Le teorie della personalità

by gabriella

La lezione esamina il concetto di personalità alla luce delle ultime ricerche delle neuroscienze e dell’epigenetica comportamentale, passando in rassegna le teorie classiche, dalla psicanalisi a Jung ed Erikson, dalle teorie socioculturali a quella dei tratti.

E’ in corso la revisione del testo, riletto sulla base de La personalità e i suoi disturbi [Novara, 2024] di Vittorio Lingiardi.

 

Per quanto tu possa camminare, e neppure percorrendo intera la via,
tu potresti mai trovare i confini dell’anima:
così profonda è la sua essenza.

Eraclito

Indice

1. Il concetto di personalità

1.1 Il contributo dell’epigenetica comportamentale e nelle neuroscienze

 

2. Le teorie classiche

2.1 La teoria dei tratti
2.2 La personalità nella psicologia analitica di Jung

      2.1.1 Le componenti dell’identità junghiana
      2.1.2 Lo sviluppo della personalità secondo Jung

2.3. La psicologia dell’Io di Erik Erikson
2.4. Le teorie socioculturali di Alfred Adler e Karen Horney

2.4.1 Sé creativo e complesso di inferiorità nella psicologia individuale di Adler
2.4.2 La teoria della personalità nevrotica in Karen Horney

2.5 La personalità nelle teorie umanistiche

2.5.1 La teoria dell’autorealizzazione in Maslow
2.5.2 La teoria del Sé in Rogers

 

1. Il concetto di personalità

La personalità è un insieme di caratteristiche che rende gli individui gli uni diversi dagli altri permettendo, allo stesso tempo, di identificare dei tipi umani ricorrenti.

Tali caratteristiche tendono ad essere relativamente stabili, per cui si può dire che la personalità è un insieme complesso e strutturato di pattern cognitivi, affettivi e comportamentali che influenzano il modo in cui un individuo percepisce se stesso e il mondo, si relaziona agli altri e prende decisioni. 

Il termine deriva dal latino persona, maschera, in riferimento al travestimento degli attori che enfatizzava certe caratteristiche dei personaggi in modo che il pubblico potesse conoscerli meglio a partire dai loro atteggiamenti e comportamenti.

Durante i primi anni di vita, i bambini mostrano una vasta gamma di comportamenti. Con il passare del tempo e grazie all’influenza esercitata dalle risposte ambientali, tali modi diventano sempre più strutturati e specifici.

Quindi, lo sviluppo psico-biologico, il contesto psicoaffettivo e l’ambiente socio-culturale concorrono a formare tratti di personalità tendenzialmente stabili, riflettendo il  funzionamento psicologico e comportamentale dell’individuo.

Tali tratti che uniscono temperamento (tendenze innate dell’individuo) ed esperienza formano tipi o stili di personalità.

I manuali diagnostici offrono due definizioni di personalità.

L’11 esima edizione dell’International Classification of Diseases dell’OMS (ICD-11) definisce la personalità come

il modo caratteristico in cui un individuo si comporta, esperisce la vita, percepisce ed interpreta se stesso, le altre persone, gli eventi e le situazioni [ICD-11];

mentre quella del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM -5) tenuto dall’American Psychiatric Association, si focalizza sui tratti, definendoli

pattern costanti di percepire, rapportarsi e pensare l’ambiente e se stessi che si manifestano in un ampio spettro di contesti sociali e personali.

 

1.1 Il contributo del’epigenetica comportamentale e delle neuroscienze 

La prospettiva adottata dall’American Psychiatric Asssociation ipotizza, quindi, che la personalità affondi le sue radici in un insieme di disposizioni comportamentali a base biologica presenti fin dalla nascita che incidono sulle modalità di riposta all’ambiente da parte del soggetto.

Tutti i ricercatori contemporanei evidenziano, comunque, la continua interrelazione tra aspetti biologico-ereditari innati e aspetti ambientali.

Arnold Sameroff, ad esempio, ha osservato in una serie di studi che il temperamento del bambino influenza il modo in cui i caregiver gli rispondono, influenzando le successive risposte e lo sviluppo del bambino.

Daniel Siegel

Ugualmente, Daniel Siegel ha evidenziato la dinamicità dello scambio tra predisposizioni genetiche e ed esperienze, soprattutto durante l’età dello sviluppo.

