Carlo Rovelli, Le radici della scienza contemporanea

by gabriella

L’omaggio della fisica contemporanea alla ricerca antica e allo spirito critico di Mileto e agli straordinari sviluppi scientifici della scuola di Abdera. Tratto da La realtà non è come ci appare. La struttura elementare delle cose [Raffaello Cortina, 2014].

Io scrivo cose che a me sembrano vere, perché i racconti dei Greci
mi sembrano pieni di contraddizioni e ridicoli [Ecateo, Storia]

Secondo la tradizione, nell’anno 450 prima della nostra era un uomo si imbarcò su una nave in viaggio da Mileto a Abdera. Fu un viaggio fondamentale nella storia della conoscenza.

Probabilmente l’uomo fuggiva rivolgimenti politici a Mileto, dove era in atto una violenta ripresa di potere da parte dell’aristocrazia. Mileto era stata una città greca ricca e fiorente, forse la principale città del mondo greco prima del secolo d’oro di Atene e Sparta. Era stata un centro commerciale molto attivo e dominava una rete di quasi un centinaio di colonie e scali commerciali che si estendevano dal Mar Nero all’Egitto. A Mileto arrivavano carovane dalla Mesopotamia e navi provenienti da mezzo Mediterraneo, e circolavano le idee.

Durante il secolo precedente si era compiuta a Mileto una rivoluzione di pensiero fondamentale per l’umanità. Un gruppo di pensatori aveva rifondato il modo di porre domande sul mondo e di cercare risposte. Il più grande fra loro era stato Anassimandro.

Da sempre, o almeno da quando l’umanità aveva lasciato testi scritti che sono arrivati fino a noi, gli uomini si erano chiesti come fosse nato il mondo, di che cosa fosse fatto, come fosse ordinato, perché avvenissero i fenomeni della natura. Da millenni, si erano dati risposte che si somigliavano tutte: risposte che facevano riferimento a intricate storie di spiriti, dèi, animali immaginari e mitologici, e cose simili.

Parte 1. Anassimandro

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Parte 2. Leucippo, Democrito, Parmenide, Zenone, Mach, Einstein

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Dalle tavolette in caratteri cuneiformi agli antichi testi cinesi, dalle scritte in geroglifico nelle piramidi ai miti sioux, dai più antichi testi indiani alla Bibbia, dalle storie africane a quelle degli aborigeni australiani, è tutto un colorato – ma in fondo noioso – fluire di Serpenti Piumati o Grandi Mucche, dèi iracondi, litigiosi, o gentili, che creano il mondo soffiando sugli abissi, dicendo Fiat lux o uscendo da un uovo di pietra.

Poi, a Mileto, all’inizio del VI secolo prima della nostra era, Talete, il suo discepolo Anassimandro, Ecateo e la loro scuola scoprono un altro modo per cercare risposte. Un modo che non fa riferimento a miti, spiriti e dèi, ma cerca risposte nella natura stessa delle cose. Questa immensa rivoluzione di pensiero inaugura una nuova modalità del conoscere e segna la prima aurora del pensiero scientifico.

I Milesi comprendono che, usando in maniera accorta l’osservazione e la ragione, evitando di cercare nella fantasia, nei miti antichi e nella religione le risposte a quello che non sappiamo, e soprattutto usando accortamente il pensiero critico, possiamo correggere ripetutamente il nostro punto di vista sul mondo, scoprire aspetti della realtà che a uno sguardo comune restano invisibili e imparare cose nuove.

La scoperta forse decisiva è quella di uno stile di pensiero nuovo, dove l’allievo non è più vincolato a rispettare e a condividere le idee del Maestro, ma può costruire su queste idee senza esitare a scartare e a criticarne le parti che ritiene migliorabili.

Questa terza strada, in equilibrio fra l’adesione a una scuola e la contrapposizione a essa, è la chiave di volta che apre l’immenso sviluppo del pensiero filosofico e scientifico che segue: da questo momento la conoscenza comincia a crescere vertiginosamente, nutrendosi del sapere del passato ma insieme anche della possibilità di criticare, e dunque migliorare, questo stesso sapere.

