L’introduzione a Lo straniero e il nemico, analisi etnografica dell’ostilità crescente verso gli stranieri nelle società contemporanee.
A partire da Abramo, la condizione dello straniero respinto dalla città è un mito fondativo della tradizione ebraico-cristiana. Popolo per definizione di stranieri, nell’esilio egiziano o nella cattività babilonese, tra le genti di Canaan o sotto il tallone romano, nella diaspora e nelle persecuzioni che ne scandiscono la storia fino allo sterminio, gli ebrei incarnano il doppio ruolo di matrice della nostra cultura e di testimonianza della sua storica colpa.
La definizione weberiana degli ebrei come popolo-pariah, che Hannah Arendt (1951; 1975) riprenderà in un’accezione non più descrittiva ma propositiva (la condizione di pariah come premessa di una possibile libertà politica), sottolinea l’estraneità che il cosiddetto Occidente alberga in se stesso.
Per molti secoli (almeno fino alla comparsa degli zingari), gli ebrei saranno l’unico popolo veramente straniero in Europa, straniero in quanto impossibile da identificare con un territorio e con uno Stato, e quindi confinato in ghetti, sottoposto a regolamenti e statuti particolari e vessatori, oggi tollerato nelle città e domani cacciato o abbandonato ai pogrom.
È a questa figura priva di status certo che si riferisce Simmel nel suo famoso Excursus sullo straniero (1908a), il testo che inaugura la riflessione moderna sull’estraneità sociale. Lo straniero è “l’ospite che forse resterà”, qualcuno che non tanto si contrappone alla società che lo ospita per la sua differenza, ma precisamente la inquieta per la possibilità di rimanervi. Egli non solo sta tra noi oggi, ma può fermarsi, e quindi è passibile di diventare (se non altro sul piano delle relazioni esteriori e giuridiche) come noi, nel senso che potrà condividere il nostro spazio sociale.
Fin quando è confinato nella sua alterità, identificato о identificabile come altro, lo straniero non costituisce un problema particolare, perché intacca solo episodicamente la superficie della società che lo “ospita”. È questa la condizione classica del viaggiatore d’altri tempi, del marinaio, del diplomatico, perfino del prigioniero di guerra, e oggi soprattutto del turista, figure che torneranno prima о poi alla loro remota condizione originaria e che quindi possono circolare innocue e fondamentalmente invisibili tra di noi.
Diversa è invece la posizione di chi giunge possibilmente per restare, avanzando perciò, implicitamente о esplicitamente, pretese di riconoscimento, di uguaglianza, di giustizia e di libertà. Migranti e profughi corrispondono oggi a questa figura di straniero, ma sono forse gli zingari a rappresentarlo nei suoi aspetti meno ovvi, e forse più rivelatori della società che si confronta con lui.
Gruppi mobili, che attraversano facilmente le frontiere, si accampano nei terrains vagues alla periferia delle città e si mescolano tra gli abitanti praticando attività innocue ma divenute socialmente illegittime, come chiedere l’elemosina о leggere la mano, oppure piccoli traffici come il commercio di auto usate, e talvolta furtarelli e comunque reati minori, gli zingari negano visibilmente la microdisciplina su cui si basa la società del lavoro (De Vaux de Foletier 1970; Boni in questo volume).
Possono essere di altra nazionalità, come i Rom, о cittadini a pieno titolo, come i Sinti di nazionalità italiana, ma in ogni caso incarnano l’imprevedibilità sociale. La società del lavoro può promuovere la mobilità professionale, l’incertezza come condizione del mercato e le grandi migrazioni consumistiche (week end, vacanze estive, turismo nazionale e internazionale), ma solo quando questi spostamenti avvengono secondo percorsi prevedibili, più о meno calcolabili e soprattutto economicamente fruttuosi. Di fronte a stranieri, di diritto о di fatto, che si muovono secondo schemi culturalmente illegittimi e praticano un’economia marginale, ecco che la nostra società eccede in controlli, pretende insediamenti sotto l’egida delle amministrazioni locali e soprattutto della polizia, cerca di fissare (o ancora meglio di allontanare definitivamente) chi appunto arriva con la prospettiva di restare, о comunque di andarsene a suo piacimento.
Con la sua ineguagliata capacità di descrivere le interazioni complesse tra individui e gruppi, Simmel coglieva il punto cruciale delle relazioni di reciprocità (Wechselwirkung) tra stranieri e autoctoni, nel suo caso tra ebrei e tedeschi.
“L’Ebreo pretende di essere come noi, ma se è tra noi non è come noi, oppure, se lo diventa esteriormente, è intimamente diverso”:
questo è il senso comune, implicitamente о esplicitamente xenofobo, che accompagnerà, fino allo sterminio nazista, la percezione degli ebrei nella società dei gentili, nei dibattiti dell’illuminismo sull’emancipazione ebraica come all’epoca del romanticismo politico, nelle teorie razziste ma anche in quelle apparentemente più comprensive о “tolleranti”.