Siegel, in particolare, ha esaminato i risultati di una quantità di studi di epigenetica comportamentale che evidenziano come l’ambiente possa lasciare segni sulla nostra biologia, influenzando il modo in cui il potenziale genico viene espresso, cioè il modo in cui manifestiamo le nostre caratteristiche temperamentali e di personalità sulla base delle esperienze che costruiscono la nostra storia.

Negli ultimi trent’anni, inoltre, le conoscenze derivate dalle neuroscienze hanno permesso di comprendere in modo più preciso il funzionamento del Sistema Nervoso Centrale (SNC) con particolare riferimento alla sua plasticità.

Si è visto, infatti, che gli stimoli ambientali con i quali l’individuo viene a contatto nelle diverse fasi della vita, possono modificare più o meno stabilmente la struttura e il funzionamento delle diverse aree cerebrali.

Epigenetica e neuroscienze mostrano che i dati biologici innati, come la componente genica, la struttura cerebrale o i tratti del temperamento sono tutt’altro che immutabili ed entrano in una dinamica di cambiamento che coinvolge non i soli individui, ma i gruppi e perfino i popoli.

L’emergere di questi studi rende meno distanti le prospettive che fondono componenti innate ed esperienza da quelle che sottolineano il ruolo dell’ambiente nello sviluppo della personalità, attenuando anche il marcato individualismo delle prospettive più datate, alla luce della realtà polifonica, familiare e interpersonale, che si rivela sia nell’ereditarietà dei tratti che nell’esperienze fondamentali dei primi anni di vita.

2. Le teorie classiche

2.1 La teoria dei tratti

Gordon Allport

Gordon Allport (1897-1967)

La visione che si focalizza sulla componente innata del temperamento è la teorie dei tratti.

Allport, Cattel ed altri, hanno infatti ipotizzato che certe unità fondamentali della personalità, i tratti, appunto, siano fondamentalmente innati.

L’interesse di questi studi si focalizza sulla descrizione e sulla misurazione a fini previsionali non, quindi, sull’origine delle caratteristiche personali che si ritengono derivate da componenti genetiche o dalle basi biologiche del sistema nervoso.

Sviluppate soprattutto negli Stati Uniti, paese in cui la psicologia ha sempre avuto una marcata finalizzazione al controllo (si pensi a Skinner, Elton Mayo, Taylor), le teorie dei tratti si sforzano di individuare gli elementi capaci di dare prevedibilità al comportamento individuale, a partire da dinamiche interiori quali l’atteggiamento e la personalità.

Allport ha sostenuto che l’esame di documenti personali — lettere, diari e autobio­grafie — rivela la personalità e ha difeso la tesi secondo cui i tratti sono le uni­tà fondamentali della personalità, fondate su ba­si biologiche nel sistema nervoso e non semplici strutture ipotetiche.

Lo psicologo ha identificato tre tipi di tratti: cardinali, centrali e secondari.

I tratti cardinali sono disposizioni tanto forti e pervasive da caratterizzare l’intera personalità. Sono, in un certo senso, l’essenza della personalità, ma vengono osservati piuttosto raramente.

I tratti centrali sono quelle poche caratteristiche che, sommate, permettono di cogliere il profilo caratteriale di un individuo, mentre i tratti secondari sono caratteristiche in grado di condizionare il comportamento in contesti e situazioni più limitate.

Raymond Cattell (1905 – 1998)

Secondo Allport, la maggior parte delle persone può essere descritta con discreta precisione ricorrendo a un numero sor­prendentemente ristretto di tratti centrali, pro­babilmente da cinque a dieci.

Raymond Cattel si è dedicato allo sviluppo di strumenti di rilevazione dei tratti, quale l’analisi fattoriale, una tecnica empirica di rilevazione dei tratti che distingue in originari e superficiali. I tratti originari, nuclei fondamentali della personalità, fungono da poli di attrazione per le caratteristiche secondarie, dando coerenza generale al comportamento.

 

3. La personalità nelle teorie neoanalitiche

Lo studio di Freud

Lo studio di Freud

Dopo Freud, i primi psicanalisti, allievi e colleghi del fondatore continuarono l’attività della Società Psicoanalitica Viennese, nata nel 1902.

Dopo i primi anni di attività, l’elaborazione della SPV iniziò a elaborare tesi divergenti dal pensiero del maestro.

