Archive for Gennaio, 2012

25 Gennaio, 2012

Gianfranco Marini, La qualità della scuola. Modelli scolastici a cronfronto

by gabriella

Liceo Darwin

La documentata ricognizione di Gianfranco Marini su cos’è e come si realizza la qualità nella scuola.

Il Problema
Quali indicazioni si possono trarre dal successo delle politiche di riforma scolastica che hanno portato avanti altri paesi? Non certo la dogmatica assunzione di forme da applicare meccanicamente alla realtà scolastica di un paese come l’Italia, ma possono certamente essere tratte indicazioni e linee guida generali su come si dovrebbe agire e anche criteri per valutare come si agisce.
In altre parole non si tratta di copiare i contenuti di qualche mirabolante e rivoluzionaria riforma scolastica realizzata da altri, ma di cercare di capire come essi abbiamo proceduto: non che cosa hanno fatto, ma come lo hanno fatto.

La riforma della Scuola in Finlandia
Interessanti spunti per riflettere su come sia possibile riformare un sistema scolastico, su quali siano le sfide politiche ed educative cui si va incontro e quali  le modalità più opportune per pianificare e attuare le riforme in termini di tempi e risorse, ci è offerto da un interessante articolo comparso su Oxydiane, “La riforma che ha cambiato la scuola in Finlandia“, in cui non trovo nessuna indicazione precisa relativa alla data di pubblicazione e all’autore.
L’articolo è puntuale e preciso e costituisce un ottimo punto di partenza per chi voglia ulteriormente approfondire l’argomento, grazie all’apparato di note, documentazione allegata, precisi riferimenti, con cui viene supporta la descrizione del processo riformatore finlandese.

Alcune caratteristiche della scuola finlandese e del modo in cui è stata riformata
Consiglio la lettura dell’intero articolo e mi limito a sottolineare i punti che più mi interessano, anche in relazione alla attualità politica italiana e alla riforma nota come “La buona scuola
# scuola primaria comune fino a 16 anni articolata e della durata complessiva di nove anni, in cui si distinguono due segmenti: 6 + 3 anni (elementari e medie nostre) e scuola superiore di 3 anni
 scuole di dimensioni piccole / medie con un massimo di 300/500 alunni, in cui tutti si conoscono e la scuola è una effettiva comunità di apprendimento caratterizzata da un forte senso di appartenenza, l’opposto di quanto si è fatto in Italia con la riforma Gelmini;
 gradualità del processo di riforma che è attuata a “piccoli passi” e in tempi lunghi in quanto prende le sue mosse nel 1972 e si può dire portata a termine nel 2002
la riforma viene affrontata da un sistema politico e partitico che condivide gli obiettivi, è consapevole dell’importanza della formazione, gestisce in modo unitario il lungo processo di transizione, concordo sui tratti essenziali del processo di trasformazione della scuola ed è disposto a investire nell’istruzioneconsiderandola “strategica” per il paese;
la riforma non viene “pensata” e “attuata” a prescindere dagli operatori della scuola e ponendo questi di fronte al fatto compiuta, ma assumendo la “politica scolastica” come punto essenziale della riforma.Riformare non vuol dire calare dall’alto modelli di “buona scuola” preconfezionati a tavolino, ma guidare un processo pluriennale di costruzione collaborativa di un nuovo sistema partendo dal basso
importanza che viene data alla scuola intesa come ambiente di apprendimento dotato di tutti gli strumenti, gli spazi e le risorse necessarie all’apprendimento e insegnamento.
GERM e ARM?
Questione capitale è il modello di sistema educativo che si intende realizzare attraverso il processo di riforma, occorre averne una chiara visione per poter procedere con efficacia nell’attuare una riforma di un sistema così complesso come quello scolastico. La totale assenza di una simile visione complessiva, ha sempre brillato per la sua assenza, in tutte le pseudo – riforme portate avanti in questi ultimi anni dai governi italiani che infatti sono state caratterizzate da: incoerenza, pressapochismo, contraddittorietà, inconcludenza, etc. Basti pensare che nel giro di pochi anni il sistema di reclutamento dei docenti è stato cambiato 4 volte per cui ora esistono contemporaneamente, 4 tipologie di “aspiranti docenti”, tutti divenuti tali in pieno rispetto delle leggi emanate in materia dal ministero e tutti incerti sul loro futuro perché non si riesce a comporre in un quadro unitario la loro situazione normativa. Si leggo questa testimonianza di Carlo Mazza Galanti sulla follia del sistema d reclutamento dei docenti in Italia dal titolo significativo “Come farsi passare la voglia di diventare insegnanti
A livello internazionale si possono considerare prevalenti due diverse concezioni, radicalmente differenti, di cosa debba intendersi per “sistema educativo scolastico”. Si tratta dei Modelli GERM (Global Education Reform Movement) e ARM (Alternative Reform Movement), che cercherò di descrivere per sommi capi e che costituiscono il riferimento delle politiche educative dei paesi OCSE, con una netta prevalenza per la ricetta neoliberista del prescritta dal modello GERM.Il modello GERM
Il modello GERM è quello che equipara la scuola a un sistema produttivo e adotta le logiche dellagestione aziendale: valutazione docenti, studenti, accountability, test di misurazione, definizione di standard, adozione delle TIC, ecc. Sorge negli anni ’80 in U.S.A., Gran Bretagna, Australia, diviene ortodossia didattica nell’età di Reagan e della Thatcher, ispira la rifondazione delle scuole anglossassoni sulla base della competitività e della standardizzazione.
Il modello del mercato viene applicato alle istituzioni scolastiche che devono entrare in concorrenzatra loro, in questo modo sarebbero costrette a migliorare la loro offerta. Tassello fondamentale di questa concezione è la possibilità di misurare la qualità dell’istruzione offerta dalle singole scuole e perfino dai singoli docenti. Questo il contesto entro cui trovano collocazione le prassi valutative fondate sull’uso dei test.
Per meglio comprendere le caratteristiche del modello GERM consigli la lettura dell’articolo di Pasi Sahlberg Global Education Reform Movement is here!, che ha scritto anche un pezzo per The Guardian dall’inequivocabile titolo The PISA 2012 scores show the failure of “market based” education reform.
Tale prassi viene fatta propria dalle agenzie internazionali di valutazione, che su tale fondamento ideologico neoliberista costruiscono un sistema di monitoraggio e comparazione dei sistemi formativi, come quello OCSE – PISA la cui attenzione si focalizza però solo su alcune competenze: Literacy e Numeracy, escludendone completamente altre.
La strategia messa in atto da Invalsi con le sue prove di “valutazione” del successo scolastico, si basa su una strategia di accountability fondata sui test, che è estranea al nostro sistema scolastico e agli obiettivi che, a partire dal dettato costituzionale, essa da sempre persegue. Insomma pretendere di valutare la nostra scuola con i test Invalsi sarebbe come pretendere di misurare la distanza tra Roma e Milano in Chilogrammi. A proposito della validità scientifica dei test Invalsi segnalo uno dei tanti articoli del matematico Giorgio Israel a proposito della situazione della scuola italiana e dei test Invalsi, dal titolo La scuola e il crollo del buon senso

