Pierre Clastres, L’anarchia selvaggia. Le società senza stato, senza fede, senza legge, senza re

by gabriella

anarchia selvaggiaCon il titolo L’anarchia selvaggia, Elèuthera ha pubblicato la traduzione italiana di quattro importanti saggi scritti da Pierre Clastres tra il 1976 e il 1977: La question du pouvoir dans les sociétès primitives, in cui l’antropologo affronta il tema della radicale diversità delle società primitive da quelle gerarchiche, differenziate, statali in cui viviamo; Archeologie de la violence : La guerre dans les societes primitives (Monde en cours) nel quale Clastres propone una convincente riforma dell’antropologia hobbesiana e della concezione scambista di Lévi-Strauss, mostrando come guerra e dono siano l’uno il rovescio dell’altro, dunque, entrambi originari;  Liberté, Malencontre, Innomable in cui sviluppa un avvincente commentario del Discours de la servitude volontaire di la Boétie, riconoscendo nella nascita dello stato, cioè della diseguaglianza e della sua codificazione, la nascita della storia e della servitù umana e Âge de la pierre âge d’abondance, la prefazione dedicata alla pubblicazione francese di Stone Age Economics (1972) di Marshall Sahlins, in cui fa risaltare il legame tra potere e debito attraverso un’illuminante analisi della figura del Big Man, il capo senza potere dei selvaggi.

Accessibili in rete anche La societé contre l’Etat. Recherches d’anthropologie politique, Paris, Editions de Minuit, 1974 [disponibile anche in trad. inglese].

 «Mondo senza gerarchie, gente che non obbedisce a nessuno, società indifferente al possesso di ricchezze, capi che non comandano, culture senza morale perché ignorano il peccato, società senza Stato».

Pierre Clastres

“Nel governo del saggio, il suo effetto si estende su tutta la nazione, ma non sembra emanare da lui. Egli influisce su tutto, ma non rende la gente dipendente da lui. La sua influenza è presente, ma non riesci a identificarla, e ciascuno si compiace di sé. Egli sta ritto nel vuoto insondabile e vaga nella sfera del non-essere”.

Laozì

Fabrizio Tassi, Società senza Stato: domani? No, ieri l’altro…

Una società senza classi (senza ricchi che spossessano i poveri). Una società senza divisioni tra dominanti e dominati (senza organi separati di potere).

In cui il “capo” non comanda, ma è il portavoce del popolo (la tribù), e ogni decisione viene presa pubblicamente. Un luogo ideale in cui

«il potere non è separato dalla società» e l’economia non è al servizio di entità astratte come il “mercato”, al contrario «è il sociale che regola il gioco economico».

Pierre Clastres, etnologo, antropologo, allievo di Claude Lévi-Strauss, sintetizzava così l’essenza di quelle “società primitive” a cui dedicava i suoi studi e le sue ricerche sul campo:

«Mondo senza gerarchie, gente che non obbedisce a nessuno, società indifferente al possesso di ricchezze, capi che non comandano, culture senza morale perché ignorano il peccato, società senza Stato».

La sostanza, in realtà, è tutta qui:

«Le società primitive non hanno lo Stato perché lo rifiutano, perché non vogliono la divisione sociale tra dominanti e dominati».

Per dirla con le parole dei cronisti europei del sedicesimo secolo alle prese con i nativi amerindi:

«Gente senza fede, senza legge, senza re».

Parole condivise da Clastres, che però ne ribaltava il pregiudizio ideologico negativo, vedendo in quella realtà un modello sociale alternativo al mondo occidentale, che pensa il potere politico in termini di gerarchie, autorità, relazioni di coercizione.

Il problema semmai è capire come, quando e perché queste “società senza Stato” (o “contro lo Stato”), queste tribù di “selvaggi”, si sono trasformate in quelle che noi chiamiamo “popolazioni civilizzate”. Lo scopo? Comprendere come nasce il potere politico, il potere dell’uomo sull’uomo, e tornare a immaginare una società in cui l’esercizio del potere non sia obbligatoriamente coercitivo.

