I sofisti

by gabriella

Raffaello, I sofisti allontanati dal gruppo dei socratici [La scuola di Atene, 1509, particolare]

I sofisti furono i protagonisti dell’Illuminismo greco, critici di un sapere dogmatico su cui si fondava una precisa gerarchia sociale e attori della prima rivoluzione pedagogica.

Demonizzati da Platone e dagli antichi e rivalutati solo con il pensiero contemporaneo a partire da Hegel e Nietzsche, produssero l’insegnamento di Protagora di Abdera e Gorgia di Lentini.

 

Indice

1. I perché di una condanna e della rivalutazione contemporanea

1.1 Da sapiente a cavillatore in malafede
1.2 La rivalutazione otto-novecentesca della Sofistica

 

2. Le premesse storico-sociali della rivoluzione sofista

2.1 La filosofia della crisi dell’ordine aristocratico e della sua filosofia
2.2 Il contesto storico-politico
2.3 La rivoluzione pedagogica sofista: eccellenti si diventa
2.4 La sofistica di prima e seconda generazione

 

3. Protagora di Abdera

3.1 L’uomo «misura di tutte le cose»: desacralizzazione e relativizzazione della verità
3.2 «Intorno ad ogni cosa ci sono due discorsi (logoi) in contrasto tra loro»: la verità è relativa, ma può essere trovata

3.21 L’anonimo sofista dei Dissoi Logoi 

3.3 «Degli dèi non so né che sono né che non sono»

 

4. Gorgia di Lentini

4.1 Il Trattato Sul non essere o Della natura

4.1.1 Le conseguenze del dire che il non essere non è
4.1.2 Le conseguenze del dire che l’essere è perché non può essere mai negato

4.2 Non sappiamo nulla, perciò crediamo
4.3 L’Encomio di Elena

 

5. I sofisti e la religione
6. Legge di natura e legge umana: il dibattito sulla politica nei sofisti

 

1. I perché di una condanna e della rivalutazione contemporanea

Il sophistés o sophos Talete di Mileto (62 a.C.- 5)

1.1 Da sapiente a cavillatore in malafede

Anticamente il termine sophistés (sapiente, dotto) era sinonimo di sophós (saggio) ed era riferito a chi possedeva una vasta e profonda conoscenza. Sophistés erano detti ad esempio i Sette Sapienti di Grecia, Talete, Biante, Pittaco, Solone, Cleobulo, Misone e Chilone, che Platone elenca nel Protagora.

Nel V secolo a. C si chiamarono, invece, “sofisti” quegli intellettuali stranieri che della sapienza facevano una professione, insegnandola scandalosamente dietro compenso, così che Senofonte poteva definirli «prostituti della cultura» e i loro detrattori, Platone e Aristotele, «negozianti di merce spirituale» interessati al denaro e al successo piuttosto che alla ricerca della verità.

Dopo Platone, il sofista sarà così il «cavillatore in mala fede» o il «maestro di ragionamenti capziosi», così che il termine “sofistico” assumerà il significato di falso, artificioso, adulterato.

L’opinione platonica condizionò tutta la ricezione posteriore (fino al 900) e contribuì a far cadere nell’oblio le opere di questi maestri, il cui scetticismo non armonizzava con la visione religiosa dei copisti medievali che non ne riprodussero le opere, le quali andarono così perdute.

 

1.2 La rivalutazione otto-novecentesca della sofistica

i Sofisti al centro dell’Illuminismo greco nell’età classica

La rivalutazione della sofistica inizia con i grandi filosofi dell’800 tra i quali Hegel che li chiamò «maestri della Grecia», e Nietzsche.

Oggi questi pensatori e la loro rivoluzione filosofica sono considerati il centro del cosiddetto “illuminismo greco”, cioè quella stagione culturale che per prima mise in dubbio attraverso argomenti razionali i valori accettati dalla società, cristallizzati nell’autorità (cioè nelle gerarchie sociali) e nella tradizione religiosa su cui quell’autorità era fondata. 

Questo perché i sofisti rifiutarono l’idea di una verità assoluta, unica, immutabile e accessibile alla ragione di tutti, e mostrarono invece come l’esperienza e la condizione particolare di ognuno determinassero il punto di vista umano sulla realtà.

