor più fiacchi e indolenti.

Senofonte, storico insigne tra i più grandi della Grecia, scrisse un libretto (8) dove si può trovare il dialogo di Simonide con Ierone, re di Siracusa, sulle miserie del tiranno. E’ un libro pieno di gravi ma giusti rimproveri, esposti a mio parere nel tono più adatto possibile. Avesse voluto Iddio che tutti i tiranni, quanti vi sono stati sulla terra, se lo fossero tenuto davanti agli occhi così da farsene specchio! Sono sicuro che in questo modo avrebbero potuto riconoscere sulla propria faccia i segni del vizio e provarne grande vergogna. In questo trattato viene descritta la vita penosa che trascorrono i tiranni, i quali facendo del male a tutti sono costretti a temere continuamente di riceverlo da ciascuno. Fra tante cose vien fatto anche notare che i re malvagi si servono di stranieri presi come mercenari per fare le guerre, non fidandosi di mettere le armi in mano alla loro gente cui hanno fatto ogni specie di torto. (Ci sono stati a dire il vero dei buoni sovrani che hanno assoldato stranieri, alcuni tra gli stessi re di Francia, anche se più in passato che non oggi; ma con l’unica intenzione di mantenere in vita il proprio popolo, non preoccupandosi di spendere denaro pur di risparmiare uomini. Come diceva, se ben mi ricordo, Scipione l’Africano: preferirei salvare la vita ad un cittadino piuttosto che uccidere cento nemici.) Ma è certo che i tiranni non sono mai tranquilli e sicuri di avere in mano tutto il potere fino a quando non giungono al punto di non avere più sotto di sé alcun uomo di coraggio. Dunque a buon diritto si potrà dir loro quel che Trasone in una commedia di Terenzio si vanta di aver rinfacciato al domatore degli elefanti:

«Tu ti reputi molto abile
Avendo a che fare con delle bestie» (9).

Questa astuzia dei tiranni nell’abbrutire i propri sudditi più che in ogni altro caso si è manifestata in modo evidente nel trattamento che Ciro riservò agli abitanti della Lidia, dopo essersi impadronito di Sardi, capitale di quella regione, e dopo aver fatto schiavo il ricchissimo re Creso che si era rimesso nelle sue mani. Giunse notizia a Ciro che gli abitanti di Sardi erano scesi in rivolta. Avrebbe potuto ridurli in un attimo ai suoi voleri; ma non volendo distruggere una così bella città e neppure essere obbligato a tenervi di guardia un esercito, per garantirsene la sottomissione, ricorse a questo espediente: vi fece collocare bordelli, taverne e giochi pubblici e bandì un’ordinanza con cui i cittadini erano autorizzati a farne uso come volevano. E questa specie di guarnigione gli rese così buon servizio che da allora non ci fu più bisogno neppure di un solo colpo di spada contro gli abitanti della Lidia. Questi poveracci si divertivano a inventare ogni tipo di gioco a tal punto che i latini, per indicare ciò che noi chiamiamo passatempi, trassero dal loro nome il termine “ludi”. Non tutti i tiranni hanno mostrato così apertamente di voler effeminare i loro sudditi; ma di fatto quanto Ciro ordinò formalmente gli altri per la maggior parte sono riusciti ad ottenerlo di nascosto. In effetti questa è la tendenza naturale della plebaglia che solitamente si ritrova più numerosa nelle città: è sospettosa nei riguardi di chi le vuol bene mentre è ingenua e pronta a tutto verso chi l’inganna. Non vi è uccello che si lasci prendere così agevolmente nella pania o pesce che abbocchi in fretta all’amo quanto facilmente si facciano allettare dalla schiavitù tutti i popoli appena ne avvertono il più leggero profumo sotto il naso. Ed è veramente una cosa fuori dal comune vedere come cedano sull’istante alla minima lusinga: teatri, giochi, commedie, spettacoli, gladiatori, animali esotici, esposizioni di medaglie e di vari dipinti, e altre droghe di questo tipo costituivano per i popoli antichi l’esca per la schiavitù, il prezzo della loro libertà, gli strumenti della tirannia; insomma tutto un sistema congegnato dagli antichi tiranni per addormentare i sudditi sotto il giogo. Così i popoli, inebetiti e incantati da simili passatempi, divertendosi in modo insulso con quei piaceri che venivano fatti passare davanti ai loro occhi, si abituavano a servire in questo modo del tutto sciocco, peggio ancora dei bambini che imparano a leggere per via delle immagini colorate e delle miniature che si trovano sui libri. A tutti questi stratagemmi i tiranni romani aggiunsero l’usanza di festeggiare spesso le decurie pubbliche (10) prendendo per la gola questa gente abbrutita che non aspettava altro; il più accorto e intelligente fra tutti costoro non avrebbe dato il suo piatto di minestra per scoprire la libertà della repubblica di Platone. In queste occasioni i tiranni facevano i generosi distribuendo quarti di grano, qualche sestario (11) di vino e un po’ di sesterzi; ed allora era davvero uno spettacolo penoso sentir gridare viva il re! Quegli sciocchi non si accorgevano che stavano semplicemente recuperando una parte dei propri beni e che anche quel poco che stavano ricevendo poteva essere donato dal tiranno solo perché prima li aveva derubati. In tal modo nel giorno di festa la gente raccoglieva sesterzi e gozzovigliava ringraziando Tiberio o Nerone per la loro generosità per poi essere costretti il giorno dopo a consegnare i propri beni, i figli, la vita stessa all’avidità, alla lussuria e alla crudeltà di questi magnifici imperatori, senza osar dire una parola, muti come un sasso, e senza fare il minimo movimento, immobili come piante. La plebaglia si è sempre comportata in questo modo: subito disposta a perdersi nei piaceri che onestamente non potrebbe accettare, insensibile al torto e alle sofferenze che non dovrebbe ulteriormente sopportare.

Attualmente non c’è nessuno che sentendo parlare di Nerone non tremi al solo nome di quel mostro tremendo, di quell’orribile e turpe flagello del mondo; e tuttavia allorché questo incendiario, questo boia, questa bestia selvaggia morì, in modo disonesto come tutta la sua vita, il famoso popolo romano, ricordando i suoi giochi e i suoi festini, rimase talmente dispiaciuto che fu sul punto di portarne il lutto. Così almeno ci ha lasciato scritto Tacito, storico tra i più attendibili e straordinariamente serio. Tutto questo non deve sembrar strano visto che il popolo romano aveva fatto altrettanto qualche tempo prima in occasione della morte di Giulio Cesare che aveva messo completamente da parte leggi e libertà, personaggio in cui non mi sembra si sia potuto trovare qualcosa di valido, dato che la sua stessa umanità solitamente tanto esaltata è stata più dannosa che non le crudeltà del tiranno più sanguinario che sia mai vissuto: infatti fu proprio questa sua velenosa dolcezza che indorò la pillola della servitù al popolo romano. E così dopo la sua morte questo popolo che aveva ancora la bocca piena dei suoi banchetti e il ricordo vivo delle sue prodigalità, per rendergli onore e avere le sue ceneri, fece a gara nell’ammucchiare i banchi del foro per formarne un rogo; poi eressero una colonna a colui che vollero considerare padre della patria (così stava scritto sul capitello), e gli fecero più onore da morto di quanto se ne sarebbe dovuto fare di diritto ad un eroe vivo, se non addirittura a quegli stessi che l’avevano ammazzato.

Gli imperatori romani non dimenticavano neppure di assumere comunemente il titolo di tribuno del popolo, sia perché questo incarico era considerato sacrosanto, sia per il fatto che era finalizzato alla difesa e alla protezione del popolo. In questo modo, con il favore dello stato, si garantivano la fiducia del popolo come se quest’ultimo dovesse accontentarsi del nome, senza sentire gli effetti concreti della tirannia. E oggi non si comportano molto meglio coloro che ogni qualvolta compiono un crimine, anche molto grave, lo ammantano di qualche bel discorso sul bene comune e sull’utilità pubblica. E tu sai bene mio caro Longa il vasto formulario di cui potrebbero in molti casi fare elegante uso, ma la stragrande maggioranza dei tiranni non si affida a troppe sottigliezze sostenendosi piuttosto sulla più grande impudenza. I re dell’Assiria e dopo di loro anche quelli della Media usavano presentarsi in pubblico il più raramente possibile per far nascere il dubbio al popolo che essi fossero qualcosa più che uomini e lasciarlo così in queste immaginazioni, dato che la gente lavora volentieri di fantasia su quelle cose che non può giudicare e vedere di persona. Creata così quest’aura di mistero attorno al sovrano tante nazioni che rimasero a lungo sotto l’impero assiro si abituarono a servire tanto più volentieri quanto più non sapevano che padrone avessero, anzi se l’avessero davvero o no, nutrendo timore in base alla credenza in un essere che nessuno era mai riuscito a vedere. I primi re d’Egitto non si mostravano quasi mai in pubblico senza portare ora un ramo d’albero, ora perfino del fuoco sulla testa; e mascherandosi in questo modo e comportandosi come dei ciarlatani ispiravano con queste stranezze rispetto e ammirazione ai loro sudditi che se non fossero stati troppo sciocchi o troppo servili avrebbero dovuto assistere a quella squallida buffonata solo per riderci sopra. E’ davvero pietoso ricordare quanti stratagemmi abbiano messo in atto i sovrani di un tempo per impiantare la loro tirannia, di quali mezzucci si siano serviti trovandosi davanti una plebaglia fatta apposta per loro, incapace di evitare qualsiasi trabocchetto che le venisse teso, ingannata con estrema facilità e tanto più sottomessa quanto più il tiranno si prendeva gioco di lei.

E che dire di un’altra bella favola che i popoli antichi prendevano per oro colato? Essi credevano fermamente che l’alluce di Pirro re dell’Epiro facesse miracoli e guarisse le malattie della milza; anzi, quasi a voler rincarare la dose, erano convinti che quel dito, quando alla morte di Pirro ne venne bruciato il corpo, fosse sfuggito al fuoco e si fosse ritrovato integro in mezzo alle ceneri. Così il popolo si è sempre fabbricato da solo le più sciocche fandonie per poi poterci credere. E molte di queste sono state anche scritte ma in uno stile tale che se ne può facilmente scorgere l’origine nelle chiacchiere del popolino raccolte agli angoli delle strade. Così si dice che Vespasiano nel suo viaggio dall’Assiria a Roma dove si recava per impadronirsi dell’impero abbia fatto sosta ad Alessandria dove compì ogni sorta di miracoli: raddrizzò gli zoppi, ridiede la vista ai ciechi e fece tante altre cose meravigliose che potevano essere credute a mio avviso solo da gente più cieca di quelli che sarebbe riuscito a guarire. E i tiranni stessi trovavano del tutto strano il fatto che la gente potesse sopportare un uomo che continuamente la maltrattava; per questo decisero di mettersi davanti la religione come scudo e, nella misura del possibile, assumere una qualche sembianza di divinità per non dover rendere conto della propria vita malvagia. Per questo Salmoneo, se crediamo alla Sibilla di Virgilio, sconta ora in fondo all’inferno le sue pene per aver ingannato il popolo e aver fatto credere d’essere Giove:

«Vidi anche i crudeli tormenti di Salmoneo:
Imitava costui le fiamme di Giove e i fragori d’Olimpo;
Passava costui trasportato da quattro cavalli
Agitando una fiaccola per mezzo alle genti dei Greci
Cercando al regno dell’Elide onori divini:
Folle! pensava imitare il bagliore dei lampi
E i nembi col carro di bronzo e il fragor dei cavalli.
Ma un fulmine Giove scagliò dal torbido cielo,
Chè Giove non torce fumose lanciava,
E precipite giù lo travolse con turbine immane» (12).

Ora se costui, che in fondo non era che un povero sciocco, viene trattato così bene laggiù, credo proprio che tutti coloro i quali hanno abusato della religione per fare del male saranno trattati ancora meglio.

Anche i nostri sovrani sparsero per la Francia una quantità di cose tra le più disparate e indefinibili: rospi, fiordalisi, orifiamma (13). In ogni modo per quel che mi riguarda non voglio passare per miscredente nei confronti di tutte queste cose poiché né noi né i nostri antenati abbiamo avuto finora ragione d’esserlo, essendoci sempre toccati sovrani tanto buoni in pace e così prodi in guerra che pur essendo re dalla nascita non sembrano fatti dalla natura come gli altri bensì, ancor prima di venire al mondo, scelti da Dio onnipotente per governare e conservare questo regno. Comunque, anche se ciò non fosse, non ho certo l’intenzione di mettermi a discutere la verità delle nostre tradizioni e neppure di esaminarle in modo minuzioso, non volendo privare di questi bei temi la nostra poesia francese che senz’altro saprà trovare in essi il soggetto per tante esercitazioni e già ora viene migliorata, anzi rimessa a nuovo dai nostri Ronsard, Baif, Du Bellay; questi grandi poeti stanno facendo progredire la nostra lingua a tal punto da poter sperare che ben presto i greci e i latini ci saranno superiori solo per il fatto di essere stati i primi. E certo farei un gran torto alle nostre rime (uso volentieri questo termine che a me non dispiace perché, anche se molti l’hanno reso un fatto puramente meccanico, tuttavia vedo altrettante persone che si sono messe a rinobilitarlo e a restituirlo agli antichi onori), farei un gran torto, dicevo, a sottrarre ai poeti i bei racconti di re Clodoveo sui quali già si esercitò, mi sembra con grande maestria e sicurezza, la vena vivace del nostro Ronsard nella sua “Franciade”. Intendo la sua portata, conosco il suo spirito acuto e il suo garbo nello scrivere: saprà cavarsela in modo eccellente con l’orifiamma come già i romani con i sacri scudi «caduti giù dal cielo» di cui parla Virgilio e riuscirà a trarre buon profitto dalla nostra ampolla così come gli ateniesi dal canestro di Erisittone (14); farà in modo che tutti parlino delle nostre armi come del loro ulivo che tengono ancora nella torre di Minerva. Sarei dunque temerario a voler smentire i testi della nostra tradizione e cancellare così tutte le tracce che vengon seguite dai nostri poeti.

Ma per tornare all’argomento da cui non so come mi sono lasciato deviare, non s’è mai dato il caso che i tiranni, in vista della propria tranquillità, non abbiano fatto ogni sforzo per abituare il popolo non solo all’obbedienza e alla servitù ma anche alla devozione nei propri confronti. Dunque tutte le cose da me dette finora su quel che occorre per abituare la gente alla servitù volontaria vengono usate dai tiranni solo per il popolo più grossolano e ignorante.

Ma ora arrivo al punto che a mio avviso costituisce l’origine nascosta del dominio, il sostegno e il fondamento della tirannia. Chi pensa che le alabarde, le sentinelle, le squadre di ronda proteggano il tiranno secondo me si sbaglia di grosso. Credo che gli siano d’aiuto più come cerimoniale o come spauracchio che non per la fiducia che dovrebbe avere in tutto questo apparato di difesa. Gli arcieri impediscono di entrare a palazzo agli sprovveduti senza mezzi, non a chi è ben armato e agli uomini d’azione. Tra gli imperatori romani è facile contare quei pochi che sono riusciti a salvarsi da qualche pericolo per l’aiuto dei loro soldati più fedeli, al contrario di tutti coloro, e sono la maggior parte, che sono stati uccisi dalle loro stesse guardie del corpo. Non sono gli squadroni a cavallo, non sono le schiere di fanti, non sono insomma le armi a difendere il tiranno; capisco che al primo momento è difficile crederlo ma è così. Sono sempre cinque o sei persone che lo mantengono al potere e gli tengono tutto il paese in schiavitù. E’ sempre stato così: questi cinque o sei hanno avuto la fiducia del tiranno e, sia perché si son fatti avanti da soli sia perché il tiranno stesso li ha chiamati, sono diventati complici delle sue crudeltà, compagni dei suoi divertimenti, ruffiani dei suoi piaceri, soci nello spartirsi il frutto delle ruberie. Questi sei personaggi inoltre tengono vicino a sé seicento uomini dei quali approfittano facendo di loro quel che han fatto del tiranno. I seicento a loro volta ne hanno seimila sotto di sé ai quali conferiscono onori e cariche, fanno assegnare loro il governo delle province oppure l’amministrazione del denaro pubblico così da ottenerne valido sostegno alla propria avarizia e crudeltà, una volta che costoro abbiano imparato a mettere in atto le varie malefatte al momento opportuno; d’altra parte facendone di ogni sorta questi seimila possono mantenersi solo sotto la protezione dei primi e sfuggire così alle leggi e alla forca. E dopo tutti questi la fila prosegue senza fine: chi volesse divertirsi a dipanare questa matassa si accorgerebbe che non seimila ma centomila, anzi milioni formano questa trafila e stanno attaccati al tiranno, proprio come afferma Giove che nel racconto di Omero si vanta di poter tirare a sé tutti gli dei dando uno strattone alla catena. Da qui venne l’aumento di potere al senato sotto Giulio Cesare, l’istituzione di nuove funzioni e la creazione dei vari incarichi; a ben vedere non certo per riorganizzare la giustizia ma per dare nuovi punti di appoggio alla tirannia. Insomma tra favori e protezioni, guadagni e colpi messi a segno, quanti traggono profitto dalla tirannia son quasi pari a coloro che preferirebbero la libertà. E’ come quando, dicono i medici, in una parte del nostro corpo c’è qualcosa di infetto: se in un altro punto si manifesta un piccolo male subito si congiunge alla parte malata. Così appena il re diventa tiranno tutta la feccia del regno, e non intendo con questa un branco di ladruncoli conosciuti da tutti che in una repubblica possono fare ben poco, sia in bene che in male, bensì tutti coloro che sono posseduti da un’ambizione senza limiti e da un’avidità sfrenata, si raggruppano attorno a lui e lo sostengono in tutti i modi per aver parte al bottino e diventare essi stessi tanti piccoli tiranni sotto quello grande. Allo stesso modo si comportano i grandi ladri e i famosi corsari: gli uni fanno scorribande per il territorio, gli altri pedinano i viaggiatori; i primi tendono imboscate, i secondi stanno in agguato; questi trucidano e quelli spogliano; e pur essendoci tra loro vari ranghi in ordine d’importanza, i primi semplici esecutori, gli altri capi della banda, alla fine però non c’è nessuno di loro che non abbia avuto la sua parte, se non proprio al bottino principale, almeno a qualche frutto delle rapine. Si racconta che i pirati della Cilicia si raccolsero una volta in così gran numero che si rese necessario mandare contro di loro Pompeo il grande; non solo, ma riuscirono perfino a trascinare nella loro alleanza molte città tra le più belle e popolose; nei loro porti trovavano rifugio dopo le varie scorribande e come ricompensa vi lasciavano una parte del bottino che quelle città si erano impegnate a custodire.

Così il tiranno opprime i suoi sudditi, gli uni per mezzo degli altri, e viene difeso proprio da chi, se non fosse un buono a nulla, dovrebbe temere di essere attaccato; secondo il detto che per spaccare la legna ci vogliono dei cunei dello stesso legno. Ed ecco i suoi arcieri, le sue guardie, i suoi alabardieri; certo qualche contenti di sopportare dei danni pur di rifarsi non già su colui che ne è la causa ma su tutti quelli che come loro sopportano senza poter far nulla. Eppure vedendo questa gente che striscia ai piedi del despota per trarre profitto dalla sua tirannia e dalla servitù del popolo, spesso mi stupisce la loro malvagità, altre volte invece è la loro stupidità che mi fa pena. Perché, diciamo la verità, che altro può significare avvicinarsi al tiranno se non allontanarsi dalla propria libertà e abbracciare anzi, per meglio dire, tenersi stretta la servitù?

Mettano un momento da parte la loro ambizione, lascino perdere un poco la loro avarizia, poi guardino e considerino attentamente se stessi: vedranno chiaramente che questi contadini e paesani che essi mettono sotto i piedi appena possono e trattano peggio dei galeotti e degli schiavi, benché maltrattati in questo modo, al loro confronto sono tuttavia più felici e in un certo senso più liberi. Il contadino e l’artigiano, per quanto siano asserviti, una volta fatto quanto è stato loro ordinato sono a posto; ma quelli che il tiranno vede vicino a sé, veri e propri birbanti sempre a mendicare i suoi favori, sono obbligati non solo a fare quello che dice ma anche a pensare come lui vuole e spesso per accontentarlo devono sforzarsi di indovinare i suoi desideri. Non è sufficiente che gli obbediscano: devono compiacerlo in tutto faticando e distruggendosi fino alla morte nel curare i suoi interessi; inoltre devono godere dei suoi piaceri, abbandonare i propri gusti per i suoi, andar contro il proprio temperamento fino a spogliarsene del tutto.

Sono obbligati a misurare le parole, la voce, i gesti, gli sguardi; devono avere occhi, piedi, mani sempre all’erta a spiare ogni suo desiderio e scoprire ogni suo pensiero. E questo sarebbe un vivere felice? Si può chiamare vita codesta? C’è al mondo qualcosa che risulti essere più insopportabile di una simile situazione non dico per una persona di nobili origini ma semplicemente per chiunque abbia un po’ di buon senso o quantomeno un’ombra di umanità? Quale condizione è più miserabile di questa, in cui non si ha niente di proprio ma tutto, benessere, libertà, perfino, la vita stessa, viene ricevuto da altri?

Costoro vogliono servire per accumulare dei beni come se quello che guadagnano fosse loro, mentre non possono dire di possedere neppure se stessi. E come se qualcuno potesse avere qualcosa di suo sotto un tiranno vorrebbero dirsi proprietari di quanto hanno ammassato, dimenticando che sono loro stessi a dargli la forza di togliere tutto a tutti e di non lasciare nulla a nessuno. Essi sanno che è l’avidità dei beni il motivo per cui gli uomini vengono assoggettati alla sua crudeltà, che al suo cospetto non vi è delitto più grande del possedere qualcosa; sanno che il tiranno ama solo la ricchezza e spoglia di preferenza i ricchi, eppure si presentano davanti a lui come montoni al macellaio per mostrarsi ben pieni e pasciuti ed eccitare le sue voglie. Questi favoriti dovrebbero ricordarsi non solo di quei cortigiani che hanno messo da parte molti beni stando vicini al tiranno ma anche di tutti coloro che, dopo aver accumulato per un certo periodo, alla fine hanno perso i beni e la vita stessa; dovrebbero aver presente non solo i tanti che hanno guadagnato ricchezze ma anche i pochi che sono riusciti a mantenersele. Si facciano scorrere tutte le storie antiche, si ripensi al tempo passato di cui possiamo avere memoria; si vedrà chiaramente quanto è grande il numero di coloro che dopo essersi conquistati con ogni mezzo indegno la fiducia dei principi, o per aver troppo favorito la loro malvagità, oppure per aver abusato della loro ingenuità, alla fine sono stati annientati da quegli stessi principi che tanto facilmente li avevano prima innalzati quanto poi improvvisamente decisero di abbatterli. E veramente nel gran numero di persone che hanno circondato cattivi re ve ne sono state ben poche, per non dire nessuna, che non abbiano provato su se stesse una volta o l’altra la crudeltà del tiranno che in precedenza avevano aizzato contro gli altri; e spesso dopo essersi arricchiti delle spoglie altrui all’ombra del trono sono finiti ad arricchire altri delle proprie spoglie.

Anche le persone per bene, se mai sia dato trovarne qualcuna benvoluta da un tiranno, per quanto siano tra i suoi più favoriti e sappiano brillare di virtù e di integrità morale così da ispirare un certo rispetto perfino ai più malvagi quando vi si trovano vicini, ebbene dico che anche queste persone non riuscirebbero a sopportarlo a lungo ed è necessario che anch’esse soffrano questo male comune e imparino a loro spese cosa vuol dire la tirannia. Consideriamo ad esempio un Seneca, un Burro, un Trasea (15), tre persone per bene, due dei quali per mala sorte furono messi vicini al tiranno per curarne gli affari, tutti e due stimati e ben voluti da lui; per di più uno di questi gli aveva fatto da maestro e considerava pegno di amicizia il fatto di averlo educato nell’infanzia. Ebbene questi tre personaggi con la loro morte crudele testimoniano a sufficienza quanto poco ci sia da fidarsi del benvolere di padroni malvagi. E in verità che amicizia ci si può aspettare da uno che ha il cuore così duro da odiare il proprio regno, il quale dal canto suo non fa altro che obbedirgli? Cosa ci si può attendere da un essere che non sapendo amare impoverisce se stesso e distrugge il proprio impero?