Clastres citava Étienne de La Boétie (pensatore francese del ‘500, amico di Montaigne, genio precoce) e quello che lui chiamava il “malencontre”, il «tragico evento», il «malaugurato accidente», il momento in cui l’uomo rinunciò alla propria natura, «l’esser nato propriamente per vivere libero», scegliendo invece la servitù, la rassegnazione alla sottomissione. Il problema è che se «l’uomo è un essere-per-la-libertà» questa rinuncia significa sacrificare la propria umanità. Ebbene, la storia nasce proprio da quella rinuncia, da «quella rottura fatale, quell’evento irrazionale che noi chiamiamo “nascita dello Stato”» e che non ha nulla a che vedere con chissà quale necessità di tipo economico o politico o biologico.

Fa una strana impressione rileggere oggi gli argomenti utilizzati da Clastres negli anni ’70 in scritti come “La questione del potere nelle società primitive” oppure “Età della pietà, età dell’abbondanza”, che oggi elèuthera riedita in un libro intitolato L’anarchia selvaggia. Non pensate a chissà quale apologia del buon selvaggio. Basterebbero le pagine che Clastres dedicava all’importanza della guerra nelle società primitive per fugare ogni dubbio in proposito.
Di certo l’antropologo francese (morto a soli 43 anni in un incidente stradale nel 1977) era molto duro con le semplificazioni dei pensatori marxisti, che piegavano la realtà all’ideologia, e si trovavano obbligati a «postulare la miseria dell’economia primitiva», una sorta di grado zero delle forze produttive, necessario alla loro visione della storia. Mentre in realtà, scriveva Clastres,

«le ricerche di antropologia economica più scrupolose dimostrano come l’economia dei selvaggi, ovvero il modo di produzione domestica, assicuri in realtà una completa soddisfazione dei bisogni materiali della società».

Si trattava di un meccanismo di produzione pensato per soddisfare il principio “a ciascuno secondo i suoi bisogni”. Ed ecco allora esempi diventati poi quasi dei luoghi comuni, come quello degli aborigeni australiani di Arnhem e i boscimani del Kalahari che dedicano tra le 3 e le 5 ore al giorno al lavoro, a turno: «Perché stancarsi a raccogliere quello che non si può consumare?». E’ quell’idea, esplicitata da Marshall Sahlins, secondo cui «le società primitive rifiutano l’economia». E’ la fortunata definizione paradossale delle società primitive come “società dell’abbondanza” e “del tempo libero”, destinata ad essere molto discussa e ampiamente sfruttata in termini polemici.

In questo corto circuito tra passato e presente, utopia e nostalgia, sviluppo economico e decrescita felice (oggi si dice così) è facile notare come certi temi continuino a scorrere sottotraccia, per poi emergere nei momenti di crisi, politica, sociale o economica, con gli opportuni aggiornamenti e gli inevitabili fraintendimenti. Scriveva Pierre Clastres, i cui testi vengono considerati dei “classici” del pensiero anarchico:

«L’esempio delle società primitive ci insegna che la divisione non è insita nell’essere sociale o, in altri termini, che lo Stato non è eterno, che ha qui o lì una data di nascita… E la luce così gettata sul momento della nascita dello Stato renderà forse chiare anche le condizioni (realizzabili o no) della sua possibile morte».

 

Nicolas Martino, Recensione a Pierre Clastres, L’anarchia selvaggia

Si chiama Stato il più gelido di tutti i gelidi mostri. Esso è gelido anche quando mente; e questa menzogna gli striscia fuori di bocca: “Io, lo Stato, sono il popolo”.

Questa la straordinaria intuizione di Nietzsche (Così parlo Zarathustra, 1885) cara a Pierre Clastres, l’antropologo francese erede libertario di Lévi-Strauss che ha rovesciato il paradigma della filosofia politica occidentale con una serie di innovative ricerche sul campo, tese a dimostrare come la coercizione politica e lo Stato non siano il fondamento inevitabile di ogni società umana.

