Socrate rappresenta l’atteggiamento filosofico più rigoroso di critica della tradizione e di rifiuto della credenza identificati con l’ignoranza delle ragioni per cui l’opinione si è formata in noi.
La sua insistenza sulla ricerca e sul domandare centrano la filosofia su quel lavoro etico e conoscitivo che chiamò dialettica, dopo averne rovesciato il significato sofista. Se la dialettica sofista era infatti l’arte di vincere un duello verbale, quella socratica è piuttosto il combattimento contro tutto ciò che in noi e nella vita in società è assunto senza intelligenza e senza esame per effetto dell’educazione e dell’influenza.
Indice
1. La figura di Socrate
1.1 Cornelius Castoriadis e la filosofia come critica delle rappresentazioni della tribù
1.2 La figura spiazzante di Socrate
2. Contro i sofisti: la virtù non è insegnabile, ma perseguibile da ciascuno in comune
3. Sapere di non sapere
3.1 La virtù è il libero esercizio della ragione
3.2 Sapere di non sapere
4. Il «metodo» socratico
4.1 Gli strumenti della ricerca del sapere: dialettica, ironia, confutazione, definizione
4.2 Educazione e autoeducazione: la maieutica
Esercitazioni: 1. Socrate. Una figura spiazzante 2. Contro i sofisti: La virtù non è insegnabile, ma perseguibile da ciascuno in comune 3. Sapere di non sapere 4. Il metodo socratico
1. Introduzione
1.1 Cornelius Castoridis e la filosofia come critica delle rappresentazioni della tribù
Se si dice “fine della filosofia”, bisogna dire in uno, “fine della libertà”. Perché la filosofia è questo: è precisamente che sono libero di pensare e che sono libero di interrogarmi.
Non sono bloccato dal fatto che la verità è già stata detta. [Nel discorso religioso] c’è strutturalmente un grande blocco: bisogna che in qualche modo tu giustifichi che ciò che dici è compatibile con ciò che nostro padre che è lassù ha detto e che è consegnato nei testi canonici.
Bene, non c’è questa verità ultima, non esiste questa verità canonica incarnata dal partito o dal segretario generale, questa è la questione che si pongono i greci, questa l’origine della filosofia. L’origine della filosofia non è la domanda su cos’è l’essere, perché su ciò che è l’essere i bantu hanno una risposta, i cinesi, gli indiani … ci sono idee gigantesche. La domanda è “cosa devo pensare”, non è così? E ciò comincia dalla critica delle rappresentazioni della tribù.
La gente credeva che .., poi arrivano i filosofi presocratici e dicono che tutto questo è una storia, un “si narra”, delle favole, INFATTI il mondo è fatto d’acqua o di infinito, come dice Anassimandro. È, d’altronde, intrascendibile perché è fatto d’infinito, d’infiniti grandi e piccoli e d’infinito in tutta una serie d’altri sensi.
Ora, filosofare è domandarsi che cosa devo pensare e la questione di cosa devo pensare non può mai estinguersi. Una volta sorta, sono preso da questa domanda: cosa devo pensare dell’essere, ma anche cosa devo pensare del mio sapere.
Comincia la reduplicazione filosofica: cosa devo pensare di ciò che devo fare, cosa devo pensare della città, della giustizia, e tutto ciò fa parte di questo progetto di libertà che i greci hanno iniziato [Cornelius Castoriadis nell’intervista andata in onda per il programma L’héritage de la chouette su Arte-France nel 1992, traduzione mia].
1.2 La figura spiazzante di Socrate
Nella seconda metà del V° secolo, Atene, capitale di una cultura internazionale e teatro dell’insegnamento dei sofisti, conobbe un nuovo protagonista: Socrate.
Figura enigmatica per molti aspetti, Socrate era un uomo dallo sgradevole aspetto di un sileno nella città della kalokagathìa, un filosofo che donava il suo tempo e il suo sapere restando orgogliosamente povero davanti all’insegnamento professionistico dei sofisti [il sapere è dono, non una merce]«La scienza e il denaro non si misurano con lo stesso metro», dirà più tardi un socratico Aristotele nell’Etica eudemia]; un sapiente che diceva di non sapere e un giusto che preferiva preparare la democrazia piuttosto che prendere parte attivamente alla vita decisionale della polis.
Figlio dello scultore Sofronisco e della levatrice Fenarete, la sua curiosità intellettuale e l’affinità della sua riflessione con quella dei sofisti lo confusero inizialmente, presso i contemporanei, con questi maestri di virtù [come testimoniano le Nuvole di Aristofane].
A differenza dei sofisti, però, Socrate dichiarava di non aver nulla da insegnare e preferiva affidarsi alla ricerca comune della verità attraverso il dialogo, piuttosto che consegnare alla parola scritta il proprio insegnamento.
2. Contro i sofisti: la virtù non è insegnabile, ma perseguibile da ognuno in comune
E’ proprio dallo scontro con i sofisti che emerge quindi la personalità del filosofo.