Il modello ARM
Il modello ARM (Alternative Research Movement) è più umanistico ed è fondato sulla autonomia delle istituzioni scolastiche con pochi standard nazionali e punta sulla formazione del personale docente e la sua autonomia in qualità di professionisti. Nel modello ARM si punta sulla collaborazione e non sulla competizione tra studenti, docenti e scuole, anzi tale idea è del tutto assente. Il modello ARM è quello scelto dalla scuola finlandese, caratteristiche principali del modello ARM in Finlandia sono:
– fiducia nei docenti e dirigenti che sono considerati professionisti di alto livello e che sono formati secondo percorsi chiari e affidabili;
– vengono incoraggiate a tutti i livelli (dirigenti, docenti, studenti) il pensiero critico, la creatività, l’immaginazione, la proposta di nuove soluzioni e idee;
– Finalità ultima dell’apprendimento e dell’insegnamento sono il piacere di apprendere, infondere curiosità e sviluppare lo sviluppo complessivo di chi apprende.

Cosa si può imparare dalla riforma scolastica finlandese?

1. I tempi di una riforma scolastica
I tempi sono quelli lunghi e vanno gestiti da un ceto dirigente lungimirante, il contrario delle mille riforme che la scuola italiana ha dovuto subire e che si caratterizzano per i brevissimi tempi di incubazione e la totale incapacità di affrontare il problema in modo sistemico, limitandosi a intervenire solo in alcuni settori e senza curarsi della coerenza degli interventi con il sistema nel suo complesso. La riforma Gelmini è stata pensata in pochi mesi e attuata immediatamente con obiettivi prevalentemente finanziari (risparmiare). La Riforma Gelmini – Renzi, nota con quello che pare più uno slogan che un’idea per riformare la scuola (La Buona Scuola), viene considerata intoccabile e scodellata in pochi mesi all’opinione pubblica e ai soggetti che operano nella scuola, lasciati totalmente al di fuori del processo di elaborazione della riforma stessa, se si esclude la finzione di questionari online e siti web che somigliano più a brochure pubblicitarie che a luoghi di dibattito.
Prima Conclusione: per cambiare la scuola occorre una capacità progettuale sistemica e un lavoro pluridecennale graduale, coerente ma inesorabile che coinvolga attivamente tutti i soggetti in campo.
2. I luoghi della riforma della scuola
I luoghi della riforma della scuola sono le scuole intese come edifici, sono le aule intese come ambienti di apprendimento. L’opinione pubblica italiana, gli stessi docenti e studenti, non sono nemmeno lontanamente in grado di comprendere l’inadeguatezza dei luoghi in cui la comunità scolastica svolge il suo lavoro di apprendimento e insegnamento. Ricordo solo, per chi non lo sapesse, che circa la metàdelle scuole italiane non ha né il certificato di agibilità, né quello di prevenzione incendi e che il 40% degli edifici ha 40/50 anni di età. Il solo modo per avere un’idea precisa dell’arretratezza e del sottosviluppo italiani è quello di utilizzare video e immagini. Quindi lascio la parola a fotografie e filmati
2.1. Finlandia: Jyvaskyla, la capitale della scuola finlandese
Anche in Italia esiste qualche bella scuola, ma si tratta di rari casi, in Finlandia sono per la maggior parte come mostrano le fotografie. Si tratta di tre diverse scuole da me visitate durante un soggiorno ad Jyvaskyla nel 2009 in qualità di visitatore italiano del sistema scolastico finlandese, ho visitato tutte le scuole della cittadina.
Atrio della Scuola media Vaajakumpu
Scuola media Vaajakumpu: sala professori
Liceo Cygnaeus: sala professori
istituto Viitaniemi: una delle sale mensa
Un articolo (in inglese) in cui si approfondisce la concezione della scuola come progettazione di Ambienti di apprendimento e non di fatiscenti edifici di stanze vuote come in Italia, si può leggere sul sito dellaOECD: Conference in Finland on Tomorrow’s Learning Environment


