Un adattamento della lezione inaugurale sul contemporaneo che Agamben ha tenuto allo IUAV di Venezia nell’a.a. 2006-2007, per la prima lezione di Sociologia in una quinta classe, il cui programma è dedicato alla comprensione del proprio tempo, attraverso lo studio del presente, la lettura dei classici e l’analisi critica della contemporaneità.
Contemporaneo è l’inattuale, osserva il filosofo, colui che sa vedere
«come un male, un inconveniente, un difetto, qualcosa di cui la sua epoca va giustamente orgogliosa» [F. Nietzsche, Considerazioni inattuali, II, 1874].
Il contemporaneo è «una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze», è un’abilità particolare, che equivale a «neutralizzare le luci che provengono dall’epoca per scoprire la sua tenebra, il suo buio speciale» [in G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo e altri scritti, Roma, Nottetempo, collana I sassi, 2010, pp. 22-33].
1. La domanda, che vorrei iscrivere sulla soglia di questo seminario, è:
“Di chi e di che cosa siamo contemporanei? E, innanzitutto, che cosa significa essere contemporanei?”
Il “tempo” del nostro seminario è la contemporaneità, esso esige di essere contemporaneo dei testi e degli autori che esamina. Tanto il suo rango che il suo esito si misureranno dalla sua – dalla nostra – capacità di essere all’altezza di questa esigenza.
Una prima, provvisoria, indicazione per orientare la nostra ricerca di una risposta ci viene da Nietzsche. In un appunto dei suoi corsi al Collège de France, Roland Barthes la compendia in questo modo:
“Il contemporaneo è l’intempestivo”.
Nel 1874, Friedrich Nietzsche, un giovane filologo che aveva lavorato fin allora su testi greci e aveva due anni prima raggiunto un’improvvisa celebrità con La nascita della tragedia,pubblica le Unzeitgemässe Betrachtungen, le Considerazioni inattuali, con le quali vuole fare i conti col suo tempo, prendere posizione rispetto al presente.
“Intempestiva questa considerazione lo è,” si legge all’inizio della seconda Considerazione, “perché cerca di comprendere come un male, un inconveniente e un difetto qualcosa di cui l’epoca va giustamente orgogliosa, cioè la sua cultura storica, perché io penso che siamo tutti divorati dalla febbre della storia e dovremmo almeno rendercene conto”.
Nietzsche situa, cioè, la sua pretesa di “attualità”, la sua “contemporaneità”rispetto al presente, in una sconnessione e in una sfasatura. Appartiene veramente al suo tempo, è veramente contemporaneo colui che non coincide perfettamente con esso né si adegua alle sue pretese ed è perciò, in questo senso, inattuale; ma, proprio per questo, proprio attraverso questo scarto e questo anacronismo, egli è capace più degli altri di percepire e afferrare il suo tempo.
Questa non-coincidenza, questa discronia non significa, naturalmente, che contemporaneo sia colui che vive in un altro tempo, un nostalgico che si senta a casa più nell’Atene di Pericle o nella Parigi di Robespierre e del marchese di Sade che nella città e nel tempo in cui gli è stato dato di vivere. Un uomo intelligente può odiare il suo tempo, ma sa in ogni caso di appartenergli irrevocabilmente, sa di non poter sfuggire al suo tempo.
La contemporaneità è, cioè, una singolare relazione col proprio tempo, che aderisce a esso e, insieme, ne prende le distanze; più precisamente, essa è quella relazione col tempo che aderisce a esso attraverso una sfasatura e un anacronismo. Coloro che coincidono troppo pienamente con l’epoca, che combaciano in ogni punto perfettamente con essa, non sono contemporanei perché, proprio per questo, non riescono a vederla, non possono tenere fisso lo sguardo su di essa.
2. Nel 1923, Osip Mandel’štam scrive una poesia che s’intitola Il secolo (ma la parola russa vek significa anche “epoca”). Essa contiene non una riflessione sul secolo, ma sulla relazione fra il poeta e il suo tempo, cioè sulla contemporaneità. Non il “secolo”, ma, secondo le parole che aprono il primo verso, il “mio secolo” (vek moi):
Mio secolo, mia belva, chi potrà
guardarti dentro gli occhi
e saldare col suo sangue
le vertebre di due secoli?
