Archive for Giugno, 2012

28 Giugno, 2012

Gustavo Zagrebelsky, Il crocefisso

by gabriella

Nei primi tempi, i tempi della clandestinità, non esisteva un simbolo dei cristiani, per così dire, ufficiale. Il più diffuso era il pesce, ma ci si riconosceva anche in altri segni, come l’ancora, la palma, la corona, l’albero (della vita), il vitigno, la nave, l’aratro, il pane, la fonte d’acqua viva, l’araba fenice. La croce era assente o, forse, dissimulata con ritegno.

Come simbolo cosmogonico di religioni pagane e come strumento di tortura e di esecuzione capitale riservato agli schiavi ribelli e fuggitivi, proveniva da mondi non solo distanti, ma ostili alla nuova religione e testimoniava dell’inimicizia romana nei confronti del fondatore e dei suoi seguaci. Solo con l’avvicinamento e poi l’alleanza tra la nuova religione e l’impero nel IV secolo (il sogno di Costantino e la croce sulle armi dei suoi soldati; l’abolizione di quel tipo di patibolo da parte di Teodosio), il simbolo cristiano per eccellenza fa la sua comparsa nell’iconografia e, da simbolo di persecuzioni e umiliazioni subite, diventa simbolo di vittoria sul mondo.

La croce, all’inizio, è nuda; il Cristo crocefisso non compare. Quando inizia a essere rappresentato, a partire dal V secolo, è raffigurato come il vivente per eccellenza, nella veste di Christus triumphans, con gli occhi aperti, lo sguardo diritto sul mondo e il volto glorioso nell’adempimento delle profezie. Era il simbolo di vittoria sulla sua morte e sui suoi persecutori e quindi, anche, di potenza mondana. A partire dal XII secolo, in concomitanza con l’assunzione di politiche aggressive di potenza da parte del mondo cristiano nei confronti degli “infedeli”, gli ebrei “deicidi” e i “mori” che dominavano in Terrasanta, l’aspetto del Cristo in croce cambia radicalmente e diventa il Christus patiens, col corpo ripiegato, il corpo contratto dalle sofferenze o irrigidito nella morte, un corpo che è in se stesso un’accusa e che sembra cedere giustihizia, cioè, in breve, vendetta. È questo il volto del Cristo sotto il quale saranno arruolati i crociati…Ancora questo era il Cristo in nome del quale i re cristiano conducevano guerre tra di loro e convertivano o sterminavano le popolazioni indigene al seguito dei colonizzatori europei.

Espressione di aggressività popolana era il crocifisso che il prete fanatico portava in processione alla testa delle spedizioni punitive – i pogrom contro gli ebrei – negli shtetls dell’Europa centrale, come sono rappresentati nella Crocifissione bianca di Marc Chagall, dove all’ombra della croce bruciano villaggi. […]. Da simbolo di trionfo a simbolo di vendetta…a simbolo passivo, perché chiunque può fargli dire quello che vuole, come se fosse una marionetta…Dopo essere stato così secolarizzato, laicizzato, sociologicizzato, per poterlo comunque appendere nelle aule delle scuole e dei tribunali, lo si è addirittura zittito: simbolo muto che non simbolizza nulla, e quindi “inoffensivo” perché morto. Così ha stabilito la più alta giurisdizione europea dei diritti, precisando che non può perciò “indottrinare” nessuno.

È stupefacente che il mondo cattolico, nelle sue istanze gerarchiche superiori, abbia gioito di questa sentenza, invece di considerarla oltraggiosa nei confronti del proprio segno più caro, nel quale è concentrata l’essenza della propria fede e del proprio messaggio…Il Cristo in croce resta dov’è, testimone esanime d’una controversia che ormai non lo riguarda, o meglio lo riguarda strumentalmente, come blasfema posta in gioco in una contesa apparentemente di simbologia religiosa, in realtà di puro potere.

Gustavo Zagrebelsky, Simboli al potere (2012, pp. 29-30).

Gesù, il Grande Inquisitore e l’economia esoterica

23 Giugno, 2012

Paul Veyne, Comment écrit-on l’histoire?

by gabriella

Scarteremo le verità universali (l’uomo è sessuato,
il cielo è blu), perché l’evento è differenza
E’ storico ciò che non è universale e ciò che non è individuale.
Perché non sia universale bisogna che ci sia differenza, bisogna che sia specifico, che sia compreso, che rinvii ad un intreccio.

Paul Veyne, Comment on écrit l’histoire?