Questi intellettuali stranieri dichiaravano infatti di poter rendere eccellente chiunque attraverso i propri insegnamenti ma, interrogati da Socrate, non sembravano capaci di definire ciò di cui si dicevano maestri, cioè la virtù (areté).
Socrate, scrive Senofonte,
era sempre in mezzo alla gente. La mattina si trovava nei passeggi e nei ginnasi, nell’ora di maggior frequenza si poteva vederlo sulla piazza. Il resto del giorno lo passava in quei luoghi dove sperava di trovarsi in compagnia più numerosa. Solitamente era lui che parlava e chiunque poteva ascoltarlo.
Ragionava sempre delle cose umane, considerando che cosa (ti estì) sia la pietà, che cosa empietà, che cosa onesto, che cosa disonesto, che cosa giusto, che cosa ingiusto, che cosa saggezza e pazzia, fortezza e viltà, che cosa sia stato, governo, uomo di stato, che cosa arte di governo e altre cose simili, dalla cui conoscenza o ignoranza dipendeva, a suo parere, l’essere uomini valorosi e onesti, oppure degni d’essere detti anime di schiavi [si noti qui, che agli occhi di un greco, gli schiavi non erano creature inferiori per natura, ma soggetti dipendenti, privi di libertà, da governare come cose]. [Senofonte, Detti e fatti memorabili di Socrate, I, 1].
Come mostra questo testo, Socrate riteneva che fosse impossibile mantenere la propria libertà di cittadini, cioè la capacità di autogovernarsi e darsi autonomamente leggi giuste – come già emerge nell’idea di eunomie e di virtù di Solone -, senza una profonda conoscenza delle cose.
In ciò condivideva la tesi dei sofisti che invitavano gli ateniesi a dotarsi, attraverso il loro insegnamento, di quel sapere che ne faceva cittadini attivi, cioè persuasivi e convincenti, nell’agorà e nella bulé. Ciò che lo differenziava dai sofisti in modo sostanziale, era però il contenuto di questo sapere: non basta infatti persuadere e vincere per realizzare la giustizia.
Non è una vergogna – gli fa dire Platone nel Protagora – che gli uomini debbano essere governati dai retori, i quali “continuano le loro lunghe arringhe come pentole di rame che, appena percosse, continuano a risuonare, finché una mano vi si posi sopra?” [329]
Ciò a cui Socrate guardava era infatti l’idea di una ricerca della verità che permettesse, nello stesso tempo, di imparare a pensare correttamente, fare bene ogni cosa seguendo le indicazioni della ragione e divenire perciò migliori come individui e come cittadini.
Il suo è quindi un ideale esistenziale basato su una libertà interiore che è fondamento di quella pubblica, cioè sull’idea che la capacità di pensiero sia la base della capacità di autogoverno dei cittadini della polis.
Conformemente a questa visione, Socrate fu sempre lucido e indipendente rispetto alle autorità politiche, sia durante il governo dei trenta tiranni imposto dagli spartani dopo la sconfitta nella guerra del Peloponneso – con il quale rifiutò di collaborare, decidendo di non consegnare un innocente -, sia con la restaurata democrazia che lo sostituì nel 401 a. C. e che lo condannò a morte con l’accusa di corrompere i giovani, distogliendoli dal culto degli dèi e dagli antichi valori a cui il governo affidava la sopravvivenza della città.
3. Sapere di non sapere
3.1 L’areté è il libero esercizio della ragione, cioè il sapere
Come quella dei sofisti, la filosofia di Socrate si fonda sul linguaggio e sul ragionamento (logos). A differenza che per i sofisti, però, il linguaggio per Socrate non è strumento di persuasione, ma il mezzo attraverso cui l’intelligenza umana può arrivare alla verità.
Al relativismo dei sofisti, Socrate oppone pertanto un percorso di autoeducazione che si costruisce attraverso un faticoso controllo della fondatezza delle proprie convinzioni (doxai) e dei propri saperi che porta all’abbandono delle opinioni false e parziali.
Areté significa dunque, per Socrate, ricerca della verità e vita secondo ragione, cioè autonomia, libertà, perché le opinioni, che si credono proprie, sono in realtà il prodotto dell’educazione e dell’influenza, cioè di un sapere acquisito senza riflessione e senza consapevolezza.
Socrate identifica, dunque, la virtù con il sapere, ma si tratta di un sapere essenzialmente diverso da quello dei sofisti che, sebbene relativizzassero concezioni dogmatiche, finivano poi (giustamente, va detto) per fare insegnamento di tutta la conoscenza codificata dalla tradizione greca (enkiklios paideia).
Quello a cui guarda Socrate è invece un sapere radicalmente critico, basato sul dubbio e sulla ricerca di fondamento delle cose ritenute vere dagli ateniesi, ricerca che si conclude quasi sistematicamente con la caduta e l’abbandono di queste false convinzioni.
Socrate pensava che questo atteggiamento di critica e di domanda sistematica sulla natura delle «cose umane» di cui parlava Senofonte, fosse la base della virtù: nessuno, infatti, commette il male volontariamente, il male è scelto, invece, per ignoranza del bene o per ignoranza di quel male che si cela in ciò che pensiamo essere un bene (intellettualismo etico).
3.2 Sapere di non sapere
Proprio la scoperta che le credenze umane non hanno fondamento e che ciò di cui siamo certi non è stato da noi indagato e messo alla prova della verità, spinse l’oracolo di Delfi a dichiarare Socrate il più sapiente tra i suoi concittadini.
Secondo un aneddoto riportato da Platone e da Diogene Laerzio, era stato, infatti proprio l’oracolo, interrogato da Cherefonte su chi fosse il più sapiente tra gli ateniesi, ad avviare Socrate verso la filosofia.
Alla domanda di Cherefonte, l’oracolo aveva infatti indicato Socrate il quale, stupito, non ritenendosi affatto sapiente, aveva intrapreso una ricerca volta a comprendere il senso delle parole del dio.
Da questa ricerca, che illustrerà davanti al tribunale in cui deve difendersi dell’accusa di empietà e corruzione dei giovani, Socrate trae la conclusione che la cultura del suo tempo ignora la verità ed è una falsa cultura: nessuna infatti tra le persone da lui interrogate in trent’anni tra politici, poeti e artigiani, possedeva un sapere certo e fondato ma, al contrario, tutti avevano invece elaborato una conoscenza ristretta e specialistica, incapace di spiegare che cos’è l’uomo e i principi in base ai quali vive.
Capì allora che ciò che il dio intendeva era che la sapienza umana valeva poco o nulla e che nessun uomo era sapiente. Il più sapiente di tutti era perciò proprio lui che «sapeva di non sapere».
Interpretato in questo modo l’oracolo, Socrate aveva dedicato il resto della vita a rendere consapevoli gli uomini della propria ignoranza, quale fondamento di ogni autentico sapere basato sulla ricerca e in ossequio all’antico motto delfico del Gnothi seauton, «conosci te stesso», appunto.
4. Il metodo socratico
4.1 Gli strumenti della ricerca del sapere: dialettica, ironia, confutazione, definizione
Punto di partenza di ogni indagine è per Socrate la consapevolezza di non sapere, cioè una posizione critica, di dubbio sulle proprie opinioni (doxai, da δοκεῖν dokein, aspettarsi, sembrare) e convinzioni.
Individuato un oggetto di indagine, si tratta per il filosofo di avvicinarlo da tutti i punti di vista, fino al momento in cui essi arrivano a scontrarsi in virtù della loro parzialità e unilateralità. È il momento dell’ironia, un corrosivo sistema di liquidazione di tutte le opinioni e pregiudizi che porta alla confutazione (elenchos) del presunto sapere dell’interlocutore.
La dialettica socratica è dunque un dialogo finalizzato alla demolizione dell’opinione e alla ricerca comune della verità. Non è più il combattimento verbale dei sofisti, ma una lotta contro le proprie false convinzioni che libera quindi il campo alla costruzione del sapere, identificato dalla definizione. Straordinarie testimonianze del metodo socratico sono i dialoghi giovanili, o aporetici (o ancora, appunto, “socratici”) di Platone, come l‘Eutifrone e il Lachete.
4.3 Educazione e autoeducazione: la maieutica
Diversamente dai sofisti, Socrate sosteneva di non avere nessuna dottrina o insegnamento da trasmettere, né certezze da comunicare.
Il filosofo giudicava positivamente il lavoro svolto dai sofisti, riconoscendo loro di aver portato l’areté al di là della concezione aristocratica, ma interpretava il suo compito in maniera diversa: i sofisti offrivano gli strumenti per l’affermazione sociale degli individui nella polis, Socrate invece, guarda all’uomo inteso integralmente, tanto nella sua dimensione pubblica che privata e individuale.
Con Socrate, il rapporto educativo non ha più dunque i caratteri dell’insegnamento e dell’istruzione, cioè della trasmissione di un sapere dal maestro all’allievo (concezione difesa da Protagora) ma diventa un insegnare a pensare.
La maieutica socratica è il metodo di questa nuova paideia, che Platone descrive nel Teeteto e nel Menone, nella quale il ruolo del maestro è limitato alla funzione dialettica di stimolo e confutazione dell’opinione.
Esercitazione
1. Spiega perché Socrate non chiedeva denaro per il suo insegnamento.
2. Perché Socrate non partecipava attivamente alla vita politica (cioè non si comportava da “buon cittadino” secondo i principi di virtù vigenti da Solone in poi)?
3. Per i sofisti, come per Socrate, l’eccellenza viene dal sapere (è impossibile, infatti essere liberi senza una profonda conoscenza delle cose). Cosa differenza il suo pensiero da quello di questi intellettuali stranieri?
4. Perché per Socrate la libertà interiore è fondamento di quella pubblica (o civile)?
5. Qual è dunque il fine dell’educazione socratica?
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