Tzvetan Todorov, Sul buono e cattivo uso della natura umana

by gabriella

Tzvetan, Todorov (1939 – 2017)

L’ultima riflessione di Tzvetan Todorov, uscita postuma su Micromega (3/2007).

Il saggio, dedicato alla ‘natura umana’, illustra le opposte radicalizzazioni di Montaigne [‘tutto è cultura’] e Diderot [‘tutto è natura’] dalla prospettiva rousseauiana che l’autore riafferma.

Se per Montaigne “tutto è cultura” e per Diderot “tutto è natura”, l’approccio di Rousseau è infatti differente: non rinuncia all’universalismo e a una sua fondazione come Montaigne per cui non vi è natura ma solo cultura e consuetudine; né cerca, come Diderot, di fondare la natura umana e la sua universalità sul fatto, ma assume la “socialità” della natura umana come fondamento della moralità (Gianfranco Marini).

Ai giorni nostri si ha qualche ripugnanza a riferirsi alla «natura umana». Questa espressione sembra aver partecipato al naufragio generale delle pompose astrazioni ereditate dal passato. E se lo stesso naufragio appartenesse a tali astrazioni? Il nostro vocabolario odierno non è meno pomposo di quello dei nostri predecessori; ma, ammaliati dalla novità delle formule, stentiamo a giudicarle con serenità. In luogo della natura e dell’uomo compaiono però vocaboli che non vogliono necessariamente dire altro né sono generalizzazioni più felici.

Vorrei trarre vantaggio da ciò che si ritiene essere un difetto: parlerò del presente servendomi di parole passate, proprio perché le percepiamo come parole, e ne diffidiamo. Il dibattito sulla «natura umana» non si è spento, tutt’altro; ma si ha maggiore difficoltà a raccapezzarsi quando si usano denominazioni che non siano ancora divenute degli stereotipi. Per illustrare alcuni dei principali atteggiamenti riguardo a tale problema, leggerò dunque tre autori antichi, Montaigne, Diderot e Rousseau.

 

Una maestra violenta

Michel Eyquem de Montaigne (1533 – 1592)

Un primo atteggiamento nei confronti della «natura umana», assai diffuso, consiste proprio nel negarne l’esistenza e nell’affermare invece che «tutto è cultura». Questa posizione trova in Montaigne un eloquente difensore. Egli colloca la negazione su due piani: quello dell’essere umano in generale e quello di ciascuna persona in particolare. Qui mi atterrò al primo, tenendo conto che in luogo di «cultura» Montaigne parla di «consuetudine».

Il saggio Della consuetudine è dedicato alla natura umana in generale. Alcune sue frasi esprimono una posizione prudente, per esempio:

«L’usanza ci nasconde il vero volto delle cose».

La consuetudine non è che una maschera e le cose hanno certo un vero volto; solo che questa maschera è onnipresente e non è per niente facile sbarazzarsene.

Il costume, come un tiranno scaltro, ha imprigionato i nostri sensi e il nostro giudizio, che dovevano per l’appunto aiutare a liberarci da esso:

«L’abitudine ottunde i nostri sensi», «l’assuefazione [dunque ancora l’abitudine] indebolisce la vista del nostro giudizio» (1).

Il costume è solo un ospite ma un ospite irascibile di cui non ci si riesce a liberare. Oppure, secondo la metafora di Montaigne:

«La consuetudine è in verità una maestra di scuola prepotente e traditrice. Essa ci mette addosso a poco a poco, senza parere, il piede della sua autorità; ma da questo dolce e umile inizio, rafforzato e ben piantato che l’ha con l’aiuto del tempo, essa ci rivela in breve un volto furioso e tirannico di fronte al quale non abbiamo neppure più la libertà di alzare gli occhi» (2).

La scoperta della natura dei fenomeni, del «vero volto delle cose», si rivela più problematico di quanto sembrava a prima vista. Dove trovare un punto di appoggio che consenta di sollevare il giogo, se i nostri occhi ci riportano come vere cose che sono solo pregiudizi, se il nostro spirito non riesce ad isolare la consuetudine come oggetto della sua riflessione poiché le regole stesse del suo procedere gli sono dettate proprio dalla consuetudine?

La ragione, in queste condizioni, non è che la serva della violenta padrona che abbiamo visto; lungi dall’essere capace di separare ciò che è costume da ciò che non lo è, essa ha la funzione di trovare delle giustificazioni plausibili per le consuetudini più varie, di fare apparire surrettiziamente come natura la mia cultura:

«Penso che non venga all’immaginazione umana alcuna fantasia tanto insensata che non trovi esempio in qualche pubblica usanza e di conseguenza che non sia sostenuta e appoggiata dalla nostra ragione […] per cui accade che quello che è fuori dai cardini delle consuetudini viene ritenuto fuori dei cardini della ragione; Dio sa quanto irragionevolmente, per lo più» (3).

