La società è anzitutto una forza morale,
la cui coesione è concepita in termini di credenze religiose, politiche, morali.
Émile Durkheim, Il suicidio
Indice
1. Durkheim e la Grande Guerra
2. La sociologia come scienza e i corsi sull’educazione
2.1 I corsi alla Sorbonne sull’educazione [Pedagogia]
3. Divisione del lavoro e solidarietà
3.1 L’anomia
3.2 La teoria della devianza
4. Il metodo della sociologia
4.1 Il fatto sociale
4.2 La specificità del fatto sociale e il rifiuto dello psicologismo
5. Lo studio sul suicidio
6. Gli studi sulla religione
1. Durkheim e la Grande Guerra
Nato in Lorena da una una famiglia ebrea, la vita di Durkheim fu condizionata in modo determinante dalla guerra, la franco-prussiana e la prima guerra mondiale. A causa della sconfitta francese nella guerra franco-prussiana (1870-1) e dell’annessione all’impero prussiano dell’Alsazia e della Lorena la sua famiglia, infatti, si spostò a Parigi per non passare sotto il governo tedesco.
Nella prima guerra mondiale, della quale può essere considerato una vittima morale, perse poi l’unico figlio, numerosi allievi dei suoi corsi alla Sorbonne e l’inclusione in un paese che cominciava a stigmatizzare il suo cognome tedesco – proprio lui che nutriva forti sentimenti nazionalisti – oltre al suo ottimismo intellettuale circa la capacità di autoregolazione delle società moderne e la loro capacità di risolvere pacificamente i conflitti. Gravemente prostrato, muore nel 1917 a soli cinquantanove anni.
2. La sociologia come scienza e i corsi sull’educazione
Émile Durkheim ha dato un contributo fondamentale allo sviluppo della sociologia come scienza, alimentando un dibattito serrato sull’autonomia della disciplina dalla filosofia e dalle altre scienze umane e dandole dignità accademica.
La insegna, infatti, per primo all’Università di Bordeaux (1857) – il corso prese il nome di Sciences sociales –, poi alla Sorbonne (1902), dove tiene fino al 1911 importanti corsi sull’educazione [L’éducation morale, 1902-3; L’évolution pédagogique en France, 1904-5; Éducation et société, 1922] da una prospettiva sociologica.
Negli anni, Durkheim ha concepito sempre più la sociologia come una scienza empirica ed esatta.
Lo studioso ha insistito, in particolare, sulla specificità del suo oggetto di studio rispetto a ciò di cui si occupano le altre scienze. La realtà sociale, infatti, è irriducibile agli individui e li trascende, esercitando su di loro un’influenza irresistibile, imponendosi sulla loro volontà.
Tale influenza, infine, ha caratteristiche distintive, perché penetra nella coscienza degli individui, instilla loro convinzioni che vengono, più o meno consapevolmente, interiorizzate e ne guida i comportamenti. La società, infatti,
«oltrepassa le coscienze individuali, e nello stesso tempo è loro immanente»,
sta al di fuori e al di sopra degli individui, ma anche dentro le loro teste.
2.1 I corsi alla Sorbonne sull’educazione
La società si trova […] ad ogni nuova generazione, in presenza di una tavola pressoché rasa, sulla quale deve costruire con sforzi rinnovati. Occorre che, mediante gli accorgimenti più rapidi, all’essere egoista ed asociale che viene al mondo ne venga sovrapposto un altro, capace di condurre una vita morale e sociale. Ecco qual è l’opera dell’educazione: e se ne scorge tutta la grandezza. Essa non si limita a sviluppare l’organismo individuale nella direzione indicata dalla sua natura, a rendere apparenti dei poteri nascosti che non domandavano che di manifestarsi. Essa crea nell’uomo un essere nuovo.
Émile Durkheim, Corsi sull’educazione, 1902-1911
Con i suoi corsi alla Sorbona sull’educazione [Durkheim, Education et sociologie, 1922. Traduzione mia dall’originale francese (a cui si riferisce la numerazione di pagina). Qui l’edizione italiana], Durkheim inaugura il peculiare sguardo sociologico sul fenomeno educativo.