La cultura occidentale moderna ha sempre pensato il potere come struttura verticale e gerarchica, relazione di comando e obbedienza, e conseguentemente ha pensato le società primitive come mancanti di potere politico, incomplete ed embrionali in quanto società senza Stato. In realtà non esistono società senza potere, il potere politico è universale e immanente al fatto sociale, a fare la differenza è piuttosto la declinazione coercitiva o non coercitiva del potere, e la diversa relazione che si instaura tra sfera politica e sociale. Lo studio sul campo della chieftainship amerindiana smentisce il postulato della non politicità dell’arcaico: nelle società primitive il potere appartiene al corpo sociale come unità indivisa di liberi ed eguali.

Il capo invece è il depositario di un paradossale potere che non può nulla, è colui che parla a nome della società, costantemente sotto sorveglianza: la società vigila per impedire che il prestigio derivato dal privilegio della parola si trasformi in Un potere separato e trascendente, in dominio sulla società. È così che il pensiero selvaggio ci dice che «il luogo di nascita del Male, la fonte dell’infelicità, è l’Uno». E questo Uno è lo Stato, proprio come nella reductio ad unum del famoso frontespizio di Hobbes dove il corpo Uno e Sovrano del Leviatano contiene tutti i cittadini riducendoli a popolo. Società contro lo Stato quindi, e non semplicemente senza Stato, che per esorcizzare il mostro organizza la guerra e promuove la logica centrifuga della frammentazione, ostacolo potente alla forza centripeta dell’unificazione. Hobbes ha visto chiaramente che lo Stato era contro la guerra, così la macchina da guerra primitiva è contro lo Stato e lo rende impossibile.

Eppure una rottura fatale è in agguato, l’evento irrazionale della nascita dello Stato che precipita la società nella sottomissione di tutti a Uno solo. l’enigma magistralmente indagato agli albori della modernità da La Boétie nel suo Discorso sulla servitù volontaria (in questa piccola ma preziosa antologia è compreso il saggio di Clastres sull’amico fraterno di Montaigne): Il passaggio dalla libertà alla servitù fu senza necessità, la divisione tra chi comanda e chi obbedisce fu accidentale»Si tratta di un malencontre che ha snaturato a tal punto l’uomo da fargli perdere la memoria del suo primo stato e il desiderio di riacquistarlo. Alcune società primitive per sventare il pericolo imminente si sarebbero affidate alla seduzione della parola profetica che invitava ad abbandonare tutto per cercare la Terra senza il Male, manifestando una volontà di sovversione «spinta fino al desiderio di morire, fino al suicidio collettivo».

Per chiudere due note: 1. La modernità politica occidentale non è solo quella sovrana e neutralizzante di Hobbes, ma anche quella materialista e tumultuaria di Machiavelli che promuove il conflitto come chiave di volta della libertà. È probabilmente in questa anomalia selvaggia e nella sua moltiplicazione che si da la possibilità di sventare quel malencontre sempre in agguato. 2. Ora se è vero che la postmodernità ha polverizzato il Leviatano, la ricerca di Clastres continua però a interrogarci dacché la sussunzione reale della vita al capitale esercita una straordinaria capacità di messa al lavoro di quella libido serviendi che occorre continuare a stanare. Ora che lo Stato non è più niente, sta a noi essere tutto! [ou, dou moins, quelque chose, come direbbe Sieyès: Qu’est-ce que le Tiers-Etat ? – Tout.  Qu’a-t-il été jusqu’à présent dans l’ordre politique ? – Rien. – Que demande-t-il ? – A être quelque chose. NDR]

Pierre Clastres
L’anarchia selvaggia
Le società senza stato, senza fede, senza legge, senza re
introduzione di Roberto Marchionatti
elèuthera (2103), pp. 116

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