Se poi qualcuno volesse dire che costoro sono caduti in disgrazia perché si sono comportati da persone oneste, osservi con attenzione tutti quelli che stavano intorno a questo tiranno: vedrà che quanti entrarono nei suoi favori compiendo ogni sorta di malvagità non durarono più a lungo. Chi ha mai sentito parlare di un amore così sfrenato, di un attaccamento così ostinato e morboso da parte di un uomo verso una donna quanto quello di Nerone nei confronti di Poppea? Eppure in seguito fu lui stesso ad avvelenarla. La madre Agrippina aveva ucciso Claudio, il proprio marito per mettere il figlio sul trono dell’impero e non si era sottratta a difficoltà e disagi pur di accontentarlo. E proprio questo suo figlio, la sua creatura, il suo imperatore costruito con le sue stesse mani, dopo molti tentativi andati a vuoto riuscì a toglierle la vita. E non vi fu allora nessuno che non ritenesse fin troppo giusta una simile punizione, se solo fosse stato un altro a compierla. E chi mai si è lasciato più manipolare, chi si è comportato più da sempliciotto e da sciocco dell’imperatore Claudio? Chi più invaghito di una donna se non lui di Messaline? E alla fine la consegnò nelle mani del boia.

L’ottusità è sempre stata caratteristica dei tiranni quando si tratta di non fare il bene; ma non so come, alla fine, quel poco d’ingegno che hanno si desta in loro allorché si tratta di usare crudeltà verso quelle persone che gli sono più vicine. E’ abbastanza nota la battuta atroce di quell’altro tiranno (16) che osservando il collo scoperto della donna da lui amata perdutamente fino al punto da sembrare che non riuscisse a vivere senza la sua compagnia, glielo accarezzava sussurrando dolcemente: «Questo bel collo sarebbe ben presto mozzato sol che io lo volessi». Ecco perché gli antichi tiranni, per la maggior parte, venivano di solito ammazzati proprio dai loro favoriti che avendo conosciuto la natura della tirannia più che tentare di assicurarsi il benvolere del tiranno preferivano diffidare della sua potenza. Così Domiziano fu ucciso da Stefano, Commodo da una delle sue amanti, Antonino Caracalla da Macrino e così quasi tutti gli altri. E’ certamente per questo che il tiranno non è mai amato e non ama: l’amicizia è un nome sacro, una cosa santa; essa avviene solo tra uomini per bene, non si ottiene se non attraverso una stima reciproca e non si mantiene con dei favori ma con l’onestà di vita. Ciò per cui un amico si fida dell’altro è la conoscenza che ha della sua integrità morale; gli sono di garanzia il suo buon carattere, la sua fedeltà, la sua costanza. Non ci può essere amicizia dove si trovano crudeltà, slealtà, ingiustizia; e quando i malvagi si ritrovano tra loro non vi è compagnia ma complotto: non si vogliono bene ma si sospettano reciprocamente, non sono amici ma complici.

Ma anche se non ci fossero questi ostacoli sarebbe comunque difficile ritrovare in un tiranno un amore fedele poiché stando sopra a tutti e non avendo alcun compagno pari a lui è già fuori dai confini dell’amicizia che può fiorire solo sul terreno dell’eguaglianza e non procede mai zoppicando ma si tiene sempre in perfetto equilibrio. Ecco perché si può ben dire che tra i ladri c’è una specie di fiducia reciproca nello spartirsi il bottino, dato che sono tutti uguali tra loro e pur non volendosi bene si tengono d’occhio l’uno con l’altro non volendo, separandosi, diminuire la loro forza. Ma quelli che sono favoriti dal tiranno non possono in alcun modo far conto su di lui poiché sono stati loro stessi ad insegnargli che tutto è in suo potere e che per lui non vi è diritto o dovere che tenga, posto ormai nella condizione di far passare il proprio arbitrio come ragione, di non avere alcun compagno pari a lui ma di essere padrone di tutti. Davanti ad esempi tanto evidenti e ad un pericolo così incombente è dunque davvero pietoso che nessuno voglia diventare saggio a spese altrui, che tanta gente si dia da fare per star vicina al tiranno e che non ce ne sia neppure uno che abbia l’avvedutezza e il coraggio di dir loro ciò che in un apologo famoso la volpe rinfaccia al leone che si finge ammalato:

«Verrei volentieri a farti visita nella tua tana; purtroppo vedo molte tracce di animali che vanno verso di te, ma non ne scorgo neppure una nella direzione contraria».

Questi miserabili vedendo luccicare i tesori del tiranno rimangono abbagliati dalla sua magnificenza e attratti da questo splendore si avvicinano, senza accorgersi che si stanno buttando in una fiamma che non mancherà di divorarli, allo stesso modo di quel satiro curioso che secondo un’antica favola vedendo brillare il fuoco trovato da Prometeo ne fu talmente impressionato che si accostò per baciarlo e si bruciò. O come la farfalla, di cui ci parla il poeta toscano (17), che credendo di trarre chissà quale piacere si avvicina troppo alla fiamma, attratta dal suo chiarore, e ne prova invece l’altra qualità, quella del bruciore. Ma anche supponendo che questi adulatori riescano a sfuggire alle mani del loro padrone, in ogni caso non si salvano mai dal re che viene dopo: se è un buon sovrano devono rendergli conto di tutto e comportarsi secondo ragione; se invece è malvagio come il precedente avrà anch’egli i suoi favoriti che solitamente non si accontentano di prendere a loro volta il posto degli altri ma vogliono anche ottenerne i beni e in molti casi la vita stessa. Com’è dunque possibile che ci sia qualcuno che in mezzo a tanti rischi e con ben poche garanzie voglia prendere questo sciagurato posto e servire un padrone così pericoloso? Che tormento, che martirio è mai questo, buon Dio? Essere occupato giorno e notte a compiacere uno e tuttavia avere più timore di lui che non di qualsiasi altro uomo, stare sempre all’erta con l’occhio e l’orecchio tesi a spiare da dove verrà l’attacco, a scoprire gli agguati, leggere nel cuore dei compagni, denunciare chi sta per tradire, sorridere a tutti e fidarsi di nessuno, non avere né nemici dichiarati né amici sinceri, col sorriso sulle labbra e il gelo nel cuore, non riuscire ad essere lieto e non poter mostrarsi scontento.

Ma è ancor più interessante considerare quel che ricavano da questo grande tormento e quale bene possano aspettarsi da tutti questi loro affanni e dalla loro vita miserabile. Solitamente il popolo non accusa il tiranno per il male che gli tocca sopportare bensì coloro che sono messi a governare. Di costoro i popoli, le nazioni, tutti gli abitanti senza alcuna eccezione, dai contadini agli artigiani, sanno i nomi, contano i vizi e su di loro riversano un’infinità di oltraggi, villanie e maledizioni: tutti i discorsi e le imprecazioni della gente sono contro di loro, ritenuti colpevoli di ogni sventura, della peste come della carestia; e se qualche volta per salvare le apparenze questo stesso popolo li onora, dentro di sé li maledice dal profondo del cuore e li ha in orrore più che le bestie feroci. Ecco la gloria e l’onore che ricevono per i servizi che compiono verso la gente, la quale anche se potesse ridurre il loro corpo a brandelli probabilmente sarebbe ancora insoddisfatta e ben poco alleggerita delle proprie sofferenze. E anche quando sono scomparsi dalla faccia della terra moltissimi scrittori negli anni seguenti non mancano certo di denigrare la memoria di questi mangiapopoli; la loro fama viene completamente distrutta in migliaia di libri e le loro stesse ossa vengono per così dire trascinate e disperse dai posteri come punizione per la loro vita malvagia, anche dopo morte. Impariamo dunque finalmente a comportarci bene; ad onore nostro o per l’amore che portiamo alla virtù, o meglio ancora per l’amore e l’onore di Dio onnipotente che è testimone sicuro delle nostre azioni e giudice delle nostre mancanze, teniamo lo sguardo rivolto al cielo. Per parte mia penso, e non credo di sbagliarmi, che non ci sia niente di più contrario a Dio, infinita bontà e libertà, della tirannia e che Egli riservi laggiù delle pene particolari per tutti i tiranni e i loro complici.

Note

NOTA 1: Omero, “Iliade”, 1. secondo, vv. 204-205a, trad. it. di Rosa Calzecchi Onesti, a cura di Cesare Pavese, Einaudi, Torino 1950.
NOTA 2: Con tutta probabilità si tratta del predecessore di La Boétie nel parlamento di Bordeaux. L’invocazione all’amico Longa che si trova nel manoscritto “De Mesmes” è stata soppressa in quasi tutte le versioni successive.
NOTA 3: L’autore si riferisce al momento del trapasso nella storia ebraica dalla fase dei giudici a quella dei re: il popolo ebreo chiede insistentemente a Samuele di consacrargli un re (che sarà poi Saul). La Bibbia fa notare che questa richiesta spiacque a Samuele ed a Jahwè: cfr. 1 Sam. 8,4 ss.
NOTA 4: Cavalli ai quali sono state tagliate le orecchie e la coda.
NOTA 5: Armodio e Aristogitone sono i due giovani che uccisero Ipparco, figlio di Pisistrato; Trasibulo cacciò i trenta Tiranni da Atene; Bruto il Vecchio e Valerio riuscirono ad allontanare per sempre i Tarquini da Roma e ad instaurarvi la repubblica; Dione infine rovesciò dal trono di Siracusa il tiranno Dionigi.
NOTA 6: In realtà il passo di Ippocrate a cui si riferisce La Boétie si trova nell’opera “Arie, acque, luoghi”.
NOTA 7: Si tratta del re Artaserse di Persia.
NOTA 8: Il libretto di Senofonte è appunto intitolato “Ierone o della condizione dei sovrani”.
NOTA 9: Terenzio, “Eunuco”, atto terzo, scena prima, v. 25.
NOTA 10: Le decurie pubbliche consistevano in elargizioni fatte dagli imperatori romani alla plebe dell’urbe; il nome deriva dal fatto che questa distribuzione di viveri a spese del denaro pubblico avveniva a gruppi di dieci.
NOTA 11: Misura romana che corrispondeva a poco più di mezzo litro.
NOTA 12: Virgilio, “Eneide”, 1. quarto, vv. 585-594; tr. it. a cura di Enzo Cetrangolo in Publio Virgilio Marone, “Tutte le opere”, Sansoni, Firenze 1966.

NOTA 13: La Boétie si riferisce ai vari episodi fantastici legati ai primi re di Francia. L’orifiamma è lo stendardo di Francia in cui è dipinta una fiamma in campo dorato; il fiordaliso o i tre gigli è lo stemma della casa reale francese, secondo la leggenda introdotto da re Clodoveo, che lo sostituì all’insegna precedente in cui campeggiavano invece tre rettili o rospi.
NOTA 14: I sacri scudi caduti dal cielo fanno parte di uno dei miti legati ai primi re di Roma: si dice che sotto Numa Pompilio fosse caduto dal cielo uno scudo portatore di salvezza e benessere al popolo romano. Lo stesso significato doveva rivestire il canestro sceso dal cielo, di cui fa cenno il poeta Callimaco nel suo inno a Cerere; il re Erisittone fu colui che ne istituì la festa detta delle Panatenaiche.
NOTA 15: Seneca, come è noto, fu il precettore di Nerone durante la sua giovinezza e in pratica il reggitore del regno per i primi anni; Afranio Burro fu il prefetto del pretorio, cioè il comandante del palazzo imperiale; Trasea un senatore, consigliere dell’imperatore.
NOTA 16: Si tratta dell’imperatore Caligola.
NOTA 17: L’accenno è ad un sonetto di Francesco Petrarca.

Il testo in pdf. Di seguito l’introduzione a cura di Luigi Geninazzi.

1. L’opera nella storia delle sue interpretazioni: pamphlet politico o esercitazione retorica?

Il Discorso sulla servitù volontaria è una di quelle opere dallo strano destino: ignorata per lunghi periodi improvvisamente riesce ad accendere non solo dispute fra storici ma anche passioni politiche, per poi ricadere nell’ombra della dimenticanza. Ogni epoca se n’è così appropriata l’interpretazione autentica o la lettura più acuta portandola all’interno delle misure usate per giudicare le lotte del momento. Non si tratta qui dell’ovvia constatazione che ogni rilettura o riscoperta è legata all’interesse fondamentale di colui che muove alla ricerca del significato di una determinata scrittura: ogni testo in una certa misura acquista rilievo all’interno di una precomprensione, di un pre-testo che ne costituisce l’orizzonte. Il fatto è che molte volte laddove il problema posto non si chiude in una soluzione ma viene lasciato come interrogativo, come questione fondamentale aperta (ed è appunto il caso del Discorso), il lettore non riesce a sopportare questo stato di sospensione e riduce il testo ad un pretesto, senza alcun rispetto per l’origine e la struttura interna che dà coerenza allo scritto. Nel caso del “Discorso sulla servitù volontaria” inoltre questo gioco di reinterpretazioni si complica per il fatto che vi è incertezza già sull’origine e sulla struttura dell’opera: essa ci appare trasversalmente, emergente in testi di altra natura, quasi fosse stata trafugata di nascosto oppure inventata per l’occasione ma in modo da rimandare ad un’aura di mistero. La figura dominante in tutta la vicenda non è l’autore, Etienne De La Boétie, ma il suo grande amico, Michel De Montaigne. Prima di morire La Boétie affida a Montaigne tutti i suoi scritti che vengono poi pubblicati nel 1571, comprese alcune traduzioni di testi classici compiute dall’autore e alcune sue poesie.

Non compare però il Discorso sulla servitù volontaria; Montaigne pensa di dare rilievo a questo scritto inserendolo come pezzo centrale nei suoi Essais. Ma allorché nel 1580 appaiono i primi due libri degli Essais al posto del Discorso troviamo ventinove sonetti dell’amico, che rimarranno ancora nell’edizione definitiva del 1588. Era successo infatti quel che oggi chiameremmo un tipico caso di pirateria editoriale: il testo inedito era venuto in mano ad alcuni ugonottiche nella loro feroce polemica contro la monarchia francese non esitarono ad inserire alcune parti del Discorso, dove si descrive lo strapotere del tiranno e la condizione miserevole dei sudditi, in un loro pamphlet anonimo: Le Reveille-matin des François et des leurs voisins, fatto circolare nel 1574. Due anni più tardi il testo integrale veniva pubblicato in Mesmoires des Estats de France sous Charles le Neuviesme con il titolo “Contr’un”, all’interno di una raccolta di vari scritti anti-monarchici a cura del calvinista ginevrino Goulard.nti-monarchica e «democratica» ante-litteram del Cinquecento francese. Pubblicato negli anni che vedono l’acuirsi delle guerre di religione in Francia dopo il massacro degli ugonotti nella notte di S. Bartolomeo, il “Contr’un” viene letto come un trattato filosofico-giuridico in cui si teorizza la giusta resistenza al re. Allo stesso modo alcuni anni più tardi, quando la fazione ugonotta dei nobili capeggiata da Enrico di Borbone riesce ad impossessarsi della monarchia, il libretto di La Boétie può essere usato dai cattolici della Lega santa nella loro lotta contro il re ed è certamente presente ai vari giuristi che dopo l’assassinio di Enrico Terzo sostengono il diritto di uccidere il sovrano che si è messo contro Dio. E del resto non è proprio nella Lega cattolica che il movimento popolare dei contadini in Francia, sul finire del sedicesimo secolo, pone le sue speranze di cambiamento e la sua volontà di ribellione? (2)

Così La Boétie può diventare il teorico delle prime rivoluzioni contro lo Stato nell’era moderna, bloccate tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento per l’intervento del dispotismo e dell’assolutismo della monarchia, ma riemerse nel 1789: La Boétie insomma come uno dei primi avvocati della causa del popolo, eroico antesignano della rivoluzione francese (3). Ed è proprio in questi anni, dopo due secoli di dimenticanza, che riaffiora il Contr’un, posto in appendice a scritti polemici contro la monarchia o preso come modello letterario e fonte d’ispirazione per esortazioni rivoluzionarie: è il caso dello scritto di Marat, Chaînes de l’esclavage, che pone a tema la servitù volontaria. Nelle grandi occasioni rivoluzionarie lo scritto di La Boétie fa la sua ricomparsa: non sfugge all’attenzione dei primi comunisti che all’inizio dell’Ottocento si rifanno alla esperienza di Babeuf. Uno di questi, Charles Teste, amico di Buonarroti, trascrive il Discorso nei termini della politica militante del momento. Ma è soprattutto Félicité De La Mennais che scrivendone la prefazione nel 1835 esalta con grande passione quest’opera dimenticata, tutta pervasa da quei sentimenti di giustizia, di amicizia, di libertà che sono propri del cristianesimo autentico e dello spirito rivoluzionario (4). Il socialismo cristiano francese, quello che solitamente viene chiamato utopistico, fa di La Boétie uno dei suoi diretti antecedenti, così come avverrà all’inizio di questo secolo anche da parte di quella lucida intelligenza anarchica rappresentata da Landauer (5): in quest’ultimo caso però val forse la pena di osservare che accanto all’ormai usuale tentativo di porre La Boétie nella galleria degli antenati della rivoluzione, precursore di Stirner, Proudhon, Bakunin e Tolstoj, appare anche una considerazione più attenta del Discorso che lo sottrae al filone tradizionale dei pamphlets democratici per coglierne invece la profondità di pensiero che rimanda a questioni ancora irrisolte. In un certo senso si potrebbe dire che la letteratura fatta da Landauer segna il punto d’arrivo di tutte le varie interpretazioni in chiave rivoluzionaria: l’opera in questione inizia ad apparire come «il microcosmo della rivoluzione» e nello stesso tempo come l’intuizione che per un progresso totale e duraturo degli uomini che vogliano giungere al superamento delle istituzioni è necessario qualcosa d’altro dalla rivoluzione, qualcosa di radicalmente diverso. Ed è forse per questa intuizione, riscoperta da Landauer, che qui si chiude la storia delle letture rivoluzionarie del “Contr’un”. Dopo Landauer e il fallimento dell’ultimo grande periodo rivoluzionario della nostra storia, che va sotto il nome di biennio rosso, La Boétie cade ancora nell’oblio: le perfette ideologie rivoluzionarie del secolo ventesimo così come le raffinate tecniche del potere non possono sopportare le questioni sconcertanti che vengono esposte in questo libretto.

Quasi prevedendo quale sarebbe stato il destino dell’opera dell’amico, Montaigne prende sdegnosamente le distanze dall’uso politico del Contr’un ed esclude decisamente che rientrasse nell’intenzione dell’autore qualsiasi attacco al potere costituito. A La Boétie Montaigne ha dedicato le famose pagine sull’Amitié, dove la figura e l’opera dell’amico vengono magnificamente esaltate: «

E’ un discorso che egli chiamò “La Servitude volontaire”; ma quelli che non l’hanno conosciuto, l’hanno in seguito assai propriamente ribattezzato “Le Contr’un”. Lo scrisse a mo’ di saggio, nella sua prima giovinezza, in onore della libertà, contro i tiranni. Da tempo va per le mani delle persone d’ingegno, raccomandandosi per i suoi grandi meriti: perché è fine e succoso quant’è possibile. E tuttavia si deve ben dire che non sia il meglio che egli avrebbe potuto fare; e se all’età in cui l’ho conosciuto, più maturo, si fosse proposto un disegno simile al mio, di metter cioè per iscritto i suoi pensieri, vedremmo parecchie cose di raro pregio… Ma di lui non è rimasto che quel discorso, e anche questo per caso, e credo che egli non l’abbia più visto dopo che gli sfuggì dalla penna» (6).

Come si vede Montaigne, senza sminuire le doti dell’amico, anzi allo scopo di elogiarle ancora di più, tende a limitare il significato del Discorso, scritto a suo dire in modo occasionale e frettoloso. L’intenzione del grande umanista diventa chiara in un passo più avanti che merita di essere riportato per intero:

«Poiché ho visto che quest’opera è stata poi pubblicata e a cattivo fine da quelli che cercano di turbare e cambiare il nostro regime di governo senza preoccuparsi di sapere se lo miglioreranno, e che l’hanno mescolata ad altra farina del loro sacco, recedo dal mio proposito di metterla qui. E affinché la memoria dell’autore non abbia a soffrirne presso quelli che non hanno potuto conoscere da vicino le sue opinioni e le sue azioni, li avverto che questo argomento fu da lui trattato quando era ragazzo, a mo’ di esercitazione soltanto, come argomento volgare, fritto e rifritto mille volte nei libri. Non metto in dubbio che credesse in quello che scriveva, poiché era abbastanza coscienzioso da non mentire nemmeno per gioco. E so inoltre che se avesse dovuto scegliere avrebbe preferito esser nato a Venezia anziché a Sarlat; e a ragione. Ma aveva un’altra massima sovranamente scolpita nella sua anima, cioè di obbedire e sottomettersi molto scrupolosamente alle leggi sotto le quali era nato. Non ci fu mai cittadino migliore, né più attaccato alla tranquillità del suo paese, né più nemico degli sconvolgimenti e delle innovazioni del suo tempo; egli si sarebbe servito delle proprie capacità piuttosto per estinguerli che per fornir materiale di che maggiormente fomentarli. Aveva lo spirito forgiato sul modello di altri secoli, e non di questo» .

Dunque Montaigne, pur riconoscendo l’aspirazione sincera alla libertà del suo amico (l’accenno a Venezia è quanto mai significativo), precisa subito che lo scritto in questione non può essere usato contro la monarchia, dato che il suo autore più ti ogni altro era contrario a mutamenti e rivoluzioni. In definitiva il Discorso non sarebbe altro che una esercitazione retorica, scritta da La Boétie negli anni della sua prima giovinezza: non già dunque il frutto di un’osservazione attenta e matura delle tendenze della società moderna, ma una composizione tipicamente scolastica che non sa prender spunto se non dai classici del mondo antico.

A questo punto l’opera di La Boétie ha tutte le caratteristiche per trasformarsi in argomento di una grande “quérelle” storico-letteraria: da un lato vi è chi, sulla linea che si presume sia quella di Montaigne, considera il “Contr’un” «un capolavoro del secondo anno di retorica… uno di quei mille classici delitti compiuti uscendo dalla tutela di Tito Livio o di Plutarco, prima di conoscere il mondo moderno o di aver approfondito la conoscenza della società antica» (8), Dall’altro lato si accusa Montaigne di aver approfittato dell’amicizia che lo legava a La Boétie per censurarne l’opera, riducendo il suo significato politico nell’orizzonte di una pura e semplice esercitazione formale. Non sarebbe del resto né la prima né l’ultima volta che un’amicizia fra grandi personaggi nasconda profonde divergenze e forse anche rivalità: l’amico si trasforma così in unico autorevole interprete dell’opera e della vita del proprio compagno, appiattendo le differenze su uno schema di comodo. Ci troveremmo così di fronte a un La Boétie sinceramente democratico e appassionato ad un’opera di costruzione politica, manipolato e sopraffatto dalla figura del grande umanista francese, profondamente deluso dall’impegno politico, scettico osservatore delle miserie degli uomini, «padre dell’egoismo borghese e conservatore».

A questa tesi, divenuta ormai classica tanto è stata sostenuta da quasi tutti gli autori citati in precedenza, non mancano peraltro punti di appoggio: un’attenta critica interna del testo è ormai giunta a contestare in modo deciso la data di composizione proposta da Montaigne. Lo scritto infatti contiene allusioni alle poesie di Ronsard e Du Bellay, sconosciute prima del 1551 o 1552. D’altro canto Montaigne dimostra una grande incertezza nell’attribuzione della data: l’unica sua insistenza è sulla giovane età dell’autore, diciotto anni (cioè nel 1548) secondo la prima edizione degli Essais, sedici nella seconda edizione. Appare insomma la tendenza ad anticipare al massimo la data di composizione, come in uno sforzo di collocare il Discorso il più lontano possibile dagli avvenimenti politici dell’epoca. Detto tutto questo non è facile comunque andare oltre nelle illazioni. Nonostante le poche notizie che si hanno della vita di La Boétie un dato appare evidente: il giovane amico di Montaigne, nato a Sarlat nella Francia sud-occidentale, dopo aver compiuto gli studi umanistici si diede alla carriera giuridica diventando a 23 anni consigliere al parlamento di Bordeaux, molto stimato per la sua competenza e incaricato più volte di compiere delicate missioni come uomo di fiducia della monarchia, nel tentativo di reprimere le prime ribellioni ugonotte all’inizio degli anni ’60. Di fede cattolica, morì probabilmente di peste nel 1563, assistito dall’amico Montaigne. La sua lealtà al re non è dunque in discussione: impossibile quindi mettere il Discorso sulla stessa linea dei pamphlets protestanti che iniziano ad apparire contestualmente alle guerre di religione in Francia. Alla fine ci si trova risospinti, nonostante alcune perplessità, verso la posizione espressa da Montaigne dal tempo, si impone il tentativo di una riconsiderazione dell’opera nel contesto dell’amicizia fra i due personaggi in cui essa storicamente ci si presenta.