La sua riflessione muove, in primo luogo, dalla critica alla concezione individualistica dell’educazione che, da Stuart Mill a Kant, la interpreta come l’azione di sviluppare il potenziale individuale e di portare l’individuo alla piena umanizzazione:
«[per Stuart Mill l’educazione comprende] tutto ciò che facciamo per noi stessi e tutto quello che gli altri fanno per noi allo scopo di avvicinarci alla perfezione della nostra natura, [mentre per Kant] lo scopo dell’educazione è di sviluppare in ogni individuo tutta la perfezione di cui è capace» [p. 4].
«Fino a non molto tempo fa, i pedagogisti moderni erano pressoché unanimemente d’accordo nel vedere nell’educazione una cosa eminentemente individuale e per fare della pedagogia, di conseguenza, un corollario immediato e diretto della sola psicologia. Per Kant, come per Mill, per Herbart come per Spencer, l’educazione avrebbe prima di tutto per oggetto di realizzare in ogni individuo, portandolo al più alto punto di perfezione possibile, gli attributi costitutivi della specie umana in generale.
Si poneva come autoevidente che vi fosse un’educazione e una sola che, ad esclusione di tutte le altre, si confà indifferentemente ad ogni uomo, quali che siano le condizioni storiche e sociali da cui dipendono, ed è questo ideale astratto e unico che i teorici dell’educazione si proponevano di determinare.
Si ammetteva che ci fosse una natura umana, le cui forme e proprietà erano determinabili una volta per tutte e che il problema pedagogico consistesse nel ricercare in quale modo l’azione educativa debba esercitarsi su una natura umana così definita. Forse, nessuno ha mai pensato che l’uomo sia immediatamente, da quando entra nella vita, tutto ciò che può e deve essere.
E’ troppo evidente che l’essere umano non si costituisce che progressivamente, nel corso di un lento divenire che comincia alla nascita e termina solo con la maturità. Ma si supponeva che questo divenire non facesse che attualizzare delle potenzialità, che mettere a punto delle energie latenti che esistevano, preformate, nell’organismo fisico e mentale del ragazzo. L’educatore non avrebbe dunque niente di essenziale da aggiungere all’opera della natura. Non creerebbe niente di nuovo» [pp. 32-33].
Non meno critico è nei confronti delle concezioni utilitaristiche dell’educazione:
«Ancora meno soddisfacente è la definizione utilitaristica secondo la quale l’educazione avrebbe per scopo di “fare dell’individuo uno strumento di felicità per se stesso e per i suoi simili” (James Mill), perché la felicità è una cosa eminentemente soggettiva che ognuno apprezza a suo modo. Una tal formula lascia dunque indeterminato lo scopo dell’educazione e per conseguenza, l’educazione stessa poiché l’abbandona all’arbitrio individuale» [p. 5].
«Tutte queste definizioni sono criticabili perché partono dal postulato che vi sia un’educazione ideale, perfetta, vera indistintamente per tutti gli uomini, ed è questa educazione universale e unica che i teorici si sforzano di definire. Ma se si considera la storia, non vi si trova niente che confermi una simile ipotesi.
L’educazione è cambiata secondo i tempi e secondo i paesi. Nelle città greche e latine l’educazione formava l’individuo a sottomettersi ciecamente alla collettività, a diventare una cosa della società. Oggi si sforza di farne una personalità autonoma.
Ad Atene si cercava di formare degli spiriti delicati, smaliziati, sottili, misurati e armonici, capaci di godere il bello e le gioie della speculazione pura; a Roma si voleva prima di tutto che i ragazzi diventassero uomini d’azione, appassionati della gloria militare, indifferenti alle lettere e alle arti. Nel Medio Evo l’educazione era prima di tutto cristiana; nel Rinascimento prende un carattere più laico e più letterario; oggi la scienza tende a prendere il posto che l’arte vi occupava prima» [p.5].
