Whatsoever therefore is consequent to a time of Warre, where every man is Enemy to every man; the same is consequent to the time, wherein men live without other security, than what their own strength, and their own invention shall furnish them withall. In such condition, there is no place for Industry; because the fruit thereof is uncertain; and consequently no Culture of the Earth; no Navigation, nor use of the commodities that may be imported by Sea; no commodious Building; no Instruments of moving, and removing such things as require much force; no Knowledge of the face of the Earth; no account of Time; no Arts; no Letters; no Society; and which is worst of all, continuall feare, and danger of violent death; And the life of man, solitary, poore, nasty, brutish, and short.
T. Hobbes, Leviathan, I
Videolezioni: Gianfranco Marini, Hobbes
La figura di Hobbes e la sua ricezione
Il nesso colto da Thomas Hobbes tra paura e potere è un elemento di grande modernità: la paura è al centro del suo pensiero politico sia come paura reciproca tra gli uomini, secondo la formula homo homini lupus, sia come paura dei sudditi nei confronti del sovrano, raffigurato sotto la forma del mostruoso, biblico Leviatano. Così narrava Hobbes la propria nascita:
«E mia madre mise al mondo due gemelli: me stesso e la paura».
«È altrettanto vero che l’uomo è per il suo simile un dio, quanto che esso è per il suo simile un lupo» (De Cive, Lettera dedicatoria).
«Dalla sua bocca partono vampate, sprizzano scintille di fuoco».
Essa è raffigurata sul frontespizio della prima edizione del 1651 come un uomo immenso che contiene al proprio interno i tratti di tutti i sudditi e detiene sia la spada del potere temporale che il pastorale del potere spirituale. Il Leviatano altro non è che lo Stato: assoluto è il suo potere, indivisibile, irrevocabile. Può apparire spaventoso ma secondo Hobbes il suo ruolo è di scacciare il terrore assoluto con un terrore relativo. Il Sovrano-Leviatano impone l’ordine, impedisce alle forze disgregatrici della società di agire, previene la guerra civile che può nascere o dalla discordia politica o dal competitive behaviour del mercato o dai dissidi religiosi. Egli comanda sulla terra e tutti obbediscono. Per quanto fatale e formidabile, tuttavia il Leviatano ha un limite al suo potere: non può sottrarre arbitrariamente la vita al suddito e non invade la sfera del pensiero e del privato.
Il pensiero politico di Hobbes fu sostanzialmente ignorato per circa due secoli, anche se il desiderio di confutarlo è il motivo inconfessabile della riflessione politica lockeana, e il confronto con le sue tesi è ben visibile anche in quello spinoziano. Teorico dell’assolutismo, come si suol dire, ma scomodo per i sovrani assoluti che preferivano piuttosto legittimare il proprio potere sulle premesse tradizionaliste, teologiche e patriarcali di Filmer o di De Maistre. Il Leviatano di Hobbes è sempre una creatura umana, nasce da un contratto.
La sua riscoperta comincia all’inizio del Novecento quando, con la crisi dei regimi parlamentari e con l’avvento delle dittature totalitarie, l’interpretazione di Hobbes divenne un campo di scontro. Carl Schmitt, per esempio, vide in lui il corifeo del moderno stato-macchina e del regime totalitario del quale il Leviatano rappresenta in metafora l’aspetto tecnologico e burocratico. Per Leo Strauss, invece, Hobbes non è per nulla uno scienziato, come pretende di essere, ma un moralista. Non deve stupire che Schmitt, filosofo vicino al nazionalsocialismo, e Strauss, ebreo trasferitosi negli Usa, vedano le cose in modo tanto diverso. Norberto Bobbio, in seguito, ha riconosciuto in Hobbes non solo i caratteri dello scienziato della politica, ma anche la difesa di principi quali la legalità del diritto penale (il Leviatano non può togliere ad arbitrio la vita ai suoi sudditi) e del diritto di resistenza che comunque fanno sì che il Sovrano abbia dei limiti. A questi si aggiunge il disinteresse del Sovrano per il controllo della sfera privata dell’individuo. Così si smorza l’immagine ‘demoniaca’ del Leviatano: per quanto sia creato – per contratto – per ispirare paura, nei totalitarismi del Novecento l’ambizione di dominio si è spinta ben oltre i limiti hobbesiani, nel tentativo di controllare le menti e conquistare i cuori, cancellando ogni spazio privato [tratto da Chi ha paura di Thomas Hobbes?, di Roberto Lolli].