A nostro avviso occorre rovesciare la prospettiva con la quale finora si è guardato a questa amicizia: se infatti si assume come punto di riferimento privilegiato la concezione, per altro stereotipata, di un Montaigne campione di lealismo monarchico, non c’è via di scelta: la figura di La Boétie diventa complessivamente omologa a questo atteggiamento oppure ne viene a costituire la perfetta antitesi. Nel primo caso è fatta salva la coerenza del monarchico La Boétie, ma il suo scritto perde ogni rilevanza; nel secondo il Contr’un acquista una carica immediatamente politica ma bisogna poi saper spiegare la «doppiezza» dell’autore e le presunte falsità della testimonianza di Montaigne. Perché invece non rileggere la storia di questa amicizia “a partire dall’opera” di La Boétie, dalle prospettive che essa apre, dall’impatto che ha generato in Montaigne, il quale afferma di aver conosciuto e stimato l’amico tramite la lettura di questo libretto? (10). L’incontro con La Boétie dovette costituire un avvenimento eccezionale per Montaigne: quel che a prima vista poteva sembrare un semplice rapporto cordiale fra due magistrati e membri dello stesso parlamento di Bordeaux divenne ben presto un’amicizia profonda che diede una svolta alla vita di Montaigne, se nella lettera al padre, nella quale racconta la morte dell’amico, parla con accento commosso del bene fraterno che li univa, (11) e nel brano sulla Amitié a cui si è fatto già cenno giunge ad affermare:

«Da quando lo persi non faccio che trascinarmi languente; e perfino i piaceri che mi si offrono, invece di consolarmi, mi raddoppiano il dolore della sua perdita... Se confronto la mia vita, tutta quanta, ai quattro anni in cui mi è stato dato di godere della dolce compagnia e familiarità di quell’uomo, essa non è che fumo, non è che una notte oscura e noiosa».

Fu probabilmente proprio La Boétie a comunicare a Montaigne, attraverso la comune passione per la classicità greca e romana, una viva sensibilità per i problemi morali che formarono poi oggetto degli Essais, scritti in un volontario esilio dal mondo alcuni anni dopo la morte dell’amico. E’ stata quindi la lettura del “Discorso” che ha spinto Montaigne a conoscere l’autore, così come fu la stessa passione umanistica per l’antichità che li legò in amicizia. In questo orizzonte allora si chiarisce l’intenzione di Montaigne di mettere al centro del primo libro dei suoi “Essais” l’opera dell’amico, che avrebbe dovuto costituire «il quadro ricco, infinito, composto a regola d’arte a cui tutto il resto fa da contorno» (13). Per dirla con le parole di uno dei più grandi commentatori di Montaigne: «il primo libro degli “Essais” tra le altre cose doveva essere un monumento a La Boétie» (14).

Vi è infatti un legame molto stretto fra l’ispirazione a cui sono riconducibili gli “Essais” e il significato globale del “Discorso sulla servitù volontaria”: in ambedue i casi l’oggetto d’indagine è la natura dell’uomo, nel tentativo di mettere in chiaro la sua originaria condizione di libertà e nello stesso tempo il suo decadimento e la sua corruzione a causa dell’ambiente, delle abitudini, delle tradizioni che progressivamente allontanano l’uomo da quel primo stato. Mentre negli “Essais” tutto questo si svolge all’interno di una ricca serie di annotazioni particolari e di riflessioni introspettive, nell’attenzione alla realtà individuale, nel “Discorso” domina un interrogativo inquietante: perché gli uomini, fatti per essere liberi, rinunciano con tanta naturalezza alla loro libertà? Montaigne, ripromettendosi di inserire al centro del suo saggio lo scritto di La Boétie, dimostra di averne riconosciuto il tratto essenziale: l’appassionata ricerca della libertà «un bene la cui perdita rende insopportabile la vita e desiderabile la morte» (15). E’ lo stesso desiderio che anima Montaigne e che si traduce nella comune ammirazione per gli esempi eroici lasciatici dagli antichi e nell’identico spirito di rivolta contro una società ritenuta fonte di corruzione morale e intellettuale. E se la mitizzazione del mondo antico, soprattutto della Grecia delle polis e della Roma repubblicana, è una caratteristica comune a molti autori del Rinascimento, il secondo aspetto rappresenta una connotazione interessante su cui val la pena di soffermarsi.

Allorché si tratta di indicare in modo sintetico la causa della corruzione morale e intellettuale operata dalla società sull’individuo Montaigne usa spesso il termine “coustume”. Il suo significato, difficilmente traducibile con una sola parola, oscilla fra quello di consuetudine storico-tradizionale e quello di abitudine psicologica: esso sta ad indicare un processo di adattamento alla forma di società in cui l’uomo si trova inserito e che finisce per determinarlo in molta parte dei suoi comportamenti. Il ruolo della coustume è sottolineato molte volte negli “Essais” e dà il titolo ad un capitolo del primo libro. Lo stesso termine acquista un valore centrale nell’opera di La Boétie: nel tentativo di rispondere alla questione del perché gli uomini rinunciano alla libertà e perseverano in questo stato, l’autore risponde che «la consuetudine (coustume), la quale ha un grande influsso sulle nostre azioni, esercita il suo potere soprattutto dal tempo, si impone il tentativo di una riconsiderazione dell’opera nel contesto dell’amicizia fra i due personaggi in cui essa storicamente ci si presenta.

A nostro avviso occorre rovesciare la prospettiva con la quale finora si è guardato a questa amicizia: se infatti si assume come punto di riferimento privilegiato la concezione, per altro stereotipata, di un Montaigne campione di lealismo monarchico, non c’è via di scelta: la figura di La Boétie diventa complessivamente omologa a questo atteggiamento oppure ne viene a costituire la perfetta antitesi. Nel primo caso è fatta salva la coerenza del monarchico La Boétie, ma il suo scritto perde ogni rilevanza; nel secondo il “Contr’un” acquista una carica immediatamente politica ma bisogna poi saper spiegare la «doppiezza» dell’autore e le presunte falsità della testimonianza di Montaigne.

Perché invece non rileggere la storia di questa amicizia “a partire dall’opera” di La Boétie, dalle prospettive che essa apre, dall’impatto che ha generato in Montaigne, il quale afferma di aver conosciuto e stimato l’amico tramite la lettura di questo libretto? (10). L’incontro con La Boétie dovette costituire un avvenimento eccezionale per Montaigne: quel che a prima vista poteva sembrare un semplice rapporto cordiale fra due magistrati e membri dello stesso parlamento di Bordeaux divenne ben presto un’amicizia profonda che diede una svolta alla vita di Montaigne, se nella lettera al padre, nella quale racconta la morte dell’amico, parla con accento commosso del bene fraterno che li univa, (11) e nel brano sulla “Amitié” a cui si è fatto già cenno giunge ad affermare:

«Da quando lo persi non faccio che trascinarmi languente; e perfino i piaceri che mi si offrono, invece di consolarmi, mi raddoppiano il dolore della sua perdita… Se confronto la mia vita, tutta quanta, ai quattro anni in cui mi è stato dato di godere della dolce compagnia e familiarità di quell’uomo, essa non è che fumo, non è che una notte oscura e noiosa» (12).

Fu probabilmente proprio La Boétie a comunicare a Montaigne, attraverso la comune passione per la classicità greca e romana, una viva sensibilità per i problemi morali che formarono poi oggetto degli “Essais”, scritti in un volontario esilio dal mondo alcuni anni dopo la morte dell’amico. E’ stata quindi la lettura del “Discorso” che ha spinto Montaigne a conoscere l’autore, così come fu la stessa passione umanistica per l’antichità che li legò in amicizia. In questo orizzonte allora si chiarisce l’intenzione di Montaigne di mettere al centro del primo libro dei suoi “Essais” l’opera dell’amico, che avrebbe dovuto costituire «il quadro ricco, infinito, composto a regola d’arte a cui tutto il resto fa da contorno» (13). Per dirla con le parole di uno dei più grandi commentatori di Montaigne: «il primo libro degli “Essais” tra le altre cose doveva essere un monumento a La Boétie» (14).

Vi è infatti un legame molto stretto fra l’ispirazione a cui sono riconducibili gli “Essais” e il significato globale del “Discorso sulla servitù volontaria”: in ambedue i casi l’oggetto d’indagine è la natura dell’uomo, nel tentativo di mettere in chiaro la sua originaria condizione di libertà e nello stesso tempo il suo decadimento e la sua corruzione a causa dell’ambiente, delle abitudini, delle tradizioni che progressivamente allontanano l’uomo da quel primo stato. Mentre negli “Essais” tutto questo si svolge all’interno di una ricca serie di annotazioni particolari e di riflessioni introspettive, nell’attenzione alla realtà individuale, nel “Discorso” domina un interrogativo inquietante: perché gli uomini, fatti per essere liberi, rinunciano con tanta naturalezza alla loro libertà? Montaigne, ripromettendosi di inserire al centro del suo saggio lo scritto di La Boétie, dimostra di averne riconosciuto il tratto essenziale: l’appassionata ricerca della libertà «un bene la cui perdita rende insopportabile la vita e desiderabile la morte» (15). E’ lo stesso desiderio che anima Montaigne e che si traduce nella comune ammirazione per gli esempi eroici lasciatici dagli antichi e nell’identico spirito di rivolta contro una società ritenuta fonte di corruzione morale e intellettuale. E se la mitizzazione del mondo antico, soprattutto della Grecia delle polis e della Roma repubblicana, è una caratteristica comune a molti autori del Rinascimento, il secondo aspetto rappresenta una connotazione interessante su cui val la pena di soffermarsi.

Allorché si tratta di indicare in modo sintetico la causa della corruzione morale e intellettuale operata dalla società sull’individuo Montaigne usa spesso il termine “coustume”. Il suo significato, difficilmente traducibile con una sola parola, oscilla fra quello di consuetudine storico-tradizionale e quello di abitudine psicologica: esso sta ad indicare un processo di adattamento alla forma di società in cui l’uomo si trova inserito e che finisce per determinarlo in molta parte dei suoi comportamenti. Il ruolo della “coustume” è sottolineato molte volte negli “Essais” e dà il titolo ad un capitolo del primo libro. Lo stesso termine acquista un valore centrale nell’opera di La Boétie: nel tentativo di rispondere alla questione del perché gli uomini rinunciano alla libertà e perseverano in questo stato, l’autore risponde che

«la consuetudine(coustume), la quale ha un grande influsso sulle nostre azioni, esercita il suo potere soprattutto nell’insegnarci a servire. La prima ragione per cui gli uomini servono di buon animo è perché nascono servi e sono allevati come tali» (16).

Quel che vien messo sotto accusa è dunque tutto quel complesso di meccanismi psicologici, intellettuali e sociali che conducono il singolo individuo all’assuefazione nei confronti della struttura di dominio che caratterizza la società. Questa denuncia dell’effetto alienante della “coustume” diventerà il leit-motiv del pensiero del primo Seicento: basti ricordare per tutti Cartesio che pone in netta antitesi la conquista di una propria autonomia di giudizio e il bagaglio di nozioni e di credenze che dominano la vita sociale. La società viene respinta perché l’integrazione in essa porterebbe solo ad una corruzione etica e ad un ottundimento intellettuale. La creazione di circoli culturali e scientifici, l’incontro riservato fra umanisti eruditi nel Cinquecento e il moltiplicarsi nel secolo seguente di «cenacoli» dove poter realizzare la propria umanità trae origine dalla convinzione che «bisogna saper resistere all’aria contagiosa che si respira nella conversazione degli uomini del nostro tempo» (17) E’ a partire da questo che si può comprendere il pessimismo antropologico di Montaigne: esso costituisce una forma di difesa nei confronti della vita sociale, nella convinzione che un suo cambiamento sia del tutto impossibile. Il disprezzo per il popolo non esprime tanto un distacco altezzoso da una classe sociale quanto piuttosto un rifiuto filosofico di un atteggiamento conformista e irrazionale.

A dispetto di quanti han voluto trasformare La Boétie in uno dei primi avvocati del popolo, anche il “Discorso sulla servitù volontaria” non si discosta da questa impostazione: in esso non vi sono appelli al popolo perché si liberi dal tiranno ma la constatazione dell’assurdità della condizione dei sudditi, che vale molto di più di tutti gli inviti alla rivolta fatti nella storia dai vari tribuni del popolo. Solo una volta, all’inizio del “Discorso”, La Boétie si lascia andare ad una serie di invettive che si chiudono con una specie di esortazione a riprendersi la libertà. Ma non sembra che egli nutra eccessive speranze in un sollevamento popolare, perché subito dopo si corregge: «I medici dicono che è inutile tentare di guarire le piaghe incurabili e in questo senso ho forse torto a voler dare consigli al popolo che da molto tempo ha perso del tutto conoscenza riguardo al male che l’affligge e proprio perché non lo sente più dimostra ormai che la sua malattia è mortale» (18), La Boétie non propone alcuna ricetta per il cambiamento del potere, non si fa partigiano di alcuna fazione; ciò che gli sta a cuore è la presentazione in tutta la sua ampiezza e profondità di una situazione paradossale pressoché inspiegabile nella sua radice, che ha talmente impregnato di sé la vita sociale tramite la “coustume” da renderla condizione ormai ovvia e normale della vita di ogni uomo: l’accettazione del dominio. Il “Discorso sulla servitù volontaria” a ben vedere è dunque più una condanna dei servi che dei tiranni; o per meglio dire è la condanna di quanto ognuno dei due, servo e tiranno, fa per il mantenimento dell’altro.

Non dunque un pamphlet usabile dai militanti, ma una riflessione sull’uomo che ne svela l’intrinseca radice di contradditorietà; più adatta a turbare che a dare certezze, più invito a raccogliersi su se stessi che a mobilitare, più fonte di meditazione che di rivoluzione. Un’opera di questo tipo ha più a che fare con la ricchezza e la profondità delle osservazioni dei grandi moralisti che con le invettive politiche dei monarcomachi o dei regalisti (19). Perché allora l’amico Montaigne l’ha voluta minimizzare riducendola a pura esercitazione retorica, contraddicendo la sua intenzione di porla come quadro centrale all’interno del suo scritto e quasi rinnegando quella tensione etica che si sprigiona dalle pagine del “Discorso”? E’ difficile a prima vista dare una spiegazione plausibile di questo strano atteggiamento. Ma se si considera il fatto che questo scritto, che stava tanto a cuore a Montaigne, è risultato improvvisamente stravolto nelle sue intenzioni e nel suo significato globale a causa della pubblicazione ugonotta, è comprensibile il gesto di stizza e di sdegno con il quale «ha liquidato» l’opera in questione. Il grande umanista, intimamente distaccato dalle polemiche e dai contrasti politici della sua epoca, non volle probabilmente scendere al livello dei suoi interlocutori contrapponendo la propria interpretazione del “Contr’un” a quella ugonotta. Vi era solo un modo perché il testo venisse sottratto ad ogni interpretazione di parte: collocarlo il più lontano possibile nel cielo delle dissertazioni retoriche.

In definitiva il gesto di Montaigne ci appare non già come un tradimento o una censura nei confronti dell’amico, ma come il tentativo di mettere al riparo il “Discorso” dalle letture militanti messe in atto dalle varie fazioni politiche (20). A queste persone ben si adatta quanto dice La Boétie: le loro imprese

«non furono altro che congiure di gente ambiziosa, la quale non deve certo essere compianta per gli inconvenienti cui andò incontro, essendo a tutti evidente che desideravano semplicemente far cadere una corona, non togliere il re, cacciare sì il despota, ma tenere in vita la tirannide. Riguardo a costoro sarei dispiaciuto se fossero riusciti nel loro scopo».

4. L’opera e il suo tempo: il limite intrinseco alla ricerca di libertà.
Anche ammettendo, sulla linea di Montaigne, che lo scritto originario del Discorso sia da collocare verso il 1546 o 1548, la stesura definitiva, come si è già avuto modo di notare, non può essere anteriore al 1552.

Sono gli anni in cui La Boétie studia diritto ad Orléans.

«E’ noto quel che erano allora gli studi di diritto: una disamina dotta e vivace dei problemi essenziali impliciti nei testi antichi e nelle ordinanze del tempo, un insegnamento filosofico nel pieno senso della parola, in cui venivano contemporaneamente sottoposti a critica il fondamento delle leggi e il valore dell’indagine razionale» (34).

Inoltre La Boétie ebbe la fortuna di avere come maestro Anne du Bourg, che doveva poi diventare ministro del regno di Francia, il quale lo educò non solo al gusto dell’eloquenza erudita ma anche alla profondità dell’analisi. Secondo la testimonianza di uno studente di quegli stessi anni (35) i giovani costituirono una specie di cenacolo dove si discuteva di diritto, ma anche di letteratura, di filosofia, e soprattutto di teologia e di politica. Riferimenti e discussioni che possiamo ritrovare nel “Discorso”, e che ne spiegano quei che a prima vista sembrerebbero due aspetti contradditori: il carattere accademico dello scritto e nello stesso tempo la passione irruente con la quale vengono affrontate le questioni. Il manoscritto passò così di mano in mano a giuristi e letterati, sia cattolici che protestanti, fino ad arrivare anche ad un parlamentare di Bordeaux.

3. Tra Machiavelli e Montaigne.
L’impossibilità di ridurre il “Discorso” all’interno delle categorie politico-partitiche usate per leggere i violenti contrasti di potere all’inizio delle guerre di religione (22) non significa peraltro che lo scritto di La Boétie debba essere considerato completamente estraneo al travaglio di quell’epoca storica. Al contrario l’opera ci appare come una delle espressioni più significative di quel momento di trapasso dagli ideali civili del Rinascimento, secondo i quali l’individuo realizza la sua pienezza in un rapporto equilibrato e solidale con la società, alla completa dissoluzione di ogni etica civile, sia quella tradizionale d’impronta medievale, sia quella abbozzata a tinte entusiastiche dai filosofi-artisti dell’umanesimo.

In Francia la guerra civile infatti non sconvolge semplicemente i cardini del sistema politico-istituzionale preparando così un potere rigidamente centralizzato e assolutistico, ma produce a livello più profondo una contrapposizione fra apparato statale e società civile, un frazionamento particolaristico di interessi all’interno del corpo sociale, una dissociazione all’interno del singolo individuo fra moralità interiore e vita pubblica. L’ordine di connessione e di priorità che deve esser posto fra i vari elementi sopraccennati è divenuto oggetto di un vivace dibattito storiografico (23); qui ci interessa soltanto richiamare l’attenzione su quel processo parallelo di perfezionamento politico-istituzionale.

La figura di Montaigne può essere considerata in un certo senso emblematica della particolare configurazione che in quel periodo viene ad assumere il rapporto fra ripiegamento individualistico e accettazione della logica dell’assolutismo. L’affermazione della necessaria soggezione allo Stato, che ricorre molte volte negli “Essais”, non ha niente a che vedere né con la concezione sacrale del monarca assoluto, né con l’impostazione machiavellica dell’azione politica. Montaigne rifiuta l’immagine tradizionale del “Princeps imago Dei”, così come mostra scetticismo nei confronti del tentativo iniziato da Machiavelli di fare della politica una scienza. Egli accetta il potere come una situazione di fatto. La distinzione tra politica e morale non è un semplice espediente che tocca l’ordine della prassi, come per il segretario fiorentino, ma molto più radicalmente risulta essere un’affermazione di principio, in quanto lo Stato non è espressione di valori ma una necessità di atto. La perfezione etica va ricercata in uno sforzo tutto interiore, distaccato dalla collettività, alla quale invece si deve aderire solo esteriormente. In definitiva emerge negli “Essais”

«una tendenza critica che pur accettando passivamente l’aspetto formale del potere, rivendica al foro interiore l’autonomia di giudicarlo in base alla propria diretta esperienza» (24).

Non ancora toccato dai fenomeni di dissociazione acuta provocata dalle guerre di religione, ma già lontano dalle illusioni di una perfetta costruzione politica in cui possa realizzarsi quella raffinata immagine di equilibrio fra individuo, natura e società, tipicamente rinascimentale, il giovane La Boétie, nel momento in cui scrive il suo “Discorso”, dà una sistemazione molto diversa a quegli stessi elementi che sostengono la costruzione di Montaigne. Non gli sfugge ad esempio la tendenza al rafforzamento del potere centrale e alla ristrutturazione dell’apparato amministrativo che in Francia come in altri Stati caratterizza l’evoluzione politica della prima metà del Cinquecento. Quando La Boétie parla della concentrazione di potere sotto gli imperatori romani e descrive «l’aumento di potere al senato, l’istituzione di nuove funzioni e la creazione dei vari incarichi; a ben vedere non certo per riorganizzare la giustizia ma per dare nuovi punti di appoggio alla tirannia» (25) come non pensare alla irregolarità della vendita degli uffici, allo sviluppo di nuove funzioni burocratiche, alle ordinanze prevaricatrici in tema di amministrazione della giustizia di Francesco Primo, agli arbitri fiscali compiuti dallo stesso re e dai suoi successori?

Così pure sulla stessa linea di Montaigne, La Boétie sottrae al potere ogni giustificazione di tipo ideologico o fideistico: non solo viene respinta la concezione sacrale del monarca ma, con toni che non possono non suonare fortemente irriverenti, deride la stessa figura del sovrano. E se Montaigne giungerà a scrivere: «come gli attori delle commedie, li vedete sulla scena assumere l’atteggiamento di duca e d’imperatore; ma subito dopo eccoli diventati servi e facchini miserabili, che è la loro nativa e originaria condizione: così l’imperatore, la cui pompa vi abbaglia in pubblico… guardato dietro la tenda non è altro che un uomo comune, e forse più vile dell’ultimo dei suoi sudditi» (26), La Boétie va oltre e parla «di un uomo che nella maggior parte dei casi è il più molle ed effeminato di tutta una nazione, che non ha mai provato la polvere delle battaglie e neppure quella di un torneo, incapace di imporsi agli uomini e preoccupato solo di servire la più trascurabile donnicciola» (27), Uno stesso sdegno e una stessa tensione etica emergono da queste pagine. Ma mentre in Montaigne, e in generale nel pensiero francese del tardo Cinquecento e Seicento, questa carica morale si riversa nella sfera interiore e «il privato» fa per la prima volta la sua apparizione nella storia del pensiero occidentale in netta antitesi con «il pubblico», in La Boétie al contrario affiora la concezione, per molti versi d’ispirazione classica, di una integrità morale che non può non trasferirsi immediatamente nella vita pubblica (28). Questo ideale però non riesce a diventare felice progetto politico ma vive come nostalgia nell’immagine di solidarietà originaria fra gli uomini o nel ricordo della statura morale dei grandi uomini dell’antichità che non vollero piegarsi di fronte alla tirannia. Ci si presenta qui un uomo segnato profondamente da un travaglio interiore, cosciente delle violente lacerazioni sociali e politiche che mettono a dura prova le virtù di moderazione e di equilibrio e gli ideali di pacificazione nella Francia di quel momento, ma certamente non «dissociato».