«Non soltanto è la società che ha elevato un certo tipo umano alla dignità di modello che l’educatore deve sforzarsi di riprodurre, ma è ancora lei che lo costruisce e lo costruisce seguendo i suoi bisogni. Perché è un errore pensare che questo sia dato tutto intero nella costituzione naturale dell’uomo e che non ci sia che da scoprirlo con una osservazione metodica, salvo abbellirla in seguito con l’immaginazione e portando con il pensiero tutti gli aspetti che vi si trovano al più alto sviluppo. L’uomo che l’educazione deve realizzare in noi, non è l’uomo come la natura l’ha fatto, ma come la società vuole che sia; ed essa lo vuole tale a come lo reclama la sua economia interna» [p. 35].
[…] l’educazione in uso in una società determinata e considerata ad un momento determinato della sua evoluzione è un insieme di pratiche, di maniere di fare, di usi, che costituiscono dei fatti perfettamente definiti e che hanno la stessa realtà degli altri fatti sociali. Non sono, come si è creduto per lungo tempo, delle combinazioni più o meno arbitrarie ed artificiali, che non devono la loro esistenza che all’influenza capricciosa di volontà sempre contingenti. Esse, al contrario, costituiscono delle vere istituzioni sociali.
Non vi è essere umano che possa far sì che una società abbia, ad un determinato momento, un altro sistema educativo che quello che è implicito nella sua struttura, alla stessa maniera nella quale è impossibile ad un organismo vivente di avere altri organi ed altre funzioni che quelli che sono impliciti nella sua costituzione [p.6].
L’educazione, dunque, non è un fenomeno universale, ma storico, che cambia col mutare della società. Svincolarsi dai condizionamenti sociali ed educare secondo principi personali non sarebbe inoltre affatto vantaggioso, prosegue il sociologo:
«[…] ogni società, considerata in un momento determinato del suo sviluppo, ha un sistema d’educazione che si impone agli individui con una forza generalmente irresistibile. E’ vano credere che noi possiamo allevare i nostri figli come vogliamo. Ci sono costumi ai quali siamo tenuti a conformarci: se vi deroghiamo troppo fortemente, essi si vendicheranno sui nostri figli. Questi, una volta adulti, non saranno in grado di vivere in mezzo ai loro contemporanei, coi quali non sono in armonia.
Che siano stati allevati con idee troppo arcaiche o troppo innovative, non importa, nell’un caso come nell’altro, non erano adatte al tempo e, di conseguenza, non li hanno messi nelle condizioni di vita normale. C’è dunque, in ogni momento, un tipo d’educazione regolatore da cui non possiamo allontanarci troppo senza urtare contro vive resistenze che contengono le velleità dei dissidenti.
Ora, i costumi e le idee che determinano questo ideale regolatore non li abbiamo fatti noi, individualmente. Essi sono il prodotto della vita in comune e ne esprimono le necessità. Essi sono anche, per la gran parte, l’opera di generazioni anteriori. Tutto il passato dell’umanità ha contribuito a fare questo insieme di massime che dirigono l’educazione di oggi. Tutta la nostra storia vi ha lasciato delle tracce e perfino le storie dei popoli che ci hanno preceduto. E’ in questo modo che gli organismi superiori portano in loro come l’eco di tutta l’evoluzione biologica di cui sono il compimento. Quando si studia storicamente il modo in cui si sono formati e sviluppati i sistemi di educazione, ci si accorge che essi dipendono dalla religione, dall’organizzazione politica, dal grado di sviluppo delle scienze, dallo stato dell’industria etc. Se li si distacca da tutte queste cause storiche, diventano incomprensibili. Come, può pretendere, quindi, l’individuo di ricostruire con il solo sforzo della sua riflessione privata, ciò che non è opera del pensiero individuale? Non è davanti ad una tabula rasa sulla quale può edificare ciò che vuole, ma a delle realtà esistenti che egli non può né creare, né distruggere, né trasformare di sua volontà» [p. 6].
«[…] ogni società si forma un certo ideale d’uomo, di ciò che deve essere sia dal punto di vista intellettuale, che fisico e morale […] questo ideale è, in certa misura, lo stesso per tutti i cittadini […] a partire da un certo punto si differenzia seguendo gli ambienti particolari che ogni società comprende al suo interno. E’ questo ideale, allo stesso tempo uno e diverso, che è il polo dell’educazione. Esso ha dunque per funzione di suscitare nei ragazzi un certo numero di stati fisici e mentali che 1) la società alla quale appartiene considera imprescindibili in ciascuno dei suoi membri; 2) che il gruppo sociale particolare (casta, classe, famiglia, professione) consideri ugualmente come immancabili in tutti coloro che la formano.