Nel 1910 fu eletto presidente Alfred Adler che stava sviluppando una teoria della personalità che attribuiva grande rilievo al rapporto tra l’individuo e il suo ambiente, più che alle dinamiche intrapsichiche. Avendo avanzato queste critiche di fondo al sistema freudiano, l’anno dopo (1911) si dimise per fondare la scuola di psicologia individuale.

Nel 1913 lasciò la SPV anche Jung (1875-1961), lo psichiatra svizzero allievo prediletto di Freud, il quale, oltre a considerare la psicanalisi astratta e priva di spessore storico (lo sviluppo psichico di un aborigeno australiano obbedirebbe per Freud alle stesse dinamiche “edipiche” proprie dell’individuo della società borghese patriarcale), negò la natura sessuale dell’Es.

 

 

3. La personalità nella psicologia analitica di Jung

Carl Jung (1875-1961)

I primi impegni clinici di Jung furono con i pazienti schizofrenici.

Colpito dalle analogie tra i deliri dei suoi pazienti e i miti delle antiche civiltà, lo psichiatra si convinse che la coscienza umana si estende ben al di là dei ricordi derivanti dalla coscienza personale.

La sua ricerca lo portò ad incontrare Freud con il quale iniziò una intensa collaborazione che si interruppe nel 1913 quando le divergenze erano ormai insanabili.

Jung infatti disconobbe la tesi che l’energia umana sia di natura sessuale. Secondo Jung, l’energia psichica implica un’energia legata ai processi vitali di cui quella sessuale è solo un esempio.

Gli altri aspetti di differenziazione della psicologia analitica junghiana da quella di Freud, marcatamente materialista, sono il rilievo di elementi spirituali e mistici nella descrizione del processo di crescita individuale (o individuazione); il minor rilievo attribuito da Jung alla psicopatologia e la scoperta del carattere storico-culturale, non universale, dei processi psichici.

 

3.1 Le componenti dell’identità junghiana

Tutto ciò che ci irrita negli altri 
può portarci a capire noi stessi.

Per Jung, tutta l’energia psichica deriva dai conflitti che si vengono a creare fra i vari elementi della personalità.

Il fine dello sviluppo della personalità è quello di evitare di attribuire troppa importanza a un unico aspetto e di ottenere, invece, un equilibrio o integrazione fra i vari elementi (nel Sé).

Nell’immagine sottostante è rappresentato il complesso modello junghiano della struttura della personalità.

Al centro della coscienza si trova l’Io, che contiene i pensieri consci, i ricordi e i sentimenti: il centro dell’esperienza individuale che fornisce la sensazione di continuità e identi­tà.

personalità Jung

Il modello junghiano della personalità

Al di sopra dell’Io c’è la persona, le maschere o ruoli che indossiamo per affrontare efficientemente gli altri nel nostro quotidiano (il termine maschera viene dal teatro latino, nel quale indicava i personaggi che gli attori impersonavano indossando appunto delle maschere). Il pericolo che si ce­la nella persona è che possa ipersvilupparsi e tagliarci fuori dal contatto con il nostro vero Sé.

Al di sotto dell’Io si trova, invece, l’inconscio personale, che contiene le esperienze individuali non più accessibili alla nostra coscienza. Ancora più nascosto è l’inconscio colletti­vo, l’aspetto più controverso e mistico della teo­ria junghiana.

Secondo Jung, infatti, a causa della no­stra comune ereditarietà evolutiva e delle strut­ture cerebrali, noi ereditiamo la predisposizione a rispondere in un determinato modo a certe esperienze.

Questi temi universali, definiti archetipi, forniscono essenzialmente una “me­moria” collettiva della nostra ascendenza evolu­tiva.

Ne sono un esempio l’archetipo madre-figlio, che guida su basi innate le madri a pro­teggere i figli e l’archetipo di Dio che porta le persone che si trovano in condizioni ambigue o dense di pericoli a creare l’immagine di una divinità onni­potente.

Un’altra componente inconscia della personalità è l’ombra, la parte oscura della personalità che comprende sia quegli impulsi sessuali e aggressivi rimossi che Freud incorporava nel­l’inconscio, sia i temi universali del male e del demonio.

L’incontro con se stessi è una delle esperienze più sgradevoli alle quali si sfugge proiettando tutto ciò che è negativo sul mondo circostante. Chi è in condizione di vedere la propria ombra e di sopportarne la conoscenza ha già assolto una piccola parte del compito.