Sia Montaigne che La Boétie partono da un’evidenza di fatto. Il primo la trova nell’esistenza del potere, il secondo constata il dato naturale della libertà. Ambedue queste evidenze generano problemi e contraddizioni; ma non è certamente discutibile il fatto che l’evidenza di cui parla La Boétie esplicita un desiderio e lo trasforma in grido e domanda, mentre l’evidenza cui accenna Montaigne ha il sapore dell’ovvietà e si chiude inevitabilmente in rassegnazione. Montaigne tiene fermo alla libertà, ma per renderla praticabile la risolve nel foro interiore. La Boétie non distingue fra libertà interiore e libertà politica:

«siate dunque decisi a non servire mai più e sarete liberi!» (29)

Come Machiavelli La Boétie riconosce che l’autorità si fonda solo sull’accettazione da parte dei sudditi: Machiavelli insegna al principe ad usare di questa accettazione, La Boétie non insegna al popolo a ribellarsi ma lo invita piuttosto a riflettere sul non-senso di questa sua condizione: «E’ un fatto davvero sorprendente e nello stesso tempo comune, tanto che c’è più da dolersene che da meravigliarsene, vedere milioni di uomini asserviti come miserabili, messi a testa bassa sotto ad un giogo vergognoso» (30). Per questo non è possibile affermare che La Boétie si pone in antitesi diretta con il pensatore fiorentino. Anche se nel suo scritto è dato ritrovare un accenno indiretto al “Principe” (31) e più in generale una vigorosa polemica contro coloro che vogliono ingannare il popolo, La Boétie si colloca su un altro piano rispetto al tentativo di Machiavelli (32).

La Boétie non teorizza alcun contropotere; si potrebbe dire che tenta una critica della politica, se questa espressione non facesse ormai parte di quel logoro bagaglio ideologico che ha più a che fare con il machiavellismo che con un autentico desiderio di libertà. Il gioco potere-contropotere, tipico dell’età borghese, ha il suo riferimento necessario in Machiavelli. Il suo tentativo di svelare e ricondurre a scientificità l’autonomia della ragion di Stato è a servizio del principe, ma può benissimo essere rovesciato di segno e posto a servizio del popolo. Non è un caso che nella storia Machiavelli sia stato visto a volte come il teorico dell’assolutismo, altre volte come il pensatore che, scoperta la logica della tirannia, ne rivela tutta la perfidia al popolo allo scopo di smascherare il potere.

Montaigne rifiuta questo gioco, ma nello stesso tempo ne riconosce la necessità di fatto. Intellettuale disincantato, osserva indifferente il fluire delle forme di potere nella storia, nella convinzione che la verità dell’uomo, la sua decisiva vicenda esistenziale, si svolga altrove. La Boétie non rappresenta certo la figura del rivoluzionario, almeno così come si è poi realizzata nella storia moderna occidentale; in questo senso essa è già inscritta nel risvolto machiavellico della conquista del potere. La Boétie non accetta di collocarsi all’interno del dibattito politico, ne sconvolge le regole proprio nel momento storico in cui venivano faticosamente messe a punto per la prima volta, e pone una equazione provocatoria: desiderare la libertà è essere liberi. Non già nel senso di quella libertà tutta interiore che, come dirà Hegel, rende lo schiavo in catene simile al re sul trono, ma in senso immediatamente politico. Si parli pure di soggettivismo esasperato se si vuole. Purché esso non sia inteso secondo i canoni della tradizione idealistica, ma come domanda aperta: dove è possibile ritrovare un simile soggetto, con una tale coerenza e consistenza?

Tra la figura del politico borghese/rivoluzionario e quella dell’intellettuale che cerca la verità nel suo «privato», appare così la strana e straordinaria figura di chi afferma che la libertà interiore non è slegata dai rapporti sociali, non è neppure condizione per un corretto comportamento politico, ma è immediatamente verità politica, cioè valore indiscusso riconoscibile da tutta la polis, dall’intera comunità. Prima di entrare nel merito di questa posizione, cerchiamo di capire in che modo questo “Discorso”, così estemporaneo, antico e moderno insieme, si inscriva nel contesto storico del suo tempo. Da dove parla La Boétie, qual è il luogo in cui ha potuto trovare se non il motivo, almeno il pretesto per questa serie di affermazioni?

Montaigne. La Boétie visse intensamente la sua ricerca di verità e di libertà in un clima di grande apertura mentale e, cosa rara in quei tempi, di grandissima tolleranza: Anne du Bourg diede soluzione ai suoi problemi filosofici e teologici passando alla Riforma e così pure alcuni suoi studenti. La Boétie rimase cattolico convinto, ma sulla linea dei più grandi umanisti sognò sempre una riconciliazione universale fra gli uomini. A questo proposito basterebbe leggere l’altro suo scritto che la storia ci ha lasciato: il “Mémoire touchant l’Edit du Janvier 1562” (36). Si tratta di un commento all’editto della reggente Caterina de’ Medici in cui si tentava di raggiungere un compromesso con gli ugonotti: veniva accordata ai calvinisti francesi la libertà di assemblea fuori dalle mura cittadine e il libero culto nelle case private. L’editto, che rifiutava l’autorizzazione agli ugonotti per nuove chiese ma nello stesso tempo sospendeva tutte le misure penali precedenti contro di loro, fu ben accolto dai riformati. Il commento di La Boétie è molto favorevole e sottolinea a più riprese la necessità della tolleranza. Ma mentre per Caterina de’ Medici la tolleranza era un metodo politico per poter meglio governare sfruttando le divisioni interne (secondo l’antico motto «divide et impera»), La Boétie formula con passione il suo amore per la libertà e ritenendo che sia i cattolici come i riformati desiderino sinceramente ricercare la verità, si sforza di proporre una conciliazione delle antinomie e dei punti divergenti, quasi come un nuovo Pico della Mirandola.

E’ noto come la posizione tollerante ma nello stesso tempo appassionata alla verità, propria di La Boétie come di altri umanisti cattolici, sia stata perdente. La Boétie sembra intuire che i contrasti fra cattolici e ugonotti, nel caso di una loro degenerazione in guerra civile, come avverrà di fatto pochi anni dopo la sua morte, conducono alla negazione della libertà per tutti. Questo magistrato, così stimato dalla Corte per la sua moderazione e il suo senso di equilibrio, sembra nutrire preoccupazione per l’involuzione della struttura statale avviata ormai verso un sempre più rigido accentramento che diverrà poi assolutismo. Di origine borghese, figlio di un funzionario, magistrato e parlamentare a sua volta, La Boétie vive in prima persona il contrasto sociale e le acute contraddizioni fra il proprio ceto sociale e la monarchia. L’idea infatti di uno stretto connubio fra monarchia e borghesia parlamentare nel Cinquecento esiste solo nelle semplificazioni dei testi scolastici: se da un lato questi funzionari diventano quasi una nuova classe sociale (la cosiddetta nobiltà di toga), non per questo va accreditata l’idea del «tradimento della borghesia» che si sarebbe compromessa con la monarchia per ottenere privilegi e titoli nobiliari. Se da un lato assistiamo al fenomeno di funzionari che rincorrono posizioni di potere nel gioco complicato della ristrutturazione amministrativa di quel tempo, dall’altro vi è pure una opposizione di carattere «borghese» da parte di parlamentari che difendono le tradizionali autonomie dei loro comuni e rifiutano l’accentramento politico e i soprusi della monarchia.

Incontriamo a questo punto un riferimento storico preciso che senza dubbio ha giocato un ruolo importante nella stesura del “Discorso sulla servitù volontaria”. Secondo lo storico De Thou (37) il “Discorso” sarebbe stato scritto come protesta coraggiosa contro le crudeltà compiute nella repressione della rivolta della Guienna nel 1548. L’opinione autorevole di questo storico s’incontra del resto con l’allusione di Montaigne alla giovane età dell’autore del testo (38). Il legame affettivo di La Boétie con la regione della Guienna, l’antica Aquitania, dove svolgeva le sue funzioni di magistrato, è accertato e appare molte volte anche nello
scritto già citato, il “Mémoire”. E’ dunque probabile che la prima stesura del “Discorso” sia da collegare con questa rivolta; in ogni caso la sua posteriorità rispetto al 1548 è ormai fuori di dubbio.

La rivolta contro i gabellieri da parte dei comuni della Guienna va vista tenendo presente la riorganizzazione dello Stato rinascimentale costretto ad accentuare la sua pressione fiscale per far fronte al vertiginoso aumento di spese dovute alle continue guerre e alla creazione di nuove funzioni amministrative. In Francia è sotto il regno di Francesco Primo che questa trasformazione da una struttura ancora feudale ad uno Stato «moderno» inizia il suo lungo cammino. All’inizio degli anni ’40 l’imposta sul sale, fino allora riscossa solo nelle province settentrionali non produttrici, viene estesa anche in altre zone, fra le quali la Guienna. Si viene a creare un vasto movimento di rivolta che parte dalla campagna ma raggiunge ben presto la città: a Bordeaux, capitale della regione, non ci si accontenta di mettere in fuga i gabellieri ma viene ucciso il luogotenente generale. Enrico Secondo, da poco re di Francia, ordina una terribile repressione in cui vengono condannati a morte centinaia di persone e viene soppresso ogni antico diritto di autonomia della città.

E’ stato giustamente sottolineato che questa rivolta segna l’inizio di un ciclo nuovo nelle sommosse popolari, che si ripeteranno in tutta Europa per il Cinque e Seicento: ci si rivolta contro i soprusi di uno Stato che tende ad instaurare la sua sfera di dominio in ambiti dove prima era naturale vivere in autonomia e libertà. «I gabellieri non solo sono chiamati malvagi; si affibbia loro il nome di “inventori”. Enumerando gli abusi i ribelli iniziano ogni articolo del loro elenco dicendo: altra invenzione… altra novità… I ribelli insomma non rifiutano l’imposta ma solo le nuove imposte. Si vuole tornare all’ordine antico e ci si rivolta contro le invenzioni, le novità introdotte dai gabellieri malvagi» (39). Questa motivazione, insieme con l’incapacità di queste masse popolari di trovare adeguata espressione politica, viene ritenuta sufficiente perché queste rivolte siano dichiarate conservatrici. In effetti non viene contestata la monarchia, anzi ci si appella al re nella convinzione che siano i servitori della monarchia a compiere malvagità all’insaputa del monarca. Troviamo un eco di tutto questo in un passo del “Discorso” laddove si dice: «Solitamente il popolo non accusa il tiranno per il male che gli tocca sopportare bensì coloro che sono messi a governare. Di costoro i popoli, le nazioni, tutti gli abitanti senza alcuna eccezione, dai contadini agli artigiani, sanno i nomi, contano i vizi e su di loro riversano un’infinità di oltraggi, villanie e maledizioni» (40). Il popolo non progetta utopiche rivoluzioni: vuole semplicemente conservare le sue tradizioni di autonomia contro uno Stato che da mitico e lontano quale era prima vuol far ora sentire la sua presenza, mantenendo la sua sacralità tradizionale per meglio opprimere con strumenti nuovi. Lo scritto di La Boétie si inserisce proprio in questo momento di trapasso verso un’organizzazione statale che incomincia ad avanzare la sua terribile pretesa di controllare la società civile. Non già che prima Stato e società civile esistessero in una tranquilla coesistenza: proprio per la fondamentale unità della vita sociale e individuale precedente è impossibile applicare quelle categorie. E’ invece la nascita dello Stato moderno che, costituendosi come apparato macchina, separa da sé l’altro termine per meglio dominarlo e possederlo. Come a voler sfuggire il destino inscritto in questo processo, La Boétie si mette dalla parte di quell’autentico anelito di libertà che si esprime nella rivolta popolare. Non per questo è da confondere con una sorta di teorico della rivolta popolare e contadina: egli infatti non ne trae alcuna strategia, non esalta quel momento di lotta. Al contrario pone come oggetto di riflessione il limite intrinseco ad una ricerca della libertà, che pure aveva radici autentiche. Diversamente da molti teorici della rivoluzione dei nostri giorni che liquidano quelle esperienze perché fondamentalmente conservatrici, ma lontano pure da quegli storici che esaltano come irripetibili esperienze di liberazione, La Boétie assume una sua posizione originalissima: condivide l’ansia di libertà sottesa alla rivolta popolare, ma nello stesso tempo osserva senza illusioni l’incapacità delle masse ribelli di produrre quella solidarietà dalle origini antiche che dicono di volere. Non si tratta semplicemente di debolezza, di impotenza o di rassegnazione alla servitù: quando La Boétie parla di servitù volontaria vuole prima di tutto mettere in rilievo quello «strano accidente» per cui gli uomini, volendo la libertà, riescono a porla come oggetto concreto del loro desiderio solo nei termini di un nuovo (o vecchio) potere.

All’inizio dell’età borghese troviamo così un pensatore che rifiuta di entrare nel dibattito infinito sul ruolo del servo e del padrone, sul come il potere possa essere posto al servizio della libertà ed oppone ai filosofi domanda: perché il potere? In altri termini: perché la libertà non può essere pensata e vissuta se non in
riferimento al dominio?

5. Desiderio di libertà e servitù volontaria: i termini del paradosso.
Fin dall’inizio del “Discorso” La Boétie opera un’auto-esclusione esplicita dal dibattito politico:

«Non voglio addentrarmi nella questione così spesso dibattuta se gli altri modi di governare la cosa pubblica siano migliori della monarchia» (41)

Viene subito alla mente, per contrasto, l’inizio dell’opera politica più importante di quel periodo, che enumera i vari tipi e sottotipi di forme di governo:

«Tutti li stati, tutti e’ dominii che hanno avuto e hanno imperio sopra li uomini, sono stati e sono o repubbliche o principati. E’ principati sono o ereditarii… o e’ sono nuovi» (42)

Il riferimento positivo di La Boétie sembra essere invece l’autore della “Politica”, Aristotele, il quale, prendendo in esame le varie forme di governo cita il verso di Omero con il quale si apre il “Discorso sulla servitù volontaria”. Ma anziché introdurre ad una distinzione fra governo d’uno e governo di molti La Boétie se ne serve per affermare che

«quanti più padroni si hanno tanto più sventurati ci si trova».

Ma vi è di più. Ponendosi fuori da ogni schema precostituito il “Discorso” compie un’ultima esclusione, senza dubbio la più sconcertante per quell’epoca: si potrebbe bastare a qualcuno per considerare il giovane autore poco provvisto di rigore logico, se incorre fin dall’inizio in una simile confusione (44). In realtà La Boétie, contro ogni consuetudine, ci annuncia il suo giudizio di illegittimità di “ogni” potere:

«In tutta coscienza va considerata una tremenda sventura essere soggetti ad un signore di cui non si può mai dire con certezza se sarà buono poiché è sempre in suo potere essere malvagio, secondo il proprio arbitrio» (45).

Come già per Machiavelli anche per La Boétie non vi è differenza fra la posizione privata del sovrano che esercita il potere e l’organizzazione statale in quanto tale. La ragion di stato qui è ancora legata al «farsi stato» nel senso etimologico, cioè il farsi una posizione di potere: il fatto che La Boétie insista sull’arbitrio del sovrano ci riporta appunto all’inizio dell’età moderna allorché l’intreccio fra i due elementi impediva la distinzione a noi ormai chiara fra la struttura del potere e la persona che l’assume. Dopo questo breve prologo La Boétie ci mette subito di fronte al nucleo centrale del problema: come mai milioni di uomini sopportano uno solo, un tiranno che li sottomette ad ogni suo volere derubandoli di tutto? Non è certo a causa della forza del tiranno, poiché uno solo non può competere con più persone; e non può essere per viltà dei sudditi, perché non lo si può essere fino a questo punto. Infatti «colui che spadroneggia non ha che due occhi, due mani, un corpo» come tutti. Perché allora gli uomini rinunciano alla libertà?

Diciamo subito che La Boétie non sembra riuscire a formulare in modo chiaro una risposta. Anzi a un certo punto del “Discorso” questa domanda è come lasciata in sospeso e prende avvio quella che potremmo definire una seconda parte del “Discorso”, dove l’autore traccia una specie di fenomenologia delle varie forme di potere e della struttura psicologica che le sostiene. Si ha l’impressione che il “Discorso” riprenda da capo ad un livello più accessibile e tradizionale che è quello descrittivo: per essere assoggettati

«è necessario una delle due: esservi costretti o ingannati. Costretti dalle armi straniere… o dalle fazioni in gioco… Per inganno gli uomini perdono sovente la loro libertà; in questo un poco sono sedotti da altri, spesso però accade che siano loro stessi ad ingannarsi» (46) La Boétie non approfondisce il senso di questo auto-inganno da parte del popolo; tutte queste osservazioni gli servono per arrivare a porre una distinzione tra il fatto che «all’inizio l’uomo serve a malincuore» e il fatto che «quelli che vengono dopo… servono senza alcun rincrescimento e fanno volentieri ciò che i loro padri han fatto per forza» (47).

La domanda iniziale: perché gli uomini rinunciano alla libertà, acquista una formulazione diversa: perché gli uomini perseverano nella rinuncia della libertà? Questione più agevole da risolvere: ed infatti in questa seconda parte La Boétie si diffonde in esempi tratti dall’antichità per dimostrare come la forza dell’abitudine da parte dei sudditi e gli inganni e le seduzioni del tiranno formino una stretta rete in cui il naturale desiderio di libertà viene impigliato fino ad essere soffocato. Procedendo in questa descrizione La Boétie si rende conto che è la stessa monarchia di Francia ad essere messa in discussione; con un classico procedimento retorico egli la esclude dalla derisione che ha mostrato nei confronti delle «belle favole» dove i sovrani vengono rappresentati come persone sovrumane, protette in modo particolare dalla divinità e dotate di poteri miracolosi. Ma il procedimento retorico è qui così apertamente forzato che la difesa delle tradizioni della casa reale di Francia si trasforma agli occhi del lettore in una vera e propria satira dei re-taumaturghi e dei poeti di corte che ne cantano le imprese. Nei poeti della Pléiade del suo tempo La Boétie sembra intravedere il destino di quella Francia cortigiana e frivola che costituirà il sostegno dell’assolutismo nel Seicento.

Ed è soprattutto nell’ultima parte, allorché La Boétie avverte che l’origine nascosta della tirannia, il suo fondamento, sta nella catena di favori e di protezioni particolari che si prolunga pressoché all’infinito, che il “Discorso” si arricchisce di osservazioni analitiche molto interessanti. Il desiderio di sicurezza e di protezione che spinge molti ad essere tra i più fedeli al tiranno si rovescia in una vita insicura e ansiosa: «Essere occupato giorno e notte a compiacere uno e tuttavia aver più timore di lui che non di qualsiasi altro uomo… denunciare chi sta per tradire, sorridere a tutti e fidarsi di nessuno, non avere né nemici dichiarati né amici sinceri, col sorriso sulle labbra e il gelo nel cuore, non riuscire ad essere lieto e non poter mostrarsi scontento» (48), Ponendo a tema questo rovesciamento La Boétie non solo si dimostra acuto interprete della psicologia umana ma anche lucido osservatore di quelle tendenze della società borghese allora timidamente emergenti, ma che sarebbero poi diventate oggetto di analisi approfondite da parte di molti teorici politici seguenti, da Tocqueville ai pensatori della scuola di Francoforte: il tramutarsi della ricerca di sicurezza e di protezione in schiavitù, tanto più terribile quanto più voluta, in una società incapace di pensare la propria felicità se non in riferimento all’argomento del dominio. Oggi, come ai tempi di La Boétie, in definitiva «quanti traggono profitto dalla tirannia sono quasi pari a coloro che preferiscono la libertà» (49). E tuttavia, nonostante queste osservazioni molto acute e attuali che vengono formulate nella seconda parte, non è in questa ricchezza di notazioni che si esaurisce l’importanza dell’opera: è piuttosto nello sforzo di chiarificazione della prima questione che appare il significato del “Discorso” in uno sconvolgimento vero e proprio dei presupposti classici e moderni del potere. Abbiamo visto che La Boétie non ammette che la radice del potere stia nella forza di costrizione o nella viltà. In altri termini: la logica del dominio non è riconducibile ad una specie di passività delle masse che ubbidiscono. La radice del potere sta in chi lo subisce e non in una supremazia di chi lo esercita. Non c’è bisogno di combattere questo tiranno, di toglierlo di mezzo; egli viene meno da solo, basta che il popolo non accetti più di servirlo; non si tratta di sottrargli qualcosa ma di non attribuirgli niente. E quasi come in un grido disperato alla fine La Boétie esplode:

«Non voglio che scacciate il tiranno e lo buttiate giù dal trono; basta che non lo sosteniate più e allora lo vedrete crollare a terra per il peso e andare in frantumi come un colosso a cui sia stato tolto il basamento» (50).

Il potere non ha fondamento oggettivo: né diritto divino (secondo la dottrina tradizionale), né diritto naturale (come affermano i primi teorici moderni dello Stato). Il potere è un rapporto immaginato e creato, a partire da chi lo subisce. A prima vista sembrerebbe che questa serie di affermazioni rappresenti l’antecedente storico di quel «desiderio di sottomissione» teorizzato da Deleuze e Guattari: la soluzione consisterebbe a questo punto in una astensione dal desiderio, così come l’invito di La Boétie è di non fare nulla ma semplicemente di ritirare il sostegno che viene dato al potere. In realtà, nonostante alcune assonanze superficiali, è molto difficile porre l’autore del “Discorso” sulla stessa linea dei teorici della «economia libidinale». Non si trova nello scritto di La Boétie alcun accenno alla gioia nell’essere oppressi, a quelle «intensità servili» che costituirebbero il fondamento dell’esperienza del dominio. La Boétie descrivendo gli effetti di questa ostinata volontà di servire ci offre il quadro classico di popoli depredati, saccheggiati, privati delle persone e delle cose più care, e sottolinea esplicitamente il fatto che

«il tiranno non è amato e non può essere amato».

Piuttosto egli preferisce parlare di complicità che lega tiranno e oppresso, di un loro reciproco stare al gioco. Ma è appunto questa strana solidarietà fra vittima e oppressore il motivo dello stupore che nasce in La Boétie: allorché scopre questa sottomissione volontaria egli non raggiunge la soluzione del problema, bensì l’aspetto più assurdo e inspiegabile del problema stesso. Se infatti non è necessario fare qualcosa di eroico, o comunque compiere un gesto positivo per scuotere il gioco della schiavitù, ma basta rifiutare il proprio assenso, perché questa cosa semplice e ovvia non succede? Come mai l’assurdo è la nostra condizione normale e il desiderio normale e naturale di essere liberi è diventato agli occhi degli uomini atto eroico e pressoché impossibile?

«Se gli costasse qualcosa riacquistare la libertà non continuerei a sollecitarlo… ma se per avere la libertà è sufficiente desiderarla con un semplice atto di volontà si troverà ancora al mondo un popolo che la ritenga troppo cara?» (51).

Per ottenere la libertà basta desiderarla: libertà e desiderio di libertà sono la stessa cosa. Ponendo questa equazione La Boétie fa intendere chiaramente che la libertà non è un oggetto. Sa benissimo che la volontà fattiva di raggiungere ciò che dà soddisfazione e felicità è diversa dal semplice desiderio. Mentre la prima è solo degli uomini coraggiosi e intraprendenti, il secondo

«è insito nella natura umana. Questa aspirazione è comune ai saggi e agli ignoranti, ai coraggiosi e ai pusillanimi» (52)

Desiderare il bene non è ovviamente la stessa cosa che compierlo e possederlo. Se al contrario nel caso della libertà questa coincidenza è possibile è perché l’essere liberi non è una cosa tra le altre da raggiungere, ma “una condizione”, anzi, come dice La Boétie, la condizione naturale dell’uomo.

Ma è proprio a questo punto che appare la contraddizione più grave.

«In una sola cosa, non so come  mai,sembra che la natura venga meno così che gli uomini non hanno la forza di desiderarla: si tratta della libertà… E’ così che gli uomini tutto desiderano eccetto la libertà, perché forse la otterrebbero semplicemente desiderandola» (53).

Eccoci al paradosso: proprio ciò che caratterizza la natura dell’uomo nella sua specificità, cioè la libertà, sembra non rispettare la legge naturale espressa sopra: saggi e ignoranti, coraggiosi e pusillanimi, tutti mantengono la capacità di desiderare. Ma cosa significa l’affermazione che la libertà è naturale? La Boétie ne svolge la dimostrazione secondo i canoni ormai fissati della tradizione classica (probabilmente l’autore che gli è più presente è Cicerone), inbase alla quale risulta che la libertà è un diritto naturale inalienabile dell’uomo. E’ interessante osservare che la dimostrazione avviene in tre momenti:

«Se vivessimo secondo i diritti che la natura ci ha dato saremmo senz’altro obbedienti verso i genitori, soggetti alla ragione, servi di nessuno» (54).