Così è la società nel suo insieme e qualche ambiente sociale particolare che determinano questo ideale che l’educazione realizza. La società non può vivere senza che esista tra i suoi membri una sufficiente omogeneità: l’educazione perpetua e rinforza questa omogeneità fissando in anticipo nell’anima del bambino le similitudini essenziali che la vita collettiva reclama. D’altro lato, però, senza una certa diversità, nessuna cooperazione sarebbe possibile: l’educazione assicura la persistenza di questa diversità necessaria, diversificandosi essa stessa e specializzandosi […]. L’educazione non è dunque per la società che il mezzo attraverso cui essa prepara nel cuore dei ragazzi le condizioni essenziali della propria esistenza. Vedremo più avanti come l’individuo stesso abbia interesse a sottomettersi a questa esigenza» [pp. 8-9].
«[…] l‘educazione consiste in una socializzazione sistematica della giovane generazione. In ognuno di noi, si può dire, esistono due esseri che possono essere separati solo per astrazione e non cessano nondimeno di restare distinti. Uno è fatto di tutti gli stati mentali che si rapportano solo a noi stessi e agli avvenimenti della nostra vita personale: è ciò che potremmo chiamare l’essere individuale. L’altro è un sistema di idee, di sentimenti e di abitudini che non esprimono in noi la nostra personalità, ma il gruppo o i gruppi differenti di cui facciamo parte: sono tali le credenze religiose, le credenze e le pratiche morali, le tradizioni nazionali o professionali, le opinioni collettive di ogni tipo. Il loro insieme forma l’essere sociale. Costituire un tale essere in ciascuno di noi, questo è il fine dell’educazione. […] Bisogna che nel modo più rapido, all’essere egoista e asociale che è appena nato, essa ne aggiunga un altro, capace di condurre una vita sociale e morale. Ecco qual è l’opera dell’educazione» [p. 10].
Chiamato a scegliere tra Locke e Rousseau, Durkheim si sente senza dubbio più vicino a Locke:
«Qualche volta si è opposta la libertà all’autorità, come se questi due fattori del’educazione si contraddissero e si limitassero l’un l’altro. Ma questa opposizione è fittizia. In realtà, questi due termini si implicano invece di escludersi. La libertà è figlia dell’autorità bene intesa. Perché essere liberi non significa fare ciò che ci pare, ma essere padroni di sé, agire secondo ragione e fare il proprio dovere.
Ora, è proprio per dotare il ragazzo di questo controllo di sé che l’autorità del maestro deve essere impiegata. L’autorità del maestro non è che un aspetto dell’autorità del dovere e della ragione. Il ragazzo deve dunque essere esercitato a riconoscerla nella parola dell’educatore e a subirne l’ascendente ; è a questa condizione che egli saprà più tardi ritrovarla nella sua coscienza e sottomettervisi» [p. 18].
Anche l’analisi storica dell’educazione mostra, secondo Durkheim, la sua profonda interconnessione con i sistemi sociali, a tal punto che a questo proposito si possono reperire delle costanti: le società stabili, per esempio, dotate di una forte coesione interna, tendono a migliorare gradualmente le tecniche educative in uso, mentre le società in crisi elaborano spesso dottrine educative completamente nuove e dal forte contenuto utopistico, adatte a rifondare i valori aggregativi. In entrambi i casi non muta però la considerazione della funzione prioritaria dell’educazione, cioè quella di socializzare le giovani generazioni e trasmettere valori funzionali alla continuità e alla riproduzione sociale. A questo compito è, per definizione, deputata la scuola che non deve essere fonte di mutamento, ma appunto di trasmissione di valori dati.
3. Divisione del lavoro e solidarietà
Mentre, dal punto di vista biografico, la vita di Durkheim è stretta tra due guerre, da quello ideale è segnata dallo spirito della Terza Repubblica che, uscendo dai conflitti di una guerra civile [sfociata nella Comune di Parigi e nella sua repressione] e da rigurgiti reazionari, tra il 1879 e il 1885 si era data un profilo democratico, laico e anticlericale.