2.2. La Scuola Danese: Hellerup
In questo filmato dell’Indire viene presentata una scuola tipo danese: la scuola di Hellerup:

2.3. La scuola Svedese
Il polo creativo di Stoccolma in questo studio dell’Indire: la scuola di Vittra – Telefonplan.

2.4. La scuola Australiana

In Australia le scuole sono quasi tutte private, nelle scuole pubbliche ci va chi non può permettersi la scuola privata. Questo che vedete presentata nel filmato è l’edificio che ospita l’unico liceo pubblico diMelbourne. In Australia si sta passando al sistema “open classrooms” aule aperte, in pratica non esistono aule e tutti gli studenti ricevono, da una decina d’anni a questa parte, il laptop dalla scuola. La didattica è basata sull’online learning.

2.5. La Scuola Italiana?
Tutti noi abbiamo esperienza di quale sia la condizione disastrosa degli edifici scolastici in Italia, si consideri però che non si tratta solo di inadeguatezza dal punto di vista della sicurezza, semplicemente la maggioranza degli edifici scolastici italiani non sono scuole, non sono nemmeno ambienti di apprendimento, sono stanze delle stanze vuote del tutto inadeguate alle esigenze della didattica del XXI secolo. Nel mio istituto, per esempio, non si possono nemmeno spostare i banchi. devono restare disposti su tre colonne per motivi di sicurezza, in caso si debba evacuare velocemente la scuola.

3. Mercato versus Comunità

Mentre il modello anglosassone è fondato sull’idea di competitività e concorrenza declinate a tutti i livelli e assunte come principale garanzia della crescita della qualità della formazione, il modello ARM attuato in Finlandia  è fondato sull’idea di comunità e della formazione come ricerca e costruzione collaborativa della conoscenza e del percorso didattico. L’aspetto più interessante di questa prospettiva, è che lastessa riforma è stata attuata come un processo collaborativo di costruzione del nuovo sistema scolastico, processo di cui i docenti e studenti sono stati protagonisti. Questi alcuni spunti interessanti propri di questo modo di procedere:
# Consenso e fiducia della popolazione sul modo di operare dei governi e sugli effettivi obiettivi della riforma, finalizzata a trasformare il sistema economico del paese in una “economia della conoscenza“;
Estrema gradualità della riforma: pur prevedendo un mutamento drastico del sistema scolastico, l’attuazione della riforma si è sviluppata in un arco di 20/30 anni consentendo di assorbire gradualmente le novità
# Negoziazione di ogni passo della riforma con i soggetti chiamati in causa e condivisione degli obiettivi;
Clima di fiducia reciproca tra famiglie, docenti, studenti, dirigenti e autorità politica, non esiste un sistema di valutazione esterno degli studenti, delle scuole, dei docenti;
graduale ricambio del corpo docente con pensionamento degli insegnanti formati nel modo tradizionale e immissione di nuovi docenti formati diversamente e secondo un profilo differente da quello tradizionale
# Creazione attraverso la collaborazione tra i docenti di un nuovo curricolo per la scuola

LINKOGRAFIA
Carlo Mazza Galanti, Come farsi passare la voglia di diventare insegnanti“Germ
Fedinando Imposimato, Difendete la scuola pubblica
Giorgio IsraelLa scuola e il crollo del buon senso
OxydianeLa riforma che ha cambiato la scuola in Finlandia
OECDConference in Finland on Tomorrow’s Learning Environment
Pasi Sahlberg
Global Education Reform Movement is here!
The PISA 2012 scores show the failure of “market based” education reform

23 Gennaio, 2012

Michel Foucault, Il parresiastes e il coraggio della verità

by gabriella

La verità è un fatto di giustizia, non solo di forma logica.