Altri due temi universali sono l’ani­ma, l’archetipo femminile, e l’animus, l’arche­tipo maschile che rappresentano l’immagine interiore del femminile e della virilità presente ad ogni individuo. Dal punto di vista sessuale, Jung, come Freud, è convinto che uomini e donne abbiano dentro di sé elementi bisessuali che ne­cessitano di essere integrati, piuttosto che ne­gati.

La struttura più importante del sistema jun­ghiano è il , non il semplice equivalente dell’io freudiano (e del principio di realtà), ma una dimensione alimentata dalle esperienze della nostra vita e dall’autocoscienza volta a tenere in equilibrio e ad armonizzare in modo sempre più elevato parti opposte della personalità [per approfondimenti, vedi Aldo Carotenuto, Identità e ipseità. Il principium individuationis.

 

3.2.2 Lo sviluppo della personalità secondo Jung

A differenza di Freud, Jung non ritiene che la perso­nalità si fissi alla fine dell’infanzia.

Per Jung, l’individuazione, il processo che porta allo sviluppo di un unico Sé che realizza le potenzia­lità di un individuo, dura una vita intera.

Nel processo di ricerca della propria perso­nalità, gli individui adottano diversi atteggia­menti.

Su due di questi, l’estroversione e l’in­troversione, si è focalizzata l’attenzione di Jung.

Un atteggiamento estroverso ci orienta verso l’ambiente esterno, mentre un atteggiamento in­troverso ci guida verso l’esperienza soggettiva, interiore.

Per quanto questi due aspetti siano presenti entrambi in ciascuno di noi, uno di essi tende ad assumere un ruolo dominante nella coscienza.

L’estroverso si adatta facilmente ai nuovi ambienti in un modo espansivo, esplicito e a volte spontaneamente fiducioso.

L’introver­so, al contrario, si avvicina alle persone e alle si­tuazioni nuove con esitazione, ritrosia e sfidu­cia. La meta cui tende lo sviluppo della persona­lità è la conquista di un equilibrio fra gli elementi opposti.

Le crisi personali creano uno squilibrio fra gli atteggiamenti estroversi e quel­li introversi, ma una crisi può essere benefica se il nuovo equilibro trovato è ad un livello più elevato di equilibrio e di armonia. Il processo di individuazione, cioè di costruzione della soggettività individuale, è dunque un percorso non facile che merita però la sofferenza (umanizzante) che comporta.

 

4.La psicologia dell’io di Erik Erikson

Erik Erikson (1902-1994)

Erik Erikson (1902-1994)

Secondo la teoria psicanalitica classica, l’Io (o principio di realtà) ha il compito di mediare tra le pulsioni sessuali e aggressive dell’Es e le proibizioni dia Super-Io.

Gli psicologi dell’Io, al contrario, ritengono che la funzione dell’Io sia soprattutto quella di affrontare il mondo esterno. Per questa ragione, rivolgono la loro attenzione soprattutto ai processi di adattamento alla realtà per un sano funzionamento della personalità.

Uno degli psicologi dell’Io più noti è Erik Erikson, allievo di Anna Freud noto soprattutto per i suoi scritti sul ciclo della vita nei quali, a differenza di Freud, secondo cui l’influenza esercitata dai genitori durante l’infanzia costituisce la causa più profonda dello sviluppo della personalità, attribuisce un ruolo rilevante alla società che modella la personalità nel corso della vita. 

Come scrisse in Childhood and Society (1963) lo sviluppo dell’essere umano passa attraverso otto stadi psicosociali, in ognuno dei quali la realtà sociale o culturali presenta una nuova sfida che l’Io deve affrontare e risolvere.

Al centro di ogni stadio c’è il principale conflitto psico-sociale che l’individuo deve risolvere prima di affrontare quello successivo.

 

Erikson fasi psicosociali

Prendiamo la quarta sfida psicosociale che il bambino affronta tra i 7 e gli 11 anni: si tratta della messa alla prova delle proprie capacità nel mondo esterno, oltre la casa familiare, nel confronto con i propri coetanei.  In questo momento il bambino può apprendere di non aver controllo su ciò che gli accade, di non essere capace a svolgere i compiti che gli altri affrontano con facilità sviluppando un senso di impotenza attraverso il quale impara a non essere bravo, competente, capace e a rispondere con sfiducia alle prove e alle sfide dell’età scolare [vedi Abbas Kiarostami, Compiti a casa]. La conseguenza dell’impotenza appresa può essere la riduzione dell’autostima e l’adozione di una postura incline alla depressione.

