L’esistenza non può essere pensata senza movimento e il movimento non può essere pensato sub specie aeterni […]
Infatti, nella misura in cui il pensiero è eterno c’è una difficoltà per l’esistente. L’esistenza è come il movimento: è molto difficile avere a che fare con essa. Se li penso li abolisco e quindi neanche li penso più. Sembra pertanto che sia esatto dire che c’è qualcosa che non si lascia pensare: l’esistere. Ma la difficoltà ritorna, e ciò per il fatto che il pensatore esiste, e il pensare pone insieme l’esistenza […]. L’esistere è per l’esistente il suo supremo interesse e l’interessamento ad esistere è la sua realtà. Ciò in cui consiste la realtà non può essere esposto nel linguaggio dell’astrazione. La realtà è un inter-esse tra l’unità ipotetica dell’astrazione di essere e pensiero […].
Dio non pensa, Egli crea; Dio non esiste, Egli è eterno. L’uomo pensa ed esiste e l’esistenza separa pensiero ed essere, li distanzia l’uno dall’altro nella successione […].
Kierkegaard, Postilla conclusiva non scientifica
Indice
1. L’enigma Søren
2. La filosofia tra scrittura e vita
3. Le possibilità e la scelta
3.1 La vita estetica: il gioco delle possibilità
3.2 Dall’estico all’etico: la scelta
4. Lo scacco dell’etica
4.1 La contraddizione tra etica e religione
4.2 L’angoscia come dimensione dell’esistenza
5. Il pensatore soggettivo e la dialettica dell’esistenza
1. L’enigma Søren
Nella vita di Søren Kierkegaard c’è un grande scarto tra la esiguità degli avvenimenti esteriori e la complessità di un’esperienza interiore che rimane in più punti indecifrabile, nonostante le migliaia di pagine del Diario e i numerosissimi spunti autobiografici presenti nelle opere.
Nato a Copenhagen, era figlio di un pastore protestante, dalla rigida visione religiosa, e della sua seconda moglie.
Iscrittosi alla facoltà di teologia nel 1830 e formatosi in ambiente hegeliano, con maestri orientati ad accordare filosofia e religione, ragione e fede, già nel 1835 si dice convinto che
«la filosofia e il cristianesimo non si lasciano mai conciliare».
Nel 1837 incontra Regine Olsen, con la quale si fidanza, rompendo però il fidanzamento un anno dopo. Il tema di Regine, intensamente amata eppure abbandonata, si intreccia a tutta la sua filosofia.
L’incertezza opprimente che caratterizza l’atteggiamento di Kierkegaard davanti agli eventi più significativi della sua vita, può essere spiegata con il suo stesso pensiero.
Il filosofo, infatti, considerava la possibilità come la categoria esistenziale umana fondamentale. Le possibilità poste davanti alla vita di un uomo sono, infatti, infinite, ma ognuno è chiamato a una sola scelta che comporta l’annientamento di tutte le altre opzioni oppure alla paralisi, cioè al fallimento, a una non realizzazione.
La rottura del fidanzamento segna una svolta nella vita di Kierkegaard che, potendo godere di una rendita lasciatagli dal padre, deciderà di dedicarla solo alla scrittura, pubblicando in sette anni tutte le sue grandi opere pseudonime, a cominciare da Aut-aut (Enten-Eller).
Il suo tema fondamentale, quello del Cristianesimo, è in realtà una riflessione radicale sull’esistenza umana, posta a confronto con l’aspirazione all’infinito.
Le sue opere, benché pseudonime, lo espongono a critiche feroci, ma la polemica più violenta della sua vita è con la Chiesa luterana danese, interprete di un cristianesimo burocratizzato, moralista e benpensante che tradisce, a suo giudizio, l’autentico spirito cristiano della
«lotta aperta con il mondo»,
una via “aspra” e “stretta”, percorribile da pochi, che comporta sofferenza, in quanto segnata da un amore di Dio che è “nemico mortale” della naturalità immediata dell’uomo.
Il 2 ottobre 1855, Kierkegaard ha un malore mentre cammina per strada, trasportato al Friedriks Hospital, muore il successivo 11 novembre, all’età di 42 anni.
Pochi mesi prima Regine, ormai sposata col suo antico precettore Friedrich Schlegel, aveva voluto rivederlo, dovendo partire con il marito per un lungo viaggio, e lo aveva aspettato sulla via per dargli il suo «Dio ti benedica, possa andarti tutto bene» al quale il filosofo, quasi impietrito, aveva risposto con un leggero cenno del cappello in segno di saluto.
2. La filosofia tra scrittura e vita
Tutta la mia feconda attività di scrittore si riduce a quest’unico pensiero: colpire alle spalle.
Søren Kierkegaard, Discorsi edificanti
Il rapporto con la scrittura e con la pubblicazione delle sue opere si intrecciano profondamente con la vita di Kierkegaard.
Lo stesso può dirsi per il suo stile che rifiuta la suddivisione in paragrafi e capitoli del pensiero astratto e morto (la filosofia accademica), e ricerca una scrittura filosofica capace di riprodurre la mobilità, la concretezza, la vicinanza alla vita del dialogare socratico – senza peraltro riuscirci sempre.
Kierkegaard pubblica con il proprio nome solo gli scritti di carattere direttamente religioso, dai Discorsi edificanti agli interventi polemici sul «Momento»; mentre tutte le grandi opere filosofiche, da Aut aut (Enten- Eller), Timore e tremore; Briciole di filosofia, II concetto dell’angoscia, Postilla conclusiva non scientifica, La malattia mortale ed Esercizio del cristianesimo escono psesudonime.
Gli pseudonimi con le loro allusioni, sono maschere che Kierkegaard ritiene necessarie per parlare della verità: non si tratta infatti di trasmettere una dottrina compiuta, ma di realizzare una comunicazione d’esistenza che cambi la vita.
Solo la comunicazione autentica, infatti, rende libero l’altro. Ne sono strumenti essenziali la pseudonimia e l’ironia.
Paradossalmente è proprio così che l’autore mette in gioco la propria vita, visto che, al contrario, gli autori che si firmano diventano personaggi, cioè non «reduplicano» il loro messaggio nell’esistenza:
«reduplicare è essere ciò che si dice». Così, il filosofo (Hegel) costruisce il grandioso palazzo del suo sistema, quanto a lui, «abita nel fienile».
I grandi maestri di comunicazione sono invece Socrate e Cristo:
«il merito infinito di Socrate è precisamente di essere stato un pensatore esistente, non uno speculante che dimentica ciò che è l’esistere»,
mentre in Cristo troviamo la verità stessa che si fa esistenza, mostrando quel paradosso che costituisce l’essenza del cristianesimo.
Poichè solo la comunicazione autentica rende liberi, il mondo contemporaneo ha bisogno di un Socrate che comunichi in questo modo – «tutta la mia vita di scrittore è una domanda ai contemporanei» -, la cristianità, infatti è un’«enorme illusione», perché tutti sono cristiani ma poi «conducono la loro vita in tutt’altre categorie».
3. Le possibilità e la scelta
I fondamentali «stadi sul cammino della vita», i modi di esistere che marcano un itinerario individuale, sono l’estetico, l’etico e il religioso.
Aut-aut esprime, già nel titolo, l’alternativa fra le prime due possibilità.
3.1 La vita estetica: il gioco delle possibilità
L’esteta vive immediatamente il rapporto con la vita come godimento e come rappresentazione del godimento.
La sua sfera è il gioco, l’immaginazione, e la sua esistenza è vissuta come un teatro. La differenza fra la vita estetica e la vita etica viene definita nel modo più chiaro dal giudice Wilhelm, il personaggio che incarna in Aut-aut il paradigma dell’etico:
«l’estetico che è nell’uomo è ciò per cui egli è immediatamente ciò che è; l’etico è ciò per cui egli diventa ciò che diventa».
Kierkegaard rappresenta l’estetico attraverso alcune figure, i miti letterari di Don Giovanni e del Faust e quello di Joannes, il protagonista del Diario di un seduttore che il filosofo crea inserendovi elementi della propria esperienza autobiografica.
Don Giovanni rappresenta il potere e il piacere della seduzione immediata che allinea le proprie conquiste l’una accanto all’altra come un’indefinita successione di istanti; è la pura forza dell’eros, il cui medio espressivo ideale è la musica di Mozart.
Faust, nell’interpretazione di Kierkegaard, incarna invece il gioco della conoscenza, il potere dissolutore del dubbio radicale; il patto demoniaco stretto con Mefistofele costringe Faust alla ricerca della conoscenza assoluta e quindi a dubitare di tutto e a non potersi arrestare a nulla.
Johannes, infine, si colloca, nell’arco della seduzione estetica, al polo opposto rispetto a Don Giovanni: il suo diario — il Diario del seduttore che rese celebre Kierkegaard — racconta la trama sottile in cui egli avvolge la giovane Cordelia per conquistarla e poi abbandonarla.
Johannes non gode del possesso, ma unicamente della rappresentazione della conquista; anzi, evita il possesso, perché la riuscita della seduzione implica la fine del piacere, implica in qualche modo l’impegnarsi con la realtà, mentre ciò che interessa è l’idea, l’immaginazione. Non traducendosi mai in realtà, il desiderio di Johannes può rimanere indefinitamente aperto [Don Giovanni – Mozart, direttore Roger Norrington, 1993].
L’esteta è privo di un contenuto reale della propria soggettività: è qualcosa solo nell’immaginazione, perché non ha mai scelto se stesso nella realtà.
Egli vive nell’orizzonte della possibilità infinita, senza mai compiere il movimento della realizzazione.
La sua personalità è parcellizzata, dispersa nella molteplicità, l’unità del suo Io è illusoria ed evanescente. Non si rivela mai al mondo, non getta mai la maschera: si rappresenta e si mostra come un enigma, del quale rimane egli stesso costantemente prigioniero.
Così è visto l’esteta dal giudice Wilhelm, cioè nell’ottica della vita etica, dalla quale appare anche un’altra categoria costitutiva della vita estetica: quella della disperazione.
«Ogni concezione estetica della vita è disperazione, e ciascuno che vive esteticamente è disperato, che lo sappia o no», osserva il giudice Wilhelm.
La disperazione nasce appunto dal fatto che l’esteta resta costantemente nell’ambito delle infinite possibilità, permanentemente affacciata sul nulla.
3.2 Dall’estetico all’etico: la scelta
Se la disperazione è ciò che caratterizza la vita estetica, la vita etica inizia invece nella scelta.
L’atto della scelta è quel movimento attraverso cui si istituisce la personalità morale, poiché in essa non viene scelto un oggetto, buono o cattivo, ma la persona stessa nel suo valore assoluto.
Nell’atto della scelta l’Io diventa Sé, la personalità si istituisce, dal piano della possibilità si passa a quello della realtà, cioè dal non-essere all’essere.
La scelta caratterizza l’etico al punto che non è possibile parlare di scelta estetica, poiché l’estetico consiste appunto nel non scegliere.
La non-scelta ignora il principio di contraddizione, è l’indifferenza che annulla le distinzioni: l’etica, in quanto si fonda sulla scelta, assume invece la disgiunzione, l’aut-aut, come atto che fonda la personalità e che deve essere continuamente rinnovato.
L’illusione di libertà che caratterizza l’estetico rivela allora la sua inconsistenza, perché mentre l’individuo rifiuta o rimanda la scelta,
«altri hanno scelto per lui, perché lui ha perduto se stesso».
Solamente nella scelta divengono possibili l’esperienza della libertà e la conoscenza di sé.
Chi si è scelto è ciò che è divenuto. La scelta si configura come un rivelarsi a sé e al mondo, uscendo così dalla maschera e dell’apparenza.
Ciò che infine caratterizza l’etico rispetto all’estetico è un diverso rapporto con il tempo: la vita etica ha consistenza temporale, ha durata, ha sviluppo. Solo nell’etica vi è storia, perché la scelta ha istituito la personalità e ha fissato il punto che dà senso al passato, al presente, al futuro.
L’esteta invece non ha memoria, perché non ha storia, e ripete se stesso in istanti sempre uguali, senza mai potersi fermare nella profondità del proprio sé.
Il giudice Wilhelm oppone il matrimonio alla conquista dell’esteta. Questa infatti cerca disperatamente di alimentare il desiderio con la riproposizione della novità, vista ogni voltà come l’unica e la migliore, mentre il matrimonio sostituisce l’intesa al mistero, il possesso alla conquista:
«il veramente grande non è il conquistare, ma il possedere»
perché nel possesso si è presso di sé, mentre nella conquista si è fuori di sé. Per questo l’etico non annulla ma è superiore all’estetico, perché lo ricomprende in una superiore bellezza in cui
«l’individuo ha in se stesso il suo fine».
4. Lo scacco dell’etica
In Aut-aut, la scelta dà vita al Sé, perché senza scelta il singolo rimane un puro Io immediato, ma nella scelta l’io non si inventa, sceglie qualcosa che già esiste: l’individuo ideale, l’eccellenza dell’ideale eudcativo antico, posta come scopo a tutti i singoli uomini.
L’ideale etico però deve confrontarsi con l’esistenza e il nostro prolungamento nel tempo che in termini religiosi consiste nella realtà ineliminabile della colpa e dal peccato.
La vera scelta etica deve quindi passare attraverso l’accettazione della colpa e il pentimento ed è dunque marcata dal rapporto con Dio.
4.1 La contraddizione tra etica e religione
La critica all’eticità di Aut-aut che conduce all’analisi della sfera religiosa è impostata da Kierkegaard in due opere del 1843-44, Timore e tremore e Il concetto dell’angoscia.
Il timore e tremore è quello di Abramo al quale, secondo il racconto biblico (Genesi, 22), Dio chiede di sacrificare il figlio Isacco ed è dunque stretto nella contraddizione tra il comando morale umano (etica) e la volontà di Dio (religione).
Egli deve scegliere, ma la sua scelta è operata nella solitudine perché non può essere condivisa con nessuno. Nulla inoltre gli garantisce che uccidendo suo figlio compirà un atto di fede e non un omicidio.
La scelta di Abramo avviene dunque nel paradosso e nell’assurdo.
4.2 L’angoscia come dimensione dell’esistenza
Il tema de Il concetto dell’angoscia è la dimensione dell’angoscia come costitutiva dell’esistenza dell’uomo.
La riflessione di Kierkegaard parte dal concetto di peccato, pensato come “peccato originale”, possibilità che si è attualizzata in Adamo e rivive poi in ogni uomo.
Esso consiste nella rottura rispetto a una condizione di innocenza, intesa come ignoranza, cioè come la condizione di naturalità precedente alla sua mediazione nello spirito in cui l’uomo non è ancora consapevole del bene e del male.
Ma già nell’innocenza, l’esistenza è attraversata dall’angoscia, quale possibilità del male, l’angoscia, infatti,
è la realtà della libertà come possibilità per la possibilità,
cioè il sentimento che deriva all’uomo dalla libertà di poter agire decidendo per sé.
Kierkegaard riflette con ciò non solo sull’esistenza umana, ma specificamente sulla condizione moderna, nella quale l’entusiasmo per la rottura dei limiti dell’ancien régime e per l’inedita possibilità di scegliere e inventarsi la propria vita si sposano con l‘angoscia della responsabilità e il senso della perdita per le possibilità non scelte.
L’angoscia non ha infatti come oggetto qualcosa di determinato, ma il nulla.