Infatti, come argomenta l’anonimo sofista dei Discorsi doppi (Dissoi logoi)

Gli uni dicono che altro è il bello e altro è il brutto, differenti come di nome, così di fatto;
altri invece che bello e brutto sono la stessa cosa.
Ed io cercherò di spiegare questo secondo modo di vedere.

Per un giovinetto il concedersi a un amante è bello;
ma ad uno che non sia suo amante è brutto.
E per le donne, fare il bagno in casa è bello,
ma nella palestra è brutto
(invece per gli uomini,
tanto nella palestra che nel ginnasio è bello) […]

E beneficar gli amici, bello; i nemici, brutto.
E fuggire il nemico,
brutto; ma fuggir i competitori nello stadio, bello.
E uccider gli amici, brutto; ma i nemici, bello.
E uccider gli amici e i concittadini, brutto, ma i nemici, bello.
E così via per tutti gli altri casi.

L’atteggiamento di pensiero inaugurato dai sofisti del V secolo, fu quindi relativista, critico verso la tradizione, rivolto al mondo degli uomini e non all’essere, in altre parole umanistico [cfr. Barbara Cassin].

 

2. Le premesse storico-sociali della rivoluzione sofista

La critica radicale a cui i sofisti sottoposero i valori, la religione e le regole di condotta dei greci non sarebbero pensabili senza alcune fondamentali trasformazioni avvenute nel passaggio dall’età arcaica al quinto secolo a.C..

Queste premesse storico-sociali sono, come ha osservato Jean-Pierre Vernant,

– la scomparsa dell’anax miceneo, il principe, che controllava e regolava per mezzo dei suoi scribi tutta la vita sociale;

– la promozione della parola che diviene libero dibattito, discussione, argomentazione contraddittoria e arma politica per eccellenza e non più messaggio dell’oracolo,

la pubblicità delle leggi e dei decreti che appaiono chiaramente come prodotti umani, in quanto tali criticabili, e non più emanazioni di una giustizia eterna;

– la sostituzione degli antichi rapporti gerarchici di dominio e di sottomissione con un nuovo tipo di legame sociale fondato sulla simmetria, la reversibilità, la reciprocità [isonomia] tra cittadini definiti come “simili” o “uguali”;

– l’abbandono dell’antico atteggiamento nei confronti della tradizione che non viene più considerata come verità immutabile da rispettare o ripetere senza modifiche, ma come un passato da innovare e migliorare. Per questo,

La prima sophia dei “Sapienti” della Grecia è stata una riflessione morale e politica che ha cercato di definire i fondamenti di un nuovo ordine umano destinato a sostituire il potere assoluto del monarca o dei nobili e dei potenti con una legge egualitaria, comune a tutti.

 

2.1 Una filosofia della crisi dell’ordine aristocratico

La sofistica può quindi essere definita una “filosofia della crisi” in un momento di rapida trasformazione socioculturale del mondo greco, in cui essa maturano difficoltà e contraddizioni presenti nella precedente tradizione filosofica.

sorge ad Atene la centralità dello spazio pubblico di cui è emblema il teatro (nell’immagine quello di Mileto)

Il mondo dei sofisti è il mondo della polis e del dibattito pubblico nel quale nuovi valori e nuovi modi di convivenza devono essere inventati a partire dal confronto, spesso aspro, fra gli interessi e i punti di vista dei diversi ceti sociali.

La riflessione filosofica si concentra pertanto con particolare intensità sull’uomo, visto soprattutto nella sua dimensione di cittadino e di soggetto politico (zoon politikón), lasciando nell’ombra l’indagine sui principi primi della natura (arché) che l’aveva contraddistinta fino a quel momento.

Per misurarsi con le questioni chiave del proprio tempo (cosa sia la virtù e se sia insegnabile, che cosa siano la giustizia e il diritto, quale sia il fondamento delle leggi ecc.) i sofisti dovettero tuttavia affrontare problemi già posti dalla filosofia: primo fra tutti quello della verità e della conoscenza.

 

2.2 Il contesto storico-politico

Pericle (495-429 a.C.)

aspasia

Aspasia di Mileto (470 – 400 a. C.)

Atene era appena uscita vittoriosa dalla guerra con i persiani, traffici e commerci erano in piena espansione garantendo influenza e floridezza ad una borghesia in ascesa che competeva in potenza con l’aristocrazia cittadina ed era riuscita a imporre riforme democratiche delle istituzioni della polis.

Alla guida del governo democratico c’era Pericle, un politico colto, discendente in linea materna del grande riformatore ateniese Clistene ed amico di Protagora, Zenone di Elea e Anassagora di Clazomene, i cui insegnamenti (in particolare quelli di Anassagora di cui fu allievo) erano stati decisivi nella formazione della sua personalità.

Sua compagna era Aspasia di Mileto, intellettuale e politica, con cui Pericle visse more uxorio per tutta la vita – dopo aver ripudiato la moglie -, nonostante non potesse sposarla in quanto straniera.

Il clima politico e l’amministrazione democratica della città (di cui è testimonianza l’orazione funebre di Pericle) rappresentano il presupposto entro cui si sviluppò la riflessione dei sofisti: vivere in democrazia significava, infatti, partecipare alle assemblee, prendervi la parola, far valere con efficacia la propria opinione in mezzo alle altre mostrando di possedere l’arte dell’eloquenza.

 

2.3 La rivoluzione pedagogica sofista: eccellenti si diventa

Sofisti e neuroscienze: una ricerca recente

Ed è proprio a questa necessità che provvedono i sofisti, insegnando retorica e dialettica.

La retorica, infatti, è l’arte di parlare in modo persuasivo che questi maestri sviluppavano negli allievi insegnando loro la poesia, un sapere che permetteva di sedurre il proprio pubblico con espressioni note tratte dai poeti, e tutti gli altri saperi codificati (musica, aritmetica, astronomia, ginnastica).

La dialettica è, invece, l’arte di prevalere nella discussione, che i sofisti ottenevano allenando il ragionamento razionale con l’insegnamento dell’astronomia, della musica, dell’aritmetica in una enkyklios paideia (insegnamento universale) nella quale si distinse, ad esempio, Ippia di Elide.

Si può quindi dire, in termini contemporanei, che i sofisti sono stati i primi a comprendere:

  1. che l’eccellenza non è innata, ma si educa, cioè che la virtù (areté) può essere insegnata
  2. che il possesso del sapere (istruzione) produce (a certe condizioni) competenza (saper fare, essere migliori).

 

 

2.4 La sofistica di prima generazione e gli eristi

Protagora di Abdera

Gorgia di Lentini

I sofisti non rappresentano una scuola compatta di pensatori: hanno avuto infatti dottrine diverse e talvolta opposte.

La storiografia filosofica tiene comunque distinti i sofisti di prima generazione (Protagora, Gorgia, Prodico, Ippia, Antifonte, ecc.) e i sofisti della seconda generazione, noti come “eristi“, che segnano la fase di crisi e dissoluzione della scuola.

L’eristica è presentata da Platone nell’Eutidemo come, un’attività intellettuale volta alla confutazione dell’avversario con argomenti ad hoc senza alcun interesse per la ricerca della verità.

Il dialogo platonico mostra infatti i due fratelli, Eutidemo e Dionisodoro fare un uso distruttivo della ragione in quanto occupati giocosamente nella dimostrazioni ora di una tesi ora di quella opposta.

 

3. Protagora di Abdera

3.1 L’uomo «misura di tutte le cose»: desacralizzazione e relativizzazione della verità

Protagora di Abdera (486 a. C. -411 – a. C.)

Il primo e più importante esponente della sofistica fu Protagora, maestro la cui eloquenza e fascino intellettuale erano celebri in tutta la Grecia.

Pericle (494 – 429 a.C.)

Si sa che scriveva costituzioni e che era amico di Pericle e maestro dei suoi figli avuti da Aspasia. Delle opere del sofista di Abdera [le Antilogie e i Ragionamenti demolitori che venivano anche citati con il titolo Sulla verità]ci sono rimasti pochi frammenti, il più celebre dei quali afferma che

«l’uomo è misura di tutte le cose». 

Il ragionamento di Protagora è che poiché tutta la nostra conoscenza deriva dai sensi, noi non possiamo conoscere le cose in sé, il mondo reale, vero, dunque è l’uomo a decidere dei valori. L’uomo, infatti, giudica ed esclude ciò che è sicuramente errato, valorizzando invece ciò che è utile.

Come si vede Protagora aveva una concezione relativista della verità. Non era però un nichilista: pensava, infatti, che gli uomini fossero capaci di distinguere, dalle conseguenze delle loro scelte, ciò che è buono da ciò che è cattivo.

La novità della dottrina di Protagora è lo stretto rapporto che il filosofo istituisce tra ragione ed esperienza in virtù del quale la verità perde il significato sacrale che possedeva nella cultura precedente (si pensi a Parmenide), visto che il terreno su cui si combatte, si cerca ed eventualmente si impone la verità è ora quello interamente umano della città.

La verità ora non può più essere concepita come un sapere assoluto, unico per tutti perché espressione dell’immutabile natura delle cose, ma risulta relativa alla prospettiva e alla condizione dei soggetti umani.

Nell’affermazione di Protagora l’uomo non decide in modo arbitrario del vero e del falso, ma la sua ricerca della conoscenza e la necessità di distinguere del vero e del falso si producono necessariamente all’interno del suo rapporto col mondo.

L’uomo, quindi, non può conoscere tutto, ma solamente le cose che cadono nell’orizzonte della sua percezione e della sua esperienza.

 

3.2 «Intorno ad ogni cosa ci sono due discorsi (logoi) in contrasto tra loro»: la verità è relativa, ma può essere trovata

Il secondo frammento che ci è giunto afferma che su ogni tema si può argomentare a favore o contro. 

Nelle Antilogie, Protagora sostiene, infatti, che

intorno ad ogni esperienza ci sono due discorsi (logoi) in contrasto tra loro,

così che partendo da prospettive opposte si possono sostenere su un oggetto due tesi tra loro contraddittorie, senza che sia possibile decidere razionalmente della verità dell’una e dell’altra.

Eraclito (535 – 475 a.C.)

Parmenide (515 – 544 a.C.)

Entra così in crisi il lógos nel quale avevano confidato Eraclito e Parmenide, cioè la possibilità di identificare in modo univoco le cose e di cogliere ciò che resta immutabile al di là del loro perenne fluire.

L’uomo perde in questo modo la capacità di stabilire il contenuto di verità dei discorsi, ma può giudicarne la validità in base alla loro utilità e alla loro persuasività, cioè alla convergenza su una tesi di un numero ampio di individui.

Nella prospettiva di Protagora, infatti, la verità è legata alla pratica: conoscere il mondo significa anche migliorarlo, sanare i corpi se si è medici, rendere più giusta la città se si è politici (Platone, Teeteto): la sua è quindi una concezione pragmatica della verità.

Platone (428 – 347 a. C.)

Platone, da grande antagonista dei sofisti qual era, non perse l’occasione per ricordare che i figli di Pericle ed Aspasia, Parolo e Santippe, tenevano una condotta scandalosa perché erano educati da Protagora.

Il fatto è interessante perché Aspasia era un’etera, ma anche una donna coltissima; Pericle a sua volta un intellettuale e il fatto che i loro figli fossero dei dissoluti mostra che la virtù non si eredita, ma si acquisisce con l’educazione.

Insinuando che i due ragazzi davano scandalo perché avevano i sofisti  per maestri, Platone mostra di adottare lo stesso ragionamento dei sofisti: cioè che la virtù non è un fatto di natura, un fatto di sangue (aristocratico), ma di educazione.

Creato con Padlet

 

3.2.1 L’anonimo sofista dei Dissoi Logoi

Della concezione relativistica della verità è esempio lo scritto anonimo Ragionamenti doppi (Dissoi logoi), della metà del IV secolo a.C., il quale si presenta come l’enciclopedia dei ragionamenti usati da sofisti.

Lo scritto si propone, infatti, di dimostrare che le stesse cose possono essere belle o brutte, buone o cattive, giuste o ingiuste, a seconda della prospettiva da cui le si guarda, a partire dalla propria condizione.

Ragionamenti doppi intorno al bene e al male sono sostenuti in Grecia da coloro che si occupano di filosofia. Gli uni dicono che altro è il bello e altro è il brutto, differenti come di nome, così di fatto; altri invece che bello e brutto sono la stessa cosa. Ed io cercherò di spiegare questo secondo modo di vedere.

Per un giovinetto il concedersi a un amante è bello; ma ad uno che non sia suo amante è brutto. E per le donne, fare il bagno in casa è bello, ma nella palestra è brutto (invece per gli uomini, tanto nella palestra che nel ginnasio è bello) […] E beneficar gli amici, bello; i nemici, brutto. E fuggire il nemico, brutto; ma fuggir i competitori nello stadio, bello. E uccider gli amici, brutto; ma i nemici, bello. E uccider gli amici e i concittadini, brutto, ma i nemici, bello. E così via per tutti gli altri casi [Anonimo, Discorsi doppi (Dissoi logoi)].

La seconda parte dello scritto è molto interessante perché contiene le ragioni di questo relativismo, consistenti nell’osservazione dell’assenza di consenso universale tra i diversi popoli su temi etici e religiosi:

 

3.3 «Degli dèi non so né che sono né che non sono»

Se la verità non è più un orizzonte possibile per l’uomo, la cui conoscenza deriva interamente dai sensi, si spezza anche il legame con gli dèi, perché l’uomo non può avere esperienza del divino, in quanto ciò non rientra nell’ordine delle sue facoltà conoscitive. Scrive infatti Protagora:

Degli dèi non so né che sono, né che non sono, né quale sia il loro aspetto: molte sono infatti le difficoltà che si oppongono, la grande oscurità della cosa e la pochezza della vita umana [Eusebio, Praeparatio evangelica XIV, 3, 7].

Il filosofo non nega quindi l’esistenza degli dèi, ma si limita a mettere in parentesi la questione della loro esistenza e della loro conoscibilità.

Ciononostante, poco dopo la morte di Pericle di cui era stato amico, fu condannato per empietà (432 a.C), come era accaduto vent’anni prima ad Anassagora (411 a.C) – egli stesso amico e maestro di Pericle – il quale aveva sostenuto che

«il sole non è un Dio, ma una pietra infuocata».

 

4. Gorgia di Lentini

Gorgia

Gorgia di Lentini (485 – 375 ca. a. C.)

Allievo di Empedocle, Gorgia di Lentini fu un retore acclamato e un insegnante ricercato. Viaggiò in tutta la Grecia, da Argo alla Beozia, pronunciando discorsi memorabili ad Olimpia e offrendo i suoi insegnamenti di città in città.

Accumulò, così, ingenti ricchezze facendosi pagare fino a cento mine per allievo. Visse, però sobriamente, lontano da feste e simposi e da tutto ciò che potesse turbarlo.

Le sue opere principali sono Sul non essere o sulla natura, e l’Encomio di Elena.

In Sul non essere, Gorgia radicalizza la tesi relativista della verità di Protagora e la porta ad esiti nichilisti, attaccando la concezione realista del linguaggio di Parmenide (“la stessa cosa è e dire che è”) e dimostrando che «nulla è» (in quanto non esiste relazione tra pensiero e linguaggio e vengono dunque a cadere le dimostrazioni eleatiche sull’essere e sul non essere).

 

4.1 Il trattato Sul non essere o Della natura

Sul non essere o Della natura

Osserva, infatti, Gorgia,

«che anche se qualcosa fosse sarebbe inconoscibile» (perché il pensiero non è in grado di cogliere la realtà) e «anche se qualcosa fosse conoscibile sarebbe incomunicabile» (perché il linguaggio, non avendo rapporti con le cose non è neanche capace di darne rappresentazione).

Parmenide (515 – 544 a.C.)

La sua dimostrazione del non essere parte dalla tesi eleatica che il non essere non è.

Parmenide aveva osservato che il nulla non è perché non può essere pensato e che l’essere è perché non può essere mai negato (è sempre, da sempre, immutabilmente).

Gorgia porta a conseguenze opposte entrambe le affermazioni.

 

4.1.1 Le conseguenze del dire che il non è essere non è 

Platone (427 – 447 a.C.)

Se il nulla non è perché non può essere pensato, pensarlo e dirlo cancellano la sua differenza con l’essere.

Come Platone fa dire allo straniero di Elea, Parmenide avrebbe fatto meglio a non parlare del non-essere, a non pronunciare quella parola, a non pensarla neppure: secondo la sua stessa affermazione, basta, infatti, che si pensi qualcosa e che lo si dica, perché quella cosa per ciò stesso sia.

L’ontologia parmenidea quindi collassa, perché se è impossibile dire ciò che non è, allora qualunque pensiero, anche quello falso è vero [e il sofista è come il filosofo].

 

 

4.1.2 Le conseguenze del dire che l’essere è perché non può essere mai negato

Se l’essere è necessariamente, è facile osservare che le cose che esistono non hanno questa caratteristica: infatti nascono e muoiono, divengono, dunque non sono, mentre l’Essere non è nessuna delle cose che esistono, dunque non è Nulla.

L’essere infatti,

se è eterno non ha principio
se non ha principio è infinito
se è infinito nessun luogo può contenerlo
se non è in nessun luogo non esiste

 

4.2 Non sappiamo nulla, perciò crediamo

Data l’inconsistenza dell’ontologia parmenidea e l’evidenza che non c’è differenza tra le cose vere e false, la persuasione si deve, quindi, all’ignoranza: gli uomini credono perché non sanno, cioè non possono controllare conoscitivamente una realtà che si presenta come irrazionale e sfuggente.

https://medium.com/la-scuola-che-non-c%C3%A8/gorgia-del-non-essere-o-della-natura-b31a37b76e06

4.3 L’Encomio di Elena

Encomio di Elena

Se in Sul non essere, Gorgia dimostra che l’essere, per le caratteristiche con cui è stato pensato dagli eleati, non esiste, nell’Encomio, dimostra l’innocenza di una donna presentata da Omero e dai poeti come la responsabile della massima sciagura [Elena, infatti tradì il marito Menelao per seguire Paride a Troia, scatenando la sanguinosa guerra cantata da Omero].

Elena non è responsabile perché agì o mossa da un principio a lei superiore (che si tratti degli dèi o dell’Ananke, la Necessità), o rapita con la forza, o persuasa da discorsi (logoi), o vinta dall’amore. In ogni caso il movente rimane esterno alla sua responsabilità.

La sua tesi è che Elena è innocente, perché

1. «fece quel che fece» per «cieca volontà del caso», per volontà degli dèi e per i decreti della Necessità («la Fatalità», come dirà nella Belle Hélène di Offenbach);

2. o se, debole donna di fronte alla forza virile, «per forza fu rapita» (fr. 11, 6-7).

3. oppure se, terza ipotesi, fu persuasa con le parole,

4. o se, quarto caso, era semplicemente innamorata. Come può la sua colpa – essersi lasciata sedurre – renderla innocente? Semplicemente perché Elena non può impedire a se stessa di avere occhi e orecchie, e come i suoi occhi videro il bel corpo di Paride, le sue orecchie ne ascoltarono i discorsi.

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5. I sofisti e la religione

Nella sofistica troviamo alcuni rilevanti pronunciamenti intorno alla religione. Oltre alla tesi di Protagora che rappresenta la prima professione filosofica di agnosticismo religioso (Dio non è né affermabile né negabile perché l’uomo non dispone di strumenti adeguati per indagare la questione), Prodico di Ceo rileva come l’uomo abbia divinizzato gli aspetti utili e vantaggiosi della realtà, una tesi che conoscerà sviluppi radicali solo in epoca moderna con Feuerbach e Marx. Come riferisce Sesto Empirico:

Gli antichi consideravano dèi, in virtù dell’utilità che ne derivava, il sole, la luna, i fiumi, le fonti e in generale tutte le cose che giovano alla nostra vita, come per esempio, gli Egiziani il Nilo. E per questo il pane era considerato come Demetra, il vino come Dioniso». Sesto Empirico, Adversus mathematicos, IX, 18.

In Crizia c’è invece la denuncia del carattere strumentale della religione, inventata e utilizzata dai potenti come strumento di controllo. Per vedere ripresa questa idea bisognerà aspettare Machiavelli e, ben più tardi, la sociologia politica.

La posizione dei sofisti sulla religione risulta quindi storicamente e filosoficamente importante, in quanto si accompagna alla rottura di quella visione sacrale dell’esistenza che era propria della Grecia antica e rappresenta l’aspetto strutturale di un umanismo fondato sulla consapevolezza che l’uomo

indipendentemente da ogni ordine già dato, indipendentemente dalla necessità di una legge divina, è egli stesso che costruisce il suo mondo, si costituisce un ordine civile, amministra la sua casa e la città, fonda colonie e dà nuove leggi [F. Adorno, I sofisti e Socrate, Torino, Loescher, 1962, p. XVI].

Una eco delle tesi dei  sofisti sulla religione può essere vista nel monologo di Elliot Alderson che, nella terza puntata della serie Tv Mr. Robot, espone le ragioni del suo rifiuto delle religioni organizzate. Le sue tesi riecheggiano quelle di Crizia e in seguito di Vanini, Bruno, Spinoza, Feuerbach, Marx, Nietzsche.

 

6. Legge naturale e legge umana: il dibattito sulla politica nei sofisti

Anche il dibattito filosofico sulla legge si radica in questo umanismo sofista. Infatti, mentre in Omero e in Esiodo, la giustizia e la legge erano concepite come decreti degli dèi, i sofisti proclamano invece la loro origine tutta umana (si veda l’importante anticipazione in Solone).

Si apre in questo modo la riflessione sulla validità della legge e sulla ragione per cui gli uomini dovrebbero rispettarla. La risposta più importante è quella di Protagora: le leggi vanno rispettate quali fondamento della vita civile, senza la quale l’uomo non sarebbe tale. Riprenderà questa tesi Cicerone per osservare che

siamo servi delle leggi, affinché possiamo essere liberi.

papiro di OssirincoLa prima distinzione tra legge naturale immutabile (phýsis) e legge umana mutevole (nómos) è di Ippia di Elide che manifesta una chiara preferenza per la prima, poiché unisce gli uomini al di là del tempo e dello spazio, mentre la seconda li divide e li tiranneggia.

Ippia ricava da questa tesi un cosmopolitismo che ricorda quello di Democrito. Antifonte radicalizza il discorso di Ippia, dissacrando ulteriormente la legge positiva (cioè “posta” in essere dall’uomo), e dichiarando vera solo la legge di natura, mentre quella umana è opinabile. Ciò porta il filosofo a una visione relativista e tollerante, spiccatamente egualitaria:

Noi rispettiamo e veneriamo chi è di nobile origine, ma chi è di natali oscuri né lo rispettiamo né lo onoriamo. In questo ci comportiamo gli uni verso gli altri da barbari, poiché di natura tutti siamo assolutamente uguali, sia Greci che barbari. Basta osservare le necessità naturali proprie di tutti gli uomini […] nessuno di noi può esser definito né come barbaro né come greco. Tutti infatti respiriamo l’aria con la bocca e con le narici […]. Antifonte (Papiri di Ossirinco, XI, n. 1364)

Su un piano diverso si pone la seconda sofistica. Trasimaco (presentato da Platone in Repubblica) afferma che la giustizia è una maschera che nasconde gli interessi dei potenti, essa infatti

non è altro che l’utile del più forte,

e su questa tesi lo seguirà Crizia.

Per Polo, presentato da Platone nel Gorgia, la retorica non ha niente da spartire con la giustizia perché essa ha per scopo, per colui che la usa, «la possibilità di fare ciò che si vuole». Nel dialogo, il sofista chiede quindi a Socrate se non pensi che il Gran Re, comunemente considerato l’uomo più felice per il suo potere, sia degno di invidia, sentendosi rispondere che non sa se

«costui sia felice perché non sa come egli stia quanto a equilibrio interiore e giustizia».

Riguardo alla felicità, è meglio infatti, per Socrate, «subire ingiustizia che fare ingiustizia». Sarà comunque Callicle a mettere da parte ogni scrupolo moralistico e a sostenere che la legge è una creazione dei più deboli per tutelarsi da chi è più forte per natura. Ad essa il sofista oppone quindi il diritto del più forte.

E’ proprio questo esito dissacrante della sofistica (si ricordi che Atene dava vita in quegli anni a una forma di etica pubblica che vedeva nella virtù civile, cioè nella giustizia e nella partecipazione del cittadino al miglioramento della città, la forma più alta di areté, o virtù) che Tucidide ha in mente quando riferisce il Dialogo dei meli [per approfondire il dibattito sulla politica dei sofisti, cliccare qui].

Tucidide, Il dialogo dei meli: dissoi logoi e diritto del più forte

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