 

5. Le teorie socioculturali di Alfred Adler e Karen Horney

Alfred Adler (1870 – 1937)

Karen Horney (1885 – 1952)

Partendo dalle obiezioni di Jung e degli psicologi dell’Io, i critici di Freud si opposero alla tesi secondo la quale il modo di funzionare della personalità è spiegato dalle pulsioni biologiche, sostenendo che altri fattori di natura emotiva, culturale e spirituale, vi giocano un ruolo determinante.

Tuttavia, né Jung né gli analisti dell’Io, rigettarono la premessa principale di Freud, secondo cui la personalità è l’espressione di strutture e processi che si trovano all’interno della persona.

Di conseguenza, la teoria freudiana, quella junghiana e la psicologia dell’Io possono essere definite come teorie intrapsichiche. [vedi la critica alla psicanalisi della scuola di Palo Alto o della “pragmatica della comunicazione”]

Con il modello di Erikson (1963), viene avanzata l’idea che lo sviluppo umano si verifica inevitabilmente in un contesto socioculturale. Alfred Adler (1929) e Karen Horney (1937) arrivarono molto prima a conclusioni analoghe, in quanto per entrambi l’individuo è fondamentalmente un essere sociale le cui motivazioni ed esperien­ze sociali sono fattori determinanti molto effica­ci dello sviluppo della personalità (teorie interpsichiche)

 

5.1 Sé creativo e complesso di inferiorità nella psicologia individuale di Adler

Alfred Adler (1870-1937)

Alfred Adler

Alfred Adler fu uno degli aderenti alla Società di Psicoanalisi fondata a Vienna da Freud. Nel 1911, evidenziate le forti divergenze dalla psicoanalisi e da Freud, si dimise e fondò una nuova scuola cui diede il nome di psicologia individuale.

Al centro della teoria adleriana è il concetto del Sé creativo, un sistema personale e soggettivo che consente di interpretare gli eventi della vita e di attribuire loro significato.

Altro punto focale della sua teoria, che comparve molto precocemente nella sua elaborazione, è il concetto di complesso di inferiorità, un senso persistente di inadeguatezza che affonda le radici nell’infanzia, quando il bambino si sente inetto e impotente rispetto ai genitori.

Sono le prime esperienze sociali con chi si prende cura di lui a stabilire se gli sforzi del bambino di superare il senso di inferiorità diventeranno uno stimolo alla crescita o assumeranno la forma di una lotta per la superiorità. Il nevrotico è mos­so ad agire dall’ipercompensazione, dal mo­mento che cerca di dominare e sopraffare gli al­tri per potenziare il proprio Sé. La persona sa­na cerca di migliorare in quanto individuo per portare il proprio contributo al bene comune.

Il meccanismo psichico dello sforzo verso la compensazione, in base al quale di regola l’organo psichico reagisce al senso d’inferiorità con uno sforzo per compensare questo penoso sentimento, ha un’analogia nella vita organica. È un dato di fatto dimostrato, che organi vitali importanti quando presentano una debolezza finché sono ancora vivi, incominciano a rispondere con un aumento straordinario delle loro prestazioni energetiche.

Così quando la circolazione del sangue è minacciata, il cuore lavorerà con un aumento di forza che prende da tutto l’organismo, si ingrosserà assumendo un volume maggiore di un cuore che lavora normalmente. In modo simile l’organo psichico, sotto il peso della pochezza, della debolezza, del senso d’inferiorità, tenterà con sforzi vigorosi di dominare questo sentimento e di eliminarlo.

Secondo Adler, lo sviluppo dell’interesse socia­le, vale a dire del bisogno di contribuire al mi­glioramento della realtà in cui si vive, è un aspetto essenzia­le di un sano processo di maturazione. Gli inte­ressi sociali consentono all’individuo di supera­re l’auto-assorbimento e di subordinare i fini personali al benessere collettivo.