[…] quando un filosofo si rivolge a un sovrano, a un tiranno, e gli dice che la sua tirannide è pericolosa e spiacevole, perché la tirannide è incompatibile con la giustizia, in quel caso il filosofo dice la verità, crede di stare dicendo la verità, e ancor più, corre un rischio (giacché il tiranno può adirarsi, può punirlo, può esiliarlo, può ucciderlo). Fu questa esattamente la situazione in cui si trovò Platone con Dionigi di Siracusa – sulla quale ci sono interessantissimi riferimenti nella Lettera settima di Platone, e anche nella Vita di Dionigi di Plutarco.
Quindi, come vedete, il parresiastes è qualcuno che corre un rischio. Naturalmente, non è sempre il rischio della vita. Quando, per esempio, qualcuno vede un amico che sta commettendo un errore e rischia di incorrere nelle sue ire dicendogli che sta sbagliando, costui sta agendo da parresiastes. In tal caso, certo, non rischia la vita, ma può irritare l’amico coi suoi rilievi, e conseguentemente l’amicizia può risentirne. Se, in una discussione politica, un oratore rischia di perdere la sua popolarità perché la sua opinione è contraria a quella della maggioranza, o perché può condurre ad uno scandalo politico, egli sta usando la parresia. La parresia dunque è legata al coraggio di fronte al pericolo: essa richiede propriamente il coraggio di dire la verità a dispetto di un qualche pericolo. E nella sua forma estrema, dire la verità diventa un «gioco» di vita o di morte». Michel Foucault, Discourse and Truth. The Problematization of Parresia, 1985; trad. it. Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, Roma, 1996, p. 7.

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22 Gennaio, 2012

Scampia, Le Vele

by gabriella

Le Vele di Scampia (Napoli): dall’edilizia sociale d’avanguardia al degrado urbano.

Il disagio di Scampia nella voce dei suoi abitanti oggi sfrattati.

22 Gennaio, 2012

Ilvo Diamanti, Giovani senza luogo e senza età

by gabriella

Bussole

I giovani sono la categoria sociale più definita e per questo più in-definita del nostro tempo. Oggetto di una molteplicità di tentativi di catturarli con una formula, una parola, un titolo. E quindi oscurati da una nebbia lessicale e semantica. Io stesso ho partecipato a questo inseguimento, nel passato più o meno recente. Ma ora tutte le definizioni, tutte le formule, tutte le parole, tutti i titoli vertono su un solo aspetto: il lavoro, o meglio, il non-lavoro. E sulla variante della precarietà. D’altronde, l’Istat stima oltre il 30% il tasso di disoccupazione giovanile (che sale al 50% nel Mezzogiorno). Il più alto dell’Eurozona. Le statistiche ufficiali, inoltre, valutano il peso dei lavoratori atipici e irregolari oltre il 30% tra i giovani (e intorno al 15% nella popolazione). Anche se aggiungono – nell’ultimo anno pare che, in Italia, anche il lavoro atipico sia diminuito. E non è una buona notizia, ma il segno – e la conseguenza – della crisi, che sta riducendo l’occupazione di tutti i generi: formale o informale, stabile o flessibile, tipica o atipica che sia.

Per questo, il fenomeno più adatto a raffigurare la posizione dei giovani del nostro tempo, probabilmente, è quello dei “Neet” (l’acronimo che riassume la definizione inglese: Not in Education, Employment or Training). Quelli che “non” lavorano e “non” studiano. E non sono neppure impegnati attività di “formazione” e “apprendistato”. Una sorta di  generazione “non”. Priva, per questo, di identità. Perché se “non” sei studente e neppure lavoratore, semplicemente, “non” esisti. Resti sospeso nell’ombra. Senza presente né futuro.