Si tout ce qui est arrivé est également digne de l’histoire, celle-ci ne devient-elle pas un chaos? Comment un fait y serait-il plus important qu’un autre? Comment tout ne se réduit-il pas à une grisaille d’événements singuliers?
La vie d’un paysan nivernais vaudrait celle de Louis XIV; ce bruit de klaxons qui monte en ce moment de l’avenue vaudrait une guerre mondiale… Peut-on échapper à l’interrogation historiste ? Il faut qu’il y ait un choix en histoire, pour échapper à l’éparpillement en singularités et à une indifférence où tout se
vaut.

La réponse est double. D’abord l’histoire ne s’intéresse pas à la singularité des événements individuels, mais à leur spécificité (…) ; ensuite les faits, comme on va voir, n’existent pas comme autant de grains de sable. L’histoire n’est pas un déterminisme atomique: elle se déroule dans notre monde, où effectivement une guerre mondiale a plus d’importance qu’un concert de klaxons; à moins que – tout est possible – ce concert ne déclenche lui-même une guerre mondiale; car les « faits » n’existent pas à l’état isolé: l’historien les trouve tout organisés en ensembles où ils jouent le rôle de causes, fins, occasions, hasards, prétextes, etc. Notre propre existence, après tout, ne nous apparaît pas comme une grisaille d’incidents atomiques; elle a d’emblée un sens, nous la comprenons ; pourquoi la situation de l’historien serait-elle plus kafkéenne ? L’histoire est faite de la même substance que la vie de chacun de nous.

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23 Giugno, 2012

Emiliano Brancaccio, Deglobalizzare per evitare la “mezzogiornificazione” del sud Europa

by gabriella

In questa interessante intervista, Emiliano Brancaccio (professore di Economia all’Università del Sannio) esamina le previsioni estive di crollo dell’euro e le ipotesi d’uscita dalla grande recessione. A suo avviso, l’unico modo per evitare la “mezzogiornificazione” del sud Europa è proteggere gli asset produttivi locali e frenare la libera circolazione di merci e capitali, cioè deglobalizzare come stanno già facendo Argentina, Usa, Brasile, Cina e Russia.

Prima dell’intervista, un intervento di Brancaccio ad Omnibus del novembre 2011.

DOMANDA. Nonostante le elezioni in Grecia, che si ritenevano fondamentali per il futuro della zona euro, siano state vinte dai conservatori di Nuova Democrazia, gli attacchi speculativi ai titoli di stato continuano. A quanto pare, dunque, a rendere traballante l’euro non sono la sinistra radicale o i movimenti di protesta, bensì una fragilità sistemica interna. Non è così?

RISPOSTA: Lo sviluppo dei movimenti di protesta può accelerare la crisi della zona euro, ma le determinanti di questa crisi dipendono dai conflitti tra capitali europei e dalle tensioni che questi provocano sulla tenuta dell’Unione monetaria europea. Come più volte la signora Merkel ci ha ricordato, l’Unione è stata edificata su basi competitive. Il fondamento dei Trattati europei non è certo la solidarietà tra i popoli, ma la concorrenza tra capitali. Nel corso degli anni tale concorrenza è andata accentuandosi, e ha provocato una crescita degli squilibri nei rapporti commerciali tra paesi europei. La Germania, in particolare, ha accumulato surplus commerciali verso l’estero, vale a dire eccessi sistematici di esportazioni sulle importazioni. Di converso, l’Italia e gli altri paesi periferici dell’Unione hanno accumulato deficit commerciali, cioè eccessi di importazioni sulle esportazioni.  Questi squilibri hanno determinato un accumulo di crediti verso l’estero da parte della Germania e una corrispondente crescita dei debiti verso l’estero da parte dei paesi periferici dell’Unione. Debiti, è bene ricordarlo, sia pubblici che privati. Prima del 2008 la crescita economica mondiale trainata dalla finanza statunitense rendeva questi squilibri tollerabili. Ma da quando il regime di accumulazione globale trainato da Wall Street è entrato in crisi, le divaricazioni interne all’Unione monetaria europea si sono rivelate insostenibili. E le politiche restrittive che sono state finora adottate non hanno contribuito ad attenuare le divaricazioni. Anzi, in alcuni casi le hanno accentuate.

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22 Giugno, 2012

Marcel Hénaff, Il prezzo della verità

by gabriella

La recensione di Beniamino Fortis a Marcel Hénaff, Il prezzo della verità. Il dono il denaro, la filosofia, Città Aperta, 2007.

Quel che conta non ha prezzo [per tutto il resto c’è Master Card …]

Se vi sia ancora spazio, nell’epoca del pieno dispiegamento della logica commerciale, per un ambito sottratto alle valutazioni mercantili è questione che assume un ruolo preponderante nell’ambito delle tematiche trattate da Marcel Hénaff. Da essa prende le mosse il percorso che le attraversa, e ad essa è riconducibile la sostanziale continuità tra i tre nuclei problematici che, dell’intera opera, scandiscono e orientano lo sviluppo. Figure della venalità, L’universo del dono, La giustizia nello scambio e lo spazio mercantile, sono infatti le tre tappe, i tre quadri concettuali, susseguentisi nella stretta relazione che nell’ultima parola dell’uno, riconosce contemporaneamente il primo atto del successivo. Nel risultato ultimo, conseguito nell’ambito di un piano tematico, il presupposto, a partire dal quale è consentito lo sviluppo della trattazione seguente.

Oggetto della prima parte dell’opera è la delineazione del concetto di venalità. Una ricostruzione della critica rivolta da Platone e Aristotele contro i sofisti individua il tratto saliente della polemica nell’indignazione provata dinanzi alla circostanza, per la quale era consuetudine dei maestri di sofistica esigere un onorario in cambio dei servigi offerti. Nella fattispecie, appare scandalosa l’indebita istituzione di un rapporto fra ciò che, per sua stessa natura, risulta essenzialmente incomponibile: «La scienza e il denaro non si misurano con lo stesso metro» (Aristotele, Etica Eudemia, VII, 10, 1243b).

Sulla base di tale irriducibile incommensurabilità, le conclusioni che si traggono conducono al più profondo discredito per i sofisti – che quindi, non possono in alcun modo essere quei maestri di autentico sapere per i quali si spacciano, poiché, se veramente così fosse, nessun compenso potrebbe, in tal caso, risultare adeguato. È il fatto che gli insegnamenti sofistici siano – in certo qual modo – misurabili – che a essi, cioè, sia possibile dare un prezzo – a evidenziarne la radicale estraneità rispetto all’autentica saggezza della filosofia.

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22 Giugno, 2012

Mario Perniola, Il senso, la fine, l’infimo inizio

by gabriella

L’infimo è l’impercettibile inizio del movimento, il primo segno visibile di ciò che è fausto. L’uomo di valore non appena vede l’infimo passa all’azione, senza attendere la fine della giornata.

Confucio

Un rapporto complesso e problematico lega l’idea della fine a quella del senso. Forse nessuno meglio di Kant ha colto nello scritto La fine di tutte le cose (1794) tale rapporto. In particolare, colpisce l’idea che non si possa cogliere il senso di checchessia se non pensando alla sua fine: il momento diacronico e storico risulterebbe inseparabile da quello estetico e teleologico. In un’altra opera Kant scrive:

Infine deve pur cadere il sipario. Perché alla lunga diverrebbe una farsa; e se gli attori non se ne stancano perché sono pazzi se ne stanca lo spettatore, che a un atto o all’altro finisce per averne abbastanza se ha ragione di presumere che l’opera, non giungendo  mai alla fine, sia eternamente la stessa.

Questa connessione tra il senso e la fine circola ampiamente nella filosofia tra Ottocento e Novecento. Secondo Hegel, la filosofia è come la nottola, che spiega il suo volo al tramonto: esiste un’astuzia della ragione, che dissimula il vero significato degli eventi sotto motivazioni che nulla hanno che fare con questi. Per Dilthey, la vita non è qualcosa il cui significato possa essere colto immediatamente: l’essenziale, a suo avviso, non è la vita naturale ed empirica, ma l’Erlebnis, l’esperienza vissuta o meglio rivissuta. La forma più alta dell’intendere è il rivivere: solo attraverso di esso noi possiamo sottrarre il presente alla scomparsa e trasformarlo in una presenza sempre disponibile. Il compito svolto dal poeta e dallo storico è perciò di estrema importanza: solo essi infatti possono carpire alla caducità, all’oblio e alla morte il mondo umano conferendogli per sempre un senso.

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21 Giugno, 2012

Gianluca Bonaiuti, Crisi e catastrofe

by gabriella
L’ultima chance per un futuro

Non c’è mai stata un’epoca che non si sia sentita, nel senso eccentrico del termine, ‘moderna’ e non abbia creduto di essere immediatamente davanti ad un abisso. La lucida coscienza disperata di stare nel mezzo di una crisi decisiva è qualcosa di cronico nell’umanità.

Così Benjamin, in un frangente decisivo della storia del XX secolo.