Durkheim condivide gli obiettivi della Terza Repubblica e, ne La divisione del lavoro sociale [La division du travail social,1893] riflette esplicitamente sull’ordine sociale e sulle forme della coesione che si stabiliscono in un sistema liberale, basato sulla libera concorrenza e sul non intervento dello stato nelle attività economiche dei cittadini.
Durkheim evidenzia come la divisione del lavoro su cui si basa l’economia borghese, concorrenziale e individualistica, presupponga un elemento non ricavabile dal contratto, né riducibile agli egoismi dei singoli – l’individualismo non è dunque un tratto antropologico.
Senza la presenza di un altro fattore, che lo studioso chiama solidarietà, una società siffatta dovrebbe disgregarsi e perdere coesione sociale più rapidamente delle società pre-moderne. Se ciò non accade è perché questo tipo di società si fonda su una solidarietà più evoluta rispetto a quella che opera nella società semplici.
Nelle società omogenee, prive di distinzioni e di divisione sociale del lavoro, opera infatti una solidarietà meccanica che tiene insieme gli individui grazie al dominio assoluto della coscienza collettiva su quella individuale.
Nelle società moderne, popolose e differenziate, opera, invece, una solidarietà organica, grazie alla quale individui diversi per attività e riferimenti valoriali si mantengono coesi a causa della reciproca interdipendenza. In questo modo, se la solidarietà meccanica si fonda sull’eguaglianza, come le molecole nei composti inorganici, la solidarietà organica si fonda proprio sulla differenza.
Le società evolvono da un tipo di solidarietà all’altra per effetto della differenziazione sociale e della crescita demografica. Il tipo di solidarietà che in un dato momento vi prevale determina le forme della coesione sociale. Durkheim nota infatti nota come ad ogni società corrisponda un corpo di regole giuridiche e morali da cui gli individui dipendono.
Nella società premoderne si produce un legame tra segmenti sociali equivalenti (ordini, clan) e si accetta che la coesione sia mantenuta attraverso una funzione legale repressiva (diritto prescrittivo), in quella moderna, invece, il legame è stabilito tra individui che assolvono a funzioni specializzate (divisione del lavoro) e che cooperano in modo libero e volontario.
Si sviluppa la contrattualizzazione delle relazioni sociali [gli individui e i gruppi negoziano i loro diritti e doveri], nasce lo stato democratico e la conseguente concezione dell’individuo come persona. Il diritto è di tipo restitutivo, vale a dire che si esercita con il concorso dell’individuo che coopera riconoscendo la legge e conformandosi ad essa in modo libero e autonomo.
La divisione del lavoro è quindi alla base dell’ordine sociale moderno, non solo dal punto di vista giuridico-economico, ma anche da quello morale: l’individuo infatti diventa consapevole di dipendere dalla società e del fatto che è da questa che vengono le regole che lo controllano e ne regolano la condotta [Michel Foucault noterà, un secolo dopo, che questo controllo e disciplinamento è addirittura costitutivo della soggettività degli individui].
3.1 L’anomia
Può accadere, però, che la velocità delle trasformazioni impedisca il funzionamento della solidarietà, ostacolandone l’azione sugli individui e dando luogo a fenomeni di anomia, [da a-nomos, senza norma] uno stato di forte disagio socio-esistenziale che può sfociare nella devianza o nel suicidio.
Si tratta precisamente della condizione sociale osservata da Durkheim, il quale assiste allo stesso drammatico degrado e sradicamento sociale degli umili descritta da Zola.
Secondo lo studioso, lo sviluppo dell’industria è stato troppo rapido e non ha ancora prodotto un sistema di regole adeguato ad essa. Lo studioso confida che questo avvenga in futuro, normalizzando una situazione caotica e anomica dei rapporti tra capitale e lavoro.
«L’operaio viene irreggimentato, staccato per tutta la giornata dalla famiglia, vive sempre più separato da chi lo impiega, e così via» [La divisione del lavoro sociale].