La comparsa, qui, della parola «irragionevolmente» ci fa vacillare. Se è possibile qualificare come ragionevoli o irragionevoli degli atti, vuol dire che la ragione esiste ancora, indipendentemente dalle consuetudini. Insomma, Montaigne si continua a servire dello strumento che ha invece dichiarato inutilizzabile. Sembra difficile immaginare che non ne sia consapevole; ma allora, in che senso bisogna prendere l’affermazione dell’inesistenza della ragione? Nel suo senso più letterale, a voler giudicare dalla frase che segue poco dopo:

«Le leggi della coscienza, che noi diciamo nascere dalla natura, nascono dalla consuetudine; ciascuno, infatti, venerando intimamente le opinioni e gli usi approvati e accolti attorno a lui, non può disfarsene senza rimorso né conformarvisi senza soddisfazione».

La ragione naturale non può emergere dalla ragione consuetudinaria perché la natura, a riguardo, non esiste; non si può emancipare ciò che non è. L’uomo è interamente governato dall’abitudine e dall’interesse, non è capace di elevarsi al di sopra della sua condizione.

John Locke: Non esiste alcun consenso universale su cose (l’idea di Dio, le regole morali) che si ritengono innate

L’argomento su cui si appoggia Montaigne è quello di tutti gli empiristi: la diversità dell’esperienza vissuta.

Ma quanto viene confutato da questo argomento è una versione talmente estrema dell’idea di «natura umana» (o natura delle cose) che è difficile immaginare qualcuno che la possa sostenere: quella consistente nell’affermare che tale «natura» è direttamente osservabile, che le essenze coincidono con i fenomeni.

Una simile teoria equivarrebbe alla negazione pura e semplice dei dati sensoriali (la diversità degli individui, dei costumi, degli oggetti). È tuttavia possibile prendere in considerazione la diversità fenomenica e nondimeno affermare l’esistenza di regole comuni, di una identità astratta (vecchio dibattito di Kant contro gli empiristi). Lo stesso Montaigne, continuando a servirsi della ragione mentre la combatte, esibisce suo malgrado tale possibilità: per poter argomentare e farsi comprendere deve riferirsi ad uno modello assoluto che trascende le determinazioni spazio-temporali del soggetto parlante. Questa «ragione» qui è comune perlomeno a Montaigne e ai suoi lettori.

Blaise Pascal (1623 – 1662)

Ritroviamo le stesse aporie in Pascal, da questo punto di vista assai vicino a Montaigne. Crediamo che le nostre idee provengano dalla ragione naturale, afferma egli, mentre in realtà sono il prodotto della consuetudine:

«La consuetudine ci dà le prove più forti e maggiormente credute; essa fa inclinare l’automa, che trascina l’intelletto senza che questo ne sia consapevole. Chi ha provato che domani farà giorno e che noi moriremo? E che cosa c’è di più creduto? Dunque è la consuetudine a persuadercene» (4).

Vi sono evidentemente ben altre ragioni che l’abitudine a farci credere al ritorno del giorno e alla mortalità umana: sono i pregiudizi, certo, e però si riscontra che, in più, sono veraci. Ora, per Pascal noi non abbiamo altra natura che quella dataci dalla consuetudine:

«Ma che cos’è la natura? Perché mai la consuetudine non è naturale? Temo proprio che questa natura sia essa stessa soltanto una prima consuetudine, così come la consuetudine è una seconda natura» (5). E tuttavia, se tutto è consuetudine, che senso ha dire che la consuetudine è naturale?

Tornando a Montaigne: forte della rinuncia alla ricerca della natura delle cose sul piano conoscitivo, egli la traspone anche su quello dell’etica e del giudizio: non vi sarà, per lui, alcuna morale o politica che possa richiamarsi a principi più naturali di altri.

I giudizi proferiti dagli uomini divergono in tutto e per tutto, ma questo non preoccupa minimamente Montaigne:

«Io scuserei volentieri il nostro popolo di non aver altro modello né altra regola di perfezione che i propri costumi e usanze; poiché è vizio comune, non solo del volgo ma di quasi tutti gli uomini mirare alla maniera di vivere in cui sono nati e limitarsi ad essa» (6).

Montaigne sarebbe dunque il seguace di un determinismo integrale che non lascia agli esseri umani alcuna scelta, alcuna libertà; di conseguenza un’azione, una situazione, una istituzione non potrebbe in alcun modo essere qualificata superiore ad un’altra:

«I popoli allevati nella libertà e nell’autogoverno considerano ogni altra forma di governo mostruosa e contro natura. Quelli abituati alla monarchia fanno lo stesso» scrive in Della consuetudine (7).