Sulle prime due asserzioni La Boétie non si sofferma molto: ognuno sente dentro di sé il dovere dell’obbedienza ai genitori (che appunto si chiama naturale), così come può riconoscere in sé un seme di razionalità. Invece il fatto che la libertà sia un diritto naturale viene dedotto da una serie di constatazioni indubbiamente cariche di novità: la natura, dice La Boétie, ci ha fatti tutti fratelli, non perché tutti uguali, ma proprio perché

«dando agli uni di più, agli altri di meno, ha voluto porre le condizioni per un affetto fraterno che tutti potessero esercitare, avendo gli uni la forza di recare aiuto, gli altri bisogno di riceverne» (55).

Per questo ognuno può riconoscersi nell’altro come in uno specchio, per questo possediamo il dono del linguaggio. Insomma la natura ha mostrato chiaramente di aver voluto che gli uomini fossero non solo uniti ma una cosa sola, «un “uno”». Ritroviamo qui il termine su cui si fonda tutto il “Discorso”: si è partiti constatando l’uno, il tiranno, che tiene sottomessi gli uomini e si è arrivati ad un altro principio di unità, non più storico ma naturale. Ma come intendere il passaggio dalla forma naturale alla forma storica dell’unità?

E’ stato fatto notare (56) che seguendo fino in fondo il ragionamento di La Boétie egli risulta aver torto nel considerare ingiustificato il potere, proprio perché “è il desiderio stesso della libertà che ha creato la monarchia”, è l’unità originaria naturale che trapassa in un principio ordinatore della convivenza. Ora, si dice, non c’è via di mezzo: o La Boétie riesce ad indicarci un altro principio storico che sappia incarnare l’originario stato di unità oppure va rispettato questo Uno tanto deprecato. E’ chiaro che La Boétie non si sia posto questa alternativa, poiché ha davanti a sé l’immagine dell’assenza del potere. Ma l’osservazione coglie il passaggio fondamentale su cui si regge il “Discorso”: la libertà, nel tentativo di dare spessore storico alla solidarietà originaria, “produce” il dominio. Gli uomini avrebbero usato del linguaggio per costituirsi in un’unità che li sapesse esprimere: come dice La Boétie «sono affascinati e stregati dal solo nome di uno» (57). L’unicità del potere è nello stesso tempo la forza dell’unità che riesce a generare attorno a sé. Verso la fine del “Discorso” ci viene ricordato che anche il sovrano infatti genera unità: essa è la traduzione rovesciata della unità originaria fra gli uomini. Questa unità fondata dal tiranno non si può chiamare amicizia: «Non ci può essere amicizia dove si trovano crudeltà, slealtà, ingiustizia; e quando i malvagi si ritrovano tra loro non vi è compagnia ma complotto, non sono amici ma complici» (58).

Dall’unità come amicizia all’unità come complotto. Dovremmo dunque pensare che la tensione al riconoscimento reciproco fra gli uomini genera inevitabilmente un meccanismo di sopraffazione, che il desiderio di unità fa scattare necessariamente quell’Uno che affascina e ipnotizza, che la libertà assume inesorabilmente la figura del potere? Ma se questo fosse vero in senso assoluto, se cioè non fosse possibile immaginare che avvenga diversamente, allora dovremmo concludere che la libertà, per rimanere tale, “non deve trovare espressione” ma restare sempre nel vago. Come dice Claude Lefort «il desiderio di libertà esige che la natura del soggetto non sia determinata» (59). Appena tenta la sua dicibilità, essa si contraddice. Perché non pensare invece che la libertà esige una soggettività determinata, ma non riesce a trovare un soggetto “storico” adeguato? Perché la libertà deve essere pensata nei termini di una indeterminatezza e non in quelli di una identità assente, di un Altro che viene continuamente sostituito e contraffatto dal nome d’Uno, dalla figura del potere? L’immagine di solidarietà originaria che La Boétie ci presenta non è infatti una pura finzione di una libertà che sarebbe indicibile, bensì il tentativo di dare espressione e contenuto determinato a quel desiderio di libertà che continuamente ricerca nella storia una sua realizzazione, ma che un male oscuro rovescia nella non-libertà, nel potere.

Se il desiderio di libertà fosse possibile solo a partire da una soggettività assolutamente indeterminata il passaggio dalla libertà al potere acquisterebbe i caratteri della necessità: esplicitare il desiderio, tentare una sua espressione, significherebbe perderlo per sempre. A nostro avviso invece il passaggio va pensato nei termini dell’accidente storico, di un malcapitato caso, o come dice La Boétie, del «mal-encontre». Alla fine di questa prima parte del “Discorso” egli non riesce a chiudere in una soluzione la questione affrontata, ma ripropone la domanda iniziale. Ora però la formulazione ha acquistato in chiarezza e precisione:

«Quale oscuro male (mal-encontre) ha potuto snaturare a tal punto l’uomo, l’unico ad essere nato propriamente per vivere libero, da fargli perdere la memoria del suo primo stato e il desiderio di riacquistarlo?» (60)

Qui sta il cuore dell’intero “Discorso”. Il termine «mal-encontre» sta ad indicare appunto la casualità della caduta, del venir meno di quella memoria; caduta che rimane però inspiegabile. In questa domanda sta il paradigma di ogni pensiero che voglia tentare l’affronto della origine della società: La Boétie si rivela come il vero precursore di Rousseau e in generale di tutto quel pensiero borghese che invece di accontentarsi della questione del potere si è sforzato di pensare la radice della sua contradditorietà. Il tema dello stato di natura, il mito del buon selvaggio (che inizia ad apparire già in La Boétie, almeno in un accenno fugace a «un tipo di gente del tutto nuovo») tentano di esprimere la situazione originaria ma non riescono comunque a rendere comprensibile il passaggio allo stato sociale. La grandezza di La Boétie si mostra tra l’altro nel riconoscere questa difficoltà: la nostra società non riesce a pensare la sua origine, a spiegare il passaggio dall’unità naturale all’unità sotto il segno del potere (61). Non solo: La Boétie si rende conto che questo passaggio non è avvenuto nella forma della necessità, ma per caso, per il sopraggiungere di un male oscuro che ha reso possibile quella contraddizione che ricordavamo all’inizio: ciò che è proprio della natura dell’uomo, la libertà, non rispetta la legge naturale. Desiderare la libertà è assente, è Altro dalla storia. Il potere è il risultato soggetto. La nostalgia per un’identità piena e realizzata, per una comunità di uomini liberi e felici muove la storia, ma questa identità, questa comunità è assente, è Altro dalla storia. Il potere è il risultato di questa dialettica fra presenza e assenza: esso appare non come violenza al desiderio di libertà ma come sua espressione. A questo punto la memoria della libertà e dell’unità originaria scompare, la pretesa di riacquistare quello stato felice viene cancellata: il potere è l’espressione, qui ed ora, del desiderio di essere liberi. Una volta costituito questo orizzonte di discorso ogni richiesta di libertà si trasforma in un dibattito sull’uso del potere o sulla sua sostituzione con un contro-potere. La Boétie rompe questo incantesimo e ripropone i termini primordiali della questione. Il “Discorso” appare come l’inizio di un pensiero «negativo» sul potere che emerge nei momenti critici della nostra storia e rappresenta un modello teoretico di pensiero lontano da ogni piatta sociologia delle forme di potere come pure da ogni «rifondazione del politico» (62),

Collocandosi fra due epoche storiche La Boétie ci risulta contemporaneo e nello stesso tempo molto distante. L’attualità delle questioni che egli apre si costituisce infatti all’interno di un orizzonte di pensiero che risente ancora molto della concezione cristiana: l’oscuro male dell’uomo come l’accidente storico non è forse la traduzione umanistico-borghese della caduta originale affermata dalla tradizione cristiana? In questa vicinanza-lontananza dalla concezione religiosa si costituisce storicamente lo spazio per la domanda sul soggetto adeguato al desiderio di libertà. Dove trovare una simile consistenza? Dove rinvenire una soggettività capace di riprendere quella memoria di libertà e solidarietà?

Nella miseria del dominio questa domanda mette in crisi il discorso sui fondamenti del potere e chiama in causa la nostra servitù volontaria: «Questo sarebbe un vivere felice? Si può chiamare vita codesta?» (63), Non c’è distruzione pratica delle forme di dominio, per quanto negatrice essa sia, non c’è teoria in grado di criticare la logica del dominio che ha penetrato il cervello sociale del nostro tempo, per quanto lucida e acuta essa sia, se viene evitata la questione della servitù volontaria. E tuttavia, sciogliere l’intreccio fra libertà e potere non può essere compito della rivoluzione. Riprendendo le parole di Landauer, per questo è necessario

«qualcosa di radicalmente diverso dalla rivoluzione o addirittura qualcosa d’altro. Noi ora sappiamo in che modo seguire la parola d’ordine: non attraverso il potere ma attraverso lo spirito; non molto tuttavia è stato ancora fatto perché noi ci appellassimo allo spirito; è necessario che venga sopra di noi… E’ questa attesa che ci fa perseverare nella nostra traversata e nella nostra progressione; è questo non sapere che ci ordina di seguire l’Idea. Che valore avrebbero in effetti le idee per noi se avessimo una vita»?

NOTE ALL’INTRODUZIONE
NOTA 1: L’ipotesi che il “Contr’un” fosse stato scritto da Montaigne sotto il nome di La Boétie è stata sostenuta nel 1906 da Armaingaud in “La Boétie, Montaigne et le Contr’un”, Revue politique etparlamentaire, ma si è rivelata del tutto infondata.
NOTA 2: Cfr. in proposito quanto scrive Boris Porchnev nel testo, ormai divenuto un classico in materia, sulle rivolte popolari in Francia: B. Porchnev, “Les soulèvements populaires en France au dixhuitièmesiècle”, Flammarion, Paris 1972, cap. 1 pagine 49-55 (tr. it. “Lotte contadine e urbane nel grand siècle”
Jaca Book, Milano 1976.
NOTA 3: Questo giudizio si può ritrovare letteralmente nella prefazione al “Contr’un” scritta da Auguste
Vermorel per l’edizione del 1863, ed. Dubuisson, Paris.
NOTA 4: Cfr. E. De La Boétie, “De la servitude volontaire”, Paris 1835, prefazione pagine 41 ss.
NOTA 5: G. Landauer. “Die Revolution”, Francoforte 1907; la traduzione italiana è apparsa recentemente
in “L’umana avventura”, N. 6, aprile 1979, Jaca Book, pagine 32-36.
NOTA 6: M. De Montaigne, “Essais”, 1, 1, cap. 28; tr. it. “Saggi”, Adelphi, Milano 1966, pag. 243.
NOTA 7: M. De Montaigne, op. cit, pag. 259.
NOTA 8: C.A. De Sainte-Beuve, “Causeries du Lundi”, Paris 1857, vol. 9, pag. 112.
NOTA 9: A. Vermorel, op. cit., La prefazione di Vermorel al “Contr’un” è stata ripubblicata in E. De La
Boetie, “Le discours de la servitude volontaire”, Payot. Paris 1976, pag. 68.
NOTA 10: M. De Montaigne, op. cit., pag. 244.
NOTA 11: Lettera di Montaigne al padre, riportata in appendice a E. De la Boétie “Il Contr’uno”, G. Daelli
e C.. Milano 1864.
NOTA 12: M. De Montaigne, op. cit., pag. 257.
NOTA 13 M. De Montaigne, op. cit., pag. 243.
NOTA 14: M. Butor, “Essais sur les Essais”, Gallimard, Paris 1968 pag. 33.
NOTA 15: Cfr. il testo del “Discorso sulla servitù volontaria”, pag. 67.
NOTA 16: Vedi pagina 87. In un passo degli “Essais” Montaigne ripropone la stessa riflessione dell’amico
La Boétie, appena citata «I popoli allevati nella libertà e nell’autogoverno considerano ogni altra forma di
governo mostruosa e contro natura. Quelli che sono abituati alla monarchia fanno lo stesso. E qualsiasi
possibilità di cambiamento la fortuna offra loro, perfino quando si siano liberati con gran difficoltà dal
fastidio d’un padrone, si precipitano a ristabilirne uno nuovo con altrettante difficoltà, perché non possono
risolversi a prendere in odio l’autorità» (M. De Montaigne, op. cit. pagine 150-151).
NOTA 17: L’osservazione è di La Mothe Le Vayer, uno dei pensatori della corrente libertina nella Francia
del seicento
NOTA 18: Vedi pagina 70.
NOTA 19: In un certo senso La Boétie può essere considerato uno dei primi «spiriti liberi» del
Cinquecento, per la radicalità delle questioni che riesce a porre e per il desiderio di libertà da cui è animato.
A differenza però dei libertini La Boétie è alieno da ogni forma di indifferentismo e relativismo.
NOTA 20: A questa conclusione giunge pure l’introduzione al “Discorso sulla servitù volontaria” di
Miguel Abensour e Marcel Gauchet; cfr. E. De La Boétie, “Discours…”, op. cit., Payot 1976, p. 11.
NOTA 21: Vedi pagina 87.
NOTA 22: In questo senso il “Contr’un” si colloca su tutt’altro piano rispetto ai famosi pamphlets di quel
periodo come la “Franco-Gallia” di Hotman, le “Vindiciae contra tyrannos” e il già citato “Réveille-Matin,
tutti composti sotto l’impressione dei fatti violenti iniziati con la strage della notte di S. Bartolomeo nel
1572.
NOTA 23: I termini del dibattito fra le varie ipotesi storiografiche sono esposti chiaramente in A. M.
Battista, “Appunti sulla crisi della morale comunitaria nel Seicento francese”, Olschki ed., Firenze 1969.
NOTA 24: A. M. Battista, “Alle origini del pensiero politico libertino. Montaigne e Charron”, Giuffrè,
Milano 1966, pag. 18; il testo mette in luce l’autonoma posizione di Montaigne e in generale del pensiero

libertino dalla costruzione politica di Machiavelli.
NOTA 25: Vedi pagina 100.
NOTA 26: M. De Montaigne, Op. Cit., pagine 339-340.
NOTA 27: Vedi pagina 63.
NOTA 28: L’ispirazione classica del “Discorso” è stata affrontata in dettaglio da L. Delaurelle, “Sur
l’inspiration antique dans le Discours de la servitude volontaire”, in «Revue d’histoire littéraire de la
France», 1910.
NOTA 29: Vedi pagine 69-70.
NOTA 30: Vedi pagina 61.
NOTA 31: Parlando dei vari stratagemmi che il tiranno mette in atto a danno dei sudditi La Boétie
afferma: «E tu sai bene, mio caro Longa, il vasto “formulario” (corsivo nostro) di cui potrebbero in molti
casi fare uso». Che il termine si riferisca all’opera machiavellica pare molto probabile, soprattutto se si
pensa all’interpretazione del “Principe” diffusa anche in Francia nel sedicesimo secolo come una raccolta di
precetti politici e di abili stratagemmi.
NOTA 32: In uno scritto su Machiavelli e La Boétie Jean Barrère ha tentato di dimostrare che il “Discorso”
sarebbe stato scritto in risposta al “Principe” di Machiavelli, con un’analisi linguistica comparata dei due
testi. Ma, al di là di alcuni possibili richiami di carattere stilistico, per altro abbastanza rari, non ci sembra
possibile intendere il “Discorso” come una risposta in chiave politica al Principe. Se si vuole parlare di
antitesi fra le due opere, il contrasto va ricercato non fra due testi all’interno del discorso politico del
momento, ma fra due concezioni radicalmente diverse della libertà e del potere.
NOTA 33: Quest’ultima interpretazione di Machiavelli ebbe particolare fortuna nel nostro Risorgimento,
che privilegiò l’invocazione alla patria contenuta nell’ultimo capitolo del “Principe” come invito
all’indipendenza nazionale. Esempio di questa interpretazione sono i famosi versi dei “Sepolcri” foscoliani,
in cui si inneggia al Grande che ha svelato alle genti i retroscena del potere.
NOTA 34: P. Mesnard in «La Boétie critico della tirannide» in “L’essor de la philosophie politique au
seizième siècle”, J. Vrin, Paris 1951; tr. it. “Il pensiero politico rinascimentale”, Laterza, Bari, 1963, vol.
2, pagine 4-5.
NOTA 35: L. Daneau, “De iurisdictione iudicum”, citato da Mesnard, ibidem.
NOTA 36: Riportato nella «Collection des chefs-d’oeuvre méconnus», Bossard, Paris 1922.
NOTA 37: A. Thuani “Historiarum sui temporis pars Ia”, Paris 1604.
NOTA 38: E’ solo nella seconda edizione degli “Essais” che Montaigne retrodata la composizione del
“Discorso” al 1546, mentre prima aveva affermato che l’opera era stata scritta nel 1548. Ma questa tendenza
di Montaigne ad allontanare il più possibile la data di composizione del “Contr’un” è già stata spiegata: è
probabile che nella seconda edizione abbia ulteriormente retrodatato lo scritto proprio perché l’anno 1548
portava con sé il riferimento immediato alla rivolta della Guienna.
NOTA 39: Y. M. Bercé, Croquants et Nu-pieds. Les soulèvements paysans en France du 16 au 19 siècle,
Gallimard/Julliard, Paris 1974, pagine 40-41.
NOTA 40: Vedi pagina 110.
NOTA 41: Vedi pagine 60-61.
NOTA 42: N. Machiavelli, “Il Principe”, a cura di L. Firpo, Einaudi, Torino 1961, cap. 1, pag. 5.
NOTA 43: Questa distinzione era uno dei fondamenti di tutta la libellistica anti-monarchica nella Francia
del Cinquecento: cfr. ad esempio le “Vindiciae contra tyrannos”, dove si afferma che «i tiranni e i re, i
principi giusti e quelli ingiusti sono in perfetta antitesi», in “Grande antologia filosofica”, Milano 1964,
vol. 10.
NOTA 44: Questo è il parere per esempio di Bonnefon, in Introduzione a E. De La Boétie, “Oeuvres
complètes”, Paris 1892, p. 43.
NOTA 45: Vedi pagina 60.
NOTA 46: Vedi pagine 76-77.
NOTA 47: Ibidem.
NOTA 48: Vedi pagina 109.
NOTA 49: Vedi pagina 100.
NOTA 50: Vedi pagina 70.
NOTA 51: Vedi pagina 66.

NOTA 52: Vedi pagina 67.
NOTA 53: Vedi pagina 68.
NOTA 54: Vedi pagina 70.
NOTA 55: Vedi pagina 71.
NOTA 56: Si tratta di Pierre Leroux, autore di un commento all’opera di La Boétie, in “Revue Sociale”,
agosto-sett. 1847, pagine 169-172; «Le Contr’un d’Etienne La Boétie» riportato in “Discours de la
servitude volontaire”, op. cit. Payot 1976, pagine 41-56.
NOTA 57: Vedi pagina 61.
NOTA 58: Vedi pagina 107.
NOTA 59: C. Lefort «Le nom d’Un», commento al “Discorso”, op. cit. Payot 1976, pag. 273.
NOTA 60: Vedi pagina 74.
NOTA 61: Su questo confronta G.F. Dalmasso, “La politica dell’immaginario. Rousseau/Sade”, Jaca
Book, Milano 1977.
NOTA 62: Sulla impossibilità di una «rifondazione del potere» e sulla contraddizione intrinseca all’idea di
libertà confronta M. Cacciari, “Dialettica e critica del politico. Saggio su Hegel”, Feltrinelli, Milano 1978.
La differenza delle tesi esposte da Cacciari con quanto abbiamo finora detto è però radicale: per Cacciari la
soluzione starebbe nella rinuncia definitiva alla soggettività.
NOTA 63: Vedi pagina 103.
NOTA 64: Landauer, op. cit. pag. 63.
NOTA DEL TRADUTTORE.
La presente traduzione del “Discorso sulla servitù volontaria” è stata condotta sul cosiddetto manoscritto
“De Mesmes”, ritrovato solo nel secolo scorso e pubblicato nel 1853 da Payen; recentemente è stato
riproposto al pubblico francese dall’editore Payot di Parigi.
Questo manoscritto, destinato ad una ristretta cerchia di amici di Montaigne, può essere considerato
verosimilmente la copia del testo originale andato perduto o quantomeno la stesura più fedele, a differenza
delle edizioni successive, parziali o comunque largamente rimaneggiate.
Nella traduzione ho cercato di mantenermi aderente al testo “De Mesmes”, rispettandone il più possibile
l’intonazione retorica e l’andamento sintattico; mi sono permesso di allontanarmi dal testo solo in quei
pochi casi nei quali è evidente la trascrizione errata di uno o più termini e più in generale nella
punteggiatura che nel manoscritto risulta essere molto disordinata.
L.G.
DISCORSO SULLA SERVITU’ VOLONTARIA.
«No, non è un bene il comando di molti; uno sia il capo, uno il re» (1)
così Ulisse, secondo il racconto di Omero, si rivolse all’assemblea dei Greci. Se si fosse fermato alla frase
«non è un bene il comando di molti» non avrebbe potuto dire cosa migliore. Ma mentre, a voler essere
ancora più ragionevoli, bisognava aggiungere che il dominio di molti non può essere conveniente dato che
il potere di uno solo, appena questi assuma il titolo di signore, è terribile e contro ragione, al contrario il
nostro eroe conclude dicendo: «uno sia il capo, uno il re».
E tuttavia dobbiamo perdonare a Ulisse di aver tenuto un simile discorso che in quel momento gli servì per
calmare la ribellione dell’esercito adattando, penso, il suo discorso più alla circostanza che alla verità. Ma
in tutta coscienza va considerata una tremenda sventura essere soggetti ad un signore di cui non si può mai
dire con certezza se sarà buono poiché è sempre in suo potere essere malvagio secondo il proprio arbitrio; e
quanto più padroni si hanno tanto più sventurati ci si trova. Ma non voglio ora addentrarmi nella questione
così spesso dibattuta se gli altri modi di governare la cosa pubblica siano migliori della monarchia. Se
dovessi entrare in merito a tale questione, prima di discutere a quale livello si debba collocare la monarchia