Dall’Introduzione di Tito Magri a Leviatano, Editori Riuniti, 1976.
Hobbes è il massimo teorico dell’assolutismo, cioè della forma storica in cui si è sviluppato tra ’500 e ’600, lo stato moderno. Il concetto di sovranità legibus soluta, vale a dire dell’unità del potere dello stato e della sua superiorità e indipendenza rispetto a ogni altra specie di potere, è posto dal filosofo al centro della sua teoria politica come condizione essenziale del buon ordinamento del governo degli uomini e carattere specifico del potere politico rispetto, ad esempio, al potere ecclesiastico o alla patria postestas.
La filosofia politica di Hobbes va considerata come la prima teoria in cui lo stato sovrano e indipendente viene analizzato secondo i principi del pensiero filosofico moderno e in relazione ai fenomeni fondamentali della società moderna (industriale o borghese). Hobbes visse infatti nel periodo culminante del processo di formazione degli stati europei: la pubblicazione del Leviathan (1651) segue di poco la pace di Vestfalia (1648) che concluse la guerra dei trent’anni. Sul piano del pensiero politico, la formazione degli stati si connette all’idea dello stato come creazione cosciente e volontaria degli individui, anzichè come ordine sopraumano – cosicché «il punto di partenza della ricerca cessò di essere il genere umano e divenne lo stato sovrano, individuale e autosufficiente» (Gierke, 1958) – che si considerò fondato su un unione stretta tra gli individui in ottemperanza alla legge di natura per formare una società armata del potere sovrano (contrattualismo).
Al centro del pensiero di Hobbes sono i concetti di individuo e stato: lo stato è per lui il Deus mortalis, la forma unitaria e suprema di direzione morale, giuridica, religiosa, fornita di poteri assoluti e rispetto alla quale l’individuo si trova in condizione di totale dipendenza. Nello stesso tempo, esso viene costruito a partire dai nuovi principi individualistici della società borghese, a partire dall’indipendenza, dalla libertà e dall’eguaglianza naturale degli uomini che istituiscono lo stato sulla base di un calcolo razionale e in vista della conservazione della vita e del benessere.
Il corpo politico viene pensato da Hobbes come corpo artificiale e non come realtà immediata e naturale – la società cioè non esiste in natura, ma è preceduta dall’individuo che è la sola realtà naturale -, il suo fondamento non è una norma trascendente o un istinto, ma le convenzioni e gli accordi tra gli uomini. Corrispondentemente muta anche il metodo della filosofia politica, come mostra il fatto che pur continuando a ricorrere all’autorità della Scrittura e ad esempi storici, Hobbes se ne serve solo per confermare quanto ha già dimostrato per via razionale. La filosofia politica è una scienza e il suo metodo è quello della scienza sperimentale galilleiana: si scompone l’oggetto in parti semplici (la natura umana, lo stato, i patti ecc.) e si ricompone una sintesi a partire da tali principi, ma stavolta come realtà conosciuta razionalmente.
Hobbes si rivolge dunque alla ragione degli uomini per dimostrare «la mutua relazione esistente fra protezione ed obbedienza», cioè per dimostrare che l’obbedienza al potere assoluto è necessaria perchè gli uomini vivano in pace e sicurezza tra loro. La filosofia politica di Hobbes pone infatti come valore assoluto la pace e si fonda sulla dimostrazione che la pace segue secondo necessità solo alla creazione di un sovrano assoluto che tenga a freno e regoli la contrastante molteplicità degli interessi e delle passioni individuali. Il filosofo assume come principidel suo pensiero le due figure centrali del mondo borghese, l’individuo atomisticamente isolato, trascinato dalla ricerca del proprio profitto e del riconoscimento di sé in perenne conflitto coi propri simili e soggetto a tutta la paura e la miseria di tale condizione; e il sovrano che concentra in sé ogni diritto e potere della società ed interviene per organizzare secondo ragione i rapporti tra questi individui.