Mentre gli ebrei si inserivano progressivamente, anche se marginalmente, in alcune nicchie della società europea, nell’indifferenza e ancor più nell’interessata tolleranza delle corti e delle autorità locali, il loro doppio status diveniva più visibile e quindi critico. Essi rappresentavano lo scandalo di soggetti che pretendevano, consapevolmente o no l’uguaglianza e che, come avvenne prima in Prussia e poi nella Germania guglielmina, divenivano come tedeschi, fino al punto di eccellere nelle professioni e perfino di illustrarsi in guerra, qualcosa che i nazisti non tollereranno, privandoli progressivamente dei diritti civili e sociali a partire dal 1933, scagliando contro di loro le milizie di partito nel 1938 e pianificandone lo sterminio.
Lo straniero non è dunque, nei, termini di Simmel, il diverso assoluto e riconosciuto come tale con cui si mantiene una distanza cognitiva e culturale, ma l’eterogeneo che si mescola agli ospitanti.
Un eterogeneo che non proviene necessariamente dall’esterno, ma che può essersi sviluppato all’interno della società, nelle maglie dei suoi costumi e delle sue tradizioni, e che perciò va identificato e possibilmente espulso o eliminato. Il fatto che i nazisti abbiano sterminato, insieme agli ebrei, zingari e omosessuali (che non hanno nemmeno goduto del diritto alla memoria del loro sacrificio) mostra come una parte consistente della società europea fosse disponibile a trasformare in nemici anche gli stranieri interni, oltre a quelli esterni o che venivano considerati tali (Hilberg 1985).
Nel saggio di Simmel, che si mantiene nell’ambito della psicologia sociale o della microsociologia, la possibilità che lo straniero divenga nemico pubblico è comunque appena accennata. Simmel non prendeva in considerazione categorie politiche, non rifletteva sul problema politico costituito dagli stranieri.
Ebreo assimilato, persuaso probabilmente che l’integrazione progressiva degli ebrei nella società tedesca, cioè la dissimulazione della loro identità, avrebbe portato alla soluzione del “problema ebraico” (Liebeschiitz 1970), Simmel non vedeva come nella relazione ebrei-tedeschi fosse in gioco la definizione o l’autodefinizione della società in termini politici: chi fa parte, e con che diritto, della società, chi è dentro e chi è fuori, chi è incluso e chi escluso.
Nella cultura tedesca, sarà Carl Schmitt (cfr. trad. it. 1972), teorico del diritto compromesso con il nazismo, a identificare il criterio fondamentale del “politico” nella distinzione tra amico e nemico (e nella lotta a morte che può contrapporre una società politica ai suoi nemici interni ed esterni), e perciò a mostrare come il rapporto tra amico e nemico definisca anche il problema dello straniero.
Il confine che una società traccia tra se stessa e gli stranieri (soprattutto quelli vicini o interni, assimilati o dissimulati) è fondamentalmente il diritto di eliminare (giuridicamente, con l’espulsione o il contenimento, ma in certi casi anche fisicamente) la presenza di chi è considerato, a torto o ragione, una minaccia per sua “identità”, per la sua ricchezza o la sua supposta sopravvivenza. In un certo senso la categoria di straniero trapassa facilmente in quella di nemico, almeno se si considera la questione in termini politici.
È d’altra parte è nota, a partire da Benveniste ( 1969), la prossimità semantica dei termini hospes e hostis. L’ospite straniero è il nemico con cui si interrompono temporaneamente le ostilità (questa è la condizione di Priamo quando visita Achille nella sua tenda).
Nella cultura greca, in cui le poleis erano perpetuamente in guerra tra loro, gli stranieri ospitati nelle città, i meteci anche se di origine greca e quindi culturalmente affini, erano per definizione nemici potenziali e quindi privati dei diritti politici (Bettini 1992).
Il problema capitale della cultura politica moderna, almeno in questo autentica erede di quella greca (come ha sempre preteso la storia della filosofia), è dunque definire i confini della società e quindi la posizione dello straniero.
Questo non è altro, allora, che il problema della nazione, decisivo in tutta la storia europea dalle rivoluzioni borghesi fino alla seconda guerra mondiale, una questione che, rimossa dopo la sconfitta del nazismo, torna a occupare, anche se confusamente, l’orizzonte del nostro tempo. Qualunque cosa sia, che corrisponda o no a una realtà storico-sociale o culturale soggiacente allo Stato (o debba considerarsi piuttosto un principio costruito ex post e invocato per giustificare la legittimità dell’appropriazione di un territorio da parte di uno Stato e dei suoi abitanti), diviene il criterio dominante della distinzione politica tra ““noi” “loro”.
E si noti che il “loro” non definisce tanto l’appartenenza di qualcuno a un’altra nazione (fin quando egli resta nella sua appartenenza), ma precisamente chi, pur essendo cittadino di un altro Stato, lo abbandona, oppure chi non può vantare alcuna appartenenza.