Ebbene, i giovani (tra 15 e 29 anni) che si trovano in questa posizione – ambigua e periferica – sono oltre 2 milioni e 200 mila. Il 22%. Pesano particolarmente fra le donne e nel Sud. Ma disegnamo, comunque, un’area multiforme, per profilo socio grafico e motivazionale. Dove coabitano diverse componenti. Soprattutto e anzitutto, giovani “costretti” a restare sulla soglia, in bilico. Perché hanno concluso gli studi e non trovano un lavoro, neppure precario. Giovani che hanno perduto il lavoro  –  più o meno precario  –  e non ne trovano un altro  –  né tipico né atipico. Ma anche giovani che, finiti gli studi, preferiscono guardarsi intorno  –  fare esperienze, viaggiare, fermarsi a pensare – prima di entrare nel mercato del lavoro. Prima, magari, di ri-entrare nel sistema formativo. E altri ancora che preferiscono fermarsi  –  almeno per un poco. In attesa  –  e nella speranza – che qualcosa cambi. Visto che l’offerta del “mercato” non li soddisfa nemmeno un poco. Anzi…

È la generazione del “non”. Una “non” generazione. (Ma per carità, non usatela come un’altra definizione. È una “non” definizione). Una generazione “accantonata”, provvisoriamente, dagli adulti che non sanno come comportarsi con i giovani. I loro figli. Per quanto possibile, li tutelano e li proteggono. E, al tempo stesso, li controllano, frenano la loro voglia di rendersi autonomi. È una generazione di giovani che faticano a crescere. Perché gli adulti e gli anziani (ammesso che qualcuno sia ancora disposto a dichiararsi tale) li vogliono così: eterni adolescenti. E i giovani – una parte di loro, almeno – si adeguano a questo status. A questo limbo. A questa in-definitezza. Così, un giorno, davanti allo specchio, rischiano di scoprirsi già vecchi. O meglio: anziani.
Pardon: senza età.

Sospesi. In un tempo senza tempo e in un luogo senza luogo.

Questa Bussola, con qualche variazione, è stata scritta per “UniurbPost” (numero otto, gennaio 2012), magazine online d’Ateneo dell’Università di Urbino “Carlo Bo”.

http://www.repubblica.it/rubriche/bussole/2012/01/20/news/giovani_senza_luogo_e_senza_et-28479606/?ref=HREC2-3

16 Gennaio, 2012

Alexandros Panagulis, Tempo di collera

by gabriella

Voi, tombe che camminano
insulti viventi della vita
asassini del vostro pensiero
fantocci in forme umane

Voi che avete invidia delle bestie
che offendete l’idea del creato
che chiedete rifugio all’ignoranza
che accettate per guida la paura

Voi che avete dimenticato il passato
che vedete il presente con occhi appannati
che non avete interesse per il futuro
che respirate solo per morire

Voi che avete mani solo per applaudire
e che domani applaudirete
con più forza di tutti come sempre
e come ieri e come oggi

Sappiate allora voi
scuse viventi di ogni tirannia
che i tiranni li odio tanto
tanto quanto ho schifo di voi

Alexandros Panagulis

16 Gennaio, 2012

Daniele Giglioli, Narrazioni e psicoanalisi. Sui Racconti analitici di Freud

by gabriella

Non c’è bisogno di coltivare una speciale dedizione alla teleologia, alla mistica della pienezza dei tempi, o magari all’ottimismo evoluzionista secondo cui una cultura riesce sempre a produrre al momento giusto gli anticorpi contro le tendenze degenerative che la minano, per salutare l’arrivo in libreria dei Racconti analitici di Sigmund Freud (progetto editoriale e introduzione di Mario Lavagetto, note e apparati di Anna Buia, traduzione di Giovanna Agabio, “Millenni” Einaudi, 805 pagg,  85 euro) come una circostanza estremamente felice. In un contesto come quello presente, dominato dalla un tempo stimolante ma ormai stucchevole confusione categoriale tra fiction e non-fiction, sempre a rischio di annacquare ogni differenza all’insegna di una generica narratività che tutto pervade e nulla spiega (saggi che si leggono, purtroppo, “come romanzi”; romanzieri che si improvvisano storici, e viceversa; onnipresenza dello Storytelling in ogni ambito della comunicazione e della prassi sociale), il Freud proposto da Lavagetto invita invece a coltivare la sottile e necessaria arte del distinguo. Tra sapere e raccontare, letteratura e scienza, invenzione e scoperta esistono reti infinite di nessi e implicazioni, che bisogna pazientemente districare, non annegare in una melassa incommestibile.

Nessuno ne era più consapevole di Freud. I suoi rapporti con la letteratura, che Lavagetto indaga dai tempi di Freud la letteratura e altro, sono stati molteplici, complessi, fecondi ma anche tormentati. Era convinto che il poeta arriva per sue vie là dove lo scienziato a volte stenta a metter piede. Possedeva una vasta cultura letteraria, una memoria infallibile, una felicità di espressione e di costruzione narrativa che hanno pochi uguali: sotto il profilo della bellezza, molte sue opere, a cominciare dall’Interpretazione dei sogni, potrebbero stare senza disagio nel canone della migliore letteratura del Novecento. Non è lì però che Freud voleva collocarle. La storia di quei rapporti è anche la storia, appunto, di un disagio, di una diffidenza, di una tentazione e di una resistenza. Letteratura e scienza pretendono alla verità, e può capitare che vi arrivino per percorsi simili, ma non sono e non devono essere la stessa cosa, pena il decadere della psicoanalisi – secondo una maligna battuta di Krafft-Ebing, che aveva appena ascoltato una conferenza del giovane Freud – allo statuto di “favola scientifica”.