Lo stato di natura
Presupporre uno stato di natura, cioè una condizione in cui gli uomini vivono senza altra guida che le loro disposizioni naturali, rappresenta, a partire da Hobbes, un’assunzione comune al pensiero giusnaturalistico moderno (Locke, Pufendorf, Rousseau). Si tratta in generale di definire le qualità originarie dell’uomo in rapporto alla vita morale e alla comunità per giustificare una determinata concezione dell’essenza e dei poteri dello stato. Lo stato di natura non corrisponde dunque a una condizione storica reale, ma esprime piuttosto un’ipotesi necessaria alla costruzione della filosofia politica.
Una simile impostazione concettuale non è invece propria del pensiero politico medievale perchè lo stato naturale e civile dell’uomo sono ugualmente originarie ed essenziali. L’essenza sociale dell’uomo, di origine divina, si manifesta immediatamente in una serie di comunità naturali (la famiglia, il villaggio, la professione) di cui lo stato è semplicemente la forma più alta. L’uomo appare come parte di un tutto sociale più o meno sviluppato, a cui non si contrappone. Al contrario, è il principio stesso della filosofia politica di Hobbes che, nell’ordine delle cose, l’individuo preceda la società, come il diritto, la legge, la libertà, l’obbligazione e l’eguaglianza la diseguaglianza. Il sistema di Hobbes si fonda quindi su assunzioni che rappresentano una forma estrema di individualismo, cioè sul riconoscimento che la società non è qualcosa di dato, ma deve risultare da un atto volontario dell’uomo che esprime così la sua capacità di artefice del diritto e dello stato (L, Introduzione).
All’interno della corrente del giusnaturalismo, questa posizione è per molti aspetti eccezionale. Per il più celebre esponente di questa corrente, John Locke, lo stato di natura è la condizione, retta dalla legge di ragione, in cui si trova la comunità di individui titolari dei diritti innati di libertà, eguaglianza e proprietà. L’uomo precede la società civile già come creatura sociale e razionale, non dipende da essa per questi suoi attributi. Lo stato di natura è quindi uno stato di pace, benevolenza, assistenza e difesa reciproca (Secondo Trattato, III, 19) in cui gli individui, originariamente indipendenti, convivono sotto una stessa norma razionale. In Locke, dunque, la società civile nasce per restaurare e garantire quella società naturale da cui dipende e rispetto alla quale si trova in una posizione di continuità. Hobbes, al contrario, imposta la sua teoria sulla radicale antitesi tra stato naturale e stato civile, concepite come sfere opposte e reciprocamente escludentesi della vita umana:
«fuori dello stato è il dominio delle passioni, la guerra, la paura, la povertà, l’incuria, l’isolamento, la barbarie, la bestialità. Nello stato è il dominio della ragione, la pace, la sicurezza, la ricchezza, la decenza, la socievolezza, la raffinatezza, la scienza, la benevolenza».
L’uomo diviene uomo, persona sociale e razionale, solo divenendo cittadino, suddito di uno stato; la condizione di natura si presenta qundi come una condizione di isolamento e di guerra, umanamente insufficiente e contraddittoria. In essa gli uomini sono spinti dalla diversità e dall’opposizione dei loro interessi e delle loro passioni, a muoversi guerra l’un l’altro. Fuori dello stato, la vita dell’uomo è priva di qualsiasi attributo morale o razionale. Sono già intuibili le diverse conclusioni che i due teorici trarranno dalla propria rappresentazione della natura umana, in senso liberale, Locke, in senso assolutistico, Hobbes.
Lo stato di natura vale per Locke come l’ideale di una società in cui gli individui liberi ed eguali, agiscono in conformità dei loro interessi e della loro ragione soggettiva, senza che da ciò derivi alcun contrasto tra l’utile individuale e il «bene comune», cioè l’utile degli altri individui. Per Hobbes, invece, l’indole degli uomini è caratterizzata da passioni (essenzialmente l’ambizione, l’orgoglio, il desiderio di ricchezza e la ricerca di piaceri sensuali) che danno alle relazioni umane una natura intrinsecamente contraddittoria, per cui ciascun individuo cerca di affermare la propria superiorità sugli altri (capp. 10 e 11).