tra i diversi tipi di governo, porrei il problema se essa si possa dir tale, dato che mi sembra difficile credere
che ci sia qualcosa di pubblico in un governo dove tutto è di uno solo. Ma riserviamo ad un altro
momento la discussione di questo problema che richiederebbe di essere trattato a parte e si trascinerebbe
dietro ogni sorta di disputa politica.
Per ora vorrei solo riuscire a comprendere come mai tanti uomini, tanti villaggi e città, tante nazioni a
volte sopportano un tiranno che non ha alcuna forza se non quella che gli viene data, non ha potere di
nuocere se non in quanto viene tollerato e non potrebbe far male ad alcuno, se non nel caso che si preferisca
sopportarlo anziché contraddirlo. E’ un fatto davvero sorprendente e nello stesso tempo comune, tanto che
c’è più da dolersene che da meravigliarsene, vedere milioni e milioni di uomini asserviti come miserabili,
messi a testa bassa sotto ad un giogo vergognoso non per costrizione di forza maggiore ma perché sembra
siano affascinati e quasi stregati dal solo nome di uno di fronte al quale non dovrebbero né temerne la
forza, dato che si tratta appunto di una persona sola, né amarne le qualità poiché si comporta verso di loro
in modo del tutto inumano e selvaggio. Noi uomini siamo così deboli che sovente dobbiamo ubbidire alla
forza; in questo caso è necessario prender tempo, non potendo sempre essere tra i più forti. Dunque se una
nazione è costretta dalla forza delle armi a sottomettersi ad uno, come la città d’Atene ai trenta tiranni, non
bisogna stupirsi della sua servitù ma compiangerla, o meglio ancora né stupirsi né lamentarsi ma
sopportare la disgrazia con rassegnazione e prepararsi per un’occasione migliore nel futuro.
La natura umana è fatta in modo tale che i doveri dell’amicizia assorbono buona parte della nostra vita. E’
del tutto ragionevole amare la virtù, avere stima delle buone azioni, essere riconoscenti del bene ricevuto e
a volte anche mettere un limite al nostro benessere per aumentare l’onore e i vantaggi di coloro che amiamo
e che meritano di esserlo. Orbene, ammettiamo che gli abitanti di un paese riescano a trovare uno di quei
grandi personaggi che ha saputo dar loro prova di grande preveggenza su cui fare affidamento, di grande
coraggio a loro difesa, di cura premurosa da poterli governare. Se ad un certo punto si trovano a loro agio
nell’obbedirgli e gli danno fiducia fino a riconoscergli una certa supremazia, non saprei proprio dire se è
agire con saggezza toglierlo da dove faceva bene per metterlo in una posizione dove potrebbe fare male; in
ogni caso ci risulta naturale volergli bene senza temere di riceverne del male.
Ma, buon Dio, che faccenda è mai questa? Come spiegarla? Quale disgrazia, quale vizio, quale disgraziato
vizio fa sì che dobbiamo vedere un’infinità di uomini non solo ubbidire ma servire, non essere governati
ma tiranneggiati a tal punto che non possiedono più né beni, né figli, né genitori e neppure la propria vita?
Vederli soffrire rapine, brigantaggi, crudeltà, non da parte di un’armata o di un’orda di barbari contro cui si
dovrebbe difendere la vita a prezzo del proprio sangue, ma a causa di uno solo, e non già di un Ercole o di
un Sansone ma di un uomo che nella maggior parte dei casi è il più molle ed effeminato di tutta una
nazione, che non ha mai provato la polvere delle battaglie e neppure quella di un torneo; non solo incapace
di imporsi agli uomini ma preoccupato di servire la più trascurabile donnicciola. Ebbene, è forse debolezza
tutto questo? Chiameremo vili e codardi tutti coloro che gli si sono assoggettati? Che due, tre o quattro
persone si lascino sopraffare da uno è strano, tuttavia può accadere; in questo caso si potrà ben dire che è
mancanza di coraggio. Ma se cento, se mille persone si lasciano opprimere da uno solo chi oserà ancora
parlare di viltà, di timore di scontrarsi con lui, anziché affermare che si tratta di mancanza di volontà e di
grande abiezione? E se vediamo non cento o mille persone, ma cento villaggi, mille città, milioni di
uomini che non fanno nulla per attaccare e schiacciare uno solo che li tratta nel migliore dei casi come servi
e schiavi, come potremo qualificare un simile fatto? Si tratta ancora di viltà? Ma in tutti i vizi ci sono dei
limiti oltre i quali non si può andare; due uomini, ammettiamo anche dieci, possono aver paura di uno. Ma
se mille persone, che dico, mille città non si difendono da uno solo questa non è viltà, non si può essere
vigliacchi fino a questo punto, così come aver coraggio non significa che un uomo si debba metter da solo
a scalare una fortezza, attaccare un’armata, conquistare un regno! Che razza di vizio è allora questo se non
merita neppure il nome di viltà, se non si riesce a qualificarlo con termini sufficientemente spregevoli, se la
natura stessa lo disapprova e il linguaggio rifiuta di nominarlo?
Si mettano cinquantamila uomini armati da una parte e dall’altra; si schierino per la battaglia e combattano
tra loro, gli uni per la propria libertà, gli altri per toglierla ai primi. A chi presumibilmente toccherà la
vittoria? Saranno più coraggiosi in battaglia quelli che sperano di ottenere in premio il mantenimento della
loro libertà o coloro che come ricompensa delle percosse date e subite non avranno se non la servitù altrui?
I primi hanno sempre davanti agli occhi la felicità del tempo passato e l’attesa di una vita altrettanto lieta
per l’avvenire; non si preoccupano delle sofferenze che durano il tempo di una battaglia ma piuttosto

pensano a tutte quelle che dovranno sopportare per sempre loro stessi, i figli e tutti i discendenti. Gli altri
invece non hanno nulla che possa dar loro slancio se non una punta di cupidigia che subito svanisce di
fronte al pericolo; in ogni caso il loro coraggio si ferma alla vista della più piccola goccia di sangue appena
inizia ad uscire da una ferita. Ripensiamo alle famose battaglie di Milziade, di Leonida, di Temistocle,
avvenute duemila anni fa ma ancor oggi così vive nel ricordo dei libri e degli uomini come se fossero
successe l’altro giorno, combattute in Grecia per il bene dei greci ma anche come esempi per il mondo
intero. Ebbene domandiamoci: da dove venne a così pochi uomini, come a quel tempo i greci, non dico la
forza ma il coraggio di respingere flotte talmente potenti e numerose da coprire il mare, e di sconfiggere
così tante nazioni i cui eserciti avevano più capitani di quanto non fossero tutti i soldati greci messi
assieme? A mio avviso solo dal fatto che in quelle gloriose giornate non ci fu semplicemente una battaglia
di greci contro persiani, bensì avvenne la vittoria della libertà contro la tirannia, della liberazione contro
l’oppressione.
E’ una cosa davvero straordinaria osservare il coraggio che la libertà mette in animo a coloro che la
difendono; ma quel che avviene in tutti i paesi, fra tutti gli uomini, tutti i giorni, e cioè che uno solo
opprime cento, mille persone e le priva della loro libertà, chi potrebbe mai crederlo se fosse semplicemente
una notizia che ci giunge alle orecchie e non capitasse invece davanti ai nostri occhi? E se questo accadesse
in paesi lontani e qualcuno venisse a raccontarcelo, chi di noi non penserebbe che si tratta di una pura
invenzione? Va aggiunto inoltre che non c’è bisogno di combattere questo tiranno, di toglierlo di mezzo;
egli viene meno da solo, basta che il popolo non acconsenta più a servirlo. Non si tratta di sottrargli
qualcosa, ma di non attribuirgli niente; non c’è bisogno che il paese si sforzi di fare qualcosa per il proprio
bene, è sufficiente che non faccia nulla a proprio danno. Sono dunque i popoli stessi che si lasciano, o
meglio, si fanno incatenare, poiché col semplice rifiuto di sottomettersi sarebbero liberati da ogni legame; è
il popolo che si assoggetta, si taglia la gola da solo e potendo scegliere fra la servitù e la libertà rifiuta la
sua indipendenza, mette il collo sotto il giogo, approva il proprio male, anzi se lo procura. Se gli costasse
qualcosa riacquistare la libertà non continuerei a sollecitarlo; anche se riprendersi i propri diritti di natura e
per così dire da bestia ridiventare uomo dovrebbe stargli il più possibile a cuore. Tuttavia non voglio
esigere da lui un tale coraggio; gli concedo pure di preferire una vita a suo modo sicura anche se miserabile
ad una incerta speranza in una condizione migliore. Ma se per avere la libertà è sufficiente desiderarla con
un semplice atto di volontà si troverà ancora al mondo un popolo che la ritenga troppo cara, potendola
ottenere con un desiderio? Può esistere un popolo che non se la senta di riavere un bene che si dovrebbe
riscattare a prezzo del proprio sangue, un bene la cui perdita rende insopportabile la vita e desiderabile la
morte, almeno per chi ha un minimo di dignità? Come il fuoco che da una piccola scintilla si fa sempre
più grande e più trova legna più ne brucia, ma si consuma da solo, anche senza gettarvi sopra dell’acqua,
semplicemente non alimentandolo, così i tiranni più saccheggiano e più esigono, più distruggono e più
ottengono mano libera, più li si serve e più diventano potenti, forti e disposti a distruggere tutto; ma se
non si cede al loro volere, se non si presta loro obbedienza allora, senza alcuna lotta, senza colpo ferire,
rimangono nudi e impotenti, ridotti a un niente proprio come un albero che non ricevendo più la linfa
vitale dalle radici subito rinsecchisce e muore.
Gli uomini coraggiosi per conquistare il bene che desiderano non temono di affrontare il pericolo; la gente
intraprendente non rifiuta la fatica. Invece gli uomini deboli e pressoché storditi non sanno né sopportare il
male, né ricercare il bene, limitandosi a desiderarlo. La debolezza del loro animo toglie loro l’energia per
arrivare al bene; mantengono solo quel desiderio che è insito nella natura umana. Questa aspirazione è
comune ai saggi e agli ignoranti, ai coraggiosi ed ai pusillanimi e fa sì che essi continuino ad avere il
desiderio di tutte quelle cose che li potrebbero rendere felici. In una sola cosa, non so come mai, sembra
che la natura venga meno così che gli uomini non hanno la forza di desiderarla: si tratta della libertà, un
bene così grande e dolce che una volta perduto vengono dietro tutti i mali, mentre tutti i beni che
solitamente l’accompagnano, corrotti dalla servitù, non hanno più né gusto né sapore. E’ così che gli
uomini tutto desiderano eccetto la libertà forse perché l’otterrebbero semplicemente desiderandola; è come
se si rifiutassero di fare questa conquista perché troppo facile.
Povera gente insensata, popoli ostinati nel male e ciechi nei confronti del vostro bene! Vi lasciate portar via
sotto gli occhi tutti i vostri migliori guadagni, permettete che saccheggino i vostri campi, rubino nelle
vostre case spogliandole dei vecchi mobili paterni. Vivete in condizione da non poter più vantarvi di tenere
una cosa che sia vostra; e vi sembrerebbe addirittura di ricevere un gran favore se vi si lasciasse la metà dei

vostri beni, delle vostre famiglie, della vostra stessa vita. E tutti questi danni, queste sventure, questa
rovina vi vengono non da molti nemici ma da uno solo, da colui che voi stessi avete reso tanto potente; è
per suo amore che andate così coraggiosamente in guerra, è per la sua vanità che non esitate ad affrontare la
morte. Costui che spadroneggia su di voi non ha che due occhi, due mani, un corpo e niente di più di
quanto possiede l’ultimo abitante di tutte le vostre città. Ciò che ha in più è la libertà di mano che gli
lasciate nel fare oppressione su di voi fino ad annientarvi. Da dove ha potuto prendere tanti occhi per
spiarvi se non glieli avete prestati voi? Come può avere tante mani per prendervi se non è da voi che le ha
ricevute? E i piedi coi quali calpesta le vostre città non sono forse i vostri? Come fa ad avere potere su di
voi senza che voi stessi vi prestiate al gioco? E come oserebbe balzarvi addosso se non fosse già d’accordo
con voi? Che male potrebbe farvi se non foste complici del brigante che vi deruba, dell’assassino che vi
uccide, se insomma non foste traditori di voi stessi? Voi seminate i campi per farvi distruggere il raccolto;
riempite di mobili e di vari oggetti le vostre case per lasciarveli derubare; allevate le vostre figlie per
soddisfare le sue voglie e i vostri figli perché il meglio che loro possa capitare è di essere trascinati in
guerra, condotti al macello, trasformati in servi dei suoi desideri e in esecutori delle sue vendette; vi
ammazzate di fatica perché possa godersi le gioie della vita e darsi ai piaceri più turpi; vi indebolite per
renderlo più forte e più duro nel tenervi corta la briglia. Eppure da tutte queste infamie che le bestie stesse
non riuscirebbero ad apprendere e che comunque non sopporterebbero, potreste liberarvi se provaste, non
dico a scuotervele di dosso, ma semplicemente a desiderare di farlo. Siate dunque decisi a non servire mai
più e sarete liberi. Non voglio che scacciate il tiranno e lo buttiate giù dal trono; basta che non lo
sosteniate più e lo vedrete crollare a terra per il peso e andare in frantumi come un colosso a cui sia stato
tolto il basamento.
Certo, i medici dicono che è inutile tentare di guarire le piaghe incurabili e in questo senso ho forse torto a
voler dare consigli al popolo che da molto tempo ha perso del tutto conoscenza riguardo al male che
l’affligge e proprio perché non lo sente più dimostra ormai che la sua malattia è mortale. Cerchiamo allora
di scoprire per tentativi come questa ostinata volontà di servire ha potuto radicarsi a tal punto che lo stesso
amore per la libertà non sembra più essere tanto naturale.
Prima di tutto credo sia fuori di dubbio che se vivessimo con quei diritti che la natura ci ha dato e secondo
quegli insegnamenti che essa ci ha impartito saremmo senz’altro obbedienti verso i genitori, soggetti alla
ragione e servi di nessuno. Si tratta di un’obbedienza che ciascuno, senza altra spinta che non sia quella
della natura, rende a suo padre e sua madre; di questo tutti gli uomini possono essere testimoni di fronte a
se stessi. Quanto invece al problema se la ragione sia innata o no (questione dibattuta a fondo nelle
accademie e affrontata da tutte le scuole filosofiche) penso di non sbagliarmi dicendo che c’è nella nostra
anima un seme naturale di ragione il quale, una volta che sia mantenuto da buoni consigli e abitudini,
fiorisce in virtù, mentre a volte non potendo resistere ai vizi che sopraggiungono col tempo, muore
soffocato. Ma certamente, se c’è una cosa chiara ed evidente così che nessuno può permettersi di non vedere
è che la natura stabilita da Dio a governare gli uomini ci ha fatti tutti allo stesso modo, vale a dire dallo
stesso stampo, così che potessimo riconoscerci l’un l’altro come compagni o piuttosto come fratelli. E se
nel distribuire i doni sia del corpo che dello spirito ha largheggiato più con alcuni che con altri, tuttavia
non per questo ha voluto metterci al mondo come in una sorta di recinto da combattimento, e non ha certo
creato i più forti e i più furbi perché si comportassero come i briganti nella foresta che danno addosso ai
più deboli. Piuttosto bisogna credere che la natura, dando agli uni di più agli altri di meno, abbia voluto
porre le condizioni per un affetto fraterno che tutti potessero esercitare, avendo gli uni la forza di recare
aiuto, gli altri bisogno di riceverne. Così dunque questa buona madre ha dato a tutti noi la terra da abitare,
mettendoci in certo modo in un’unica grande casa, ci ha fatti tutti con lo stesso impasto così che ognuno
potesse riconoscersi nel proprio fratello come in uno specchio. Se dunque a tutti noi ha fatto il grande dono
della parola per comunicare, diventare sempre più fratelli e arrivare tramite il continuo scambio delle nostre
idee ad una comunione di volontà; se ha cercato in tutti i modi di stringere sempre più saldamente il
vincolo che ci lega in un patto di convivenza sociale; se insomma sotto ogni punto di vista ha mostrato
chiaramente di averci voluti non solo uniti ma addirittura una cosa sola, allora non c’è dubbio che tutti
siamo liberi per natura, poiché siamo tutti compagni e a nessuno può venire in mente che la natura, dopo
averci messi tutti quanti insieme come fratelli, abbia potuto porre qualcuno nella condizione di servo.
Ma forse non vale la pena discutere se la libertà sia naturale, dato che è impossibile tenere qualcuno in
schiavitù senza fargli un grande torto e nessuna cosa al mondo è più contraria alla natura, dove tutto è

razionale, della ingiustizia. Dunque la libertà è naturale e a mio giudizio siamo nati non solo padroni della
nostra libertà ma anche dotati della volontà di difenderla. Ora se per caso qualcuno nutrisse ancora dei
dubbi su questo e si fosse talmente depravato da non riconoscere più neppure i beni della propria natura
umana e gli affetti che gli sono originari, è necessario rendergli l’onore che si merita e mettergli in cattedra
per così dire le bestie prive di ragione che gli possano insegnare quale sia la sua natura e la sua condizione.
Sì le bestie stesse, per Dio, a meno che gli uomini vogliano fare i sordi, continuamente gridano: viva la
libertà! Infatti la maggior parte degli animali muore appena catturata. Come il pesce muore appena lo si
toglie dall’acqua così tutti gli animali chiudono gli occhi alla luce del mondo piuttosto che continuare a
vivere dopo aver perso la loro naturale condizione di libertà. E se gli animali avessero tra loro diversi gradi
d’importanza penso che l’esser liberi costituirebbe la loro massima nobiltà. Altri animali, dal più grande
fino al più piccolo, quando li si vuol prendere oppongono una tale resistenza con le unghie, le corna, il
becco o i piedi, che dimostrano in modo evidente quanto sia loro caro ciò che stanno per perdere. Poi, una
volta catturati, danno chiari segni di malessere e si può benissimo notare che dal momento della cattura il
loro non è un vivere ma un languire, e stanno in vita più per lamentarsi della libertà perduta che per
rassegnazione alla prigionia. E quando l’elefante, dopo essersi difeso fino all’estremo delle forze, non
avendo più via di scampo ed essendo oramai sul punto di essere preso, si avventa con le mascelle contro
gli alberi e si spezza le zanne, non dimostra forse il suo grande desiderio di restare libero com’è per natura,
cercando di venire a patti con i cacciatori e di lasciar loro i suoi denti pur di riuscire ad andarsene e in
cambio dell’avorio riacquistare la libertà? E così il cavallo; appena nato lo addestriamo a servire, ma
nonostante tutte le nostre attenzioni e carezze, quando lo vogliamo domare dobbiamo ricorrere ai colpi di
sperone per fargli mordere il freno, quasi volesse far vedere alla natura che se deve servire non lo fa di suo
istinto ma per costrizione altrui. Che dire ancora?
«Il bue stesso sotto il giogo si lamenta
e geme l’uccellin rinchiuso in gabbia»
come ho scritto una volta quando per passatempo mi divertivo a comporre poesie; e scrivendo a te, Longa
(2), non dubito affatto che mi riterrai un vanitoso se mi permetto di inserire la citazione delle mie rime, che
non leggerei mai se tu non riuscissi a darmi da intendere che ti piace ascoltarle. Così dunque se ogni essere
che ha sentimento della propria esistenza vive l’infelicità della soggezione e corre dietro la libertà, se gli
animali, che pur sono fatti per servire l’uomo, non riescono ad abituarsi senza manifestare allo stesso tempo
un istinto contrario, quale oscuro male ha potuto snaturare a tal punto l’uomo, l’unico ad essere nato
propriamente per vivere libero, da fargli perdere la memoria del suo primo stato e il desiderio di
riacquistarlo?
Vi sono tre tipi di tiranni: alcuni ottengono il potere in base alla scelta del popolo; altri con la forza delle
armi; gli ultimi infine per successione dinastica. Coloro che l’hanno avuto per diritto di guerra si
comportano nel modo che tutti ben conoscono, trovandosi, come si usa dire, in terra di conquista. Chi
invece nasce re non è certo migliore, anzi essendo nato e cresciuto in seno alla tirannia la natura di despota
l’ha succhiata con il latte: considera infatti i popoli che gli sono sottomessi alla stregua di servi avuti in
eredità e, secondo l’inclinazione che si ritrova, tratta il regno da avaro o da scialacquatore come fosse cosa
sua propria. Infine per quanto riguarda colui che ha ricevuto il potere dal popolo, mi sembra che dovrebbe
essere più sopportabile e credo lo sarebbe se non fosse per il fatto che una volta vistosi innalzato sopra tutti
gli altri, gonfiato da un sentimento che non saprei definire ma che tutti chiamano senso di grandezza,
decide di non scenderne più. Di solito poi costui fa conto di lasciare ai figli il potere che il popolo gli ha
affidato; e dal momento che essi si mettono in testa questa idea è uno spettacolo tremendo osservare come
sanno superare in ogni tipo di vizi e perfino in crudeltà gli altri tiranni, non trovando altro metodo per
rafforzare la nuova tirannia se non quello di accrescere la schiavitù e di sradicare la libertà dall’animo dei
loro sudditi a tal punto che, per quanto l’abbiano ben presente nella memoria, riescono a fargliela perdere.
Così, a dir la verità, vedo che tra i vari tipi di tirannide vi è qualche differenza ma non noto che vi sia la
possibilità di una scelta, poiché pur essendo diverse le vie per arrivare al potere il modo di regnare è sempre
più o meno lo stesso. Coloro che sono eletti dal popolo lo trattano come un toro da domare; chi ha
conquistato il regno pensa di avere su di lui il diritto di preda; chi infine lo ha ereditato considera i sudditi
come suoi schiavi naturali.

A questo proposito però vorrei chiedere: ammettiamo per caso che oggi nasca un tipo di gente del tutto
nuovo, non abituata alla servitù né allettata dalla libertà, che non sappia assolutamente nulla dell’una e
dell’altra cosa se non a malapena i nomi; se a costoro venisse presentata l’alternativa tra l’esser servi o il
vivere liberi secondo quelle leggi che stabiliranno fra loro di comune accordo, che cosa sceglierebbero? Non
c’è dubbio che avrebbero più caro ubbidire soltanto alla ragione piuttosto che servire ad un uomo, a meno
che siano come quei d’Israele che senza alcuna costrizione o necessità si crearono un tiranno (3). E devo
confessare che non riesco mai a leggere la storia di questo popolo senza provare una stizza tale da diventare
quasi inumano nei suoi confronti, arrivando al punto di rallegrarmi per tutte le disgrazie che gli sono poi
capitate. Certamente perché tutti gli uomini (fin quando almeno hanno qualcosa di umano) si lascino
assoggettare è necessario una delle due: esservi costretti o ingannati.
Costretti dalle armi straniere, come Sparta e Atene dall’esercito di Alessandro, o dalle fazioni in gioco,
come il governo di Atene prima di cadere nelle mani di Pisistrato. Per inganno gli uomini perdono sovente
la loro libertà; in questo un poco sono sedotti da altri, più spesso però accade che siano loro stessi ad
ingannarsi. Così gli abitanti di Siracusa, la principale città della Sicilia, assaliti da ogni parte e preoccupati
solo di salvarsi dal pericolo imminente, chiamarono Dionigi Primo e gli diedero l’incarico di guidare
l’esercito contro il nemico, senza badare al fatto di averlo reso così potente che una volta tornato vittorioso
questo furfante, come se avesse sconfitto non dei nemici ma i suoi stessi concittadini, da capitano si fece
promuovere re e da re tiranno. E nessuno crederebbe come un popolo, dopo essere stato sottomesso,
sprofondi subito in una tale dimenticanza della libertà che non gli è più possibile risvegliarsene per
riacquistarla, ma serve così di buon grado il tiranno che a vederlo si direbbe non già che ha perso la sua
libertà ma che si è guadagnato la sua servitù. E’ pur vero che all’inizio l’uomo serve a malincuore, costretto
da forza maggiore; ma quelli che vengono dopo, non avendo mai visto la libertà e non sapendo neppure
cosa sia, servono senza alcun rincrescimento e fanno volentieri ciò che i loro padri hanno fatto per forza. E
così gli uomini che nascono con il giogo sul collo, nutriti e allevati nella servitù, senza sollevare lo
sguardo un poco in avanti si accontentano di vivere come sono nati, e non riuscendo a immaginare altri
beni e altri diritti da quelli che si sono trovati dinnanzi prendono per naturale la condizione in cui sono
nati. E tuttavia non c’è erede tanto spensierato e incurante che qualche volta non dia un’occhiata ai registri
di famiglia per vedere se gode di tutti i diritti di successione o se invece non sia avvenuta qualche
macchinazione contro di lui o contro i suoi predecessori. Ma è anche vero che la consuetudine, la quale ha
un grande influsso su tutte le nostre azioni, esercita il suo potere soprattutto nell’insegnarci a servire, e
come Mitridate che si abituò a bere il veleno, ci rende alla fine assuefatti a trangugiare normalmente il
veleno della servitù senza sentirne l’amaro. Certamente nel tendere verso il bene o verso il male gioca in
gran parte la natura che ci spinge dove vuole; ma bisogna ammettere che essa ha meno potere su di noi di
quanto non l’abbia la consuetudine, perché la nostra indole, per quanto possa essere buona, va persa se non
si cerca di mantenerla.
L’educazione insomma lascia sempre la sua impronta malgrado le tendenze naturali. I semi del bene che la
natura mette dentro di noi sono così piccoli e fragili che non possono resistere al benché minimo impatto
con un’educazione di segno contrario. Inoltre non è semplice conservarli poiché con molta facilità si
chiudono in sé, degenerano e finiscono in niente, né più né meno degli alberi da frutta che hanno ognuno la
loro particolarità e la mantengono se li si lascia crescere in modo naturale, ma perdono ben presto le loro
caratteristiche e producono frutti estranei se si operano degli innesti. Perfino ogni erba ha le sue proprietà
naturali; tuttavia il gelo, il tempo, il terreno e la mano del giardiniere influiscono molto sulla loro qualità,
sia nel peggiorarla che nel migliorarla: una pianta vista in un dato luogo, in un altro si riconosce a fatica.
Chi vedesse i veneziani, questo piccolo popolo, vivere una vita così libera che il più meschino tra loro non
si sognerebbe di diventare re, nati e allevati in modo tale da avere una sola ambizione, quella di dare
ognuno miglior prova dell’altro nel conservare gelosamente la libertà; educati fin dalla culla in questo senso
così che non cederebbero neppure un’oncia della loro libertà in cambio di tutte le altre felicità della terra;
ebbene dicevo, chi vedesse questa gente e poi se ne andasse nelle terre di colui che chiamiamo gran signore
trovandovi un popolo nato per servire e votato per tutta la vita a mantenere il suo potere, riuscirebbe mai a
pensare che gli uni e gli altri sono della stessa natura o piuttosto non crederebbe di essere uscito da una
città di uomini per entrare in un parco di animali?
Si dice che Licurgo, il legislatore di Sparta, avesse allevato due cani, tutti e due fratelli e allattati dalla
stessa cagna, tenendone uno a ingrassare in cucina e abituando l’altro a correre nei campi al suono della