Il poeta, che doveva pagare la sua contemporaneità con la vita, è colui che deve tenere fisso lo sguardo negli occhi del suo secolo-belva, saldare col suo sangue la schiena spezzata del tempo.
[…]
Ma è spezzata la tua schiena
mio stupendo, povero secolo.
Con un sorriso insensato
come una belva un tempo flessuosa
ti volti indietro, debole e crudele,
a contemplare le tue orme.
2. Il poeta – il contemporaneo – deve tener fisso lo sguardo nel suo tempo. Ma che cosa vede chi vede il suo tempo, il sorriso demente del suo secolo?
Vorrei a questo punto proporvi una seconda definizione della contemporaneità: contemporaneo è colui che tiene fisso lo sguardo nel suo tempo, per percepirne non le luci, ma il buio.
Tutti i tempi sono, per chi ne esperisce la contemporaneità, oscuri. Contemporaneo è, appunto, colui che sa vedere questa oscurità, che è in grado di scrivere intingendo la penna nella tenebra del presente. Ma che significa “vedere una tenebra”, “percepire il buio”?
Una prima risposta ci è suggerita dalla neurofisiologia della visione. Che cosa avviene quando ci troviamo in un ambiente privo di luce, o quando chiudiamo gli occhi? Che cos’è il buio che allora vediamo?
I neurofisiologi ci dicono che l’assenza di luce disinibisce una serie di cellule periferiche della retina, dette, appunto, off-cells, che entrano in attività e producono quella specie particolare di visione che chiamiamo il buio. Il buio non è, pertanto, un concetto privativo, la semplice assenza della luce, qualcosa come una non-visione, ma il risultato dell’attività delle off-cells, un prodotto della nostra retina.
Ciò significa, se torniamo ora alla nostra tesi sul buio della contemporaneità, che percepire questo buio non è una forma di inerzia o di passività, ma implica un’attività e un’abilità particolare, che, nel nostro caso, equivalgono a neutralizzare le luci che provengono dall’epoca per scoprire la sua tenebra, il suo buio speciale, che non è, però, separabile da quelle luci.
Può dirsi contemporaneo soltanto chi non si lascia accecare dalle luci del secolo e riesce a scorgere in esse la parte dell’ombra, la loro intima oscurità. Con questo, non abbiamo tuttavia ancora risposto alla nostra domanda. Perché riuscire a percepire le tenebre che provengono dall’epoca dovrebbe interessarci? Non è forse il buio un’esperienza anonima e per definizione impenetrabile, qualcosa che non è diretto a noi e non può, perciò, riguardarci? Al contrario, il contemporaneo è colui che percepisce il buio del suo tempo come qualcosa che lo riguarda e non cessa di interpellarlo, qualcosa che, più di ogni luce, si rivolge direttamente e singolarmente a lui. Contemporaneo è colui che riceve in pieno viso il fascio di tenebra che proviene dal suo tempo.
3. Nel firmamento che guardiamo di notte, le stelle risplendono circondate da una fitta tenebra. Poiché nell’universo vi è un numero infinito di galassie e di corpi luminosi, il buio che vediamo nel cielo è qualcosa che, secondo gli scienziati, necessita di una spiegazione. È appunto della spiegazione che l’astrofisica contemporanea dà di questo buio che vorrei ora parlarvi.
Nell’universo in espansione, le galassie più remote si allontanano da noi a una velocità così forte, che la loro luce non riesce a raggiungerci. Quel che percepiamo come il buio del cielo, è questa luce che viaggia velocissima verso di noi e tuttavia non può raggiungerci, perché le galassie da cui proviene si allontanano a una velocità superiore a quella della luce.
Percepire nel buio del presente questa luce che cerca di raggiungerci e non può farlo, questo significa essere contemporanei. Per questo i contemporanei sono rari. E per questo essere contemporanei è, innanzitutto, una questione di coraggio: perché significa essere capaci non solo di tenere fisso lo sguardo nel buio dell’epoca, ma anche di percepire in quel buio una luce che, diretta verso di noi, si allontana infinitamente da noi. Cioè ancora: essere puntuali a un appuntamento che si può solo mancare.