Isolato nella specializzazione del suo lavoro, separato dalle relazioni personali più intime, l’operaio si riduce a macchina, osserva il sociologo in pagine la cui analisi converge con quella dei Manoscritti marxiani.
Lo spirito con cui il sociologo francese osserva questo fatto è però ben diverso da quello di Marx. Mentre per il filosofo tedesco si tratta infatti di abbattere la proprietà per dar vita a un nuovo ordine sociale, una società libera e senza classi, per Durkheim, la divisione del lavoro, intesa anche come divisione tra proprietà e lavoro, va mantenuta e regolata giuridicamente.
Il sociologo ritiene infatti che lo sgretolamento delle regole giuridiche e morali causato dalla modernizzazione (anomia) potrà essere affrontato dalle corporazioni o i gruppi professionali, entità in grado di creare nuovi sistemi di regole e valori capaci di imporsi sugli individui con la necessaria autorità morale e forza vincolante.
Qui Durkheim intravede genialmente (ed hegelianamente) nella nascita dei movimenti di protesta e nell’autoorganizzazione operaia un esito diverso da quello desiderato: la creazione di una solidarietà di classe che contenendo l’anomia e le spinte disgregatrici, sostiene l’intero sistema cementandone la coesione, piuttosto che sovvertirlo.
3.2 La teoria della devianza
Partendo dalla sua concezione della coesione sociale, Durkheim ha elaborato una particolare teoria della devianza nella quale il crimine è visto non solo come normale e ineliminabile ma, per molti aspetti, innovatore.
L’infrazione alla regola infatti, spesso non è altro che un’anticipazione della morale futura e costituisce quindi un elemento dinamico funzionale al mantenimento dell’insieme. Anche trascurando questo aspetto, comunque, la devianza aiuta a mantenere la coesione, perché il suo sanzionamento acquista valore simbolico, rafforzando la coscienza collettiva.
La devianza quindi, paradossalmente non disgrega, ma compatta il tessuto sociale:
«il delitto avvicina […] le coscienze oneste e le concentra».
4. Il metodo della sociologia
Gli anni che seguono la pubblicazione di La divisione del lavoro sono molto importanti nella produzione complessiva di Durkheim.
In questo periodo, lo studioso giunge alla formulazione esplicita del metodo della nuova scienza – Le regole del metodo sociologico; Les règles de la méthode sociologique, 1895] – e svolge una ricerca empirica sul suicidio destinata a rimanere tra le più famose nella storia della sociologia – Il suicidio; Le suicide, 1897.
4.1 Il fatto sociale
Nell’opera dedicata al metodo, Durkheim definisce la sociologia come studio dei fatti sociali, i quali vanno considerati come cose, cioè dati primi di cui le idee sono lo sviluppo.
Un fatto sociale è
«l’integrazione degli individui in una comunità morale di significazione».
Per questo, come modo di agire, di pensare e di sentire, è esteriore rispetto alle coscienze e volontà individuali e coercitivo rispetto ad esse: gli individui non vi si possono sottrarre.
Un fatto sociale è irriducibile a fattori biologici e psicologici, è un fatto collettivo, oggettivo, né psicologico, né mentale, e rispondente a leggi sociali, autonome dalla psicologia e dalla biologia.
«Quando adempio ai miei compiti di fratello, di coniuge o di cittadino quando onoro gli impegni che ho contratto, io eseguo dei doveri che sono definiti fuori di me e dei miei atti, nel diritto e nei costumi.
Proprio quando sono d’accordo con i miei sentimenti più profondi e ne sento interiormente la realtà, questa non cessa di essere oggettiva; poiché i miei doveri non sono io ad averli fatti, ma li ho ricevuti con l’istruzione […]
La caratteristica essenziale dei fatti sociali consiste nel potere che essi hanno di esercitate dall’esterno una pressione sulle coscienze degli individui. […] Un fatto sociale si riconosce dal potere di coercizione esterno che esso esercita o è suscettibile di esercitare sull’individuo» [Ivi, p. 18 dell’originale francese linkato. Traduzioni mie].
È dunque la coercizione (contrainte) sulla volontà dell’individuo che istituisce il fatto sociale.
Posso decidere di portare le scarpe appese al collo, ma la riprovazione collettiva, non il fatto in sé, mi scoraggerà dal farlo.
Nella società, è insomma «la forma del tutto che determina quella delle parti» – come si vedrà, Max Weber, opponendosi a Durkheim, muoverà invece dall’azione individuale per spiegare la società.
4.2 La specificità del fatto sociale e il rifiuto dello psicologismo
Durkheim rifiuta quindi lo psicologismo che affligge la valutazione dei fatti sociali.
«La società non è una semplice somma di individui, al contrario, il sistema formato dalla loro associazione presenta caratteri propri.
Indubbiamente, nulla di collettivo può prodursi se non sono date le coscienze particolari: ma questa condizione necessaria non è sufficiente. Occorre pure che queste coscienze siano associate e combinate in una certa maniera; da questa combinazione deriva la vita sociale e di conseguenza è questa che la spiega.
Aggregandosi, penetrandosi, fondendosi, le anime individuali danno vita a un essere (psichico, se vogliamo) che però costituisce un’individualità psichica di nuovo genere» [Ivi, p. 64].
Per questo motivo, bisogna astenersi dallo spiegare i fatti sociali come il prodotto dei fatti psichici degli individui.
E’ vero casomai il contrario, cioè che i fatti psichici sono in molti casi il “prolungamento” di fatti sociali all’interno della coscienza.
Ad esempio, è l’esistenza del matrimonio come fatto sociale a far nascere i sentimenti corrispondenti, e non viceversa.
Durkheim propone di guardare ai fatti sociali come a oggetti esterni a noi, ma è evidente il problema che sorge nell’indagine sociologica: gli individui hanno una familiarità con i “fatti sociali” che impedisce loro di distinguere un fatto interno da uno esterno. Ad esempio, ci sembra istintivo, naturale e spontaneo – e non un condizionamento esterno – portare le scarpe ai piedi.
La “familiarità” che ciascuno intrattiene con la propria società grazie a formulazioni “spontanee” (è naturale portare le scarpe ai piedi), cioè le prenozioni più o meno diffuse in società, sono, per Durkheim,
«il primo ed il più grande ostacolo»
alla comprensione scientifica dei fenomeni sociali, poiché sono esse stesse un fenomeno sociale.
Inoltre, rappresentazioni e pratiche collettive soverchiano l’individuo non solo perché gli preesistono e gli sono trasmessi attraverso l’educazione, ma anche perché esercitano su di lui un ascendente, un’autorità morale.
5. Lo studio sul suicidio
Il lavoro empirico fondamentale di Durkheim è la sua ricerca sulle cause sociali dei suicidi, pubblicata nel 1897 in Le suicide, un lavoro basato su studi preesistenti, dati d’archivio del Ministero di Giustizia e una massa significativa di statistiche.
Gli statistici avevano osservato da tempo che certe azioni, come i matrimoni, i suicidi, gli omicidi, nonostante vengano decise individualmente, mostrano nel loro complesso distribuzioni e andamenti caratteristici.
Il belga Adolphe Quételet ne aveva dedotto che gli individui agiscono sotto l’influenza di fattori sociali, ipotizzando che una disciplina apposita, a cui diede il nome di «fisica sociale», potesse studiare simili influenze – si tratta appunto dello studioso che aveva anticipato Comte, inducendolo ad usare il termine alternativo di «sociologia».
Durkheim parte dalle acquisizioni della statistica e dall’idea che il suicidio, pur essendo un atto individuale, dipende da fattori sociali ed è dunque un fatto sociale.
Se anziché scorgervi solamente avvenimenti privati, isolati gli uni dagli altri, che richiedono ognuno un esame a sé, si contemplasse l’insieme dei suicidi commessi in una determinata società, in una determinata unità di tempo, si constaterebbe che il totale così ottenuto non è una semplice somma di unità indipendenti […], ma un fatto nuovo, con una sua fisionomia e significato, di natura eminentemente sociale [Il suicidio].
Durkheim porta statistiche da cui risulta che il tasso di suicidi varia da paese a paese, e in ciascuno si mantiene costante nel tempo a meno che non intervengano profondi cambiamenti sociali.
Dopo aver escluso il legame tra suicidio e follia e che siano cause rilevanti la razza, l’ereditarietà, il clima, l’andamento stagionale della temperatura e l’imitazione, arriva alla conclusione che i suicidi sono più probabili quando i legami sociali si allentano, l’individuo non è più integrato in una rete relazionale ed è lasciato in balia di se stesso, senza la guida morale della società.
La particolare condizione in cui il controllo della società sull’individuo si indebolisce è, come si è visto, l’anomia. La totale assenza di norme è impossibile in società, ma possono crearsi momenti di forte disgregazione, in cui gli individui non hanno sufficienti riferimenti e sono sono come tagliati fuori (come marginali o esclusi) dal tessuto sociale. E in questi casi che il rischio di autodistruzione si fa elevato.
Durkheim nota che il tasso di suicidio è alto tra i protestanti, medio tra i cattolici e basso tra gli ebrei.
Scartando la proibizione religiosa, nota che la comunità ebraica e la più coesa tra le tre e che quella protestante è la più individualistica.
Il suicidio è più frequente nelle società ad alto tasso di scolarizzazione, nelle quali l’integrazione sociale è più bassa e gli individui tendono ad avere una vita più solitaria. Le donne si suicidano meno degli uomini, perché partecipano maggiormente della vita familiare e religiosa.
I grandi cambiamenti sociali ed economici possono aumentare o diminuire il tasso di suicidio a seconda di come agiscono sulla coesione sociale: se a una guerra o a una crisi economica le persone reagiscono rafforzando le reti di solidarietà, si vedranno diminuire i suicidi, l’opposto se questi eventi causano allentamento e disgregazione del legame sociale.
Oltre al suicidio anomico, Durkheim descrive il suicidio egoistico, proprio delle società individualistiche nelle quali il suicidio è legato a fattori psicologici ed esistenziali, proprio perché la coscienza individuale prevale su quella collettiva; e il suicidio altruistico, caratteristico delle società semplici fondate, all’opposto, sul prevalere della coscienza collettiva sui quella individuale, dove l’individuo si annulla completamente nella società e tende ad uccidersi al venir meno della sua funzione sociale, come nel caso dei vecchi e malati ormai inutili alla società, o delle vedove che seguono il marito sulla pira funebre, o dei servi che seguono il padrone nella tomba.
6. Gli studi sulla religione
Negli studi sulla religione, il più importante dei quali è Le forme elementari della vita religiosa [Les formes élémentaires de la vie religieuse, 1912] Durkheim indica nella religione il fenomeno sociale fondamentale, un meccanismo che ha la funzione di distinguere e separare l’individuo dalla società, il profano dal sacro, indicando ai singoli l’autorità spirituale e trascendente a cui l’individuo deve sottomettersi.
La religione è infatti
« è il sistema di credenze e riti relativo alle cose sacre, cioè separate, interdette».
Ogni religione positiva coglie la verità fondamentale che esiste una realtà che trascende gli individui ed è ad essi superiore.
Nessuna di loro però la colloca correttamente nella società, ma in un’entità spirituale alla quale vengono attribuite le caratteristiche della società, vale a dire il fatto che si impone sugli individui ed è l’elemento in cui si costituisce la loro coesione e la loro stessa esistenza.
Comenio dice ad esempio della sua epoca sconvolta dalla guerra dei 30 anni:
«c’è un allontanamento turpissimo da quel Dio in cui viviamo, ci muoviamo, siamo».
La dialettica del sacro e del profano costituisce perciò il fatto sociale fondamentale in cui il fenomeno religioso si esprime e che consiste nell‘adorazione che la società fa di se stessa.
Le forme elementari della vita religiosa contiene una teoria generale delle forme simboliche [la Divisione del lavoro sociale contiene invece una storia delle forme sociali] che mostra come lingua, segni, simboli, acquistino senso solo all’interno di un insieme sociale e storico che si dà come sistema di relazioni. Si tratta della prima enunciazione del principio strutturalista, ed è per questo un testo di fondamentale importanza per tutte le scienze umane.
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