Michel Eyquem de Montaigne (1533 – 1592)

Montaigne riferisce il fatto senza cercare di giudicarlo: la sua lunga esperienza gli ha insegnato che ogni giudizio è solo l’espressione dell’abitudine; di conseguenza niente gli consente di affermare che la libertà è una bene e che la sua assenza è un male; sostenere ciò sarebbe prova di etnocentrismo, equivarrebbe a fare apparire surrettiziamente l’abitudine come ragione universale.

Nell’Apologia di Raimondo Sebond (II, 12) Montaigne se la prende direttamente con i sostenitori del diritto naturale: a dargli retta, esso non esiste. Montaigne sembra basarsi su di un sillogismo ripreso dalla tradizione scettica. Premessa maggiore: «La verità deve avere un volto uniforme ed universale»; oppure «ciò che la natura ci ha veramente comandato, noi lo deriviamo senz’altro da un comune consenso». Premessa minore: «Niente più delle leggi è soggetto a continui rivolgimenti»; oppure «non vi è cosa in cui il mondo è tanto diverso che in fatto di consuetudini e leggi». Conclusione: le leggi non sono fondate sulla natura e sulla verità ma sulla tradizione e sull’arbitrio, «il nostro dovere ha soltanto regole fortuite»; «le leggi del nostro paese? Cioè questo mare fluttuante di opinioni di un popolo o di un principe…?».

Una tale deduzione è forse meno rigorosa di quanto appaia. Montaigne pare non voler riconoscere i due sensi della parola «legge»: la legge-regolarità e la legge-comandamento. «Non uccidere» non è evidentemente una legge nel primo senso della parola, poiché gli omicidi abbondano; ma potrebbe esserlo nel secondo senso, consentendo di giudicare un atto dovunque e sempre (competenza del diritto naturale).

Ma è soprattutto l’argomento scettico, secondo cui se una cosa non è presente universalmente non può essere vera (giusta), a non essere probante: l’ingiustizia, anch’essa, esiste; universale non sarà la presenza di atti (o leggi) giuste, ma la nostra stessa inclinazione a distinguere tra giusto e ingiusto. Una volta di più il prezzo di questo rifiuto è un empirismo radicale che non ammette l’esistenza di ciò che non si vede.

Scrive Montaigne:

«L’equità e la giustizia, se l’uomo ne conoscesse che avessero corpo ed essenza verace, non le porrebbe in relazione alla condizione dei costumi di questa o quella contrada; non sarebbe dalla fantasia dei persiani o degli indiani che la virtù riceverebbe la sua forma» (8).

In pagine simili si ha l’impressione che egli sia prigioniero di un radicalismo che lui stesso ha contribuito a diffondere e che lo blocca nell’alternativa del tutto o niente: poiché, con ogni evidenza, le tradizioni di un paese influenzano le sue leggi, la nozione stessa di una giustizia universale deve essere respinta! Ma perché questi due fattori, il diritto naturale e lo spirito di una nazione (per usare il vocabolario di Montesquieu) devono essere mutuamente esclusivi? Non sarebbe possibile vederli in interazione invece che in sostituzione? Non per Montaigne, poiché se non è «naturale» tutto, niente lo è.

 

Natura contro morale

Denis Diderot (1713 – 1784)

Rispetto a questo scetticismo negatore si profila un secondo uso della «natura umana», altrettanto diffuso, dove non solo si crede alla sua esistenza ma le si attribuisce un ruolo particolarmente importante. Il Supplemento al viaggio di Bougainville di Diderot illustrerà per noi questa seconda posizione.

Dietro l’apparenza di discussioni esotiche e dialoghi un po’ faceti, Diderot si confronta con un grave problema: quello dei fondamenti della morale, specialmente nel contesto di una presa di coscienza della pluralità delle civiltà e dunque dei valori morali.

Poiché le differenti società non hanno gli stessi principî come possiamo giudicarle? Una facile riposta consisterebbe nel considerare semplicemente che i miei valori sono i migliori del mondo, disprezzando gli altri; si tratterebbe di una combinazione del relativismo radicale alla Montaigne con un etnocentrismo ingenuo; ciascun popolo ha il diritto di giudicare come gli pare, anzi di credere che ciò sia la cosa migliore del mondo. Era, almeno sembra, l’opinione di uno degli interlocutori prima di venire a conoscenza dell’opera di Bougainville:

«Fino a quando non ho fatto questa lettura, ho pensato che non si stava da nessuna parte meglio che a casa propria; e credevo che questo valesse per ciascun abitante della terra; è un effetto naturale dell’attrazione esercitata dal suolo, legata alle comodità di cui si gode e che non si è affatto certi di ritrovare altrove».

Alla fine della conversazione, questa conclusione ricompare alla mente degli interlocutori:

«B: Imitiamo il buon cappellano, monaco in Francia e selvaggio a Tahiti. A: Occorre prendere l’abito del paese in cui si va e serbare quello del paese in cui si risiede».

Se il fondamento della morale stava effettivamente nella sottomissione ai costumi esistenti e nella beata ammirazione, il dibattito sarebbe finito lì. Ma questa non è precisamente l’idea di Diderot, così come ci viene comunicata nel Supplemento.

La seguente frase formula meglio il problema:

«Tu non giustificherai i costumi dell’Europa con quelli di Tahiti, né, di conseguenza, quelli di Tahiti con quelli del tuo paese: occorre trovare una regola più sicura; quale sarà questa regola?».

Non ci si deve astenere dal giudicare i costumi di un paese straniero, come dice il relativista; ma non si deve farlo comparando tutti i paesi al proprio, come farebbe l’etnocentrista; si deve trovare un ideale universale. Del resto, i termini di cui si serve Diderot per descrivere le due società, per lodare Tahiti e condannare l’Europa, sono portatori di giudizi e dunque implicano una fonte di valori.

Se esiste solo il diritto consuetudinario, esso non merita il nome di diritto. Ma come fare per trovare il modello assoluto? La risposta di Diderot, sorprendente, è:

«Fondando la morale sui rapporti eterni che sussistono tra gli uomini»; «ciò che costituisce l’uomo così come è […] deve fondare la morale a lui appropriata».

La risposta è sorprendente perché consiste nel fondare il diritto proprio con i fatti, nel regolare il dover-essere sull’essere, eliminando così il bisogno di ogni morale. Soltanto che, a differenza del credo relativista (o empirista, o storicista, o positivista…), quello di Diderot si riferisce a fatti ritenuti universali (la natura umana), e non più alla tale o talaltra società. Nondimeno, la comparsa del termine «morale» nelle frasi precedenti è fuorviante, o piuttosto si spiega per la sua polisemia, giacché questa parola designa contemporaneamente un insieme di regole che dirigono il nostro comportamento (questo è il senso inteso da Diderot e da lui utilizzato in quelle frasi) e l’ideale che fonda tali regole (ed è il senso respinto da Diderot).

E infatti Diderot non cerca affatto di fondare la morale, cerca piuttosto di distruggerla. Ciò che vuole, è fondare il comportamento umano, decidendo di farlo mediante la «natura», mediante quel che costituisce l’uomo come tale. Natura e morale sono due pretendenti per uno stesso ruolo, quello di guida del comportamento. E Diderot preferisce il primo al secondo. La scelta è tra «l’uomo naturale» e «l’uomo morale e artificiale», talora chiamato anche soltanto «uomo morale». Non ha senso dire che la natura è o non è morale: «Vizi e virtù, tutto si trova ugualmente in natura», sono nozioni fondate, appunto, nella morale e non in natura.

Di questo genere è già l’idea espressa nel sottotitolo del Supplemento, che ben riassume l’intenzione complessiva di Diderot: «Sull’inconveniente di associare idee morali ad atti fisici che non ne comportano».

Se si vuol sapere su che cosa fondare il proprio comportamento, la risposta è quindi:

«Confida nella natura delle cose e delle azioni, nei tuoi rapporti con i tuoi simili, nell’influenza della tua condotta sul tuo utile particolare e sul bene comune».

Qui il termine di maggior rilievo è «confida», che implica la conoscenza e dunque la sottomissione a tale conoscenza; e ciò sia che si tratti di cose o di azioni, cioè di uomini. Tutto ha la sua «natura» ed è sufficiente conoscerla per sapere come comportarsi.

Il grande esempio del Supplemento riguarda la vita sessuale. La sua «natura» è il libero scambio: nessun obbligo di fedeltà che vada oltre un mese, alcun vincolo. Non si può però fare a meno di chiedersi: e se i due partner non fossero d’accordo? Non si dovrà tenerli uniti per forza e allora che ne è della loro unione? Se l’uno desidera avere un contatto sessuale e l’altro si nega, uno dei due non avrà agito secondo la «natura». Come scegliere? Questa la risposta di Diderot: è nella natura dei maschi, dunque della metà della popolazione, essere non solo atti alla vita sessuale ma di essere inoltre violenti, di voler imporre la loro volontà agli altri, cioè alle donne. Ora, siccome la violenza è presente in natura, occorre accettarla.

«Si è consacrata la resistenza della donna, si è attribuita ignominia alla violenza dell’uomo, violenza che in Tahiti sarebbe solo una lieve ingiuria e diventa invece un crimine nelle nostre città».

Detto in modo esplicito ciò significa che lo stupro non è un crimine e che le donne vi si devono sottomettere. Ma ciò non significa rinunciare ad ogni altro fondamento del comportamento diverso dalla forza, non significa identificare puramente e semplicemente forza e diritto?

Stabilita la regola, si può applicarla anche al di fuori del dominio della sessualità. Diderot pensa, per esempio, che è nella natura dell’essere umano (o dell’uomo?) obbedire soltanto ai propri interessi.

«L’uomo […] non ti darà mai altro che ciò che per lui è inutile, mentre ti chiederà sempre quel che gli è utile».

E aggiunge questo argomento: «Dimmi, in un qualunque paese, vi è forse un padre che, se non vi fosse il disonore a trattenerlo, non preferirebbe perdere suo figlio, un marito che non preferirebbe perdere la sua donna, piuttosto che la sua fortuna e l’agiatezza di tutta una vita» (9).

François de La Rochefoucauld (1613 – 1680)

Dopo tutto è forse vero che simili padri e mariti generosi esistano; ammettiamo comunque per un istante l’affermazione di Diderot. Un La Rochefoucauld condivideva, certo, il pessimismo di questa visione della natura umana, però si rallegrava dell’esistenza di quanto Diderot ha qui chiamato «disonore», giacché esso, sotto il nome di «onestà», è stato eretto a ideale sociale capace di frenare i bassi istinti degli uomini e di indurli ad una vita più dolce e gradevole. Diderot, al contrario, desidererebbe eliminare il disonore e sottomettere la vita sociale direttamente all’interesse (poiché questa è secondo lui, la sua verità o la sua «natura»).

Più di questo o quell’esempio, conta il principio. Diderot dice:

«L’incesto non offende in nulla la natura» e forse non dovrebbe neanche offendere la morale. Ma in questo modo non si sa dove fermarsi: potrebbe darsi che domani (domani?) un biologo ci dimostrerà che l’aggressività fa parte della natura dell’uomo e dunque occorre accettarla; ovvero l’assassinio, la tortura, il desiderio di umiliare l’altro: niente ci consentirà di opporci ad essi.

Donatien Alphonse François De Sade (1740 - 1814)

Donatien Alphonse François De Sade (1740 – 1814)

Ed è infatti la conclusione che ne trarranno, nella stessa epoca di Diderot, i personaggi di de Sade, la cui Filosofia nel boudoir non è che una ripresa ed un’amplificazione degli argomenti presenti nel Supplemento di Diderot.

«Poiché la distruzione è una delle prime leggi della natura, niente di ciò che distrugge può essere un crimine». «La crudeltà, lungi dall’essere un vizio, è il primo sentimento impressoci dalla natura».

La giustificazione per mezzo della natura è l’argomento preferito di de Sade:

«Ogni legge umana che contrastasse quelle della natura sarà fatta solo per disprezzo» (III). «Non abbiate altro freno che quello delle vostre inclinazioni, altra legge che quella del vostro esclusivo desiderio, altra morale che quella della natura» (V).

Come si procederà per scoprire questa «natura»? Diderot risponde: mediante lo studio scrupoloso dei fatti o, se si preferisce, della scienza. «Cominciamo dal principio. Interroghiamo onestamente la natura e vediamo imparzialmente quel che essa ci risponderà su questo punto». La realizzazione di questo bel programma è istruttivo per scoprire la verità su di un’istituzione umana, il matrimonio.

Diderot si volge all’osservazione, la più facile o rivelatrice, del mondo animale:

«Questa preferenza si riscontra non soltanto nella specie umana ma anche nelle altre specie animali». Il cammino era stato già stato preparato dall’uso dei termini «maschio» e «femmina» invece di «uomo» e «donna», il che implicava la sola considerazione della natura animale dell’umano. La verità della società è detenuta dalla zoologia? La società umana e i suoi riti sono riducibili agli istinti? Dopo aver innalzato la natura al posto della morale, Diderot incarica gli specialisti del mondo animale di conoscere gli esseri umani.

Questa conoscenza diventerà la premessa minore di un sillogismo la cui premessa maggiore è: non si arriverà mai a resistere alla natura.

«Tu deliri se credi che vi sia qualcosa, in alto e in basso, nell’universo, che possa aggiungere o sottrarre alle leggi della natura. […] Tu prescriverai il contrario ma non sarai ubbidito».

L’uomo, una volta di più, è interamente determinato, stavolta però dalla natura e non dalla cultura, egli non dispone di alcuna libertà personale, di alcuna capacità di sfuggire alla sua sorte, stabilita una volta per tutte.

In questo, le tesi invero contraddittorie di Montaigne e di Diderot, «tutto è cultura» e «tutto è natura», si ricongiungono: entrambe si rifiutano di lasciare uno spazio alla volontà umana e dunque alla morale.

La conclusione del sillogismo di Diderot è che vi sono regole particolari di condotta che si accordano completamente con questo o quell’aspetto della nostra «natura». Ne segue che è molto semplice riconoscere le buone e le cattive leggi, la scienza ne detiene il segreto. È sufficiente conoscere la natura per svelarlo. La legge buona è quella che segue la natura (in altri termini, il buon diritto è quello che segue i fatti): se è così,

«la legge religiosa diviene probabilmente superflua; e […] la legge civile non dev’essere che l’enunciazione della legge di natura. […] Se invece si ritiene necessario conservarle tutte e tre, le ultime devono essere solo un calco rigoroso della prima, che noi portiamo impressa nei nostri cuori e sarà sempre la più forte» (10).

Questo è l’ideale che, all’occorrenza, Tahiti incarna. Un’altra maniera di dire la stessa cosa è: la società migliore è quella nella quale vi è il minor numero di leggi (poiché in essa ci si conforma in tutto alla natura).

«Come sarebbe breve il codice delle nazioni se lo si adattasse rigorosamente a quello della natura!» (11).

La cattiva legge è allora, evidentemente, quella che si oppone alla natura umana: tali sono la maggior parte delle leggi degli europei, le quali, agli occhi dei tahitiani, sembrano tanti impedimenti. Tutto sommato la morale non solo non è necessaria alla società ma è francamente nociva. Sembra che per Diderot addirittura la morale sia la sola fonte del male.

«Questi strani precetti li trovo contrari alla natura, alla ragione; fatti per moltiplicare i crimini»; quel che si crede il rimedio è in realtà la causa della malattia: «Moltiplicherai i malfattori», dice Diderot al moralista, non farai altro che «moltiplicare i malvagi».

Le posizioni espresse da Diderot nel Supplemento sono radicali. Non è peraltro certo che egli le faccia proprie: la forma dialogata mette una certa distanza tra lui e i suoi discorsi; il tono, piacevole o ironico, non permette sempre di sapere in che misura egli aderisca a quanto dicono i suoi personaggi (ma scriveva altresì nei suoi Appunti: «Si deve essere felici per l’inclinazione della sua natura, ecco tutta la mia morale»). E non aveva certamente pensato, scrivendo queste frasi, che si erano già sterminate o ridotte in schiavitù intere popolazioni, in nome della loro inferiorità naturale; tanto più che l’argomento sarebbe servito nuovamente, ai giorni nostri, nel momento in cui i crimini razzisti si richiamano all’autorità della «scienza».

 

Il diritto e il fatto

Jean-Jacques Rousseau (1712 – 1778)

Rousseau ha molto letto ed ammirato Montaigne; è stato amico e poi avversario di Diderot. D’altro canto, il concetto di «natura» (e di «natura umana» in particolare) è fondamentale per lui; non sorprenderà dunque vederlo prendere posizione rispetto all’interpretazione che ne danno Montaigne e Diderot. Posizione che illustrerà per noi un terzo uso della «natura umana».

Rousseau è spesso d’accordo con Montaigne. Ma sulla particolare questione dell’onnipresenza dei costumi (e dunque dell’assenza di «natura») se ne separa esplicitamente. Ciò che gli rimprovera sono insomma i procedimenti poco rigorosi con cui perviene alle sue conclusioni. A Montaigne basta trovare un’eccezione per dichiarare che la natura, o la legge, o l’essenza, non esiste, mentre dovrebbe interrogarsi, da una parte, sulle particolari circostanze responsabili di tale eccezione; dall’altra, sulle ragioni strutturali che fanno sì che tale situazione e tale comportamento siano più «naturali» di altri. Le generalizzazioni prese in considerazione da Montaigne sono delle semplici induzioni, o piuttosto un accumulo di esempi, da cui discende la loro fragilità.

Rousseau lo colloca perciò tra i «sedicenti saggi»: essi osano rigettare

«l’accordo evidente e universale di tutte le nazioni, […] e contro l’eclatante uniformità del giudizio degli uomini, vanno a cercare nelle tenebre qualche oscuro esempio, conosciuto solo da loro; quasi che tutte le inclinazioni naturali fossero annientate dalla depravazione di un popolo, e che, appena vi sono dei mostri, la specie non fosse più nulla. Ma a che servono allo scettico Montaigne i tormenti che si dà per dissotterrare in un angolo del mondo un costume opposto alle nozioni della giustizia?» (12).

Si tratta dunque di un dibattito sullo statuto del fatto particolare nella conoscenza scientifica, dibattito cui Rousseau si era mostrato sensibile fin dall’epoca del suo primo Discorso sulle scienze e le arti.

«Quando si tratta di oggetti tanto generali come i costumi e le maniere di un popolo, bisogna guardarsi dal restringere le proprie vedute a degli esempi particolari» (13), scrive nella sua risposta ai commentari di Stanislas. «Esaminare queste cose nel dettaglio e in alcuni individui, non è filosofare, è perdere il proprio tempo e le proprie riflessioni; poiché si può conoscere a fondo Pietro o Giacomo e tuttavia aver fatto progressi assai scarsi nella conoscenza dell’uomo».

E nel commentario al Discorso sull’origine dell’ineguaglianza («Lettera a Philopolis») aggiunge:

«L’uomo, voi dite, è tale quale il posto che deve occupare nell’universo lo esige. Ma gli uomini differiscono talmente secondo i tempi e gli spazi, che con una simile logica si sarebbe costretti a trarre dal particolare all’universale delle conseguenze assai contraddittorie e poco concludenti. Basta un solo errore di geografia per mandare in aria tutta questa pretesa dottrina che riduce quel che deve essere a quel che si vede. […] Quando si tratta di ragionare della natura umana, il vero filosofo non è né indiano, né tartaro, né di Ginevra, né di Parigi: è uomo».

La natura umana esiste; ma non è accessibile all’induzione, e non ci si deve sorprendere dei magri risultati ottenuti da Montaigne usando tale metodo. Non è sommando conoscenze particolari che si attende al generale, bensì formulando delle ipotesi sulla struttura di ciascun fenomeno; la natura dell’uomo non è data oggettivamente ma deve essere dedotta dalla ragione. È in questo modo che procederà Rousseau nell’insieme dei suoi scritti filosofici e politici, assicurando così il loro interesse fino a tutt’oggi. Di qui viene la celebre formula, paradossale ma perfettamente giustificata, che troviamo nel preambolo del Discorso sull’origine dell’ineguaglianza:

«Cominciamo dunque con lo scartare tutti i fatti».

Munito di questo miglior metodo di ricerca, Rousseau perverrà ad un risultato opposto a quello di Montaigne e Pascal.

«La natura, ci viene detto, non è che abitudine. Che cosa significa ciò? Non si hanno forse delle abitudini contratte solo a forza e che mai soffocano la natura?» (Emilio, I).

L’esempio citato da Rousseau è quello delle piante, di cui si forzano i rami a crescere orizzontalmente.

Se credo che le piante crescano naturalmente verso l’alto, questo non ha niente a che vedere con l’osservazione di rami orizzontali e verticali. La natura non è semplicemente una prima consuetudine.

Montaigne, lo si è visto, passa senza soluzione di continuità dai problemi conoscitivi a quelli morali; Rousseau lo segue su questa strada, ma per contraddirlo ancora. Questa volta la divergenza non risiede nel metodo, ma nel fondo stesso della dottrina: a differenza di Montaigne, egli crede che «le regole della morale non dipendono dagli usi dei popoli» (La nuova Eloisa, II, XVI) e che «esistono le leggi eterne della natura e dell’ordine» (Emilio, V).

L’argomento fornito da Rousseau per giustificare questo credo è di tipo introspettivo: è consultandosi interiormente, esaminando accuratamente se stesso che ciascuno può constatare, come ha fatto Rousseau, di saper distinguere tra interesse e giustizia, abitudine e ragione; di conseguenza, la morale naturale esiste.

«Vi è dunque nel fondo della nostra anima un principio innato di giustizia e virtù, in base al quale, malgrado le nostre massime, giudichiamo le nostre e le altrui azioni come buone o cattive» (14).

Occorre distinguere qui tra la forma del problema scelta da Rousseau e la risposta da lui data. Si può non essere d’accordo con l’ipotesi particolare di Rousseau, cioè che il principio di giustizia, il diritto naturale, sia meglio accessibile al cuore che alla ragione. Tuttavia non si è perciò obbligati a rigettare il problema stesso, nella forma datagli da Rousseau (e, a dire il vero, non vi è alcuna buona ragione per farlo). Si accetterà dunque di seguirlo quando ci insegna che si viene trascinati nell’aporia se si rinuncia interamente all’ipotesi universalista della natura umana, tanto sul piano della conoscenza quanto su quello della morale, e che non è sommando fatti particolari che si arriverà a ricostruirla.

Non tutto l’universalismo è per questo buono, e Rousseau non sarà d’accordo con Diderot più di quanto non lo fosse con Montaigne. La prima divergenza, ancora una volta, è di carattere scientifico. Per Diderot, lo si è visto, la natura umana dipende dalla sola biologia, o anche dalla zoologia.

Jean D’Alembert (1713 – 1783

Un tale procedimento è inaccettabile agli occhi di Rousseau poiché implica che si possa fare astrazione dalla società, dalla ragione e dalla morale, preservando nondimeno l’identità umana. Non è così. Egli infatti scrive nella Lettera a d’Alembert:

«L’argomento tratto dall’esempio delle bestie non conclude nulla e non è vero. L’uomo non è affatto un cane o un lupo. Egli non fa che stabilire nella sua specie i primi rapporti sociali per dare ai suoi sentimenti una moralità sempre sconosciuta alle bestie» (15).

Non è lo zoologo a detenere la verità della specie umana; è, direbbe Rousseau, il filosofo. È, diremmo noi, lo psicologo, l’antropologo, lo storico, a condizione che non si contentino di collezionare fatti particolari.

E qui, ancora, il dibattito si prolunga dal piano della conoscenza a quello della morale. In verità, Rousseau tiene soprattutto a rompere l’illusione di una continuità tra i due piani, di una deduzione della morale a partire dalla scienza, del dover-essere a partire dall’essere. Diderot voleva costituire un codice comportamentale fondato sulla sola natura biologica dell’uomo. Ciò è scientificamente assurdo. Ma è altrettanto moralmente inammissibile: se anche Diderot avesse preso come punto di partenza la storia e l’antropologia, il codice non sarebbe per questo risultato meglio fondato. Che i fatti siano come sono non prova che una cosa: che tale è stata la volontà del più forte.

Ugo Grozio (1583 – 1645)

«Fondare» il diritto attraverso il fatto è «fondarlo» attraverso la forza, cioè svuotarlo in realtà di ogni sostanza. Perciò Rousseau se la prende non con gli zoologi ma con i loro compagni filosofi quando, alla maniera di Diderot, praticano la deduzione della «morale» a partire dalla «natura».

«Il suo modo più costante di ragionare», dice Rousseau di Grozio nel Contratto sociale, «è stabilire sempre il diritto mediante il fatto. Si potrebbe adoperare un metodo più conseguente, ma non certo più favorevole ai tiranni» (16).

La giustificazione di un atto iniquo mediante le «leggi della storia» non è più probante che quella mediante «le leggi» della superiorità razziale.

Respinto l’universalismo di Diderot e di alcuni altri, Rousseau formulerà le proprie ipotesi sulla natura umana e sulla morale naturale. Questo non è il luogo per esaminarle in se stesse. Ma occorre ripetere: si può essere in disaccordo con le affermazioni particolari di Rousseau (per parte mia, resto scettico davanti alla sua immagine dello «stato di natura» ma mi sento convinto della sua maniera di fondare la morale mediante la socialità), ma quel che in primo luogo conta è il quadro stesso nel quale egli colloca il dibattito.

Se ha senso parlare oggi della «natura umana» non può essere né alla maniera di Montaigne né secondo la prospettiva di Diderot, bensì prolungando le domande che furono di Rousseau, sebbene a noi tocchi cercare risposte migliori.

Ora – e il fatto è paradossale – la grande maggioranza dei nostri contemporanei (parlo di coloro che si arrischiano ad interrogarsi sulla «natura umana») ha scelto le due altre strade. Talora si appoggia su un sapere etnografico o storico relativo ai costumi degli altri incomparabilmente più ricco di quello di cui si disponeva in passato potendo così affermare che questi altri giudicano, pensano e perfino percepiscono in modo differente da noi. Talaltra esercita un sospetto rispetto alla ragione e alle sue affermazioni, decostruendo in un sol colpo l’uomo, la natura e tutto quanto può somigliare ad essi.

Coloro che sfuggono alle forme moderne di scetticismo e che sovente si richiamano alle scienze (sottinteso: della natura), abbracciano volentieri un pensiero sociobiologistico. Essi spiegano il comportamento umano attraverso ciò che si sa degli animali e sono tentati di dedurre gli obiettivi etico-politici dai risultati scientifici (da ciò che credono essere tali).

Gli uni e gli altri assumono dunque posizioni pre-russoiane e, se posso dire, sub-russoiane poiché erano già state rese caduche dal pensiero di Rousseau. Sicché, al termine del percorso, siamo ricondotti al punto di partenza: dopo questa rievocazione degli usi della «natura umana», resta da porsi senza scrupoli la questione di fondo: che cosa è? Ma qui mi fermo.

(traduzione di Marco Russo)

 

NOTE

(1) M. Montaigne, Saggi, tr. it. di F. Garavini, Mondadori, Milano 1970, p. 145.

(2) Ivi, p. 141.

(3) Ivi, pp. 144, 150.

(4) B. Pascal, Pensieri, tr. it. di F. Masini, Studio Tesi, Pordenone 1986, p. 94. Masini traduce «coutume» con «abitudine»; qui manteniamo «consuetudine» per motivi di omogeneità con gli altri autori citati.

(5) Ivi., p. 37.

(6) M. Montaigne, op. cit., p. 384.

(7) Ivi, pp. 150-151.

(8) Ivi, p. 769.

(9) D. Diderot, Ritorno alla natura. Supplemento al viaggio di Bougainville, tr. it. di A. Santucci, Laterza, Roma-Bari 1991, p. 44.

(10) Ivi, p. 51.

(11) Ivi, p. 57.

(12) J.-J. Rousseau, Emilio, in Id. Opere, a cura di P. Rossi, Santini, Firenze 1962, pp. 556-557.

(13) In J.-J. Rousseau, Opere, cit., p. 7.

(14) In J.-J. Rousseau, Opere, cit., p. 557.

(15) In J.-J. Rousseau, Opere, cit., p. 209.

(16) In J.-J. Rousseau, Opere, cit., pp. 280-281.

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