L’incipit folgorante del libro di storia di Ecateo cattura il cuore del pensiero critico, compresa la consapevolezza della propria fallibilità:

“Io scrivo cose che a me sembrano vere; perché i racconti dei Greci mi sembrano pieni di contraddizioni e ridicoli”.

Racconta la leggenda che Eracle scende nell’Ade da Capo Tenaro: Ecateo visita Capo Tenaro, verifica che lì non c’è alcuna strada e sotterranea e alcun ingresso all’Ade, e dunque giudica falsa la leggenda. Questa è l’alba di una nuova era.

Anassimandro (610 – 546 a. C.)

L’efficacia di questo approccio nuovo alla conoscenza è rapida e impressionante. Nel giro di pochi anni, Anassimandro comprende che la Terra galleggia nel cielo e il cielo continua anche sotto la Terra, che l’acqua della pioggia viene dall’evaporazione dell’acqua terrestre, che la varietà delle sostanze del mondo deve poter essere compresa in termini di un solo costituente unitario e semplice, che battezza απείρων (apeiron), l’indistinto, che gli animali e le piante evolvono e si adattano al cambiare dell’ambiente, che l’uomo deve essere evoluto da altri animali, e via via, gettando le basi di una grammatica della comprensione del mondo che è ancora la nostra.

Situata nel punto di congiunzione fra la nascente civiltà greca e gli antichi Imperi di Mesopotamia e d’Egitto, nutrita del sapere di questi, ma immersa nella libertà e nella fluidità politica tipicamente greche, in uno spazio sociale in cui non ci sono palazzi imperiali, non ci sono potenti caste sacerdotali, in cui i singoli cittadini discutono in piazza del loro destino, Mileto è il luogo dove per la prima volta gli uomini discutono collettivamente le proprie leggi, dove si riunisce il primo parlamento della storia del mondo – il Pannonium , santuario di incontro dei delegati della Lega Ionia – e dove per la prima volta gli uomini mettono in dubbio l’idea che solo gli dèi possano spiegare i fatti incomprensibili del mondo.

Discutendo si possono raggiungere le migliori decisioni per la comunità; discutendo si può arrivare a comprendere il mondo. Questa è l’immensa eredità di Mileto, culla della filosofia, delle scienze naturali, degli studi geografici e storici.

Non è esagerato affermare che l’intera tradizione scientifica e filosofica mediterranea, occidentale e poi moderna, ha una radice cruciale nella speculazione dei pensatori di Mileto del VI secolo.

Questa Mileto luminosa fece poco dopo una fine orribile.

L’arrivo dell’Impero Persiano e una fallita rivolta anti-imperiale portarono a una feroce distruzione della città, nel 494 a.e.v., e alla riduzione in schiavitù di un gran numero dei suoi abitanti.

In Atene il poeta Frinico compose una tragedia, dal titolo La presa di Mileto, che commosse profondamente gli Ateniesi, al punto che fu vietato rimetterla in scena perché suscitava troppo dolore.

Ma, vent’anni dopo, i Greci respingono la minaccia persiana, Mileto rinasce, viene ripopolata e torna a essere centro di commercio e di idee, e a irradiare il suo pensiero e il suo spirito.

Democrito (460 -370 a.C.)

Da questo spirito doveva essere mosso il personaggio con cui abbiamo aperto il capitolo, il quale, nel 450, secondo la tradizione, si imbarcò da Mileto per Abdera. Il suo nome era Leucippo. Della sua vita sappiamo poco. Scrisse un libro intitolato La grande cosmologia.

Arrivato a Abdera, fondò una scuola scientifica e filosofica alla quale associò presto un giovane discepolo la cui lunga ombra giganteggia sul pensiero di tutti i tempi: Democrito. Il pensiero dei due si confonde. I testi originali di entrambi sono perduti. Leucippo fu il maestro. Democrito fu il grande allievo: scrisse decine di testi su ogni campo del sapere e fu rispettato profondamente nell’Antichità che conosceva questi testi.