tromba e del corno. Volendo far vedere agli spartani che gli uomini sono come li fa l’educazione, portò i
cani in piazza e mise loro vicino una minestra e una lepre: il primo si buttò sulla scodella, l’altro corse
dietro alla lepre. Eppure – concluse Licurgo – sono fratelli! Così questo grand’uomo con le sue leggi seppe
dare una tale educazione agli spartani che ciascuno di loro avrebbe avuto più caro morire mille volte
piuttosto che riconoscere altro signore all’infuori della legge e della ragione.
A questo proposito vorrei ricordare la conversazione che si tenne tra uno dei più alti rappresentanti di Serse,
il grande re dei persiani, e due spartani. Durante i preparativi per la conquista della Grecia, Serse mandò i
suoi ambasciatori nelle città di quella regione a chiedere l’acqua e la terra (formula con la quale i persiani
erano soliti intimare alle città di sottomettersi). Ma ad Atene e Sparta non ne inviò ricordandosi che
quando Dario suo padre li aveva voluti mandare, furono buttati dagli ateniesi in un fosso e dagli spartani in
un pozzo e si sentirono rivolgere: «Prendete pure da qui tutta l’acqua e la terra che volete e portatela al
vostro re». A tal punto giungeva la loro insofferenza anche per la più piccola parola che suonasse offesa alla
loro libertà. Tuttavia per aver agito in questo modo gli spartani si accorsero di aver provocato l’ira degli
dei, soprattutto di Taltibio, dio dei messaggeri. Allora per rabbonire Serse pensarono di mandargli due
cittadini perché li trattasse a suo arbitrio e potesse così vendicarsi degli ambasciatori che erano stati uccisi a
suo padre. Due spartani, l’uno chiamato Sperto l’altro Buli, si offrirono volentieri per andare a pagare di
persona questo debito. Giunsero così al palazzo di un persiano chiamato Gidarno, luogotenente del re per
tutte le città della costa asiatica. Costui fece loro grandi onori e conversando su vari argomenti con i suoi
ospiti ad un certo punto chiese per quale motivo rifiutassero così decisamente l’amicizia del suo grande re.
E aggiunse: «Guardate me per esempio e noterete allora come il re sa ricompensare coloro che se ne
rendono degni; credetemi, se vi metteste al suo servizio si comporterebbe allo stesso modo anche verso di
voi. Son sicuro che se vi conoscesse ognuno di voi diventerebbe signore di una città della Grecia». «In
queste cose Gidarno non puoi darci alcun consiglio – risposero gli spartani – perché tu hai gustato il bene
che ci prometti ma non conosci quello che godiamo noi. Tu hai provato i favori del re, ma non sai che
sapore abbia la libertà e quanto essa sia dolce. Se l’avessi anche solo sfiorata tu stesso ci consiglieresti di
difenderla non soltanto con la lancia e lo scudo ma con le unghie e i denti». Solo gli spartani erano nel
giusto; ma è certo che gli uni e gli altri parlavano come erano stati educati. Era infatti impossibile al
funzionario persiano rimpiangere la libertà non avendola mai provata, così come gli spartani non potevano
sottomettersi al giogo avendola gustata appieno.
Catone l’Uticense, quando era ancora fanciullo e sotto la guida del precettore, si trovava spesso a casa di
Silla il dittatore alla quale aveva libero ingresso sia per il rango della famiglia cui apparteneva sia per la
stretta parentela. Ci andava sempre in compagnia del suo precettore com’era abitudine dei figli di nobile
famiglia e frequentando questa casa si accorse che in presenza di Silla oppure su suo ordine c’era chi veniva
messo in prigione, un altro che veniva condannato, uno che veniva esiliato, un altro strangolato, e vi erano
poi coloro che facevano richiesta di confisca ai danni di un cittadino o addirittura ne chiedevano la testa. In
poche parole sembrava di essere non a casa di un rappresentante della città ma a palazzo di un tiranno del
popolo, non a un tribunale di giustizia ma in una spelonca di tiranni.
Allora questo giovanetto rivolgendosi al precettore disse: «Perché non mi date un pugnale che possa
nascondere sotto il vestito? Io entro spesso in camera di Silla prima che si alzi e ho il braccio abbastanza
forte per liberarne la città». Ecco un discorso davvero da Catone, l’inizio di una vita in nulla inferiore alla
dignità della sua morte.
Lasciamo pur perdere il nome e l’origine di questo personaggio. Si presenti l’episodio per quello che è; il
fatto parla da solo e senza pensarci su molto si potrà arrivare a dire che quel ragazzo era romano, nato nel
cuore della vera Roma quando essa era libera. Perché dico questo? Non certo perché ritenga che il luogo o il
clima possano giovare a qualcosa, dato che in ogni paese e sotto qualsiasi latitudine è amara la servitù e
dolce la libertà, ma perché sono del parere che si debba aver pietà di coloro che fin dalla nascita si sono
trovati il giogo sul collo, che li si scusi o comunque li si perdoni se non avendo mai visto neppure l’ombra
della libertà e non avendone mai avuto sentore non si accorgono di quel grave danno che è l’essere servi. Se
ci fossero veramente dei paesi (come racconta Omero a proposito dei Cimmeri) dove il sole si mostra in
modo tutto diverso da come appare a noi, illuminandoli per sei mesi di seguito e per gli altri sei
lasciandoli completamente al buio senza farsi rivedere, ci si potrebbe meravigliare se coloro che nascono
durante questa lunga notte si abituassero a vivere nelle tenebre dove sono nati senza desiderare la luce del
giorno, non avendone mai sentito parlare e non avendola mai vista? Non si può rimpiangere quello che non

si ha mai avuto e il rammarico vien solo dopo il piacere; e sempre la conoscenza del male fa nascere il
ricordo della felicità del tempo passato. Per natura l’uomo è e vuole essere libero; ma anche la sua natura è
fatta in modo tale da prendere la piega che gli dà l’educazione.
Diciamo dunque che tutto ciò cui l’uomo si abitua fin da bambino gli diventa naturale; ma in lui di
propriamente naturale e originario vi è solo quello a cui lo sollecita la natura semplice e schietta. Così la
prima ragione della servitù volontaria risulta essere la consuetudine.
Proprio come quei destrieri cortaldi (4) che all’inizio mordono il freno ma poi ci piglian gusto, e mentre
nei primi giorni si mostrano recalcitranti appena si mette loro sopra la sella, in seguito imparano a sfilare
nelle loro ricche bardature e se ne vanno tutti fieri e orgogliosi dei loro finimenti.
A volte si sente affermare tranquillamente di essere stati sempre sottomessi e che già i padri hanno vissuto
in queste condizioni; costoro pensano di essere obbligati a sopportare questo danno, si persuadono l’un
l’altro con degli esempi, e sono loro stessi col trascorrere del tempo a legittimare il potere di coloro che li
tiranneggiano. Ma il passare degli anni, a ben vedere, non dà certo diritto a comportarsi male, anzi aggrava
l’ingiustizia. E’ ben vero che si trova sempre qualcuno più fiero degli altri che sente il peso del giogo, non
può trattenersi dallo scuoterlo e non riesce ad abituarsi alla servitù. Costui, come Ulisse che per mare e per
terra cercava continuamente di rivedere il fumo della sua casa, non riesce a dimenticare i suoi naturali
diritti, a non pensare a coloro che l’hanno preceduto e alla condizione in cui vivevano. Sono proprio
persone di questo tipo che avendo chiari intendimenti e spirito lungimirante non si accontentano come la
plebaglia di guardare a ciò che sta loro immediatamente dinnanzi, ma hanno l’occhio attento al passato e a
ciò che potrà accadere nel futuro; si rifanno alle cose avvenute un tempo per giudicare il presente e discutere
dell’avvenire. Costoro avendo avuto per natura uno spirito acuto l’hanno saputo anche educare con lo studio
e la scienza; e quand’anche la libertà fosse andata completamente perduta e scomparsa dalla faccia della terra
essi, rivivendola nel proprio spirito, riuscirebbero ancora ad assaporarla, e mai la servitù sarà di loro gusto,
per quanto possa mascherarsi o abbellirsi.
Il Gran Turco si è ben accorto che sono i libri e l’insegnamento molto più di ogni altra cosa a mettere nel
cuore degli uomini il sentimento di sé, il riconoscimento della propria dignità e l’odio per il tiranno: per
questo sento dire che nelle sue terre non vi sono molte persone di scienza e neppure le richiede. Comunque
lo zelo di tutti coloro che malgrado i tempi sono rimasti attaccati alla libertà, per quanto numerosi essi
siano, rimane senza effetto perché non si conoscono tra loro. Sotto la tirannia ogni libertà di fare, di
parlare, e quasi di pensare viene loro tolta: così rimangono tutti soli e isolati nei loro desideri. Va dunque
riconosciuto che Momo, il dio burlone, non scherzava poi tanto quando trovava da ridire sull’uomo che
aveva creato Vulcano, perché non gli era stata messa una piccola finestra sul cuore così da poterne leggere i
pensieri.
Si dice che quando Bruto e Cassio si misero all’impresa di liberare Roma o per meglio dire il mondo
intero, non vollero che Cicerone, questo grande uomo pieno di zelo per il bene comune come mai ve ne fu,
si schierasse dalla loro parte, perché ritenevano che avesse il cuore troppo debole per partecipare ad un
evento così decisivo; credevano nella sua buona volontà ma non facevano affidamento sul suo coraggio. E
tuttavia chi vorrà tornare a riflettere sui fatti del passato e consultare antichi annali, passando in rassegna
tutti coloro che vedendo il proprio paese alla deriva e in cattive mani si misero all’opera per liberarlo con
intenzione sincera e dedizione totale, ne troverà ben pochi che non abbiano raggiunto lo scopo, perché la
libertà si fa largo per conto suo. Armodio, Aristogitone, Trasibulo, Bruto il vecchio, Valerio e Diones,
tutti quanti concepirono questo giusto progetto e lo realizzarono felicemente; in questi casi alla buona
volontà non manca quasi mai la fortuna. Anche Bruto il giovane e Cassio riuscirono ad eliminare la causa
della schiavitù; fu invece nel tentativo di riportare la libertà a Roma che essi morirono, non miseramente
(sarebbe veramente una infamia cercare nella vita o nella morte di questi eroi indegnità e miserie), ma certo
con grave danno, sventura perenne e definitiva rovina della repubblica che, mi sembra, fu sotterrata con
loro. Le imprese successive compiute contro gli imperatori romani non furono altro che congiure di gente
ambiziosa, la quale non deve certo essere compianta per gli inconvenienti cui andò incontro, essendo a tutti
evidente che desideravano semplicemente far cadere una corona, non togliere il re, cacciare sì il despota, ma
tenere in vita la tirannide. Riguardo a costoro sarei dispiaciuto se fossero riusciti nel loro scopo, e sono ben
contento che oggi possano essere portati a dimostrazione del fatto che non bisogna abusare del santo nome
della libertà per compiere imprese malvagie.
Ma per tornare al nostro argomento che avevo quasi perso di vista, la prima ragione per cui gli uomini

servono di buon animo è perché nascono servi e sono allevati come tali. Da qui deriva quest’altro fatto:
molto facilmente sotto la tirannia ci si rammollisce e si diventa effeminati. Fu Ippocrate, il padre della
medicina, ad accorgersi di questo e a scriverlo in uno dei suoi libri dal titolo “Le malattie” (6), e di questa
sua intuizione dobbiamo essergli assolutamente grati. Questo personaggio aveva senza dubbio un cuore
generoso e lo dimostrò in un’occasione. Poiché il grande sovrano (7)lo voleva presso di sé e lo sollecitava
continuamente con varie profferte e con grandi donativi, Ippocrate un giorno gli rispose in tutta franchezza
che avrebbe avuto dei problemi di coscienza nel mettersi a curare dei barbari che volevano uccidere il suo
popolo e nel rendersi condiscendente al loro re che si stava preparando ad assoggettare la Grecia. La lettera
che Ippocrate inviò al re contenente queste affermazioni si può leggere ancora oggi nelle sue opere e rimarrà
per sempre una testimonianza del suo coraggio e del suo nobile carattere.
E’ ormai certo che con la libertà si perde allo stesso tempo anche il coraggio. Gli uomini sottomessi vanno
in battaglia senza alcuna baldanza e ardimento, affrontano il pericolo l’uno appiccicato all’altro, intorpiditi,
tanto per adempiere ad un obbligo e non si sentono bollire il sangue nelle vene per l’ardore della libertà che
sola fa disprezzare il pericolo e nascere il desiderio di acquistare l’onore della gloria fra tutti i compagni con
un bel morire. Al contrario fra gente libera si fa a gara per vedere chi è il migliore, combattendo per sé e per
il bene comune, aspettando tutti di avere la propria parte di bene in caso di vittoria o la parte di male nella
sconfitta; invece la gente asservita non ha più questo coraggio da guerrieri, anzi non riesce neppure ad
essere vivace nelle altre cose, poiché possiede un animo ristretto e incapace di aspirare a qualcosa di grande.
I tiranni sanno bene tutto questo e vedendo i loro sudditi prendere una simile piega li spingono in questa
direzione così da renderli ancor più fiacchi e indolenti.
Senofonte, storico insigne tra i più grandi della Grecia, scrisse un libretto (8) dove si può trovare il dialogo
di Simonide con Ierone, re di Siracusa, sulle miserie del tiranno. E’ un libro pieno di gravi ma giusti
rimproveri, esposti a mio parere nel tono più adatto possibile. Avesse voluto Iddio che tutti i tiranni,
quanti vi sono stati sulla terra, se lo fossero tenuto davanti agli occhi così da farsene specchio! Sono sicuro
che in questo modo avrebbero potuto riconoscere sulla propria faccia i segni del vizio e provarne grande
vergogna. In questo trattato viene descritta la vita penosa che trascorrono i tiranni, i quali facendo del male
a tutti sono costretti a temere continuamente di riceverlo da ciascuno. Fra tante cose vien fatto anche notare
che i re malvagi si servono di stranieri presi come mercenari per fare le guerre, non fidandosi di mettere le
armi in mano alla loro gente cui hanno fatto ogni specie di torto. (Ci sono stati a dire il vero dei buoni
sovrani che hanno assoldato stranieri, alcuni tra gli stessi re di Francia, anche se più in passato che non
oggi; ma con l’unica intenzione di mantenere in vita il proprio popolo, non preoccupandosi di spendere
denaro pur di risparmiare uomini. Come diceva, se ben mi ricordo, Scipione l’Africano: preferirei salvare la
vita ad un cittadino piuttosto che uccidere cento nemici.) Ma è certo che i tiranni non sono mai tranquilli e
sicuri di avere in mano tutto il potere fino a quando non giungono al punto di non avere più sotto di sé
alcun uomo di coraggio. Dunque a buon diritto si potrà dir loro quel che Trasone in una commedia di
Terenzio si vanta di aver rinfacciato al domatore degli elefanti:
«Tu ti reputi molto abile
Avendo a che fare con delle bestie» (9).
Questa astuzia dei tiranni nell’abbrutire i propri sudditi più che in ogni altro caso si è manifestata in modo
evidente nel trattamento che Ciro riservò agli abitanti della Lidia, dopo essersi impadronito di Sardi,
capitale di quella regione, e dopo aver fatto schiavo il ricchissimo re Creso che si era rimesso nelle sue
mani. Giunse notizia a Ciro che gli abitanti di Sardi erano scesi in rivolta. Avrebbe potuto ridurli in un
attimo ai suoi voleri; ma non volendo distruggere una così bella città e neppure essere obbligato a tenervi
di guardia un esercito, per garantirsene la sottomissione, ricorse a questo espediente: vi fece collocare
bordelli, taverne e giochi pubblici e bandì un’ordinanza con cui i cittadini erano autorizzati a farne uso
come volevano. E questa specie di guarnigione gli rese così buon servizio che da allora non ci fu più
bisogno neppure di un solo colpo di spada contro gli abitanti della Lidia. Questi poveracci si divertivano a
inventare ogni tipo di gioco a tal punto che i latini, per indicare ciò che noi chiamiamo passatempi,
trassero dal loro nome il termine “ludi”. Non tutti i tiranni hanno mostrato così apertamente di voler
effeminare i loro sudditi; ma di fatto quanto Ciro ordinò formalmente gli altri per la maggior parte sono
riusciti ad ottenerlo di nascosto. In effetti questa è la tendenza naturale della plebaglia che solitamente si

ritrova più numerosa nelle città: è sospettosa nei riguardi di chi le vuol bene mentre è ingenua e pronta a
tutto verso chi l’inganna. Non vi è uccello che si lasci prendere così agevolmente nella pania o pesce che
abbocchi in fretta all’amo quanto facilmente si facciano allettare dalla schiavitù tutti i popoli appena ne
avvertono il più leggero profumo sotto il naso. Ed è veramente una cosa fuori dal comune vedere come
cedano sull’istante alla minima lusinga: teatri, giochi, commedie, spettacoli, gladiatori, animali esotici,
esposizioni di medaglie e di vari dipinti, e altre droghe di questo tipo costituivano per i popoli antichi
l’esca per la schiavitù, il prezzo della loro libertà, gli strumenti della tirannia; insomma tutto un sistema
congegnato dagli antichi tiranni per addormentare i sudditi sotto il giogo. Così i popoli, inebetiti e
incantati da simili passatempi, divertendosi in modo insulso con quei piaceri che venivano fatti passare
davanti ai loro occhi, si abituavano a servire in questo modo del tutto sciocco, peggio ancora dei bambini
che imparano a leggere per via delle immagini colorate e delle miniature che si trovano sui libri. A tutti
questi stratagemmi i tiranni romani aggiunsero l’usanza di festeggiare spesso le decurie pubbliche (10)
prendendo per la gola questa gente abbrutita che non aspettava altro; il più accorto e intelligente fra tutti
costoro non avrebbe dato il suo piatto di minestra per scoprire la libertà della repubblica di Platone. In
queste occasioni i tiranni facevano i generosi distribuendo quarti di grano, qualche sestario (11) di vino e
un po’ di sesterzi; ed allora era davvero uno spettacolo penoso sentir gridare viva il re! Quegli sciocchi non
si accorgevano che stavano semplicemente recuperando una parte dei propri beni e che anche quel poco che
stavano ricevendo poteva essere donato dal tiranno solo perché prima li aveva derubati. In tal modo nel
giorno di festa la gente raccoglieva sesterzi e gozzovigliava ringraziando Tiberio o Nerone per la loro
generosità per poi essere costretti il giorno dopo a consegnare i propri beni, i figli, la vita stessa all’avidità,
alla lussuria e alla crudeltà di questi magnifici imperatori, senza osar dire una parola, muti come un sasso,
e senza fare il minimo movimento, immobili come piante. La plebaglia si è sempre comportata in questo
modo: subito disposta a perdersi nei piaceri che onestamente non potrebbe accettare, insensibile al torto e
alle sofferenze che non dovrebbe ulteriormente sopportare.
Attualmente non c’è nessuno che sentendo parlare di Nerone non tremi al solo nome di quel mostro
tremendo, di quell’orribile e turpe flagello del mondo; e tuttavia allorché questo incendiario, questo boia,
questa bestia selvaggia morì, in modo disonesto come tutta la sua vita, il famoso popolo romano,
ricordando i suoi giochi e i suoi festini, rimase talmente dispiaciuto che fu sul punto di portarne il lutto.
Così almeno ci ha lasciato scritto Tacito, storico tra i più attendibili e straordinariamente serio. Tutto
questo non deve sembrar strano visto che il popolo romano aveva fatto altrettanto qualche tempo prima in
occasione della morte di Giulio Cesare che aveva messo completamente da parte leggi e libertà,
personaggio in cui non mi sembra si sia potuto trovare qualcosa di valido, dato che la sua stessa umanità
solitamente tanto esaltata è stata più dannosa che non le crudeltà del tiranno più sanguinario che sia mai
vissuto: infatti fu proprio questa sua velenosa dolcezza che indorò la pillola della servitù al popolo romano.
E così dopo la sua morte questo popolo che aveva ancora la bocca piena dei suoi banchetti e il ricordo vivo
delle sue prodigalità, per rendergli onore e avere le sue ceneri, fece a gara nell’ammucchiare i banchi del foro
per formarne un rogo; poi eressero una colonna a colui che vollero considerare padre della patria (così stava
scritto sul capitello), e gli fecero più onore da morto di quanto se ne sarebbe dovuto fare di diritto ad un
eroe vivo, se non addirittura a quegli stessi che l’avevano ammazzato.
Gli imperatori romani non dimenticavano neppure di assumere comunemente il titolo di tribuno del
popolo, sia perché questo incarico era considerato sacrosanto, sia per il fatto che era finalizzato alla difesa e
alla protezione del popolo. In questo modo, con il favore dello stato, si garantivano la fiducia del popolo
come se quest’ultimo dovesse accontentarsi del nome, senza sentire gli effetti concreti della tirannia. E oggi
non si comportano molto meglio coloro che ogni qualvolta compiono un crimine, anche molto grave, lo
ammantano di qualche bel discorso sul bene comune e sull’utilità pubblica. E tu sai bene mio caro Longa il
vasto formulario di cui potrebbero in molti casi fare elegante uso, ma la stragrande maggioranza dei tiranni
non si affida a troppe sottigliezze sostenendosi piuttosto sulla più grande impudenza. I re dell’Assiria e
dopo di loro anche quelli della Media usavano presentarsi in pubblico il più raramente possibile per far
nascere il dubbio al popolo che essi fossero qualcosa più che uomini e lasciarlo così in queste
immaginazioni, dato che la gente lavora volentieri di fantasia su quelle cose che non può giudicare e vedere
di persona. Creata così quest’aura di mistero attorno al sovrano tante nazioni che rimasero a lungo sotto
l’impero assiro si abituarono a servire tanto più volentieri quanto più non sapevano che padrone avessero,
anzi se l’avessero davvero o no, nutrendo timore in base alla credenza in un essere che nessuno era mai