Essa è la
«vertigine della libertà».
Essa è dunque ineliminabile, insopprimibile come la possibilità da cui si genera ma, poiché è il sentimento che intuisce l’illusorietà di tutte le scelte finite,
«più profonda è l’angoscia e più grande è l’uomo».
Infatti,
«solo colui che è formato dall’angoscia è formato mediante la possibilità e soltanto chi è formato dalla possibilità è formato secondo la sua infinità».
5. Il pensatore soggettivo e la dialettica dell’esistenza
Ciò che importa è di trovare una verità che sia verità per me,
di trovare l’idea per la quale io possa vivere e morire.
Mentre con Timore e tremore e Il concetto dell’angoscia la riflessione di Kierkegaard passa dal piano etico a quello della religione, le ultime quattro opere pesudonime, Briciole di filosofia, Postille conclusiva non scientifica, La malattia mortale ed Esercizio del cristianesimo sviluppano la “resa dei conti” con la filosofia speculativa e tracciano le linee della nuova filosofia dell’esistenza che pone lo stadio religioso come l’ultima e più alta sfera dell’esistenza stessa.
La Postilla conclusiva non scientifica si pone il problema della verità e del cristianesimo, del rapporto tra ragione e assoluto.
La malattia mortale ed Esercizio del cristianesimo si pongono invece nell’ottica di chi ha già cominciato il movimento dell’ascesa, di chi ha già compreso che la verità è il rapporto con il trascendente, ma non ha ancora compiuto il passo esistenziale decisivo in questa direzione.
La tonalità polemica antihegeliana traspare già nei titoli delle due opere che polemizzano con lo spirito di sistema e la sua pretesa di comprensione razionale della totalità.
Per Kierkegaard, infatti,
«un sistema logico è possibile, ma non è possibile un sistema dell’esistenza».
Infatti, nella logica, sfera del pensiero puro, non può esserci movimento, mentre l’esistenza è immersa nel divenire.
Kierkegaard rifiuta di dedurre il divenire dalla dialettica di essere e nulla: nei primi paragrafi della Scienza della logica essere e nulla sono infatti pura quiete dai quali non può sorgere movimento.
L’essere non può quindi essere dedotto dal pensiero, in realtà anche il pensiero (per Hegel incondizionato, originario) presuppone sempre qualcosa: l’esistenza, ma il pensiero astratto e oggettivo, nella pretesa di comprendere razionalmente l’esistenza sub specie aeterni la fraintende completamente. L’esistente non si lascia pensare, perché l’esistenza è
«sempre l’esistenza singola, l’astratto non esiste».
Essa richiede per essere pensata
«un esistente concreto che si rapporti in concreto alla verità»,
un pensatore soggettivo che accolga nel pensiero la propria costitutiva ambiguità. Che cos’è infatti l’esistenza?
«E’ quel bambino che è generato dal finito e dall’infinito, dal tempo e dall’eternità ed è perciò sempre aspirante»,
come l’Eros del Simposio platonico.
La verità, allora, non è qualcosa di oggettivo che debba esser raggiunto, non è identità astrata di pensiero ed essere: è soggettività, cioè appropriazione di una soggettività autentica, l’essere diventati se stessi. Essa non è dunque un dato, ma platonicamente, un compito che va realizzato.
In ciò Kierkegaard vede i limiti del socratismo. Per Socrate, infatti ognuno porta la verità dentro di sé, tanto che la riappropriazione è un atto di reminiscenza.
Per Kierkegaard invece, il singolo è fuori della verità. L’appropriazione richiede dunque un salto, una discontinuità rispetto all’immanenza che è inautentico, non verità. C’è infatti una differenza assoluta tra Dio e uomo, finito e infinito,
«Dio non pensa, Egli crea; Dio non esiste, Egli è eterno. L’uomo pensa ed esiste e l’esistenza separa pensiero ed essere, li distanzia l’uno dall’altro nella successione […]».
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