Non esiste quindi una propensione degli uomini alla società, ma solo al proprio vantaggio; l’amor di sé, non l’amore degli altri, ci viene testimoniato dall’esperienza. La condizione naturale dell’umanità è una condizione di libertà e eguaglianza, perché non esiste alcun vincolo naturale od ordine gerarchico che sia originario dell’uomo, e non risulti dalla sua volontà. Ugualmente, per Hobbes la libertà è incompatibile con la pace e la sicurezza, perché equivale alla ricerca del dominio sugli altri e quindi deve essere alienata nell’atto di istituire lo stato; per Locke invece è un attributo inviolabile della persona umana e (nel senso individualistico della formula (liberty and property) va difesa contro l’invadenza del potere dello stato. Ma è nel concetto di eguaglianza che si manifesta più chiaramente l’opposizione tra i due teorici. Hobbes concepisce l’eguaglianza come manifestazione dell’isolamento e dell’insocialità dell’individuo naturale. Gli uomini sono eguali in quanto hanno uguale capacità di nuocersi a vicenda e questa è una delle cause del conflitto naturale. In questo modo l’uguaglianza cessa di rappresentare un vincolo universale tra gli uomini (come nel pensiero cristiano) per esprimere la loro reale dissociazione e opposizione. Per Locke invece gli uomini sono uguali in quanto creature di Dio, servi di un solo signore, e come tale si costituiscono in una stessa specie o «comunità naturale» (Secondo Trattato, II, 6; IX, 128) che trova nel cristianesimo morale ragionevole il proprio fondamento.
Si è qui si fronte a un punto centrale. L’uomo che vive al di fuori dello stato, secondo Hobbes, vive al di fuori di ogni rapporto sociale vero e proprio, non partecipa come la persona sociale lockiana, di una comunità etico-religiosa da cui deriva i propri diritti e in cui fuori da ogni rapporto positivo e politico con il prossimo, sia già di per sé uomo, creatura morale, razionale, sociale. Secondo Hobbes, non si può parlare di una società naturale, né della comunità del genere umano sotto la legge di natura, perché altrimenti non vi sarebbe nessun bisogno di stati particolari e di governi civili. L’uomo non è animale politico, non ha in sé il principio della socievolezza, non agisce riferendosi al bene comune, da cui ciascun singolo possa trarre il bene proprio (cap. 17, parr. 127-131). Ma, caduta l’idea di una simile società generale, di una natura spirituale comune a tutti gli uomini, viene meno anche ogni principio che consenta di concepire in modo positivo la vita dell’uomo fuori dello stato. Così l’opposizione di diritto e legge di natura che costitusce l’essenza del giusnaturalismo hobbesiano (cap. 14, La prima e la seconda legge naturale) indica precisamente che, per sua sola natura, l’uomo non partecipa di alcuna dimensione sociale e di alcun ordine universale: il diritto universale diviene uno jus in omnia, diritto a tutte le cose; forza e frode sono le virtù cardinali nella guerra che scaturisce necessariamente dall’assoluto individualismo ed egoismo della natura umana.
Trovano così spiegazione le celebri espressioni del capitolo 13 del Leviatano:
«La giustizia e l’ingiustizia non sono facoltà né del corpo né della mente: se lo fossero potrebbero trovarsi anche in un uomo solo nel mondo, come i suoi sensi e le sue passioni. Esse sono qualità che si riferiscono agli uomini in società, e non in solitudine».