Fu considerato uno dei grandi tra i sapienti. “Il più sottile di tutti gli Antichi”, lo chiama Seneca. “Chi possiamo comparare a lui non solo per la grandezza d’ingegno, ma anche d’animo?”, si chiede Cicerone. Fu lui a erigere la vasta cattedrale dell’atomismo antico.

Che cosa avevano dunque scoperto Leucippo e Democrito? I Milesi avevano capito che il mondo può essere compreso con la ragione. Si erano convinti che la varietà dei fenomeni naturali dovesse essere riconducibile a qualcosa di semplice e avevano cercato di capire che cosa potesse essere questo qualcosa. Avevano concepito una specie di sostanza elementare di cui tutto poteva essere fatto.

Anassimene, fra i Milesi, aveva immaginato che questa sostanza potesse comprimersi e rarefarsi, e in questo modo trasformarsi dall’uno nell’altro degli elementi di cui è fatto il mondo. Era un germe di fisica, elementare e rozzo, ma andava nella giusta direzione. Serviva un’idea, una grande idea, una grande visione, per provare a suggerire quale potesse essere l’ordine nascosto del mondo. Quest’idea la ebbero Leucippo e Democrito.

La grande idea del sistema di Democrito è estremamente semplice: l’Universo intero è formato di uno sterminato spazio vuoto, nel quale corrono innumerevoli atomi. Nell’Universo non c’è altro che questo. Lo spazio è illimitato, non ha né alto né basso, non ha un centro, non ha confine. Gli atomi non hanno alcuna qualità, se non la loro forma. Non hanno peso, non hanno colore, non hanno sapore:

“Opinione il dolce, opinione l’amaro, opinione il caldo, opinione il freddo, opinione il colore: in realtà soltanto gli atomi e il vuoto”.

Gli atomi sono indivisibili, sono i grani elementari della realtà, che non possono essere ulteriormente suddivisi e di cui tutto è costituito. Si muovono liberi nello spazio, si scontrano l’uno con l’altro, si agganciano, si spingono, si tirano l’un l’altro. Atomi simili si attirano e si aggregano. Questa è la struttura del mondo. Questa è la realtà. Tutto il resto non è che il prodotto derivato, casuale e accidentale di questo moto e di questo combinarsi di atomi.

Dal combinarsi degli atomi si produce l’infinita varietà di tutte le sostanze di cui è fatto il mondo. Quando gli atomi si aggregano, le sole cose che contano, le sole cose che esistono a livello elementare, sono la loro forma, la loro disposizione nella struttura e il modo in cui si combinano. Così come combinando la ventina di lettere dell’alfabeto in modi diversi si possono ottenere commedie o tragedie, storie ridicole o grandi poemi epici, allo stesso modo combinando gli atomi elementari si ottiene il mondo nella sua sterminata varietà. La metafora è di Democrito.

Non c’è alcuna finalità, alcun proposito in questa immensa danza di atomi. Noi, come il resto della natura, siamo uno dei tanti risultati di questa danza infinita. Il prodotto di una combinazione accidentale. La natura continua a sperimentare forme e strutture, e noi, come gli animali, siamo il prodotto di una selezione casuale e accidentale, avvenuta in lunghissimi periodi di tempo. La nostra vita è un combinarsi di atomi, il nostro pensiero è fatto di atomi sottili, i nostri sogni sono il prodotto di atomi, le nostre speranze e le nostre emozioni sono scritte nel linguaggio formato dal combinarsi degli atomi, la luce che vediamo sono atomi che ci portano immagini.

Di atomi sono fatti i mari, le città e le stelle. È una visione immensa, sterminata, incredibilmente semplice e incredibilmente potente, sulla quale si costruirà più tardi il sapere di una civiltà. Su questa base Democrito ha articolato in decine di libri un vasto sistema in cui sono trattate questioni di fisica, di filosofia, di etica, di politica, di cosmologia. Scrive sulla natura della lingua, sulla religione, sulla nascita delle società umane e molto altro. (Fa impressione l’inizio della sua Piccola cosmologia: “In quest’opera tratto di tutte le cose”.) Tutti questi libri sono perduti.