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15 Gennaio, 2012

Maurizio Ferraris, Paolo Rossi, una vita tra scienza e irrazionale. Paolo Rossi, Introduzione a La nascita della scienza moderna in Europa

by gabriella

Lo studioso si è spento a Firenze. Era nato a Urbino nel 1923. Con la sua ricerca innovativa, aveva indagato i nessi tra la magia e le origini del pensiero scientifico moderno.

È morto ieri a Firenze il filosofo e storico della scienza Paolo Rossi. Accademico dei Lincei, era nato a Urbino nel 1923, e aveva studiato a Firenze sotto la guida di Eugenio Garin. A Firenze tornerà come docente nel 1966 e sarà per oltre trent’anni titolare della cattedra di storia della filosofia e dando vita a una scuola prestigiosa. Con ricerche innovative Rossi aveva messo a fuoco il momento di frattura che dalla magia porta alla scienza moderna, come nell’opera che lo impose all’attenzione della comunità scientifica internazionale, Francesco Bacone. Dalla magia alla scienza (1957). A unire queste due dimensioni apparentemente antitetiche, c’è la tecnica, la macchina (I filosofi e le macchine 1400-1700, 1962, Feltrinelli), che è sia lo strumento della scienza sia il veicolo della meraviglia, della magia che anche nel parlar comune si associa alla tecnica. E l’attenzione ai caratteri concreti della produzione scientifica sta anche alla base della intensa attività pubblicistica di Rossi.

Non stupisce che, in questa valorizzazione della tecnica, Rossi abbia focalizzato la sua attenzione sulla memoria (ossia su ciò che, nell’uomo, è naturale ma può essere potenziato artificialmente), che è insieme la base della scienza, perché senza memoria non ci sarebbe il progresso scientifico, e l’oggetto di arti magiche. Così in un altro studio internazionalmente noto, Clavis Universalis: arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz (1960), dove le tecniche della memoria rivelano il loro duplice volto, quello della cabala e quello della logica. E il tema della memoria sarà ancora al centro dei suoi studi vichiani e dei fortunati saggi di Il passato, la memoria, l’oblio (1991, Premio Viareggio 1992, Il Mulino).

Quella di Rossi è dunque una scienza vista dalla tecnica, e una magia vista dalla scienza, ma trattata senza supponenza positivistica. Prima di tutto perché la tentazione di un sapere per iniziati è vecchia quanto l’uomo, sicché guardando all’ermetismo si può trovare una vera e propria archeologia del sapere. E poi perché, come ha scritto nel Seicento Pierre Bayle (uno spirito affine a Rossi nell’enciclopedismo, nell’ironia, nella straordinaria curiosità e apertura intellettuale) non c’è setta filosofica che, per quanto sconfitta, non sia pronta a risorgere. Ed è con questo spirito che Paolo Rossi si è impegnato nel mostrare la tentazione del sapere ermetico nella modernità, per esempio nei saggi raccolti nel Paragone degli ingegni moderni e postmoderni (1989, nuova edizione ampliata 2009, Il Mulino), dove lo storico della scienza guarda all’irrazionale come a una costante con cui è necessario fare i conti, con gusto della provocazione intellettuale, ma anche con riguardo. Cioè come a un avversario a cui si deve l’onore delle armi.

15 Gennaio, 2012

Giulio Giorello sul copyleft: meglio hacker e pirati che burocrati e censori

by gabriella

«Le idee degli altri si intrecciano sin dall’origine alle nostre: le destano, le guidano, le precedono, le impongono», scriveva a metà del secolo XIX Carlo Cattaneo, e proprio questa è la «potenza delle menti associate»: nella scienza, ma anche nell’arte e nella tecnologia. Chi è mai l’autore del calcolo infinitesimale o del principio di conservazione dell’energia? E, come sottolineano Michele Boldrin e David Levine (Against Intellectual Monopoly, n.d.r.), lo stesso vale per le varie «tele-cose» (per esempio, il telegrafo, il telefono, «il telegrafo senza filo», cioè la radio, e la televisione) che hanno profondamente cambiato il nostro modo di vivere: quando si è poi dato a qualche conquista un nome, si è trattato spesso non di colui che aveva fornito il contributo maggiore, «ma di chi aveva l’istinto più acuto per il gioco del monopolio».