Oggi, dopo la fine della guerra fredda e del bipolarismo, e soprattutto dopo che una guerra civile tra europei è stata combattuta su quello che è considerato il nuovo limes orientale d’Europa, è divenuto abituale, in Italia e altrove, riscoprire le nazioni e le nazionalità, dimenticando quanto sia breve la storia delle nazioni e soprattutto quanto sia incerto lo status del concetto che le descrive.
Stati come quello italiano e tedesco divennero nazionali poco più di un secolo fa, al culmine di vicende politico-militari in cui erano state attive due monarchie (la sabauda e la prussiana) che certamente non erano rappresentative delle identità politiche e culturali presenti nella costituenda nazione.
All’Inghilterra è convenuto, sino alla seconda guerra mondiale, il rango di impero o di Commonwealth (che includeva regioni, regni e dominions che non potevano coincidere con la nazione britannica).
Forse solo la Francia rappresenta empiricamente il modello ideale dello Stato-nazione, ma anche in questo caso non andrebbe dimenticato che la storia di questa nazione non è più vecchia di due secoli. In altri termini, se lo Stato nazionale è un edificio relativamente recente, la realtà che lo sottenderebbe, la “nazione” come comunità politica, linguistica o culturale, è un costrutto incerto o, come direbbero Hobsbawm e altri un caso di invenzione della tradizione (Gellner 1983; Hobsbawni 1990; Hobsbawm-Ranger 1983).
Non è l’omogeneità nazionale ad essersi tradotta in uno Stato che ne garantiva i confini territoriali, ma sono stati singoli Stati che, attraverso politiche di conquista e di annessione di altri Stati, hanno costituito una società politica omogeneizzandola con maggiore o minore fortuna, imponendo una lingua amministrativa comune, un esercito nazionale e così via.
Il caso dell’Italia è forse il più estremo di tutti, se si pensa che poco più di un secolo fa lo Stato nazionale era vissuto come una potenza estranea in diverse regioni del sud o che l’italiano che oggi chiameremmo standard era parlato da una esigua minoranza di abitanti (De Mauro 1970). Al contrario, solo ottant’anni fa esisteva ancora uno Stato imperiale e multinazionale come l’Austria-Ungheria, di tradizioni molto antiche, a cui non si addicevano certamente quelle caratteristiche identitarie e culturali che oggi sembrano ovvie, e vengono presupposte dagli storici come condizione dell’esistenza degli Stati moderni, mentre ne sono piuttosto un effetto tardivo (Anderson 1983).
In questa strana storia rovesciata, gli stranieri giocano un ruolo decisivo perché la loro presenza e visibilità si intrecciano non con una realtà nazionale data ma con una in formazione, non con identità stabilite ma con identità proiettive e spesso immaginarie, perciò reattive e talvolta isteriche. Gli stranieri non sono un nemico costitutivo e ontologico, ma un nemico storicamente necessario e complementare alla costruzione delle identità nazionali.
Gli ebrei furono perseguitati lungo tutto l’arco della storia europea, massacrati a ogni risveglio delle crociate (soprattutto di quelle popolari), accusati di diffondere le pestilenze, abbandonati dalle autorità civili e religiose a cui si affidavano – e che poi incameravano i loro beni (Bergdolt 1994) – ma è solo con il nazionalismo ottocentesco che la loro estraneità viene politicamente sancita da partiti, stati maggiori e burocrazie, legittimata con le teorie razziste di Gobineau e H.S. Chamberlain e, infine, utilizzata, una volta divenuta senso comune, per giustificare una persecuzione burocratica e imposta dall’alto (Hilberg 1985; Beck 1996).
Il rapporto tra nazionalismo e xenofobia non è dunque qualcosa antico ma di contemporaneo.
Non bisognerebbe dimenticare che il celebre falso noto come I protocolli dei savi di Sion, fabbricato dalla polizia zarista verso la fine dell’Ottocento per attizzare l’odio popolare contro i “complotti ebraici”, inizia a circolare verso gli anni Venti del nostro secolo e che, nella Francia dei diritti dell’uomo, gli effetti del caso Dreyfus si prolungheranno sino alle soglie della seconda guerra mondiale (Romano 1992).
La criticità della condizione di straniero, per quanto immanente in termini culturali e religiosi in tutta la storia europea, esplode dunque in termini politici con il trionfo degli Stati nazionali e la diffusione dei nazionalismi.
Se in precedenza erano stati gli ebrei poveri delle province occidentali dell’Impero russo le vittime dei pogrom di massa (spesso provocati da agenti zaristi), e gli strati più visibili degli ebrei francesi e tedeschi i bersagli di ondate più o meno occasionali di xenofobia, intere popolazioni divennero letteralmente aliene dopo la prima guerra mondiale.