Conosciamo il suo pensiero solo per i riferimenti, le citazioni e i resoconti di altri autori antichi. Il pensiero che ne emerge è un umanesimo profondo,razionalistico e materialistico. Democrito combina una grandissima attenzione alla natura, illuminata da una limpida chiarezza naturalistica, dove ogni residuo di pensiero mitico è spazzato via, con una grande attenzione all’umanità e una serietà profonda nella visione etica della vita, che anticipa di duemila anni le parti migliori dell’Illuminismo settecentesco.

L’ideale etico di Democrito è quello della tranquillità dell’animo, che si raggiunge con la moderazione e l’equilibrio, con l’affidarsi alla ragione, senza lasciarsi travolgere dalle passioni.

Platone e Aristotele conobbero bene Democrito e combatterono le sue idee. Lo fecero in nome di idee alternative, che più tardi, per secoli, crearono ostacoli al crescere della conoscenza. Entrambi insistettero nel rifiutare le spiegazioni naturalistiche di Democrito e nel voler invece cercare di comprendere il mondo in termini finalistici, cioè pensando che tutto ciò che avviene avvenga con una finalità, un modo di pensare che si sarebbe rivelato molto inefficace per comprendere la natura, oppure in termini di bene e male, confondendo questioni umane con questioni che non ci riguardano.

Aristotele parla diffusamente delle idee di Democrito, e con molto rispetto. Platone non cita mai Democrito, ma è opinione degli studiosi odierni che questa sia una scelta, non mancanza di conoscenza. La critica alle idee democritee è implicita in molti testi di Platone, per esempio nella sua critica ai “fisici”. In un passo del Fedone Platone mette in bocca a Socrate un rimprovero a tutti i “fisici”, che lascerà tracce: Platone si lamenta che, quando i “fisici” gli hanno spiegato che la Terra è rotonda, lui si è ribellato perché voleva sapere quale fosse il “bene” per la Terra, perché l’essere rotonda giovasse al suo bene.

Il Socrate platonico racconta di essersi entusiasmato per la fisica, ma di esserne poi restato deluso: del meglio, provandomi che la cosa migliore per la Terra sia di avere questa forma; e se mi avesse detto che la Terra è al centro del mondo, che mi facesse vedere che essere al centro è il bene per la Terra. Quanto era fuori strada, qui, il grande Platone!

 

C’è un limite alla divisibilità?

Richard Feynman, il più grande fisico della seconda metà del XX secolo, scrive all’inizio delle sue bellissime lezioni introduttive di fisica:

Se in qualche cataclisma tutta la conoscenza scientifica dovesse essere distrutta, e fosse possibile trasmettere solo una frase per le prossime generazioni, quale affermazione potrebbe contenere il maggior numero di informazioni nel minor numero di parole? Credo che sia l’ipotesi che tutte le cose sono fatte di atomi. In questa frase è concentrata una quantità enorme di informazione sul mondo, se solo poi usiamo un po’ d’immaginazione e il pensiero.

All’idea che tutto sia fatto di atomi, senza bisogno di tutta la fisica moderna, era arrivato già Democrito. Come aveva fatto? Democrito aveva argomenti basati sull’osservazione; per esempio, immaginava (correttamente) che l’usura di una ruota, o l’asciugarsi di panni stesi, possano essere dovuti al lento sfuggire di particelle minutissime di legno o di acqua.

E argomenti di carattere filosofico. Soffermiamoci su questi ultimi, perché la loro forza arriva fino alla gravità quantistica. Democrito osserva che la materia non può essere un tutto continuo, perché c’è qualcosa di contraddittorio nell’idea che lo sia. Conosciamo l’argomentare di Democrito perché lo riporta Aristotele.