 

5.2 Karen Horney, la teoria della personalità nevrotica

Karen Horney (1885-1952)

Karen Horney (1885-1952)

Allieva di Karl Abraham, a sua volta allievo di Freud, la psicologa tedesca Karen (nata Danielsen) Horney si stabilì negli Stati Uniti nel 1932, durante la grande depressione economica. A differenza della maggior parte degli psicoanalisti, che curavano ricchi borghesi, Horney ebbe a che fare con larghi strati di disagio sociale e psichico, legato dalla disoccupazione e da relazioni interpersonali difficili, esperienza ben percepibile nella sua teorizzazione.

Come Adler ed Erikson, anche Horney vide nella relazione madre-bambino la dimensione sociale piuttosto che quella sessuale. Le esperienze infantili che fanno sentire il bambino solo in un mondo ostile infondono un senso di insicurezza cronica rispetto al bisogno di ricevere una gratificazione dei propri bisogni interpersonali. Poiché il bambino si sente insicuro quando esprime sensazioni di angoscia e di ostilità nei confronti di chi si prende cura di lui e da cui dipende, questi sentimenti permangono anche nell’età adulta.

Secondo Horney, quando cerca di ottenere sicurezza, l’adulto fondamentalmente ansioso può mettere in atto tre stili disadattivi di relazione con gli altri.

1. L’adulto nevrotico che ha bisogno soprattutto di amore si avvicina agli altri e cerca in ogni modo di piacere e così facendo sacrifica la propria crescita personale in cambio di affet­to.

2.Un’altra soluzione disadattiva consiste nell’allontanarsi dagli altri. Il tipo solitario cerca la libertà e la distanza, negando i propri bisogni emotivi.

3.Una terza soluzione nevrotica è quella di muoversi contro gli altri, sfruttandoli aggressivamente per ottenere quello di cui si ha bisogno.

Horney, quindi, si è allontanata dall’orto­dossia freudiana ed stata fra i primi a descrivere la complessità dei rapporti sociali adulti in termini non sessuali. La psichiatra evidenziò ampiamente come il comportamento e lo psichismo individuale siano influenzati molto più dalle condizioni socioculturali che da fattori innati o genetici.

Sia Adler sia Horney hanno enfatizzato il ruo­lo che i bisogni interpersonali frustrati nell’in­fanzia svolgono nel determinare comportamenti disadattivi negli adulti ed entrambi hanno studiato con attenzione la qualità delle relazioni sociali.

Questo approccio socioculturale contrasta nettamente con la tendenza freudiana a descrive relazioni interpersonali come uno sfondo delle gratificazioni istintuali e per la riduzione tensioni. Freud, perennemente pessimista circa la possibilità di conciliare le pulsioni biologiche con i vincoli imposti dalla società, considerava ingenue e superficiali le teorie di Adler e Horney. Il rilievo socioculturale attribuito alle prime relazioni sociali preannuncia la teoria umanistica della personalità elaborata da Carl Rogers.

 

6. La personalità nelle teorie umanistiche

Kurt Goldstein (1878 – 1965)

Il movimento che portò alla psicologia umanistica iniziò nei primi anni ’60. Come reazione alla teoria freudiana, gli psicologi umanistici formularono un’ipotesi molto più positiva delle motivazioni di base. Secondo questi autori, gli esseri umani sono motivati principalmente a crescere e a realizzare le proprie potenzialità. Dobbiamo a Kurt Goldstein (1939, 1940) la prima formulazione teorica Secondo Goldstein, il comportamento nor­male produce uno stato di tensione

che rende l’organismo capace di realizzare se stesso in at­tività sempre nuove, secondo la propria natura e lo spinge in questa direzione.

Nel 1954, Abraham Maslow ha descritto l’autorealizzazione in modo molto differente, come il bisogno

di diventare sempre più quello che si è, di diventare ciò che si è capaci di diventare.

In analogia a quanto aveva detto due secoli prima Jean Jacques Rousseau e in contrasto con quanto aveva sostenuto Freud, questi teorici ritengono che gli esseri umani siano fondamentalmente buoni e che la loro psiche si ammali quando viene loro impedito di seguire inclinazioni naturali.

Gli psicologi umanistici rifiutano la premessa freudiana secondo cui il comportamento adulto è inevitabilmente il prodotto di esperienze passate e ritengono, più ottimisticamente, che la personalità possa modificarsi anche in età adulta.

Secondo le teorie dell’autorealizzazione, le componenti dell’identità emergono da due fonti: le nostre potenzialità in­trinsecamente uniche e le diverse modalità con le quali affrontiamo gli impedimenti che incon­triamo nel nostro processo di crescita.