Antichi imperi, come quelli austro-ungarico e ottomano, si erano dissolti e numerose minoranze (non solo ebraiche, ma greche, armene, balcaniche e così via) si trovarono da un giorno all’altro nell’impossibilità di sopravvivere nei loro insediamenti tradizionali, divenuti nazione di qualcun altro.
È stata Hannah Arendt, nella seconda parte del suo grande saggio sul totalitarismo (1951), a mostrare come, dopo la prima guerra mondiale, milioni di uomini e di donne divenissero apolidi, e come per loro non ci fosse posto su questa terra, tanto meno nell’Europa dei diritti universali a cui essi si rivolgevano.
I diritti dell’uomo proclamati dalla rivoluzione francese, e ammessi faticosamente negli altri Stati europei, erano infatti diritti dei cittadini degli Stati nazionali. È vero che ogni europeo poteva aspettarsi qualche reciprocità dagli altri Stati in cui poteva soggiornare, ma solo perché si supponeva che la sua nazione fosse un’altra e che comunque un giorno vi avrebbe fatto ritorno.
Ciò tuttavia non valeva per chi era stateless, come vengono definiti in inglese gli apolidi. Anche se ammessi temporaneamente negli Stati europei come rifugiati, essi non godevano di diritti civili e politici, perché privi di cittadinanza. La sfera del diritto era loro negata se non nel caso paradossale che avessero commesso dei reati e fossero sottoposti a un processo, e quindi potevano vivere tollerati, ma non rispettati, esposti alle vicissitudini politiche degli Stati ospitanti.
Quanto la condizione di apolide, cioè di straniero illegittimo, sia rimasta critica, anche alle soglie del nostro tempo, e dimostrato dalla sorte degli ebrei sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti. Gli stessi alleati che non avevano ritenuto di intervenire militarmente pur avendo le prove dell’esistenza dei campi, erano preoccupati che le decine di migliaia di scampati si riversassero prima nelle zone sotto il loro controllo militare e poi in Europa occidentale, arrivando a negare loro il diritto di emigrare in Inghilterra o in America, e stabilendo perciò quote di immigrazione molto basse (Hilberg 1985, trad. it. voi. II, Conclusioni).
Gli Stati nazionali dunque non riconoscono i diritti universali dell’uomo se non ai propri cittadini, ciò che costituisce uno straordinario paradosso del nostro tempo.
Se infatti nel cosiddetto Occidente o Nord ricco del mondo, la contraddizione non è visibile quando sono implicati i cittadini europei o americani, in quanto esiste una sorta di reciprocità giuridica (nell’ambito di un comune ambiente economico e di una evidente condivisione di interessi), il problema diviene esplosivo quando sono in gioco i rapporti con i milioni di esseri umani che per ragioni politiche o economiche sono costretti, o spinti, ad abbandonare il loro spazio nazionale per cercare lavoro o protezione negli spazi nazionali del Nord del mondo — quando cioè i paesi dominanti del mondo entrano in relazione con migranti e profughi contemporanei.
Le migrazioni economiche e politiche, un fenomeno che da qualche decennio è al centro delle preoccupazioni internazionali (pur non avendo certamente le dimensioni catastrofiche che gli vengono attribuite da osservatori prevenuti o interessati), costringono a ripensare radicalmente la condizione dello straniero nel nostro tempo.
Prima di essere un fenomeno economico, demografico e sociale, le migrazioni sono un fenomeno politico, sia perché riguardano individui che escono da un ordine nazionale per entrare stabilmente o temporaneamente in un altro (Sayad 1990; 1996), sia perché costringono gli attuali Stati a confrontarsi con la loro natura, supposta o reale, di Stati nazionali.
Per semplificare si potrebbe dire che le migrazioni sono un aspetto conflittuale di quel processo, o insieme di processi, che va sotto il nome di globalizzazione. Con questo termine si intendono, da circa un decennio, fenomeni economici come l’unificazione su scala mondiale dei mercati finanziari, l’internazionalizzazione delle imprese, la dislocazione delle attività produttive nelle zone del mondo in cui il costo della forza-lavoro è una piccola frazione di quello praticato nelle aree ricche o sviluppate (Reich 1992; Rifkin 1995; World Bank 1995), l’espansione planetaria di determinati beni di consumo, la diffusione delle reti comunicative e informatiche (con i conseguenti conflitti monopolistici), in una parola la libera o forzata circolazione delle merci, materiali e immateriali, ma non la libera circolazione delle persone.
Ciò, d’altronde, è comprensibile. La globalizzazione presuppone infatti la segmentazione gerarchica dei mercati del lavoro, ovvero l’esistenza di aree economiche in cui la forza lavoro sia abbondante, disponibile e soprattutto poco pagata, in cui i sindacati siano deboli e gli Stati e le amministrazioni poco interessate alla tutela dei diritti dei lavoratori (Adda 1997).
Le migrazioni costituiscono di fatto delle evasioni da questa articolazione più o meno gerarchica e autoritaria del mercato del lavoro (Moulier Boutang 1997), allo stesso modo in cui i profughi richiedono il diritto di vivere in società in cui i diritti umani elementari e quelli civili (all’integrità fisica, alla dignità umana, alla libertà politica e così via) non siano violati.