Immaginate, dice Democrito, che la materia sia divisibile all’infinito, cioè che possa essere spezzettata un numero infinito di volte. Immaginate allora di spezzettare un pezzo di materia, appunto, all’infinito. Che cosa ne resterebbe? Potrebbero restare delle particelle con una dimensione estesa? No, perché, se così fosse, il pezzo di materia non sarebbe ancora spezzettato all’infinito. Quindi dovrebbero restare solo punti senza estensione. Ma ora proviamo a ricomporre il pezzo di materia a partire dai punti: mettendo insieme due punti senza estensione non si ottiene una cosa con estensione, e neanche con tre, e neanche con quattro. Per quanti punti si mettano insieme, non si ha mai dimensione, perché i punti non hanno estensione. Quindi non si può pensare che la materia sia fatta di punti senza estensione, perché, per quanti ne mettessimo insieme, non otterremmo mai qualcosa con una dimensione estesa.

L’unica possibilità – conclude Democrito – è che un qualunque pezzo di materia sia fatto da un numero finito di pezzetti discreti, indivisibili, ma ciascuno con una dimensione finita: gli atomi.

Parmenide (515 – 544 a.C.)

L’origine di questo sottile modo di argomentare è precedente a Democrito. Viene dal Cilento, nel Sud dell’Italia, da una cittadina che oggi si chiama Velia e nel V secolo a.e.v. si chiamava Elea, ed era una fiorente colonia greca. Qui aveva vissuto Parmenide, filosofo che aveva preso molto alla lettera, forse troppo, il razionalismo di Mileto fino a dichiarare illusoria ogni apparenza, aprendo un cammino che sarebbe andato verso la metafisica, allontanandosi via via da quella che più tardi si sarebbe chiamata “scienza naturale”.

Il suo allievo Zenone, di Elea pure lui, aveva portato argomenti sottili a sostegno di questo razionalismo fondamentalista, che nega in modo radicale la credibilità dell’apparenza. Tra questi argomenti c’era una serie di paradossi, divenuti famosi come i “paradossi di Zenone”, che cercano di mostrare come ogni apparenza sia illusoria argomentando che l’idea comune di movimento è assurda.

Il più famoso fra i paradossi di Zenone è presentato come una favoletta: la tartaruga sfida Achille in una gara di corsa, partendo con un vantaggio di 10 metri. Riuscirà Achille a raggiungere la tartaruga? Zenone argomenta che, a rigor di logica, Achille non potrà raggiungere la tartaruga. Prima di raggiungerla, infatti, Achille deve percorrere i 10 metri, e per questo impiegherà un certo tempo. Durante questo tempo la tartaruga sarà avanzata di qualche decimetro. Per superare questi decimetri, Achille ci metterà un altro po’ di tempo, ma nel frattempo la tartaruga sarà avanzata ancora, e così via all’infinito. Achille ha quindi bisogno di un numero infinito di tempi per raggiungere la tartaruga, e un numero infinito di tempi, argomenta Zenone, è un tempo infinito. Quindi conclude che, a rigor di logica, Achille ci metterà un tempo infinito a raggiungere la tartaruga, ovvero non possiamo vedere Achille che raggiunge la tartaruga. Poiché, invece, noi vediamo Achille raggiungere e superare tutte le tartarughe che vuole, ne segue che quello che vediamo è irrazionale, quindi illusorio.

Diciamo la verità: non convince. Dov’è l’errore? Una risposta possibile è che Zenone sbagli perché non è vero che, sommando un numero infinito di cose, si ottiene una cosa infinita. Pensate di prendere una cordicella, tagliarne metà, poi metà della metà, e così via all’infinito. Alla fine otterrete un numero infinito di cordicelle, sempre più piccole, la cui somma però sarà finita, perché comunque sarà sempre lunga quanto la cordicella di partenza. Quindi, un numero infinito di cordicelle può fare una cordicella finita; un numero infinito di tempi può fare un tempo finito, e l’eroe, anche se dovrà superare un numero infinito di tragitti, sempre più piccoli, impiegando per ciascuno un tempo finito, finirà comunque per agguantare la tartaruga in un tempo finito.

Sembra risolto l’apparente paradosso. La soluzione è l’idea del continuo, cioè l’idea che possano esistere tempi arbitrariamente piccoli, dei quali un numero infinito sommano a un tempo finito.