[…]
4. Un buon esempio di questa speciale esperienza del tempo che chiamiamo la contemporaneità è la moda.
Ciò che definisce la moda è che essa introduce nel tempo una peculiare discontinuità, che lo divide secondo la sua inattualità o inattualità, il suo essere o il suo non-esser-piú-alla-moda (alla moda e non semplicemente di moda, che si riferisce solo alle cose).
Questa cesura, per quanto sottile, è perspicua, nel senso che coloro che debbono percepirla la percepiscono immancabilmente e proprio in questo modo attestano il loro essere alla moda; ma se cerchiamo di oggettivarla e di fissarla nel tempo cronologico, essa si rivela inafferrabile. Innanzitutto l’“ora” della moda, l’istante in cui essa viene in essere, non è identificabile attraverso alcun cronometro.
[…] Il tempo della moda è, costitutivamente in anticipo su te stesso e, proprio per questo, anche sempre in ritardo, ha sempre la forma di una soglia inafferrabile tra un “non ancora” e un “non più”.
È probabile che, come suggeriscono i teologi, ciò dipenda dal fatto che la moda, almeno nella nostra cultura, è una segnatura teologica della veste, che deriva dalla circostanza che la prima veste fu confezionata da Adamo ed Eva dopo il peccato originale, in forma di un perizoma intrecciato con foglie di fico (per la precisione, le vesti che noi indossiamo derivano non da questo perizoma vegetale, ma dalle tunicae pelliceae, dalle vesti fatte di pelli di animali che Dio, secondo Gen. 3.21, fa indossare, come simbolo tangibile del peccato e della morte, ai nostri progenitori nel momento in cui li scaccia dal paradiso).
In ogni caso, quale che ne sia la ragione, l’“adesso”, il kairos della moda è inafferrabile: la frase “io sono in questo istante alla moda” è contraddittoria, perché nell’attimo in cui il soggetto la pronuncia, egli è già fuori moda. Per questo, l’essere alla moda, come la contemporaneità, comporta un certo “agio”, una certa sfasatura, in cui
la sua attualità include dentro di sé una piccola parte del suo fuori, una sfumatura di démodé.
[…]
Nulla di più esemplare, in questo senso, del gesto di Paolo, nel punto in cui esperisce e annuncia ai suoi fratelli quella contemporaneità per eccellenza che è il tempo messianico, l’essere contemporanei del messia, che egli chiama appunto il “tempo-di-ora” (ho nyn kairos).
Non solo questo tempo è cronologicamente indeterminato (la parusia, il ritorno del Cristo che ne segna la fine è certo e vicino, ma incalcolabile), ma esso ha la capacità singolare di mettere in relazione con sé ogni istante del passato, di fare di ogni momento o episodio del racconto biblico una profezia o una prefigurazione (typos, figura, è il termine che Paolo predilige) del presente (così Adamo, attraverso cui l’umanità ha ricevuto la morte e il peccato, è “tipo” o figura del messia, che porta agli uomini la redenzione e la vita).
7. Coloro che hanno cercato di pensare la contemporaneità, hanno potuto farlo solo a patto di scinderla in più tempi, […] il contemporaneo mette in opera una relazione speciale fra i tempi. Se, come abbiamo visto, è il contemporaneo che ha spezzato le vertebre del suo tempo (o, comunque, ne ha percepito la faglia o il punto di rottura), egli fa di questa frattura il luogo di un appuntamento e di un incontro fra i tempi e le generazioni.
Ciò significa che il contemporaneo non è soltanto colui che, percependo il buio del presente, ne afferra l’inevitabile luce; è anche colui che, dividendo e interpolando il tempo, è in grado di trasformarlo e di metterlo in relazione con gli altri tempi, di leggerne in modo inedito la storia, di “citarla” secondo una necessità che non proviene in alcun modo dal suo arbitrio, ma da un’esigenza a cui egli non può non rispondere.
È come se quell’invisibile luce che è il buio del presente, proiettasse la sua ombra sul passato e questo, toccato da questo fascio d’ombra, acquisisse la capacità di rispondere alle tenebre dell’ora.
È qualcosa del genere che doveva avere in mente Michel Foucault, quando scriveva che le sue indagini storiche sul passato sono soltanto l’ombra portata della sua interrogazione teorica del presente.
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