I migranti sono esseri che avanzano la pretesa, esplicita o implicita, di vivere laddove la ricchezza viene raccolta e consumata (e non solo dove viene prodotta). In questo senso, essi violano i confini dei mercati del lavoro e quindi le barriere che le autorità politiche, nazionali e internazionali, impiantano a loro difesa.
La politicità ovviamente implicita e non intenzionale, della condizione della condizione degli stranieri contemporanei sta appunto, paradossalmente, nel presupposto che il mondo sia unificato e aperto non solo in termini economici e finanziari ma anche sociali e professionali, ciò che costituisce, per le nazioni ricche del mondo, una pericolosa utopia.
La globalizzazione infatti non comporta un deperimento degli Stati nazionali, e quindi dei confini e delle frontiere, come con qualche precipitazione preconizzano alcuni manager globali contemporanei (Ohmae 1995), ma una ridefinizione degli spazi di influenza politica, grazie alla quale i confini tra aree ricche e dominanti del mondo da una parte, e aree povere e dominate dall’altra, sono semmai più netti e forti che in passato (pensiamo solo alla costruzione di uno spazio comune europeo, in cui l’eliminazione di alcune barriere interstatali presuppone il rafforzamento dei confini europei verso l’esterno promosso dagli accordi di Schengen).
Quando, verso la fine dell’ottobre 1997, è stata festeggiata negli aeroporti la libera circolazione dei cittadini europei nella loro nuova “patria comune”, ministri e politici non hanno mancato di rassicurare l’opinione pubblica sulla vigilanza sempre più stretta che le polizie europee avrebbero esercitato nei confronti degli immigrati clandestini.
È in questo senso che i nuovi boat-people economici e politici, migranti e profughi, esseri nell’enorme maggioranza inoffensivi, vengono progressivamente vissuti come pericoli per il nuovo ordine economico e politico d’Europa. In ciò consiste la natura paradossalmente politica della loro condizione, una natura di cui probabilmente essi farebbero volentieri a meno.
Il fatto è che in gran parte delle società europee gli stranieri non sono accettati su un piano di uguaglianza civile, ma tollerati tutt’al più come “lavoratori ospiti” o in misura minima profughi, a patto che non avanzino troppe pretese e possano essere espulsi quando, per qualsiasi ragione reale o immaginaria, ciò convenga ai paesi che li “ospitano”.
Nei paesi che un tempo erano potenze coloniali, gli ex colonizzati hanno ottenuto in passato la naturalizzazione, per essere confinati nei piani bassi della gerarchia sociale (Inghilterra), oppure hanno ottenuto una cittadinanza che oggi viene rimessa in discussione (Francia); in Germania, gli immigrati hanno ottenuto una sorta di cittadinanza sociale ma non hanno mai avuto accesso a quella giuridica e tanto meno politica; nei paesi di nuova immigrazione (Italia e Spagna) essi sono esclusi da ogni tipo di cittadinanza, civile, sociale e politica (Collinson 1993).
In ogni caso si tratta di minoranze frammentate e disperse, per lo più prive di legittimità culturale e soprattutto, come è ormai noto in base a una documentazione imponente, esposte alla xenofobia, alle aggressioni razziste e alla stigmatizzazione pubblica (Baumgar-Favell 1995).
Un esame delle attuali politiche migratorie, sia nel primo mondo sia in quelli emergenti (come il capitalismo oggi vacillante delle “tigri” del Sudest asiatico), mostra un progressivo irrigidimento proprio in relazione alla crescente liberalizzazione dei mercati e delle economie. I
l dispotismo e la tendenza all’autoritarismo interno che si accompagnano al laissez-faire economico a Singapore, nella Corea del sud, in Cina, Thailandia e Indonesia (Dahrendorf 1995; 1996) si esercitano anche contro i migranti e i lavoratori stranieri, allo stesso modo in cui il nuovo liberismo europeo si integra perfettamente con il rigido controllo dello spazio comune sancito dagli accordi di Schengen.
In questo quadro, l’aspetto più rilevante dal punto di vista politico è costituito dalla moltiplicazione delle istanze nazionalistiche, dal loro proliferare su scala regionale e subregionale (Jenkins-Sofos 1996). In altri termini, alla globalizzazione economica non corrisponde una tendenza alla “globalità” culturale o all’omogeneizzazione sociale (Altvater-Mahnkopf 1996), ma una ridefinizione degli spazi politici internazionali, in cui gli Stati tendono a giocare, oggi forse più di ieri, un rigido ruolo di controllo (Anderson 1983, Appendice Badie 1995).