Un’ostinata difesa del controllo del «consumo» di una qualche idea non va necessariamente nella direzione della crescita scientifica ed economica. Anzi, è stata spesso la pirateria delle idee, sorella di quella delle navi, ad abbattere la vecchia censura statale ed ecclesiastica e ad aprire la strada all’innovazione. Le colonie del Nord America, e poi i neonati Stati Uniti, potevano riprodurre i libri editi nella madrepatria senza tener conto delle pretese di autori e stampatori, per non dire della libera traduzione di opere pubblicate in lingue diverse dall’inglese: un’assenza di vincoli che Benjamin Franklin, politico e inventore, definiva «una virtù inestimabile» per la nascente nazione americana. Oggi sarebbe considerato un hacker, se non pericoloso come Assange.

La tendenza, oggi globale, a rinforzare il copyright si basa su un equivoco di fondo, come ha scritto John Perry Barlow (autodefinitosi «seccatore elettronico ed ex allevatore di bestiame»): «Se rubo il vostro cavallo, non potete più cavalcare; ma se rubo la vostra informazione, voi ce l’avrete ancora». Farebbe sorridere chi rivendicasse in nome di Einstein la proprietà intellettuale di qualche formula della relatività.

Per farmaci, musica e film le cose vanno però diversamente. Se compro un cd e poi lo riproduco, magari per il piacere degli amici, sono già un fuorilegge — e negli Usa rischio di trovarmi i federali in casa! Come ha scritto Lawrence Lessig, è un’ossessione «tanto squilibrata da motivare misure drastiche anche quando il bene su cui viene assegnato un diritto di proprietà è qualcosa che nessuno ha individualmente creato». E siamo poi così convinti che la fatica e l’interesse economico degli autori siano efficacemente «tutelati» da formule burocratiche? Il primo emendamento della Costituzione Usa dichiara che «il Congresso non farà mai alcuna legge che limiti la libertà d’espressione». Le legislazioni europee non sono sempre altrettanto nette; ma non dovremmo esigere, come voleva Spinoza, che uno Stato sia innanzitutto il garante della libertà dei singoli individui? O con Milton, che le buone idee possano essere legalmente vendute senza che nessuna burocrazia le tormenti «con dazi e gabelle»?

Non si tratta, ovviamente, di abolire con un colpo di spugna la proprietà intellettuale (il titolo del libro di Boldrin e Levine non inganni; tra l’altro l’editore in quarta pagina esibisce il suo copyright), ma di proporre modalità che garantiscano chi lavora nella stampa o nella rete e al tempo stesso impediscano che, sotto il pretesto della proprietà intellettuale, si favoriscano monopoli che inevitabilmente bloccherebbero lo stesso dibattito delle idee.

Anzitutto il proprietario di un qualsiasi copyright non dovrebbe usare gli strumenti di protezione dei suoi legittimi interessi per controllare gli impieghi del suo «prodotto» una volta che sia stato legalmente comprato da altri. Certo, è materia che va regolata caso per caso con sobrio empirismo, secondo la logica del contratto privato e non secondo quella di un pervasivo controllo dello Stato. E in un momento come questo, in cui è forte la tentazione di «normalizzare» la rete trasformandola da forum aperto di discussione a succursale «ad alta velocità» della ormai «vecchia» televisione, e spesso si confondono il ruolo del politico con quello del manager privato di una grande compagnia (il nostro Paese lo sa bene), mi sembra più interessante rischiare l’accusa di pirateria, mettendosi dalla parte di Franklin, che finire come quei monopolisti cinesi che sotto la dinastia Ming vedevano nelle esplorazioni condotte dai loro più audaci navigatori una minaccia alla «società» (ovvero alla brama di controllare il commercio), fino a ottenere che l’autorità imperiale le vietasse del tutto. Il motto dei Ming pare fosse «mantenere la rotta». Il nostro, invece, è: meglio pirati o hacker che questo o quel Grande Timoniere.

http://lettura.corriere.it/copyright-e-copyleft/

15 Gennaio, 2012

Salvio Intravaia, La dispersione e l’insuccesso scolastico oggi

by gabriella

Nelle statistiche vanno sotto le voci di dispersione e insuccesso: ma il fenomeno sta diventando un vero allarme per la scuola italiana. I numeri negli anni crescono, e il ministero pensa a organizzare azioni di recupero [aggiornamento del del 15 novembre: “pensa di organizzare azioni di recupero tagliando i fondi per il miglioramento dell’offerta formativa” (ddl. stabilità), cioè quei fondi utilizzati dalle scuole per organizzare corsi di recupero e attività di rimotivazione allo studio.

13/01/2012
la Repubblica

La lotta alla dispersione scolastica sarà una delle 10 priorità del governo Monti per la scuola. Lo ha assicurato il ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo, illustrando le linee guida del suo dicastero in commissione Cultura alla Camera. Il “recupero delle aree scolastiche più compromesse” attraverso “interventi specifici di rafforzamento delle conoscenze e competenze irrinunciabili, ai fini della riduzione dell’insuccesso formativo, della dispersione e dell’abbandono scolastico”, è considerato uno degli obiettivi strategici per rafforzare il sistema di istruzione nazionale.