Aristotele è il primo che intuisce questa possibilità, sviluppata in dettaglio dalla matematica moderna. Ma è davvero questa la soluzione corretta nel mondo reale? Esistono davvero cordicelle arbitrariamente piccole? Possiamo davvero tagliare una corda un numero arbitrariamente grande di volte? Esistono davvero tempi infinitamente piccoli? Esistono davvero spazi infinitamente piccoli? È questo il problema con cui dovrà fare i conti la gravità quantistica.

Secondo una tradizione antica, Zenone aveva incontrato Leucippo e gli aveva fatto da maestro. Leucippo conosceva dunque gli arzigogoli di Zenone. Ma aveva escogitato una via diversa per risolverli. Forse, suggerisce Leucippo, non esiste niente di arbitrariamente piccolo: c’è un limite inferiore alla divisibilità. L’Universo è granulare, non continuo. Con punti infinitamente un numero finito di oggetti con una taglia finita. La cordicella non si può spezzettare all’infinito; la materia non è continua, è fatta di atomi singoli di taglia finita.

Che l’argomento astratto sia giusto o sbagliato, la conclusione – oggi lo sappiamo – ha comunque molto di giusto. La materia ha effettivamente una struttura atomica. Se divido una goccia d’acqua in due, ottengo due gocce d’acqua. Ciascuna di queste gocce la posso ridividere, e così via. Ma non posso continuare all’infinito. A un certo punto ho una molecola sola, e sono arrivato. Non esistono gocce d’acqua più piccole di una singola molecola di acqua.

Come lo sappiamo, oggi? Gli indizi si sono accumulati nei secoli. Molti sono venuti dalla chimica. Le sostanze chimiche sono tutte composte da combinazioni di pochi elementi e sono formate da proporzioni (di peso) date da numeri interi. I chimici avevano costruito un modo di pensare alle sostanze come composte da molecole fatte di combinazioni fisse di atomi. Per esempio, l’acqua, H 2 O, è composta da due parti di idrogeno e una di ossigeno.

Ma questi erano solo indizi. Ancora all’inizio del secolo scorso, molti, fra gli scienziati e i filosofi, consideravano l’ipotesi atomica una sciocchezza. Fra questi, per esempio, l’importante fisico e filosofo Ernst Mach, le cui idee sullo spazio saranno importantissime per Einstein.

Albert Einstein (1879 – 1955)

Alla fine di una conferenza di Boltzmann all’Accademia Imperiale della Scienza a Vienna, Mach dichiara pubblicamente: “Io non credo che gli atomi esistano!”. Siamo nel 1897.

Molti ritenevano ancora, come Mach, che la notazione dei chimici fosse solo un modo convenzionale di riassumere regole di reazioni chimiche, e non che veramente esistessero molecole d’acqua composte da due atomi di idrogeno e uno di ossigeno. Gli atomi non si vedono, dicevan

o. E non si potranno mai vedere. E poi, in fondo, quanto sarebbe grande un atomo?, chiedevano. Democrito non era mai stato capace di misurare la taglia dei suoi atomi… La prova definitiva della cosiddetta “ipotesi atomica”, secondo la quale la materia è fatta di atomi, ha dovuto attendere il 1905.

La prova definitiva dell’ipotesi atomica di Leucippo e Democrito la trova un venticinquenne ribelle e irrequieto che aveva studiato fisica, ma non era riuscito a trovare impiego come fisico, e quindi sbarcava il lunario lavorando come impiegato nell’ufficio di brevetti di Berna. Parlerò parecchio di questo giovane nel resto del libro, nonché dei tre articoli che il ragazzo spedisce nel 1905 alla più prestigiosa rivista di fisica del tempo, gli Annalen der Physik.

Il primo di questi articoli contiene la prova definitiva che gli atomi esistono e calcola la dimensione degli atomi, chiudendo definitivamente il problema aperto da Leucippo e Democrito ventitré secoli prima. Il nome del ragazzo venticinquenne è, ovviamente, Albert Einstein.

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