Questa riscoperta del nuovo ruolo delle aggregazioni statali in un mondo globalizzato si riflette anche nella produzione intellettuale e nell’orientamento dei media. È sintomatico ad esempio, che concetti come patria e nazione, tutto sommato marginali nella tradizione culturale italiana degli ultimi cinquantanni, vengano oggi riscoperti da studiosi di orientamento diverso proprio in relazione alla crisi di “identità” che sarebbe causata dalla globalizzazione (e da fenomeni come le nuove immigrazioni).
In questo quadro, il gran parlare di multiculturalismo come di una dimensione assodata appare una falsificazione della realtà più o meno intenzionale o, nel migliore dei casi, un modo di rimuovere l’asprezza delle relazioni che i paesi ricchi intrattengono con gli abitanti di quelli poveri. In altri termini, si può avanzare l’ipotesi che le culture tendano oggi a entrare in contatto molto meno di quanto indizi o segnali puramente fenomenici potrebbero far pensare.
In questo senso, più che parlare di conflitti tra “identità” suscitati da culture che competono per procurarsi risorse, spazi e tempi della vita sociale (come recita il senso comune sociologico), è necessario riflettere sullo squilibrio sempre più visibile tra società, le nostre, che restano dominanti e tendono a proteggere oggi più di ieri la loro esclusività, e frammenti minoritari di altre popolazioni presenti tra noi a cui si attribuisce una valenza culturale di cui oggi non dispongono.
Il caso delle migrazioni è rivelatore della facilità con cui questo rapporto verticale tra la “nostra” esclusività sociale e la “loro” presenza marginale viene facilmente tradotto in una relazione orizzontale tra “noi” e “loro”, come se i relativi rapporti di forza non contassero nulla. D’altra parte, la percezione dei nuovi stranieri come minaccia e le conseguenti reazioni “culturali” non sono fatti naturali o reazioni spontanee di “comunità” che si sentirebbero minacciate, ma costruzioni sociali complesse, in cui gli elementi politici (Beck 1995) e quelli mitologici, o ciò che Weber avrebbe chiamato “l’irrazionale”, sembrano prevalere sugli elementi considerati classicamente razionali come gli “interessi”.
[…]
3. Uno dei rischi più comuni nelle scienze sociali è pretendere che esistano sempre, per definizione, delle buone ragioni capaci di spiegare l’esistenza del conflitto. Questo vale soprattutto quando si pretende che alla base dei conflitti contemporanei si muovano attori dotati di identità “culturali” o “comunitarie” (sul cui carattere “virtuale” cfr. Barbesino 1996; Bayart 1996).
Poiché stiamo parlando di “conflitti tra culture”, esaminiamo un caso empirico che mostra, al contrario, come possano esistere conflitti che non solo non sono tali, ma che non presuppongono nemmeno identità ben definite e stabili. Nell’autunno 1995, in diverse città italiane (tra cui Torino e Milano) sono state promosse clamorose manifestazioni di cittadini contro la “criminalità degli immigrati” e in generale degli stranieri. Una delle mobilitazioni più singolari si è svolta a Genova tra il settembre e il novembre del 1995. Poche centinaia di abitanti di diversi quartieri sono scesi in piazza contro l’insediamento di trentotto zingari (in maggioranza donne e bambini) sulle alture di Genova.
Dopo una fase critica iniziale (blocchi stradali, lanci di molotov contro le roulotte dei nomadi, polemiche, contromanifestazioni antirazziste, grande copertura dei media locali e nazionali), il “movimento” si è rapidamente esaurito, lasciando uno strascico di proteste isolate e prive di importanza. Ora, è difficile stabilire non solo se in questo caso esistesse un conflitto reale, ma soprattutto se il conflitto avesse “buone ragioni”. Da una parte, il conflitto era a senso unico, perché mai i trentotto zingari si sono comportati come attori con pretese di rivendicare identità o qualsiasi altro obiettivo, reale o simbolico. Dall’altra, la posta in gioco era irrisoria o comunque immaginaria, perché i “fatti” invocati come scintilla del conflitto (la microcriminalità, i furti compiuti dagli zingari, eccetera) erano puramente ipotetici e non sono mai stati provati.
Ora, per dirla in breve, mobilitazioni di questo tipo non possono essere spiegate se non chiamando in causa fattori esogeni. Scartate come insufficienti, anche se non prive di verosimiglianza, spiegazioni di tipo “criminale” (complotti della piccola malavita autoctona che temeva un aumento dei controlli di polizia suscitato dalla presenza degli zingari nel quartiere), è necessario ricorrere a una cornice più ampia: queste mobilitazioni, quale che sia stata la loro motivazione occasionale hanno avuto luogo nel corso dell’aspro dibattito sulla regolamentazione dell’immigrazione “clandestina” (sfociato nel novembre 1995 nell’emanazione del cosiddetto “decreto Dini”), sono state di fatto sostenute da una campagna della stampa, locale e nazionale, sull’insicurezza urbana, sono state amplificate da portavoce interessati e da imprenditori politico-morali di ogni tendenza. Non è questo il luogo per esaminare in dettaglio questi fattori concomitanti e comunque esterni. Ma in ogni caso non si vede come l’“identità culturale in crisi” degli abitanti di quartieri di periferia (poche centinaia di persone, non si sa se rappresentative o no) possa spiegare un conflitto che assomiglia più a un caso di persecuzione delle minoranze che a uno scontro locale tra “cinture”.