Riassumendo, Hobbes non riconosce fino in fondo la distinzione di società civile e società naturale concepita da Locke. La conciliazione e l’armonia degli interessi e dei diritti privati non è possibile che a condizione che cessino di essere privati, che subentri cioè la regolazione pubblica da parte del potere sovrano, il quale assegnando i diritti di proprietà e leggi civili come norme delle azioni e dei possessi, rende possibile un pacifico ordinamento delle volontà individuali:
«Bene e male sono dei nomi che indicano i nostri appetiti e le nostre avversioni; e questi differiscono secondo i diversi temperamenti, costumi e dottrine degli uomini. Così uomini diversi differiscono non solo nel giudizio circa le sensazioni di ciò che è piacevole o spiacevole al gusto, all’odorato, all’udito, al tatto e alla vista, ma anche nel giudizio circa quello che è conforme o meno alla ragione, nelle azioni della vita comune. Anzi lo stesso uomo in tempi diversi si trova a differire da sé medesimo, e ora loda, cioè chiama buono, ciò che prima biasimava o chiamava cattivo. Da ciò sorgono dispute e controversie, e infine la guerra. Perciò gli uomini si trovano nella condizione di sola natura (che è una condizione di guerra), finché l’appetito individuale resta la sola misura del bene e del male» (Cap. 15),
e quindi, una volta rimosso l’ordinamento dello stato che solo fornisce una misura comune (cioè sociale) del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto, i rapporti umani precipitano nella guerra e nel disordine. Perciò la società coincide immediatamente con l’ordinamento politico e in esso si risolve, e i diritti dell’individuo assumono la forma di diritti di origine pubblica, positiva che delimitano certo, la sfera del suo arbitrio, rispetto a quella dell’arbitrio altrui, ma non costituscono un limite all’azione del sovrano (L. Cap. 18. pp. 118, 174-5). Assai interessante al riguardo, è il giudizio espresso da Rousseau nel Manuscript de Génève, cioè nella prima versione del Contratto sociale:
«L’errore di Hobbes non sta dunque nell’aver posto lo stato di guerra tra gli uomini indipendenti divenuti socievoli, ma nell’aver supposto tale stato come naturale alla specie, presentandolo come causa di quei vizi di cui invece è l’effetto».
Hobbes, dunque, confonde l’homme civil con l’homme naturel, attribuendo alla natura umana le caratteristiche e le passioni proprie di uomini che vivino in società;ma a differenza degli ideologi liberali, egli ha saputo cogliere la reale essenza dei rapporti civili e sociali presenti, il loro carattere antagonistico e contraddittorio. Lo stato di guerra non è la condizione originaria dell’umanità, ma la sua condizione attuale: al di là dell’opposizione sul metodo, Rousseau concorda con il merito delle tesi di Hobbes e trae da esse, in particolare, il concetto di amor proprio. Rousseau e Hobbes concordano dunque nel negare carattere di ordine sociale ai rapporti che si stringono sulla base dell’interesse privato e si risolvono nella concorrenza e nella lotta per il profitto e la superiorità: cioè i rapporti individualistici, anarchici della società borghese.
«Quel étrange animal» – scrive Rousseau riferendosi proprio all’uomo “naturale” hobbesiano – «que celui qui croirait son bien attaché à la destruction de son espèce» (quello strano animale che crederebbe il suo bene legato alla distruzione della propria specie).
Nella teoria di Hobbes, l’uomo appunto è uno strano animale, cui la specie, la società, si presenta solo come ostile opposizione degli altri uomini all’attuazione dei suoi fini, come ostacolo da piegare e da superare. La teoria antropologica di Hobbes si presenta quindi come una interpretazione dei rapporti fondamentali della società borghese (individualismo e antagonismo) o meglio, della società botghese colta nella crisi del suo ordinamento politico, lo stato sovrano, da cui dipende per il proprio assetto razionale ed il proprio interno equilibrio (ecco la radice dell’antiliberalismo hobbesiano) e senza il quale deve dissolversi in guerra civile. Come il membro della società borghese ne La questione ebraica di Karl Marx, l’uomo liberato da ogni obbligo nei confronti dello stato, ed in tutto eguale ai suoi simili (l’uomo “naturale”),
«considera gli altri uomini come mezzo, degrada se stesso a mezzo, e diviene trastullo di forze estranee» (Roma, 1971, p. 58 ).
Poiché dunque, al di fuori dell’ordine politico non esiste ordine sociale e razionale, lo stato deve essere istituito e fornito di potere assoluto per assicurare con la pace civile l’universale sicurezza e la regolazione delle relazioni tra i sudditi, per consentire agli individui di vivere una vita ragionevole e umana, in «pace e unità» sotto la protezione del sovrano. L’incondizionata sottomissione allo stato scaturisce da questa vicenda dello spirito utilitaristico come unica via per regolare secondo ragione e prudenza l’insieme dei rapporti umani.
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