Le dispense utilizzate da Kant nel suo insegnamento quasi decennale di pedagogia all’Università di Könisberg, furono pubblicate un anno prima della sua morte a cura dell’allievo Friedrich Theodor Rink.
Il fatto che Kant non si sia preso cura di pubblicarle durante la sua attività, potrebbe indurci a credere che la riflessione sull’educazione abbia un ruolo marginale nella sua opera. Ma, l’intero suo pensiero filosofico, al contrario, può essere considerato l’indicazione di un percorso di autoeducazione della ragione.
Indice
1. L’autoeducazione della ragione nell’opera di Kant
1.1 Libertà e natura umana
1.2 L’autonomia della ragione nel sapere aude
2. L’educazione come umanizzazione
2.1 La formazione della personalità: dall’anomia all’autonomia
2.2 L’anomia nel bambino e il disciplinamento
2.3 L’eteronomia nel fanciullo e l’interiorizzazione della norma
2.4 La conquista dell’autonomia
3. L’etica kantiana nella filosofia contemporanea
3.1 Dall’interiorizzazione di un modello condiviso alla scoperta della morale universale
3.2 Dalla natura, comunità o Dio alla morale razionale
1. L’autoeducazione della ragione nell’opera di Kant
La ragione si sottomette solo ed esclusivamente alla legge che essa stessa si dà.
[Pensare, significa quindi] cercare in se stessi [non nell’io, ma nella ragione, NDR.] la pietra ultima di paragone della verità.
Non bisogna insegnare pensieri, ma insegnare a pensare.
Che cosa significa orientarsi nel pensare?, 1786
Nel suo complesso, l’opera kantiana può essere considerata un percorso di autoeducazione della ragione.
Nella Critica della ragion pura (1781), infatti, la ragione si rivolge a se stessa per garantirsi della possibilità di conoscere e sapere entro quali limiti [vedi il tribunale della ragione pura (4)], ma può farlo solo dopo aver rinunciato alle proprie illusioni, cioè dopo aver chiarito a se stessa il funzionamento delle proprie facoltà e la natura delle proprie eccessive pretese [vedi la Dialettica trascendentale (10)].
Nella Religione entro i limiti della sola ragione (1793), Kant chiarisce, invece, che:
«la morale non ha bisogno dell’idea di un essere superiore all’uomo, quando questi conosca il suo dovere»,
e basta dunque a se stessa, senza bisogno di precetti o catechismi.
Infatti, se nelle religioni positive (o “rivelate”) certe azioni sono considerate sante perché volute da Dio, la religione naturale è
quella, invece, in cui io devo sapere che qualche cosa è un dovere prima che la possa riconoscere come un comando divino.
Nella religione naturale, cioè quella convinzione ragionevole, priva di un sistema di credenze, dell’esistenza di un creatore e di una natura ordinata e intelligente, ciò che ci si mostra come una legge morale, è voluto da Dio in quanto giusto.
È nella Critica della ragion pratica che Kant chiarisce in cosa consiste la conoscenza del dovere, cioè di quell’azione che ci si impone per la sua necessità e universalità e che, quindi, percepiamo come imperativa, o come un’obbligazione assoluta.
1.1 Libertà e natura umana
Il filosofo introduce la sua riflessione sulla legge morale con una un’analisi della «natura umana», intesa non come essenza dell’umano – della quale, in tal caso, non potremmo parlare – ma come fondamento soggettivo della libertà individuale.
Che la legge morale esista e che l’uomo sia capace di bene è un fatto della ragion pura pratica, non qualcosa che deve essere dimostrato, osserva Kant. Allo stesso modo, è evidente che l’uomo sia capace della scelta consapevole del male, cioè del «male radicale».
Scegliendo il male, l’uomo non è vittima di una forza estranea alla sua volontà (come lo è nel «servo arbitrio» luterano per azione del peccato), né di un istinto naturale che non sarebbe valutabile in termini morali.
Il male radicale è invece la tendenza, dovuta alla finitezza umana, ad adottare comportamenti contrari alla legge morale, pur sapendo che è male. Esso è dunque una scelta di libertà che antepone l’egoismo alla legge morale, aspetto inevitabile in un essere finito che si trova tra ragione e sensibilità.