In che senso allora si può dire che non è il contatto tra culture a provocare il conflitto, ma semmai un altro tipo di conflitto a creare un qualche tipo di identità culturale? In primo luogo va osservato che l’identità non dovrebbe essere reificata, come spesso avviene (se non altro per una sorta di abitudine cognitiva), e trasformata in una specie di zoccolo duro o di realtà soggiacente che motiva all’azione; spesso, essa non è che un processo di autoriconoscimento del tutto immanente nel riconoscimento (o nel non-riconoscimento) dell’altro”.
Non è l’identità sottostante del cittadino (ammesso che non si tratti del piccolo delinquente interessato o del politicante locale) a farlo protestare contro un’aggressione culturale priva di realtà, ma semmai la sua identità si forma esattamente nel corso di quella protesta, è quella protesta. E per spiegare tale costituzione di ua’identità “reattiva” in corso d’opera, per così dire, è necessario cercare il vocabolario dei motivi prevalente in una determinata congiuntura (e stabilire chi l’ha prodotto, in quali forme, con quali mezzi), più che supporre un fondo culturale o identitario che motiverebbe, secondo vecchissimi modelli causalistici, la consapevolezza, da parte del cittadino in questione, dei pericoli portati alla sua cultura dagli “altri”.
Sto sostenendo che questi supposti conflitti culturali o “etnici” che si sono ripetuti in Italia (le incessanti mobilitazioni contro gli zingari, le ronde del 1988 a Firenze contro gli immigrati e gli ambulanti stranieri, gli scontri di Genova del luglio 1993, i fatti di San Salvario dell’autunno 1995 e del 1996, la tendenza dei media a trasformare gli stranieri in pericolosi criminali, l’isteria pubblica sull’invasione albanese del marzo 1997, eccetera), per quanto innescati da fenomeni più o meno “reali” (l’apparente mutamento del paesaggio culturale nelle nostre città, la nuova visibilità degli immigrati, e così via) non esisterebbero, non sarebbero tali, se non fossero ogni volta inquadrati da ciò che Goffman (1975) avrebbe definito i frame sociali e politici disponibili e dominanti.
Si possono spiegare tali conflitti in assenza di un discorso pubblico che li interpreta, li legittima, e in casi determinati li promuove? Quando parlo di “discorso pubblico” mi riferisco non tanto agli stereotipi che denoterebbero gli stranieri – secondo scale di avversione che cominciano ad essere conosciute anche in Italia – ma alle definizioni pubbliche prodotte dai media (nazionali e locali), legittimate (negli stessi media) da esperti, scienziati o testimoni privilegiati, rinforzate, rilanciate e fatte diventare operative dal sistema politico.
Immaginare società come insieme o coacervo di identità culturali date, senza chiamare in causa ciò che produce i processi identitari o dà loro forma, è un procedimento di spiegazione sociologica errato (anche se molto diffuso) – soprattutto in una fase storica in cui i “nervi del potere” sono ben più decisivi, nella formazione dell’opinione pubblica, di quanto non si sospettasse quando l’importanza della comunicazione nella produzione dell’opinione pubblica cominciava ad essere studiata dagli scienziati politici (Deutsch 1963).
Studiare il pregiudizio verso le altre culture su un piano orizzontale (come se si trovassero in una situazione idealmente neutra o bilaterale di confronto), senza interrogarsi sul loro rilievo pubblico, sulla loro consistenza o sulla capacità di utilizzare posizioni di potere, non comporta soltanto prospettive di ricerca inconsapevolmente umoristiche (per esempio sul “pregiudizio degli immigrati nei confronti degli italiani” come problema del tutto speculare al “pregiudizio degli italiani nei confronti degli immigrati”), ma una certa incapacità da parte del discorso scientifico di emanciparsi dalle prospettive folk, ovvero da “ciò che tutti pensano” (rischio tanto più evidente quanto più sono in discussione problemi “sentiti da tutti”, di “pubblica emergenza”, eccetera). Qui sono in gioco non tanto problemi metodologici (la correttezza delle procedure di ricerca), quanto epistemologici e deontologici.
Molto più delle scienze naturali, le scienze sociali sono inevitabilmente intrise di presupposti folk e dipendono, in ultima analisi, da assunti di senso comune che non solo possono fuorviare il cammino della ricerca, ma anche partecipare alla costruzione di fenomeni sociali inesistenti o del tutto ipotetici (problema epistemologico).