riuscito a vedere. I primi re d’Egitto non si mostravano quasi mai in pubblico senza portare ora un ramo
d’albero, ora perfino del fuoco sulla testa; e mascherandosi in questo modo e comportandosi come dei
ciarlatani ispiravano con queste stranezze rispetto e ammirazione ai loro sudditi che se non fossero stati
troppo sciocchi o troppo servili avrebbero dovuto assistere a quella squallida buffonata solo per riderci
sopra. E’ davvero pietoso ricordare quanti stratagemmi abbiano messo in atto i sovrani di un tempo per
impiantare la loro tirannia, di quali mezzucci si siano serviti trovandosi davanti una plebaglia fatta apposta
per loro, incapace di evitare qualsiasi trabocchetto che le venisse teso, ingannata con estrema facilità e tanto
più sottomessa quanto più il tiranno si prendeva gioco di lei.
E che dire di un’altra bella favola che i popoli antichi prendevano per oro colato? Essi credevano
fermamente che l’alluce di Pirro re dell’Epiro facesse miracoli e guarisse le malattie della milza; anzi, quasi
a voler rincarare la dose, erano convinti che quel dito, quando alla morte di Pirro ne venne bruciato il
corpo, fosse sfuggito al fuoco e si fosse ritrovato integro in mezzo alle ceneri. Così il popolo si è sempre
fabbricato da solo le più sciocche fandonie per poi poterci credere. E molte di queste sono state anche
scritte ma in uno stile tale che se ne può facilmente scorgere l’origine nelle chiacchiere del popolino raccolte
agli angoli delle strade. Così si dice che Vespasiano nel suo viaggio dall’Assiria a Roma dove si recava per
impadronirsi dell’impero abbia fatto sosta ad Alessandria dove compì ogni sorta di miracoli: raddrizzò gli
zoppi, ridiede la vista ai ciechi e fece tante altre cose meravigliose che potevano essere credute a mio avviso
solo da gente più cieca di quelli che sarebbe riuscito a guarire. E i tiranni stessi trovavano del tutto strano
il fatto che la gente potesse sopportare un uomo che continuamente la maltrattava; per questo decisero di
mettersi davanti la religione come scudo e, nella misura del possibile, assumere una qualche sembianza di
divinità per non dover rendere conto della propria vita malvagia. Per questo Salmoneo, se crediamo alla
Sibilla di Virgilio, sconta ora in fondo all’inferno le sue pene per aver ingannato il popolo e aver fatto
credere d’essere Giove:
«Vidi anche i crudeli tormenti di Salmoneo:
Imitava costui le fiamme di Giove e i fragori d’Olimpo;
Passava costui trasportato da quattro cavalli
Agitando una fiaccola per mezzo alle genti dei Greci
Cercando al regno dell’Elide onori divini:
Folle! pensava imitare il bagliore dei lampi
E i nembi col carro di bronzo e il fragor dei cavalli.
Ma un fulmine Giove scagliò dal torbido cielo,
Chè Giove non torce fumose lanciava,
E precipite giù lo travolse con turbine immane» (12).
Ora se costui, che in fondo non era che un povero sciocco, viene trattato così bene laggiù, credo proprio che
tutti coloro i quali hanno abusato della religione per fare del male saranno trattati ancora meglio.
Anche i nostri sovrani sparsero per la Francia una quantità di cose tra le più disparate e indefinibili: rospi,
fiordalisi, orifiamma (13). In ogni modo per quel che mi riguarda non voglio passare per miscredente nei
confronti di tutte queste cose poiché né noi né i nostri antenati abbiamo avuto finora ragione d’esserlo,
essendoci sempre toccati sovrani tanto buoni in pace e così prodi in guerra che pur essendo re dalla nascita
non sembrano fatti dalla natura come gli altri bensì, ancor prima di venire al mondo, scelti da Dio
onnipotente per governare e conservare questo regno. Comunque, anche se ciò non fosse, non ho certo
l’intenzione di mettermi a discutere la verità delle nostre tradizioni e neppure di esaminarle in modo
minuzioso, non volendo privare di questi bei temi la nostra poesia francese che senz’altro saprà trovare in
essi il soggetto per tante esercitazioni e già ora viene migliorata, anzi rimessa a nuovo dai nostri Ronsard,
Baif, Du Bellay; questi grandi poeti stanno facendo progredire la nostra lingua a tal punto da poter sperare
che ben presto i greci e i latini ci saranno superiori solo per il fatto di essere stati i primi. E certo farei un
gran torto alle nostre rime (uso volentieri questo termine che a me non dispiace perché, anche se molti
l’hanno reso un fatto puramente meccanico, tuttavia vedo altrettante persone che si sono messe a
rinobilitarlo e a restituirlo agli antichi onori), farei un gran torto, dicevo, a sottrarre ai poeti i bei racconti
di re Clodoveo sui quali già si esercitò, mi sembra con grande maestria e sicurezza, la vena vivace del
nostro Ronsard nella sua “Franciade”. Intendo la sua portata, conosco il suo spirito acuto e il suo garbo

nello scrivere: saprà cavarsela in modo eccellente con l’orifiamma come già i romani con i sacri scudi
«caduti giù dal cielo» di cui parla Virgilio e riuscirà a trarre buon profitto dalla nostra ampolla così come
gli ateniesi dal canestro di Erisittone (14); farà in modo che tutti parlino delle nostre armi come del loro
ulivo che tengono ancora nella torre di Minerva. Sarei dunque temerario a voler smentire i testi della nostra
tradizione e cancellare così tutte le tracce che vengon seguite dai nostri poeti.
Ma per tornare all’argomento da cui non so come mi sono lasciato deviare, non s’è mai dato il caso che i
tiranni, in vista della propria tranquillità, non abbiano fatto ogni sforzo per abituare il popolo non solo
all’obbedienza e alla servitù ma anche alla devozione nei propri confronti. Dunque tutte le cose da me dette
finora su quel che occorre per abituare la gente alla servitù volontaria vengono usate dai tiranni solo per il
popolo più grossolano e ignorante.
Ma ora arrivo al punto che a mio avviso costituisce l’origine nascosta del dominio, il sostegno e il
fondamento della tirannia. Chi pensa che le alabarde, le sentinelle, le squadre di ronda proteggano il tiranno
secondo me si sbaglia di grosso. Credo che gli siano d’aiuto più come cerimoniale o come spauracchio che
non per la fiducia che dovrebbe avere in tutto questo apparato di difesa. Gli arcieri impediscono di entrare a
palazzo agli sprovveduti senza mezzi, non a chi è ben armato e agli uomini d’azione. Tra gli imperatori
romani è facile contare quei pochi che sono riusciti a salvarsi da qualche pericolo per l’aiuto dei loro soldati
più fedeli, al contrario di tutti coloro, e sono la maggior parte, che sono stati uccisi dalle loro stesse
guardie del corpo. Non sono gli squadroni a cavallo, non sono le schiere di fanti, non sono insomma le
armi a difendere il tiranno; capisco che al primo momento è difficile crederlo ma è così. Sono sempre
cinque o sei persone che lo mantengono al potere e gli tengono tutto il paese in schiavitù. E’ sempre stato
così: questi cinque o sei hanno avuto la fiducia del tiranno e, sia perché si son fatti avanti da soli sia perché
il tiranno stesso li ha chiamati, sono diventati complici delle sue crudeltà, compagni dei suoi divertimenti,
ruffiani dei suoi piaceri, soci nello spartirsi il frutto delle ruberie. Questi sei personaggi inoltre tengono
vicino a sé seicento uomini dei quali approfittano facendo di loro quel che han fatto del tiranno. I seicento
a loro volta ne hanno seimila sotto di sé ai quali conferiscono onori e cariche, fanno assegnare loro il
governo delle province oppure l’amministrazione del denaro pubblico così da ottenerne valido sostegno alla
propria avarizia e crudeltà, una volta che costoro abbiano imparato a mettere in atto le varie malefatte al
momento opportuno; d’altra parte facendone di ogni sorta questi seimila possono mantenersi solo sotto la
protezione dei primi e sfuggire così alle leggi e alla forca. E dopo tutti questi la fila prosegue senza fine:
chi volesse divertirsi a dipanare questa matassa si accorgerebbe che non seimila ma centomila, anzi milioni
formano questa trafila e stanno attaccati al tiranno, proprio come afferma Giove che nel racconto di Omero
si vanta di poter tirare a sé tutti gli dei dando uno strattone alla catena. Da qui venne l’aumento di potere al
senato sotto Giulio Cesare, l’istituzione di nuove funzioni e la creazione dei vari incarichi; a ben vedere non
certo per riorganizzare la giustizia ma per dare nuovi punti di appoggio alla tirannia. Insomma tra favori e
protezioni, guadagni e colpi messi a segno, quanti traggono profitto dalla tirannia son quasi pari a coloro
che preferirebbero la libertà. E’ come quando, dicono i medici, in una parte del nostro corpo c’è qualcosa di
infetto: se in un altro punto si manifesta un piccolo male subito si congiunge alla parte malata. Così
appena il re diventa tiranno tutta la feccia del regno, e non intendo con questa un branco di ladruncoli
conosciuti da tutti che in una repubblica possono fare ben poco, sia in bene che in male, bensì tutti coloro
che sono posseduti da un’ambizione senza limiti e da un’avidità sfrenata, si raggruppano attorno a lui e lo
sostengono in tutti i modi per aver parte al bottino e diventare essi stessi tanti piccoli tiranni sotto quello
grande. Allo stesso modo si comportano i grandi ladri e i famosi corsari: gli uni fanno scorribande per il
territorio, gli altri pedinano i viaggiatori; i primi tendono imboscate, i secondi stanno in agguato; questi
trucidano e quelli spogliano; e pur essendoci tra loro vari ranghi in ordine d’importanza, i primi semplici
esecutori, gli altri capi della banda, alla fine però non c’è nessuno di loro che non abbia avuto la sua parte,
se non proprio al bottino principale, almeno a qualche frutto delle rapine. Si racconta che i pirati della
Cilicia si raccolsero una volta in così gran numero che si rese necessario mandare contro di loro Pompeo il
grande; non solo, ma riuscirono perfino a trascinare nella loro alleanza molte città tra le più belle e
popolose; nei loro porti trovavano rifugio dopo le varie scorribande e come ricompensa vi lasciavano una
parte del bottino che quelle città si erano impegnate a custodire.
Così il tiranno opprime i suoi sudditi, gli uni per mezzo degli altri, e viene difeso proprio da chi, se non
fosse un buono a nulla, dovrebbe temere di essere attaccato; secondo il detto che per spaccare la legna ci
vogliono dei cunei dello stesso legno. Ed ecco i suoi arcieri, le sue guardie, i suoi alabardieri; certo qualche

volta anch’essi sono trattati male dal tiranno, ma questi miserabili abbandonati da Dio e dagli uomini sono
contenti di sopportare dei danni pur di rifarsi non già su colui che ne è la causa ma su tutti quelli che come
loro sopportano senza poter far nulla. Eppure vedendo questa gente che striscia ai piedi del despota per
trarre profitto dalla sua tirannia e dalla servitù del popolo, spesso mi stupisce la loro malvagità, altre volte
invece è la loro stupidità che mi fa pena. Perché, diciamo la verità, che altro può significare avvicinarsi al
tiranno se non allontanarsi dalla propria libertà e abbracciare anzi, per meglio dire, tenersi stretta la servitù?
Mettano un momento da parte la loro ambizione, lascino perdere un poco la loro avarizia, poi guardino e
considerino attentamente se stessi: vedranno chiaramente che questi contadini e paesani che essi mettono
sotto i piedi appena possono e trattano peggio dei galeotti e degli schiavi, benché maltrattati in questo
modo, al loro confronto sono tuttavia più felici e in un certo senso più liberi. Il contadino e l’artigiano, per
quanto siano asserviti, una volta fatto quanto è stato loro ordinato sono a posto; ma quelli che il tiranno
vede vicino a sé, veri e propri birbanti sempre a mendicare i suoi favori, sono obbligati non solo a fare
quello che dice ma anche a pensare come lui vuole e spesso per accontentarlo devono sforzarsi di indovinare
i suoi desideri. Non è sufficiente che gli obbediscano: devono compiacerlo in tutto faticando e
distruggendosi fino alla morte nel curare i suoi interessi; inoltre devono godere dei suoi piaceri,
abbandonare i propri gusti per i suoi, andar contro il proprio temperamento fino a spogliarsene del tutto.
Sono obbligati a misurare le parole, la voce, i gesti, gli sguardi; devono avere occhi, piedi, mani sempre
all’erta a spiare ogni suo desiderio e scoprire ogni suo pensiero.
E questo sarebbe un vivere felice? Si può chiamare vita codesta? C’è al mondo qualcosa che risulti essere
più insopportabile di una simile situazione non dico per una persona di nobili origini ma semplicemente
per chiunque abbia un po’ di buon senso o quantomeno un’ombra di umanità?
Quale condizione è più miserabile di questa, in cui non si ha niente di proprio ma tutto, benessere, libertà,
perfino, la vita stessa, viene ricevuto da altri?
Costoro vogliono servire per accumulare dei beni come se quello che guadagnano fosse loro, mentre non
possono dire di possedere neppure se stessi. E come se qualcuno potesse avere qualcosa di suo sotto un
tiranno vorrebbero dirsi proprietari di quanto hanno ammassato, dimenticando che sono loro stessi a dargli
la forza di togliere tutto a tutti e di non lasciare nulla a nessuno. Essi sanno che è l’avidità dei beni il
motivo per cui gli uomini vengono assoggettati alla sua crudeltà, che al suo cospetto non vi è delitto più
grande del possedere qualcosa; sanno che il tiranno ama solo la ricchezza e spoglia di preferenza i ricchi,
eppure si presentano davanti a lui come montoni al macellaio per mostrarsi ben pieni e pasciuti ed eccitare
le sue voglie. Questi favoriti dovrebbero ricordarsi non solo di quei cortigiani che hanno messo da parte
molti beni stando vicini al tiranno ma anche di tutti coloro che, dopo aver accumulato per un certo periodo,
alla fine hanno perso i beni e la vita stessa; dovrebbero aver presente non solo i tanti che hanno guadagnato
ricchezze ma anche i pochi che sono riusciti a mantenersele. Si facciano scorrere tutte le storie antiche, si
ripensi al tempo passato di cui possiamo avere memoria; si vedrà chiaramente quanto è grande il numero di
coloro che dopo essersi conquistati con ogni mezzo indegno la fiducia dei principi, o per aver troppo
favorito la loro malvagità, oppure per aver abusato della loro ingenuità, alla fine sono stati annientati da
quegli stessi principi che tanto facilmente li avevano prima innalzati quanto poi improvvisamente decisero
di abbatterli. E veramente nel gran numero di persone che hanno circondato cattivi re ve ne sono state ben
poche, per non dire nessuna, che non abbiano provato su se stesse una volta o l’altra la crudeltà del tiranno
che in precedenza avevano aizzato contro gli altri; e spesso dopo essersi arricchiti delle spoglie altrui
all’ombra del trono sono finiti ad arricchire altri delle proprie spoglie.
Anche le persone per bene, se mai sia dato trovarne qualcuna benvoluta da un tiranno, per quanto siano tra i
suoi più favoriti e sappiano brillare di virtù e di integrità morale così da ispirare un certo rispetto perfino ai
più malvagi quando vi si trovano vicini, ebbene dico che anche queste persone non riuscirebbero a
sopportarlo a lungo ed è necessario che anch’esse soffrano questo male comune e imparino a loro spese cosa
vuol dire la tirannia. Consideriamo ad esempio un Seneca, un Burro, un Trasea (15), tre persone per bene,
due dei quali per mala sorte furono messi vicini al tiranno per curarne gli affari, tutti e due stimati e ben
voluti da lui; per di più uno di questi gli aveva fatto da maestro e considerava pegno di amicizia il fatto di
averlo educato nell’infanzia. Ebbene questi tre personaggi con la loro morte crudele testimoniano a
sufficienza quanto poco ci sia da fidarsi del benvolere di padroni malvagi. E in verità che amicizia ci si può
aspettare da uno che ha il cuore così duro da odiare il proprio regno, il quale dal canto suo non fa altro che
obbedirgli? Cosa ci si può attendere da un essere che non sapendo amare impoverisce se stesso e distrugge il proprio impero Se poi qualcuno volesse dire che costoro sono caduti in disgrazia perché si sono comportati da persone
oneste, osservi con attenzione tutti quelli che stavano intorno a questo tiranno: vedrà che quanti entrarono
nei suoi favori compiendo ogni sorta di malvagità non durarono più a lungo. Chi ha mai sentito parlare di
un amore così sfrenato, di un attaccamento così ostinato e morboso da parte di un uomo verso una donna
quanto quello di Nerone nei confronti di Poppea? Eppure in seguito fu lui stesso ad avvelenarla. La madre
Agrippina aveva ucciso Claudio, il proprio marito per mettere il figlio sul trono dell’impero e non si era
sottratta a difficoltà e disagi pur di accontentarlo. E proprio questo suo figlio, la sua creatura, il suo
imperatore costruito con le sue stesse mani, dopo molti tentativi andati a vuoto riuscì a toglierle la vita. E
non vi fu allora nessuno che non ritenesse fin troppo giusta una simile punizione, se solo fosse stato un
altro a compierla. E chi mai si è lasciato più manipolare, chi si è comportato più da sempliciotto e da
sciocco dell’imperatore Claudio? Chi più invaghito di una donna se non lui di Messaline? E alla fine la
consegnò nelle mani del boia. L’ottusità è sempre stata caratteristica dei tiranni quando si tratta di non fare
il bene; ma non so come, alla fine, quel poco d’ingegno che hanno si desta in loro allorché si tratta di usare
crudeltà verso quelle persone che gli sono più vicine. E’ abbastanza nota la battuta atroce di quell’altro
tiranno (16) che osservando il collo scoperto della donna da lui amata perdutamente fino al punto da
sembrare che non riuscisse a vivere senza la sua compagnia, glielo accarezzava sussurrando dolcemente:
«Questo bel collo sarebbe ben presto mozzato sol che io lo volessi». Ecco perché gli antichi tiranni, per la
maggior parte, venivano di solito ammazzati proprio dai loro favoriti che avendo conosciuto la natura della
tirannia più che tentare di assicurarsi il benvolere del tiranno preferivano diffidare della sua potenza. Così
Domiziano fu ucciso da Stefano, Commodo da una delle sue amanti, Antonino Caracalla da Macrino e così
quasi tutti gli altri.
E’ certamente per questo che il tiranno non è mai amato e non ama: l’amicizia è un nome sacro, una cosa
santa; essa avviene solo tra uomini per bene, non si ottiene se non attraverso una stima reciproca e non si
mantiene con dei favori ma con l’onestà di vita. Ciò per cui un amico si fida dell’altro è la conoscenza che
ha della sua integrità morale; gli sono di garanzia il suo buon carattere, la sua fedeltà, la sua costanza. Non
ci può essere amicizia dove si trovano crudeltà, slealtà, ingiustizia; e quando i malvagi si ritrovano tra loro
non vi è compagnia ma complotto: non si vogliono bene ma si sospettano reciprocamente, non sono amici
ma complici.
Ma anche se non ci fossero questi ostacoli sarebbe comunque difficile ritrovare in un tiranno un amore
fedele poiché stando sopra a tutti e non avendo alcun compagno pari a lui è già fuori dai confini
dell’amicizia che può fiorire solo sul terreno dell’eguaglianza e non procede mai zoppicando ma si tiene
sempre in perfetto equilibrio. Ecco perché si può ben dire che tra i ladri c’è una specie di fiducia reciproca
nello spartirsi il bottino, dato che sono tutti uguali tra loro e pur non volendosi bene si tengono d’occhio
l’uno con l’altro non volendo, separandosi, diminuire la loro forza. Ma quelli che sono favoriti dal tiranno
non possono in alcun modo far conto su di lui poiché sono stati loro stessi ad insegnargli che tutto è in
suo potere e che per lui non vi è diritto o dovere che tenga, posto ormai nella condizione di far passare il
proprio arbitrio come ragione, di non avere alcun compagno pari a lui ma di essere padrone di tutti.
Davanti ad esempi tanto evidenti e ad un pericolo così incombente è dunque davvero pietoso che nessuno
voglia diventare saggio a spese altrui, che tanta gente si dia da fare per star vicina al tiranno e che non ce ne
sia neppure uno che abbia l’avvedutezza e il coraggio di dir loro ciò che in un apologo famoso la volpe
rinfaccia al leone che si finge ammalato: «Verrei volentieri a farti visita nella tua tana; purtroppo vedo
molte tracce di animali che vanno verso di te, ma non ne scorgo neppure una nella direzione contraria».
Questi miserabili vedendo luccicare i tesori del tiranno rimangono abbagliati dalla sua magnificenza e
attratti da questo splendore si avvicinano, senza accorgersi che si stanno buttando in una fiamma che non
mancherà di divorarli, allo stesso modo di quel satiro curioso che secondo un’antica favola vedendo brillare
il fuoco trovato da Prometeo ne fu talmente impressionato che si accostò per baciarlo e si bruciò. O come
la farfalla, di cui ci parla il poeta toscano (17), che credendo di trarre chissà quale piacere si avvicina troppo
alla fiamma, attratta dal suo chiarore, e ne prova invece l’altra qualità, quella del bruciore. Ma anche
supponendo che questi adulatori riescano a sfuggire alle mani del loro padrone, in ogni caso non si salvano
mai dal re che viene dopo: se è un buon sovrano devono rendergli conto di tutto e comportarsi secondo
ragione; se invece è malvagio come il precedente avrà anch’egli i suoi favoriti che solitamente non si
accontentano di prendere a loro volta il posto degli altri ma vogliono anche ottenerne i beni e in molti casi

la vita stessa. Com’è dunque possibile che ci sia qualcuno che in mezzo a tanti rischi e con ben poche
garanzie voglia prendere questo sciagurato posto e servire un padrone così pericoloso?
Che tormento, che martirio è mai questo, buon Dio? Essere occupato giorno e notte a compiacere uno e
tuttavia avere più timore di lui che non di qualsiasi altro uomo, stare sempre all’erta con l’occhio e
l’orecchio tesi a spiare da dove verrà l’attacco, a scoprire gli agguati, leggere nel cuore dei compagni,
denunciare chi sta per tradire, sorridere a tutti e fidarsi di nessuno, non avere né nemici dichiarati né amici
sinceri, col sorriso sulle labbra e il gelo nel cuore, non riuscire ad essere lieto e non poter mostrarsi
scontento.
Ma è ancor più interessante considerare quel che ricavano da questo grande tormento e quale bene possano
aspettarsi da tutti questi loro affanni e dalla loro vita miserabile. Solitamente il popolo non accusa il
tiranno per il male che gli tocca sopportare bensì coloro che sono messi a governare. Di costoro i popoli, le
nazioni, tutti gli abitanti senza alcuna eccezione, dai contadini agli artigiani, sanno i nomi, contano i vizi e
su di loro riversano un’infinità di oltraggi, villanie e maledizioni: tutti i discorsi e le imprecazioni della
gente sono contro di loro, ritenuti colpevoli di ogni sventura, della peste come della carestia; e se qualche
volta per salvare le apparenze questo stesso popolo li onora, dentro di sé li maledice dal profondo del cuore
e li ha in orrore più che le bestie feroci. Ecco la gloria e l’onore che ricevono per i servizi che compiono
verso la gente, la quale anche se potesse ridurre il loro corpo a brandelli probabilmente sarebbe ancora
insoddisfatta e ben poco alleggerita delle proprie sofferenze. E anche quando sono scomparsi dalla faccia
della terra moltissimi scrittori negli anni seguenti non mancano certo di denigrare la memoria di questi
mangiapopoli; la loro fama viene completamente distrutta in migliaia di libri e le loro stesse ossa vengono
per così dire trascinate e disperse dai posteri come punizione per la loro vita malvagia, anche dopo morte.
Impariamo dunque finalmente a comportarci bene; ad onore nostro o per l’amore che portiamo alla virtù, o
meglio ancora per l’amore e l’onore di Dio onnipotente che è testimone sicuro delle nostre azioni e giudice
delle nostre mancanze, teniamo lo sguardo rivolto al cielo.
Per parte mia penso, e non credo di sbagliarmi, che non ci sia niente di più contrario a Dio, infinita bontà e
libertà, della tirannia e che Egli riservi laggiù delle pene particolari per tutti i tiranni e i loro complici.
NOTE AL TESTO.
NOTA 1: Omero, “Iliade”, 1. secondo, vv. 204-205a, trad. it. di Rosa Calzecchi Onesti, a cura di Cesare
Pavese, Einaudi, Torino 1950.
NOTA 2: Con tutta probabilità si tratta del predecessore di La Boétie nel parlamento di Bordeaux.
L’invocazione all’amico Longa che si trova nel manoscritto “De Mesmes” è stata soppressa in quasi tutte le
versioni successive.
NOTA 3: L’autore si riferisce al momento del trapasso nella storia ebraica dalla fase dei giudici a quella dei
re: il popolo ebreo chiede insistentemente a Samuele di consacrargli un re (che sarà poi Saul). La Bibbia fa
notare che questa richiesta spiacque a Samuele ed a Jahwè: cfr. 1 Sam. 8,4 ss.
NOTA 4: Cavalli ai quali sono state tagliate le orecchie e la coda.
NOTA 5: Armodio e Aristogitone sono i due giovani che uccisero Ipparco, figlio di Pisistrato; Trasibulo
cacciò i trenta Tiranni da Atene; Bruto il Vecchio e Valerio riuscirono ad allontanare per sempre i Tarquini
da Roma e ad instaurarvi la repubblica; Dione infine rovesciò dal trono di Siracusa il tiranno Dionigi.
NOTA 6: In realtà il passo di Ippocrate a cui si riferisce La Boétie si trova nell’opera “Arie, acque, luoghi”.
NOTA 7: Si tratta del re Artaserse di Persia.
NOTA 8: Il libretto di Senofonte è appunto intitolato “Ierone o della condizione dei sovrani”.
NOTA 9: Terenzio, “Eunuco”, atto terzo, scena prima, v. 25.
NOTA 10: Le decurie pubbliche consistevano in elargizioni fatte dagli imperatori romani alla plebe
dell’urbe; il nome deriva dal fatto che questa distribuzione di viveri a spese del denaro pubblico avveniva a
gruppi di dieci.
NOTA 11: Misura romana che corrispondeva a poco più di mezzo litro.
NOTA 12: Virgilio, “Eneide”, 1. quarto, vv. 585-594; tr. it. a cura di Enzo Cetrangolo in Publio Virgilio
Marone, “Tutte le opere”, Sansoni, Firenze 1966.

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