Per evitare fughe premature dalle scuole di ogni ordine e grado, che consegnano al mondo del lavoro giovani con scarse capacità di imporsi per i bassi livelli di istruzione  –  al massimo il diploma di terza media e non più in formazione, come avviene per i Neet  -, si può pensare “all’apertura delle scuole per tutto l’arco della giornata e al supporto di personale esperto, attuati in sinergia con il ministero della Coesione territoriale per l’immediato recupero della capacità di spesa delle regioni meridionali più carenti”.

Ma cosa si intende per dispersione e insuccesso? E quali sono i numeri che le descrivono? Ogni anno sono oltre 400 mila gli studenti della scuola secondaria che vanno incontro ad una bocciatura, abbandonano i banchi di scuola facendo perdere le proprie tracce o non vengono neppure scrutinati per le troppe assenze. L’ultima rilevazione sulla dispersione effettuata dal ministero, allora della Pubblica istruzione, risale all’anno scolastico 2004/2005. Da allora, il silenzio più assoluto. E oggi? La dispersione scolastica complessiva  –  somma di bocciati e abbandoni  –  si è addirittura incrementata. Sei anni fa, alla media si contava il 2,7 per cento di bocciati e l’11,4 per cento al superiore. Il tasso di abbandono era pari allo 0,2 per cento alla media e all’1,5 al superiore. In totale, tra abbandoni “non formalizzati” e bocciature si contavano 2,9 “dispersi” su cento alunni alla media e 12,9 “dispersi”, sempre su cento, al superiore.

Nel 2011, la situazione si è aggravata: alla media la sola quota di bocciati sale al 4,6 per cento e al 12,7 per cento al superiore. Ma occorre sommare la quota di non scrutinati, e quindi bocciati, per le troppe assenze che nel 2004/2005 venivano contabilizzati fra i bocciati: 0,7 per cento alla media e 1,3 per cento al superiore. Se si aggiungono gli abbandoni “senza lasciare traccia”  –  0,2 per cento alla scuola media e 0,9 al superiore  –  la dispersione sale al 5,5 per cento alla media e al 14,9 al superiore: e sono 434mila studenti. L’allarme del ministro è più che appropriato.

15 Gennaio, 2012

Armando Massarenti, Bevanda al gusto di latte macchiato

by gabriella

Pensate a un pianeta identico al nostro in ogni aspetto, tranne per il fatto che al posto dell’acqua c’è un composto chimico che non è H2O ma, poniamo, XYZ. Tra le due «acque», in realtà, dal punto di vista macroscopico, non vi è alcuna differenza. Entrambe sono liquide, trasparenti, ci si può nuotare dentro. Solo un’analisi chimica accurata svolta da un esperto può appurare che sono sostanze diverse. Per il resto, lassù c’è un tipo identico a noi che per esempio dice al suo bambino (identico al nostro): «Puoi berla. E potabile».

E’ il celebre esperimento menatle condotto dal filosofo Hilary Putnam per rispondere alla domanda: i due gemelli, quando dicono «acqua» nei rispettivi pianeti, si riferiscono alla stessa cosa o a due cose diverse? La risposta di Putnam, di tipo realistico, è che si tratta di due cose distinte: un gemello si riferisce ad H2O, l’altro a XYZ, anche se nessuno dei due è in grado di percepire la differenza.

Non tirerei in ballo problemi difficili come questi del «realismo» e del «riferimento» se non me li trovassi di fronte ogni volta che vado a prendere il caffé in una di quelle classiche macchinette aziendali. Introdotte le monetine, si deve scegliere tra diverse opzioni, disposte in due file di pulsanti. Nella prima c’è scritto:  CAFFE’ ESPRESSO, CAPPUCCINO, CAFFE’ LUNGO, eccetera. Dunque è chiaro, se pigio CAFFE’ ESPRESSO uscirà un caffè espresso.

La seconda fila  presenta le cose in modo sottilmente diverso. Vi è una scritta più piccola che dice «Bevanda al gusto di» seguita, in grande, da TE’ AL LIMONE, CIOCCOLATO, fino all’inquietante Bevanda al gusto di LATTE MACCHIATO. Se non ci fosse la scritta piccola saremmo esattamente nella situazione delle «terre gemelle». Sorseggeremmo il nostro thé al limone senza sapere che in realtà si tratta di una «Bevanda al gusto di thé al limone» (qualunque cosa di nasconda dietro qusta vaghissima definizione). A partire da quella scritta invece, ci bastano pochi semplici passaggi logici per immaginarci nella scena chiave del celeberrimo film Matrix, quando Morpheus ci dice: «Benvenuti nel mondo reale».

A. Massarenti, Il lancio del nano, Milano, IlSole24Ore, 2007, pp. 17-18.


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