A distanza di quasi un secolo dalla stesura di questa annotazione, verrebbe quasi da dire che non se ne può più di sentir parlare di crisi. Non solo nel senso che non se ne può più delle conseguenze che ad essa si addebitano in termini di effetti politici e sociali, ma perfino del fatto che in fondo, a ben vedere, sembra quasi che quello di «crisi» sia più un concetto di copertura, o di rimozione, che non un concetto di svelamento, grazie al quale, cioè, sia possibile rendere visibile qualcosa che prima non si vedeva.

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18 Giugno, 2012

Mauro Boarelli, L’inganno della meritocrazia

by gabriella

Finiti gli scrutini, quest’anno gli insegnanti hanno già toccato con mano gli esiti “autoselezionanti” della “riforma”. Curricoli scardinati, anticipazioni scriteriate di contenuti (dovute alla cancellazione del binomio biennio+triennio e alla sua sostituzione con la formula biennio+biennio+monoennio dove ad ogni passaggio si cambia materia e si procede con metodo storico), affollamento delle classi, inesistenza del sostegno, mancanza degli strumenti di lavoro (dalla LIM ai pc, ai proiettori ..) hanno prodotto medie altissime di ragazzi respinti e rinviati a settembre. Che non sia semplicemente un anno sfortunato lo si capisce poi agli esami di stato (di cui oggi si sono insediate le commissioni), dove ci si confronta con colleghi di altre scuole e si trova conferma di questa impennata di insuccessi attesi a cui la scuola guarda impotente o distratta.

Rileggiamoci allora l’articolo di Boarelli sul merito vah, che ci fa bene.

Marco Boarelli, L’inganno della meritocrazia

La meritocrazia è sulla bocca di tutti, a destra come a sinistra. In una società come quella italiana, dove l’assenza di “merito” incancrenisce ogni articolazione della vita sociale e svilisce aspirazioni, competenze, passioni e idee, quale cittadino – indipendentemente dalle idee politiche professate – potrebbe essere pregiudizialmente ostile verso questo termine? Eppure è un termine ambiguo. Muta di senso a seconda di chi lo usa, ma al tempo stesso custodisce un insieme di significati non negoziabili che dovrebbero indurre a maneggiarlo con prudenza. Come ogni parola, anche questa non è neutrale. Va interrogata alla ricerca del senso profondo e delle sue implicazioni.

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16 Giugno, 2012

Alberto Bagnai, L’omodossia dei mercati spiegata da Voltaire

by gabriella

In questo delizioso saggio voltairiano di teoria della crisi, Bagnai-Candide spiega la grande recessione. 

L’obscurité n’est pas un défaut quand on parle à des bons jeunes gens avides de savoir, et surtout de paraître savoir.

L’oscurità non è un difetto quando si parla con dei bravi ragazzi
avidi di sapere, e soprattuto di sapere apparente.

Stendhal, Promenades dans Rome, 17 mars 1828.

1. Introduzione

Accolgo con vivo piacere l’invito a contribuire a questo numero dedicato al governo del sistema monetario europeo e internazionale. Se posso permettermi un po’ di leggerezza, mi solleva il fatto che qualcuno sia ancora interessato a raccogliere le opinioni di un economista, in un periodo nel quale la scienza economica è particolarmente discreditata per non aver saputo prevedere lo scoppio della crisi, e per non averne saputo scongiurare le conseguenze. Non credo che questi rilievi siano del tutto corretti: esempi illustri di analisi “profetiche” non mancano. Ammetto però che da qualche tempo gli scambi più proficui su questo tema mi capita di averli con studiosi esterni alla mia professione: storici,  geografi, giuristi. Questo dipende in parte dal mio percorso, che mi rende insofferente verso l’omodossia economica (non chiamerei “ortodossia” il cosiddetto pensiero mainstream, che è certamente unanime – omos – ma, visti i risultati, probabilmente non del tutto corretto – orthos). I benefici di questi scambi interdisciplinari dipendono però soprattutto dal fatto che essi costringono a riorganizzare le proprie categorie, a cercare nuove strade di trasmissione del proprio sapere “tecnico”, a reagire a stimoli imprevisti. Un esercizio utilissimo, da compiere con umiltà e con quel senso di responsabilità che deriva dal costituirsi rappresentante della categoria verso un mondo “esterno”. Il che obbliga a porsi due domande ben precise: in che modo posso aiutare la riflessione dei colleghi che hanno seguito altri percorsi (e farmi aiutare nella mia)? E in che modo posso fornire loro una rappresentazione critica ma non distorta dei risultati e delle aporie della mia disciplina?