D’altra parte, poiché il linguaggio delle scienze sociali non è altro che una forma appena più codificata di quello naturale, esso è largamente e facilmente utilizzabile (dai media e dal sistema politico) for all practical purposes, determinando così non solo il rischio che la scienza riprenda luoghi comuni che dovrebbero esserle estranei, ma anche che contribuisca a rafforzarli e a legittimarli presso la pubblica opinione (problema deontologico). Cercherò ora di offrire un illustrazione di questi rischi.
Stabilito che gli stranieri presenti in Italia come immigrati che detengono o cercano un’occupazione (regolare o informale che sia) sono alcune centinaia di migliaia di persone (Censis 1996), che non costituiscono un gruppo omogeneo e non “rappresentano” delle culture o comunità, e tantomeno una cultura, ma sono cittadini provenienti da un centinaio di Stati, in che misura la loro immagine pubblica corrisponde alla loro condizione sociale oggettiva o reale? Per rispondere a questa domanda è necessario esaminare brevemente un paradosso. Benché la percezione pubblica del “fenomeno immigrazione” tenda ad essere sempre più negativa dall’inizio degli anni Novanta, sia sul piano delle opinioni quotidiane sia su quello del trattamento delle notizie che li riguardano, esistono pochi tentativi convincenti di studiare empiricamente i “problemi” che l’immigrazione causerebbe alla società italiana.
Ma soprattutto pochissimi ricercatori si sono occupati della “costruzione sociale del problema immigrazione” e delle conseguenze di tale’processo sulla condizione sociale dei migranti (nonostante resistenza di un abbondante letteratura, teorica ed empirica sulla costruzione sociale e simbolica di altri fenomeni critici). Il paradosso risulta clamoroso se si nota, per esempio, che mentre tendono a diffondersi ricerche sulla “propensione a delinquere degli immigrati”, non esistono studi attendibili sui “crimini subiti dagli immigrati”. Eppure, i dati disponibili sono impressionanti.
Nel 1995, 420 migranti sono stati coinvolti in 301 aggressioni da parte di italiani. Nel 1996 le aggressioni diventano più di quattrocento8 e, stando a dati diffusi dal ministero dell’Interno nel giugno 1997, più di cento immigrati sono stati uccisi da italiani nel corso di aggressioni direttamente o indirettamente motivate dalla xenofobia. In altri termini, mentre parlare dell’immigra- zione come “emergenza” (sottintendendo per la società italiana, per “noi”) è un luogo comune diffuso nell’opinione pubblica, si può sostenere che esiste una “emergenza xenofobia” che colpisce gli immigrati, ma che non ha alcun ruolo legittimo nel discorso pubblico.
Il senso comune o la conoscenza folk dei “problemi” sociali non è dunque una struttura cognitiva neutra o innocente. In determinati casi esso opera come un punto di vista distoreere te che è legittimo solo perché ha avuto successo nel mercato delle idee correnti e non perché esprime qualche verità. Così, assumere che Timmigrazione sia un “problema” non comporta solo una stigmatizzazione tacita degli immigrati, ma una censura più o meno inconsapevole di altri problemi che non riguardano gli immigrati, ma semmai il senso comune o Popi- nione pubblica che li stigmatizza.
Salman Rushdie (a proposito del razzismo in Inghilterra nel corso degli anni Ottanta) ha definito in modo molto efficace la falsificazione di prospettive che governa la definizione dell’immigrazione come “problema”: “Ma ho tenuto per ultimo lo stereotipo peggiore e più insidioso: la caratterizzazione della gente nera come un Problema. Voi parlate del Problema razziale, del Problema dell’immigrazione, di ogni tipo di Problemi. Se siete progressisti, dite che i neri hanno dei problemi; se non lo siete, dite che essi stessi sono il problema. Ma i membri della nuova colonia hanno un solo problema effettivo e cioè i bianchi. Il razzismo britannico, naturalmente, non è un problema nostro. È vostro. Noi subiamo semplicemente le conseguenze del vostro problema” (Rushdie 1994, p. 151).
4. Il riferimento al “senso comune” oggi prevalente nei confronti degli stranieri permette di specificare in che senso il sottotitolo del presente volume, dedicato alle diverse forme in cui gli stranieri diventano nemici, chiami in causa l’etnografia.
Questa parola non indica l’interesse per alcunché di “etnico” ma, secondo una tradizione di studi antropologici e sociologici molto diffusa di qua e di là dall’Atlantico – dalla Scuola di Chicago nelle sue varie diramazioni contemporanee alle ricerche di un autore come Bourdieu (1993) – si riferisce alla possibilità di descrivere ciò che avviene nella società (nella sua opinione pubblica o colta, nelle sue strutture e nelle sue mentalità correnti) quando essa si confronta con gli stranieri.
Etnografìa è dunque quell’analisi delle forme di relazione tra autoctoni e stranieri che si sforza di mettere tra parentesi il senso comune dominante per riconoscere i quadri concettuali, i determinismi sociali, economici e politici, i pregiudizi in senso lato, che contribuiscono a costruire l’immagine concreta degli altri quando vivono in una società diversa dalla loro.
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