Abraham Maslow e Carl Rogers sono i più noti rappresentanti dell’approccio umanistico. Maslow ha puntato soprattutto sulle caratteri­stiche della personalità che consentono l’auto­realizzazione. Rogers, al contrario, si è occupa­to soprattutto degli eventi che impediscono l’au­torealizzazione e degli effetti che tali eventi producono sullo sviluppo e sul funzionamento della personalità.

 

6.1 Maslow, la teoria dell’autorealizzazione

Abraham_Maslow

Abraham Maslow (1908-1970)

La teoria di Maslow (1968) si basa sulla di­stinzione fra due tipi di bisogni: i bisogni di base e i metabisogni.

I bisogni di base sono bi­sogni da carenza e sono pressanti perché segna­lano che una persona manca di qualcosa; sono organizzati secondo un sistema gerarchico in cui al primo posto si trova quello più potente.  Una persona deve soddisfare i bisogni del livello inferiore prima di essere in grado di dedicare le proprie energie ai livelli superiori.

Come si può vedere sotto, i bisogni fisiolo­gici sono i più pressanti: chi è privato del cibo o dell’acqua è ossessionato dall’idea di come sopravvivere. Solo quando i bisogni fisiologici sono stati soddisfatti emergeranno i bisogni di sicurezza, il desiderio di protezione e di ordine e i bisogni di amore e di appartenenza emergono solo dopo che sono stati soddisfatti i bisogni fisiologici e di sicurezza.

Secondo Maslow, tutti sentiamo il bi­sogno di sentirci amati o apprezzati dagli altri ma, finché ci troviamo in questa condizione, non possiamo passare a un livello superiore di amore, che implica interesse e sollecitudine per il benessere degli altri. L’ultimo dei bisogni fon­damentali implica la stima: il bisogno di essere tenuto in alta considerazione da sé e dagli altri.

Per riassumere, Maslow ha ipotizzato che sia i bisogni biologici sia quelli psicologici sono fon­damentali e pressanti. Noi non possiamo dedica­re energie all’autorealizzazione finché i nostri bisogni di base non sono stati soddisfatti.

piramide bisogniUna volta che si sono affrontati i bisogni di base, emergono i metabisogni, che sono i bi­sogni di crescita per autorealizzarsi, per svilup­pare completamente le nostre potenzialità, che sono uniche.

I metabisogni, inoltre, implicano una ricerca di qualità spirituali o valori metafisi­ci, quali la giustizia, la bontà, la bellezza e l’uni­tà. Secondo Maslow, i metabisogni sono innati nella specie umana. Quando una persona non riesce a realizzarli, può succedere che si senta alienata, angosciata, apatica e cinica. Quando riesce a soddisfarli in modo appropriato, invece, crescerà fino a divenire un essere umano nella sua completezza.

A differenza dei suoi predecessori, Maslow ritiene che il vero campo di indagine della psi­cologia umanistica sia lo studio di persone ecce­zionalmente sane. Per comprendere l’autorealiz­zazione, Maslow ha compiuto delle ricerche su individui che, a suo parere, avevano sviluppato al massimo le proprie potenzialità. I criteri di selezione che ha adottato sono personali e si ba­sano sulle impressioni ricevute, enfatizzando l’assenza di psicopalologia e la presenza di ten­denze ad autorealizzarsi. L’elenco finale delle persone che si sono autorealizzate comprende gli amici, i conoscenti e importanti figure stori­che quali Albert Einstein, Albert Schweitzer, Eleanor Roosevelt e Abraham Lincoln.

Secondo Maslow, le persone autorealizzatesi hanno molte caratteristiche della personalità in comune: percepiscono la realtà in modo effi­ciente e sono capaci di fare emergere la verità, di smascherare la disonestà e di evitare il pre­giudizio nel momento in cui formulano delle va­lutazioni. A proprio agio con se stesse, queste persone accettano i propri limiti senza eccessivi sensi di colpa; inoltre, gioiscono senza inibizioni o artificiosità. Affrancato dai sensi di inferiorità, chi si è autorealizzato non si impantana in preoccupazioni concernenti la proiezione di un’immagine positiva di sé, ma è centrato sul problema o sul compito, teso all’attuazione di quanto sta compiendo, saldo su posizioni pro­fondamente etiche e impegnato nella ricerca di stabili standard morali.