Le massime individuali, cioè la determinazione all’azione propria di ogni individuo, non coincidono perciò necessariamente con il dovere (la legge morale che si presenta nella forma del “tu devi”, l’imperativo categorico), circostanza che configurerebbe la santità, ma si riferiscono costantemente ad esso nell’uomo giusto.
Per questa ragione, l‘educazione si pone tra autorità e libertà.
Il presupposto fondamentale della moralità è, dunque, la libertà che presuppone la razionalità e, di conseguenza la responsabilità: senza libertà non c’è infatti scelta etica, ma costrizione o necessità che non danno luogo ad alcuna responsabilità.
Nel caso della costrizione, la volontà non può essere giudicata responsabile del male: l’azione indotta con una pistola puntata non è l’azione di chi agisce, ma di chi impone l’azione.
Ma non è nemmeno responsabile l’essere che agisce sulla base di un impulso naturale che non può eludere: l’animale non può scegliere di comportarsi in modo diverso dall’istinto della specie).
Allo stesso modo, non è responsabile di un delitto un essere non dotato di ragione, come un folle o un bambino, la cui azione non è, a rigore, una scelta, ma un’azione irriflessa, non decisa o meditata da un essere capace di ragionamento.
1.2 L’autonomia della ragione nel sapere aude
Considerando la centralità della libertà nella riflessione kantiana sull’etica, il testo del filosofo più avanzato al riguardo è la Risposta alla domanda che cos’è l’Illuminismo.
È in questo celebre scritto, infatti, che Kant spiega come il fine di un’età basata sulla ragione, sul sapere e sulla libertà sia la capacità di servirsi del proprio intelletto senza l’aiuto di un altro, e come il fallimento nella conquista di una morale razionale, sia imputabile a pigrizia e viltà, cioè all’incapacità di svincolarsi da quei «ceppi di un’eterna minorità» che tutori interessati (uomini di Chiesa e di stato) hanno contribuito a far diventare in loro «pressoché una seconda natura».
L’illuminismo è l’uscita dell’uomo da uno stato di minorità il quale è da imputare a lui stesso. Minorità è l’incapacità di servirsi del proprio intelletto senza la guida di un altro. Imputabile a se stessi è questa minorità se la causa di essa non dipende da difetto di intelligenza, ma dalla mancanza di decisione e del coraggio di servirsi del proprio intelletto senza esser guidati da un altro.
Sapere aude! Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza – è dunque il motto dell’illuminismo.
La pigrizia e la viltà sono le cause per cui tanta parte degli uomini, dopo che la natura li ha da lungo tempo affrancati dall’eterodirezione (naturaliter maiorennes), tuttavia rimangono volentieri minorenni per l’intera vita e per cui riesce tanto facile agli altri erigersi a loro tutori. E’ tanto comodo essere minorenni! Se ho un libro che pensa per me, un direttore spirituale che ha coscienza per me, un medico che decide per me sulla dieta che mi conviene, ecc., io non ho più bisogno di darmi pensiero per me. Purché io sia in grado di pagare, non ho bisogno dì pensare: altri si assumeranno per me questa noiosa occupazione.
A far si che la stragrande maggioranza degli uomini (e con essi tutto il bel sesso) ritenga il passaggio allo stato di maggiorità, oltreché difficile, anche molto pericoloso, provvedono già quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l’alta sorveglianza sopra costoro.
Dopo averli in un primo tempo instupiditi come fossero animali domestici e aver accuratamente impedito che queste pacifiche creature osassero muovere un passo fuori dei girello da bambini in cui le hanno imprigionate, in un secondo tempo mostrano ad esse il pericolo che le minaccia qualora tentassero di camminare da sole. Ora questo pericolo non è poi così grande come loro si fa credere, poiché a prezzo di qualche caduta essi alla fine imparerebbero a camminare: ma un esempio di questo genere rende comunque paurosi e di solito distoglie la gente da ogni ulteriore tentativo.
È dunque difficile per ogni singolo uomo districarsi dalla minorità che per lui è diventata pressoché una seconda natura. E’ giunto perfino ad amarla, e attualmente è davvero incapace di servirsi del suo proprio intelletto, non essendogli mai stato consentito di metterlo alla prova. Regole e formule, questi strumenti meccanici di un uso razionale o piuttosto di un abuso delle sue disposizioni naturali, sono ceppi di una eterna minorità.
Anche chi da essi riuscisse a sciogliersi, non farebbe che un salto malsicuro sia pure sopra i più angusti fossati, poiché non sarebbe allenato a siffatti liberi movimenti. Quindi solo pochi sono riusciti, con l’educazione del proprio spirito, a districarsi dalla minorità e tuttavia a camminare con passo sicuro.
Che invece un pubblico si illumini da sé è cosa maggiormente possibile; e anzi, se gli si lascia la libertà, è quasi inevitabile. In tal caso infatti si troveranno sempre, perfino fra i tutori ufficiali della grande folla, alcuni liberi pensatori che, dopo aver scosso da sé il giogo della tutela, diffonderanno il sentimento della stima razionale del proprio valore e della vocazione di ogni uomo a pensare da sé. […]
Ma da tutte le parti odo gridare: non ragionate! L’ufficiale dice: non ragionate, ma fate esercitazioni militari! L’intendente di finanza: non ragionate, ma pagate! L’ecclesiastico: non ragionate, ma credete! (C’è solo un unico signore al mondo che dice: ragionate quanto volete e su tutto ciò che volete, ma obbedite!) Qui v’è, dovunque, limitazione della libertà. Ma quale limitazione è d’ostacolo all’illuminismo, e quale non lo è, anzi lo favorisce?Io rispondo: il pubblico uso della propria ragione dev’essere libero in ogni tempo, ed esso solo può attuare il rischiaramento tra gli uomini […].
Se ora si domanda: viviamo noi attualmente in un’età illuminata? allora la risposta è: no, bensì in un’età di illuminismo. Che nella situazione attuale gli uomini presi in massa siano già in grado, o anche solo possano essere posti in grado di valersi sicuramente e bene del loro proprio intelletto nelle cose della religione, senza la guida di altri, è una condizione da cui siamo ancora molto lontani.
Ma che ad essi, adesso, sia comunque aperto il campo per lavorare ad emanciparsi verso tale stato, e che gli ostacoli alla diffusione del generale rischiaramento o all’uscita dalla minorità a loro stessi imputabile a poco a poco diminuiscano, di ciò noi abbiamo invece segni evidenti.
A tale riguardo quest’età è l’età dell’illuminismo, o il secolo di Federico. Un principe che non crede indegno di sé dire che considera suo dovere non prescrivere nulla agli uomini nelle cose di religione, ma lasciare loro in ciò piena libertà, e che quindi respinge da sé anche il nome orgoglioso della tolleranza, è egli stesso illuminato e merita dal mondo e dalla posterità riconoscenti di esser lodato come colui che per primo emancipò il genere umano dalla minorità, almeno da parte del governo e lasciò libero ognuno di valersi della sua propria ragione in tutto ciò che è affare di coscienza […].
Se dunque la natura ha sviluppato sotto questo duro involucro il germe di cui essa prende la più tenera cura, cioè la tendenza e vocazione al libero pensiero, questa tendenza e vocazione gradualmente reagisce sul modo di sentire del popolo (per cui questo, a poco a poco, diventa sempre più capace della libertà di agire), e alla fin fine addirittura sui principi del governo il quale trova che è nel proprio vantaggio trattare l’uomo, che ormai è più che una macchina, in modo conforme alla di lui dignità.
2. L’educazione come umanizzazione
In Che cosa significa orientarsi nel pensare? Kant scrive, quasi citando alla lettera Rousseau:
L’uomo può divenire uomo solo mediante l’educazione: egli sarà quale essa l’avrà fatto.
È l’educazione infatti a far emergere l’umanità, cioè a permettere l’espressione dell’intelligenza e della scelta etica, perché ognuno di noi è il prodotto di facoltà (a priori) che vengono a maturazione con l’educazione e l’influenza dell’ambiente (a posteriori).
Questa doppia origine è così evidente, agli occhi di Kant, che precorrendo gli studi psicologici sull’origine dell’intelligenza, nota che:
[…] poiché l’educazione, da una parte insegna all’uomo delle cose nuove, dall’altra non fa che sviluppare ciò che c’è in lui, non si può sapere fin dove giungano le disposizioni naturali.
L’educazione uno dei compiti «più difficili» ma anche «più importanti» dell’umanità, il cui fine è il conseguimento della moralità, una possibilità dell’uomo, da perseguire infinitamente. Infatti, non solo
l’uomo è ciò che diviene attraverso l’educazione,
ma l’educazione è anche
un processo graduale, mai compiuto, di elevazione morale dell’umanità.
Essa è dunque sia il processo di formazione della personalità individuale che il compito infinito dell’umanità. È un’esigenza primaria di autoperfezionamento che coinvolge l’umanità di generazione in generazione.
2.1 La formazione della personalità: dall’anomia all’autonomia
Due cose riempiono l’animo di ammirazione e venerazione sempre nuova […]
il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me.
Kant, Critica della ragion pratica
Alla luce delle conclusioni della Critica della ragion pratica che:
– la morale è autonoma dalla religione, e che
– l’uomo è capace di comportamento etico quando conosca il proprio dovere,
nella Pedagogia, Kant articola il processo educativo nei tre momenti della norma o disciplina imposta dall’esterno al bambino, dell’interiorizzazione della norma da parte del fanciullo, e dell’autonomia dell’adulto.
2.2 L’anomia nel bambino e il disciplinamento
Il filosofo osserva che il bambino è prevalentemente un essere naturale, e pertanto tende ad ubbidire spontaneamente agli impulsi della propria natura, ai propri interessi, alla tendenza al gioco. Non avverte i richiami della vita morale, perché non si è ancora svegliata in lui la ragione.
«L’animale è già, in virtù del suo istinto, tutto ciò che può essere: una ragione superiore ha tutto preveduto per lui. L’uomo invece ha bisogno della sua ragione perché non ha alcun istinto e deve da sé tracciare il piano della sua condotta. Poiché egli non è subito in grado di farlo, necessita dell’aiuto altrui. Di qui la necessità della disciplina (del governo), che impedisca all’uomo di deviare, a causa delle proprie inclinazioni naturali, dalla sua finalità (vedi l’idea della perfezione).Essa le deve frenare, perché non si getti spensieratamente e impetuosamente nei pericoli. Il governo è puramente negativo, è l’azione mediante la quale si toglie all’uomo la selvatichezza. La selvatichezza è l’insubordinazione alla legge. La disciplina sottomette l’uomo alla legge dell’umanità e comincia a fargli sentire l’autorità della legge, e ciò dev’essere fatto per tempo.
2.3 L’eteronomia e l’interiorizzazione della norma
Nel fanciullo emergono gradualmente, accanto alla «natura», la consapevolezza e la razionalità. È il momento in cui il modo in cui il ragazzo forma le proprie massime di comportamento deve essere educato, non semplicemente disciplinato.
Anche in Kant, come in Aristotele, l’educazione del carattere che rappresenta la finalità di questa fase dell’educazione, consiste nell’abitudine ad agire secondo certe massime, dapprima proposte dall’educatore, poi scelte.
È qui che la moralità assume una connotazione soggettiva che, implicando l’adesione della volontà del ragazzo, si avvia verso l’autodeterminazione o autonomia:
In un primo momento, l’educazione è esercizio e disciplina, senza insegnamento di massime. L’educando è passivo, egli non ha che da seguire la guida di un altro. Gli altri pensano per lui. L’educazione morale, invece, non si basa sulla disciplina ma sulla massima [in questo caso l’allievo] è attivo e […] deve porre il fondamento e la guida dell’azione nell’idea del dovere […].
La cultura morale deve basarsi sulle massime e non sulla disciplina: questa impedisce le mancanze, quella forma il carattere. Bisogna far sì che il ragazzo si abitui ad agire secondo massime e non secondo particolari motivi […] Le massime debbono scaturire dall’anima stessa dell’uomo. Nell’educazione morale bisogna dar di buon’ora ai bambini l’idea del bene e del male. Se si vuole formare la moralità non si deve castigare. La moralità è una cosa così santa e così elevata, che non si deve abbassarla al punto di metterla a livello della disciplina. La principale cura dell’educazione morale dev’essere la formazione del carattere, il quale consiste nell’abitudine ad agire secondo certe massime, le quali dapprima sono le massime della scuola e in seguito diventano quelle dell’umanità. Dapprima il bambino ubbidisce a leggi. Anche le massime sono leggi; ma leggi soggettive, che sono emanate dalla ragione stessa dell’uomo.
2.4 La conquista dell’autonomia
La moralità, secondo Kant, consiste nell’obbedienza ad una legge che il soggetto si dà da sé medesimo.
L’età adulta è, dunque il momento dell’autonomia e della libertà, quella in cui il soggetto non ha più bisogno di una guida esterna, perché ha come guida la propria ragione, a meno che non sia incapace di seguirla per essere rimasto, per pigrizia o per viltà, dipendente da tutori pubblici (religiosi o politici), intrappolato dagli «eterni ceppi» dell’eterodirezione.
Per questo, la moralità, sia come scelta del dovere che come esercizio dell’autonomia intellettuale, non è un modo di essere conquistato una volta per tutte, ma una possibilità e un impegno senza fine.
3. L’etica kantiana nella filosofia contemporanea
Riassumendo, l’individuo passa da una condizione di anomia (a-nomos: assenza di leggi) che caratterizza l’infanzia, a quella di eteronomia, prodotta dalla guida esterna dell’educatore, a quella, infine, di autonomia, nella quale di dà una disciplina morale interiore, obbedendo alla legge universale che si impone alla sua razionalità.
3.1 Dall’interiorizzazione di un modello culturale alla scoperta della morale universale
Il rapporto tra autorità e libertà è, quindi, in Kant è lo stesso posto da Locke, con la differenza che in Locke l’interiorizzazione di modelli e costumi si riferisce alla classe sociale degli aristocratici, mentre per Kant indica inizialmente l’acquisizione di un modello etico culturalmente condiviso che prelude alla scoperta della legge morale (universale).
L’influenza di Rousseau porta inoltre Kant a prevedere che l’obbedienza imposta dall’esterno abbia come fine la futura autonomia. È, però, un risultato kantiano che, in caso di condotta riprovevole, si debba temere non il giudizio di Dio o degli altri uomini, ma della propria coscienza.
3.2 Dalla natura, la comunità o Dio alla morale razionale
Nel suo Itinerari pedagogici [vol. IV, Zanichelli] Renzo Tassi ha concluso la trattazione della pedagogia kantiana con una interessante citazione di Otfried Höffe di cui riporto i passi più significativi:
«Il mutamento del pensare filosofico, di cui siamo debitori a Kant, riguarda non soltanto il mondo del conoscere, ma anche quello dell’agire […].
La nuova fondazione kantiana dell’eticità ha conservato fino ai nostri giorni qualcosa di più di un valore meramente storico. Nella discussione contemporanea circa la giustificazione di norme etiche (morali) ci si riferisce a Kant come ad un interlocutore sistematico. Kant soddisfa infatti entrambi i presupposti per essere un interlocutore stimolante. In primo luogo la sua filosofia morale è in accordo con quelle condizioni minimali che l’etica normativa contemporanea di regola riconosce… Anche Kant si pone in opposizione a relativismo, scetticismo e dogmatismo nell’etica.
Anche Kant prende le mosse dal fatto che il giudizio e l’agire morali non sono l’oggetto di un sentimento personale o di una decisione arbitraria e neppure una questione di provenienza socio-culturale, del tatto o di una convenzione. Piuttosto egli vede l’agire umano posto sotto obblighi ultimi, della cui osservanza si vien considerati responsabili non solo da altri, ma anche da se stessi. L’agire è l’oggetto di una argomentazione peculiare, ma tuttavia razionale […]
La sua morale dell’autonomia e dell’imperativo categorico rappresenta il più importante modello alternativo alla teoria utilitaristica dominante […].