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16 Giugno, 2012

Sandro Chignola, Il compito della scuola: insegnare a decostruire le forme doxastiche

by gabriella
Il sostegno di Foucault e Sartre agli studenti durante il maggio 68

Il sostegno di Foucault e Sartre agli studenti durante il maggio 68

Sandro Chignola, filosofo veronese, studioso del pensiero di Michel Foucault e curatore di Governare la vita. Un seminario sui Corsi di Michel Foucault al Collège de France (1977-1979) (Ombre corte, Verona 2006, pp. 154, 13 euro) ci aiuta a dissipare il rumore mediatico che avvolge in questi giorni la proposta di legge Profumo, attraverso un’analisi serrata del ruolo della scuola pubblica nella società italiana contemporanea e della funzione svolta dall’ideologia del merito nei progetti nei progetti di riorganizzazione dell’ultimo ventennio. Intervista curata da Marco Ambra.

Marco Ambra: Partiamo proprio dai processi di riorganizzazione della scuola in corso dagli anni ’90. Lei li ha descritti nei termini di una ristrutturazione secondo l’ideologia del new public management: la graduale privatizzazione della scuola pubblica, l’implementazione di una tecnologia didattica delle competenze, il coinvolgimento di tutti gli shareholders (genitori, studenti, funzionari pubblici, dirigenti) nella valutazione dell’attività didattica, anche attraverso strumenti di misurazione statistico-quantitativa (come le prove INVALSI). In che modo questi punti-guida dell’azione riorganizzatrice della scuola pubblica creano uno spazio nel quale può inserirsi quello che Foucault, nella Nascita della biopolitica, rileva come uno dei dispositivi più efficaci del neoliberismo: l’idea di un individuo imprenditore di sé, ontologicamente primo rispetto alla società nella quale agisce? In che senso questa riorganizzazione è sostenuta da un’episteme pedagogica espressione della didattica delle competenze?

Sandro Chignola:
Il fatto che io mi riferisca a Sicurezza, territorio e popolazione e alla Nascita della biopolitica per decostruire gli interventi di riforma che si sono abbattuti sulla scuola pubblica a partire dagli anni ’90 è qualcosa che in qualche modo Foucault stesso auspicava quando ribadisce, nelle interviste, di pensare alla propria opera come ad una cassetta degli attrezzi. L’opera foucaultiana non è una disciplina o un pensiero chiuso nella propria coerenza, quanto piuttosto una «freccia scagliata al cuore del presente» (Habermas), un repertorio di argomenti, mosse, analisi che potevano e possono essere proseguite. C’è una serie di conferenze di Foucault attorno alla metà degli anni ’70 in cui dice di avere pensato a tutti i suoi libri come a gallerie di miniere che dovevano crollare, come fuochi d’artificio o addirittura molotov: qualcosa che si consuma nel momento in cui l’analisi produce il proprio effetto. Ora, i due corsi che ho citato all’inizio sono straordinari per le cose che metti a tema nella domanda. Soprattutto per quello che la Nascita della biopolitica dice rispetto alla relazione tra governamentalità e neoliberismo.

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16 Giugno, 2012

Massimo Recalcati, L’evaporazione del padre nella scuola “senza Legge”

by gabriella

Nel 2004 il liceo Parini di Milano fu letteralmente devastato da un’occupazione che lo rese inagibile per alcuni mesi. Riconosciuti i responsabili, il preside, insieme al corpo docente, decise di non adottare alcun intervento disciplinare contro i ragazzi responsabili della devastazione. Per iniziare la nostra conversazione le chiedo di commentare, riferito a questo caso particolare, il giudizio di Roberta De Monticelli: “la sostanziale impunità fa male, tanto a chi ne fruisce quanto alla comunità. [Questi ragazzi hanno così ricevuto] una supplementare cura di inconsapevolezza […] [perché sono stati] privati del senso delle conseguenze delle proprie azioni, che è un costituente essenziale della libertà[1].

La Legge, per come la pensa la psicoanalisi, vale a dire la legge simbolica, che è la legge della castrazione, si manifesta attraverso l’introduzione dell’impossibile. La Legge segnala l’esistenza di una soglia, di un limite che è impossibile valicare, riprendendo per altro una tradizione che sta all’origine dei testi biblici. E tuttavia, a differenza dei testi biblici, questo impossibile non si chiama Eden, ma incesto. Cosa significa? Significa che è impossibile per l’uomo fare esperienza di un godimento illimitato, che è il godimento della cosa materna. Questo godimento senza limiti è interdetto dalla Legge, la cui funzione è precisamente quella di introdurre il senso del limite come elemento costitutivo dell’esperienza umana. Nello stesso tempo, questo impossibile è ciò che paradossalmente apre la possibilità stessa del desiderio.

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