 

6.2 La teoria del Sé in Rogers

Carl Rogers (1902-1987)

Carl Rogers (1902-1987)

Come per Maslow, anche per Carl Rogers le persone sono per natura motivate a crescere e a realizzare le proprie potenzialità. Il contri­buto principale dato da Rogers alla teoria della personalità è stato, comunque, quello di mostra­re come il concetto che una persona ha di sé che emerge dall’esperienza, possa ostacolare l’autorealizzazione.

Per Rogers, l’esperienza — tutto ciò che è po­tenzialmente disponibile alla consapevolezza di un organismo — è il fondamento su cui poggia la personalità. Rogers ha definito questa totalità dell’esperienza come il campo fenomenico della persona.

All’interno del campo fenomenico si sviluppa un’area che Rogers chiama il Sé o il concetto di sé, il quale fornisce all’organismo una struttura di riferi­mento per le sue azioni e stabilisce che cosa può diventare cosciente.

Affermazioni come “non sono attraente”, “sono onesto”, “sono intel­ligente” sono tutte esperienze del Sé e sono au­tovalutazioni. Sfortunatamente, è possibile che queste affermazioni non siano corrette, perché il concetto di sé subisce pesantemente l’influen­za delle valutazioni formulate dalle altre perso­ne, soprattutto dai propri genitori. Rogers de­finisce queste valutazioni condizioni di va­lore.

Quando le esperienze reali sono sostituite da valori assunti da altri, si genera una frattura tra una falsa valutazione e un’esperienza autentica di sé, ciò che genera tensione e inquietudine nel soggetto.  Il metodo terapeutico proposto da Rogers propone di fornire condizioni non minacciose per ristabilire il concetto di sé.

 

 

Esercitazione

1. Illustra le ragioni per le quali, secondo Freud, la coscienza si difende dall’inconscio.

2. Spiega la differenza tra il disagio psichico affrontato dalla psicanalisi nella sua fase classica (Freud) e le forme del disagio contemporaneo [serviti delle letture di Recalcati, Adorno, Galimberti]

3. Illustra la fondamentale differenza tra la teoria della personalità di Freud e quelle della psicanalisi post-freudiana, confrontandola brevemente con la visione di Alfred Adler.

4.Spiega che cos’è l’ipercompensazione e quale ruolo gioca nella personalità nevrotica secondo Alfred Adler.

5. Illustra il concetto di archetipo nella teoria junghiana della personalità e spiegane l’importanza.

6. Secondo Galimberti, nell’adolescente oggi «non si verifica più quel passaggio naturale dalla libido narcisistica (che investe sull’amore di sé) alla libido oggettuale (che investe sugli altri e sul mondo). In mancanza di questo passaggio, bisogna spingere gli adolescenti a studiare con motivazioni utilitaristiche, impostando un’educazione finalizzata alla sopravvivenza, dove è implicito che «ci si salva da soli», con conseguente affievolimento dei legami emotivi, sentimentali e sociali». Commenta questa affermazione, soffermandoti sugli aspetti psicologici della mancanza di motivazione (intrinseca) allo studio.

7. Spiega che cos’è l’individuazione nella teoria della personalità junghiana.

8. Illustra l’affermazione di Jung secondo la quale «l’individuazione non ha altro scopo che di liberare il Sé, per un lato dai falsi involucri della Persona, per l’altro dal potere suggestivo delle immagini inconsce» [usa Carotenuto].

9. Recalcati evidenzia una duplice tendenza presente nella società contemporanea: «da una parte l’individuo staccato dalla comunità, atomizzato, ridotto a pura maschera sociale, prodotto di una identificazione solida, disinserito dai legami per un eccesso di alienazione ai sembianti sociali; dall’altra parte, la spinta della pulsione che rifiuta la castrazione simbolica e la sua necessaria canalizzazione sublimatoria per imporsi come una spinta sadiana al consumo dell’oggetto, come esigenza imperativa di ottenere un godimento senza passare dall’Altro». Spiega cosa intende.

10. Galimberti scrive che «la mancanza di un futuro come promessa arresta il desiderio nell’assoluto presente». Definisci le passioni tristi e spiegane il legame con l’assenza di futuro.

Print Friendly, PDF & Email


Comments are closed.


%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: