In questo saggio del 2012, uscito su Sintesi dialettica per l’identità democratica, Leonardo Caffo si oppone alla tesi delle neuroscienze della prevedibilità delle azioni, confutandola sulla base di una ridefinizione del concetto di “azione” che tiene conto del contesto sociale in cui si sviluppa.
Il tema, sempre centrale, diventa ancor più cruciale nel momento in cui cominciano ad essere sperimentati strumenti di crime prediction – cfr. Le società di controllo 1; 2; Zygmunt Bauman, David Lyon, Sesto potere. La sorveglianza nella modernità liquida – basati sulla predicibilità del comportamento umano.
Il tuo coniglio bianco è un’allucinazione? Probabile.
Ma, se per tutto quello che ci è capitato qui, esistesse una ragione?
Se la persona che insegui fosse davvero qui…
John Locke, “Il coniglio bianco”, Lost
Si consideri il seguente argomento in favore del limite delle libertà umane, in relazione ad una definizione di “azione” collassata sul terreno delle neuroscienze:
P1. Se tramite l’area 10 di Brodmann siamo in grado di prevedere un’azione ancor prima che l’agente sappia di farla, allora non ha senso parlare di libertà d’azione;
P2. Siamo in grado di prevedere un’azione ancor prima che l’agente sappia di farla con delle rilevazioni nell’area 10 di Brodmann;
C. Non ha senso parlare di libertà d’azione.
L’argomento, valido, non presenta nessun problema nella seconda premessa, ma utilizza come premessa uno qualcosa di decisamente discutibile. Si possono utilizzare diverse batterie argomentative per contrastare P1, una delle quali approfondisce la strada intrapresa dalla possibilità di discutere di libertà d’azione solo al livello delle E-action, e mai riducendo l’argomento ad un’analisi delle I-action [1].
Tuttavia, ritengo necessaria un’ulteriore argomentazione, che si sviluppa per contrasto in modo del tutto naturale alla questione “azioni come istinto/modulo”. Quando si parla di istinto, nel senso in cui ne parlava Tinbergen, si parla di un qualcosa che accomuna – senza significative variazioni – i membri di una stessa specie.
Per cui, cosa che comunque non credo sia del tutto vera, se le tigri hanno l’istinto alla caccia è possibile descrivere, in modo non lontano dalla verità, la procedura stereotipata del cacciare riferita alle tigri. Allo stesso modo, se le azioni umane fossero istinti, dovremmo poter avere degli algoritmi che descrivano – formazione e sviluppo – della vasta gamma d’azioni di cui è capace l’umano. Tuttavia questa ipotesi, basata sulla visione delle azioni come moduli, se non sufficientemente precisata è ovviamente autocontraddittoria: non esistono grafici, o modelli di sorta, che rendano esplicite le procedure attraverso cui si esemplificano le azioni più varie nella specie Homo Sapiens. Prendiamo un caso che riguarda l’etica e che farà, giustappunto, al caso nostro per l’argomentazione futura. Se si obietta che le azioni, come un qualsiasi istinto, non possono essere facoltà acquisite ma innate allora anche le azioni a sfondo morale, come tutte le altre, devono essere soggette a questa sorta d’innatismo. Tuttavia, nella specie a cui apparteniamo, esistono manifestazioni di una stessa classe d’azioni, assai diverse fra loro:
«a Londra l’infanticidio porta al patibolo; lungo il Gange è un lodevole sacrificio religioso. Una vedova induista che si fosse lasciata bruciare sulla pira funeraria del marito avrebbe compiuto il sommo dovere impostole dal suo senso morale, mentre gli inglesi consideravano quel sacrificio non solo alla stregua di un crimine, bensì un atto di inverosimile follia, e proibirono la pratica nella più totale indifferenza per le accorate proteste e per il turbamento delle coscienze»[2].
Il caso descritto da Pulitzer, è il classico esempio di come azioni ritenute riprovevoli entro una certa comunità possano, invece, godere di un certo rispetto in altri gruppi umani. Non solo non esistono algoritmi che descrivono l’unico modo di agire dell’umano, ma esistono molteplici casi in cui l’Homo Sapiens interpreta il suo essere nel mondo. Ci sono dunque due interpretazioni della premessa uno che renderebbero quanto asserito più comprensibile, ma entrambe le sue esplicazioni la renderebbero troppo debole rispetto alla verità che si vuole veicolare per fondare l’argomento in questione. Una prima interpretazione è quella che vede i sostenitori della premessa argomentare a favore di una “più naturalezza” di certe azioni, rispetto ad altre. Questo vorrebbe dire che le azioni che si avvicinano di più agli istinti, ovvero alla previsione fatta attraverso lo studio della Brodmann 10, sono quelle migliori per l’umano. Tale congettura è condivisibile, e merita un’analisi approfondita che può condurre anche a notevoli risvolti in etica sostenendo, ad esempio, che nell’analisi compiuta da Pulitzer esistono di certo modi diversi di interpretare l’infanticidio, ma quelli che lo ripudiano sono più giusti perché più naturali. In questo caso l’argomento non vorrebbe più dimostrare che non esiste la libertà d’agire, ma che esistono modi migliori di agire.
La seconda lettura “sostenibile” che si può dare dell’argomento è invece la seguente. La nostra obiezione generale si concentra sull’analisi di azioni complesse, stratificate nel sociale, e con matrici culturali. Ma quello che vogliono dimostrare i neuroscienziati è che siamo predestinati nelle azioni semplici, e non in quelle complesse. Ad esempio, durante il processo dell’afferrare, non può esistere un modo diverso da quello in cui afferra ogni individuo perché questi è portato a compiere il gesto dai suoi impulsi cerebrali – primordiali – ancor prima d’aver compreso quello che sta per fare. Pur non condividendo neanche questa lettura, posso dispensarmi dal contrastarla. Non è certo questo genere di azioni ad essere soggetto d’analisi per le questioni sul libero arbitrio. Al massimo, scoprire che l’umano ha un preciso modo di codificare i movimenti che compongono il gesto dell’afferrare che possiamo dunque definire “istinto”, fornirebbe argomenti per studi di biologia, dedicati ad esempio all’analisi della selezione naturale o della salvaguardia delle specie. Quando interroghiamo il pensiero sulla libertà, società e cultura entrano di diritto a far parte della nostra analisi. Ad esempio, il nazismo avrebbe potuto non darsi? O era violenza scritta nel firmamento – predestinata?
Ma se un’azione non è un istinto, cos’è? E perché l’agire, soprattutto nelle sue connotazioni sociali, sembra essere davvero il proprio dell’umano? Per classificare come umano il corpo di un vivente abbiamo isolato un insieme di organi – fisici ma anche mentali – e una serie di capacità determinate dai geni che riteniamo indispensabili[3]. Tuttavia, in questa classificazione, sembra essere esclusa completamente la dimensione culturale che ritengo essere fondamentale per stabilire alcune tra le più significative qualità umane. Già Charles Darwin osservava che
«parecchie altre strutture [oltre quelle genetiche] sembrano avere relazione con la posizione eretta dell’uomo. È difficilissimo decidere fino a che punto queste relative modificazioni siano l’effetto della selezione naturale, oppure degli effetti ereditati per un maggiore esercizio di certe parti, o dell’azione di una parte sopra l’altra. Senza dubbio questi mezzi di mutamento agiscono ed interagiscono, quindi quando certi muscoli, e le prominenze ossee cui s’inseriscono, divengono più grandi per un uso abituale, ciò dimostra che certe azioni si compiono abitualmente e devono essere utili»[4].
In sostanza, Darwin ci dice che nasciamo con una certa forma (insieme di organi fisici, mentali e capacità genetiche), ma che gli usi di questa forma possono essere davvero diversificati, e queste possibili variazioni d’uso interagiscono, non di rado, con la forma iniziale modificandola. Che a livello biologico, o cerebrale come abbiamo discusso, l’umano sia caratterizzato ad agire in un certo modo è poco rilevante per discutere delle azioni in senso più ampio in quanto, l’uso che l’uomo ha fatto del suo agire, ha reso possibile lo sviluppo di alcune sue capacità che non possono ridursi alla semplice somma dei tasselli che lo caratterizzano come Homo Sapiens.
In Filosofia, la teoria dell’azione, può riprodurre o l’atteggiamento riduzionista o quello che lega il sociale al naturale (interazione I-action ed E-action). Distinguere tra movimenti ed azioni risulta fondamentale per intraprendere una discussione preliminare al dibattito filosofico in teoria dell’azione. In fondo, già nel primo capitolo, abbiamo reso ben evidente questa distinzione quando abbiamo mostrato come la maggior parte dei neuroni non codifichi solo singoli movimenti, ma interi atti motori indirizzati ad un obiettivo specifico. Per i filosofi, agire con un obiettivo specifico, significa agire intenzionalmente.
Donald Davidson definisce, sin dalle sue prime analisi[5], un’azione come qualcosa di intenzionale sotto certi parametri e molti filosofi supportano la sua tesi argomentando in favore di un legame concettuale tra azioni ed intenzioni. La maggior parte delle azioni umane – quelle che abbiamo classificato come E-action – hanno una struttura psicologica molto ricca in cui l’intenzionalità svolge un ruolo di primissimo livello. Un agente svolge tendenzialmente un’attività che è diretta al raggiungimento di un obiettivo e, nella maggior parte dei casi, tale obiettivo è stato calcolato sulla base di una valutazione complessiva di opzioni ed opportunità; inoltre la consapevolezza dell’agente – l’eseguire l’attività in questione e il fine per cui l’azione è eseguita – sembrano elementi fondamentali da considerare in un’indagine riguardante la natura delle azioni in generale. Ad un’analisi ancora più sofisticata, Frankfurt[6] ha sostenuto che gli stessi problemi riguardanti la libertà d’azione (di cui discuteremo nel prossimo capitolo) presuppongono il ruolo fondamentale del concetto di agire secondo un desiderio attraverso il quale l’agente si identifica.
A proposito del nesso intenzione – azione, è ben noto un esperimento mentale dello stesso Frankfurt. Immaginiamo che un serial killer sia anche uno scienziato d’avanguardia che riesca ad inventare un chip cerebrale da impiantare nel cervello dei suoi ignari sicari per costringerli ad uccidere le sue vittime. Se ad un povero innocente venisse impiantato uno di questi chip, perdendo ogni tipo di controllo sulle proprie volontà, e venisse costretto ad uccidere qualcuno dal serial killer, che controlla il tutto seduto in poltrona dal suo studio, saremmo disposti ad ammettere che è davvero il sicario ad aver compiuto l’azione, ovvero l’uccisione, in questione? Il ruolo di questo breve (per dovere di cronaca, è stato il sottoscritto a renderlo così breve) esperimento mentale è quello di mostrare l’importanza dell’intenzionalità durante lo svolgimento di un’azione. L’intenzione di uccidere è chiaramente del serial killer che tuttavia non compie alcun gesto diretto sulle sue vittime; intuizione comune è quella che l’esecutore materiale non sia colpevole perché non aveva alcuna intenzione di compiere l’insano gesto. Il lavoro di Frankfurt, profondamente innovativo in teoria dell’azione, ha permesso l’istituirsi di un terreno comune su cui poi si è edificato il dibattito che dura sino ad oggi. Ed è da questo momento in poi che individuo una ramificazione tra chi, forse neanche intenzionalmente, ha filosoficamente ricalcato la strada di una riduzione alle I-action e di chi, invece, ha ampliato gli orizzonti della teoria dell’azione alla complessità delle società umane.
Se seguiamo la falsa riga di definire cosa sia azione solo sfruttando lo “stato d’eccezione” tipico della filosofia contemporanea anglosassone compiamo un grosso errore, mi spiego. Se per migliorare le nostre classificazioni di entità teoriche come movimenti/azioni/eventi, utilizziamo “solo” il test di argomentazioni logicamente valide o controesempi – esperimenti mentali, rischiamo di non osservare mai, nella fattispecie, la socialità che è teatro delle azioni umane e che, tanto nel dettaglio, ci siamo impegnati a rendere protagonista nello studio dell’umano. Dopo e durante Frankfurt, autori come Velleman, Wilson, Moran, e molti altri, si sono impegnati a discutere – in modo del tutto astratto – dei confini della definizione d’azione analizzando il ruolo delle contrazioni muscolari che innescano l’agire, formulando esperimenti mentali che mostrassero i limiti di definizioni troppo semplicistiche dell’agire (A fa X con intenzione I), ecc. Credo che questo sia un nobile ed importante modo di procedere in filosofia, ma che se ridotto ad un’analisi cieca di fronte a ciò che accade realmente in natura/società possa divenire, invece, del tutto controproducente.
Secondo Karl Marx[7], l’animale non umano,
«è immediatamente una cosa sola con la sua attività vitale. Non si distingue da essa. È quella stessa [attività vitale]»[8]
e dunque, se considerassimo un coniglio, questi si baserà essenzialmente sulle sue attività innate nel corso della sua esistenza,
«abilità appunto che non deve imparare, che non sono fuori di lui»[9].
Se Velleman, Wilson, e colleghi vari, dovessero dunque discutere di conigli, le cose andrebbero benissimo perché si troverebbero ad analizzare esseri – seguendo ancora Marx – vincolati in modo più o meno rigido dalla loro costituzione biologica innata. Se è vero dunque che ogni coniglio è ogni altro coniglio, perché dovunque ci sia un coniglio troveremo più o meno le stesse attività, questo non vale – come già ricordato nelle parole di Pulitzer in precedenza – per l’animale umano. Nell’umano non esiste una sfera determinata e stereotipata di attività in cui la sua vita si confonda, e la sua essenza si trova al di fuori di ogni singolo componente della specie Homo Sapiens: la spiegazione dell’agire umano risiede nelle relazioni sociali umane. Questo non vuol dire, e lungi da Marx pensare questo, che l’umano sia l’unico animale sociale; quello che dice Marx, e su cui si può essere completamente d’accordo, è che il bipede implume diventa umano soltanto fuori di sé, ovvero nelle relazioni costanti con l’altro da sé.
Se l’uomo è un essere autocosciente – ovvero capace non solo di possedere stati mentali, ma di ragionare anche su di essi e fare programmi per il futuro – lo deve alla sua capacità di parlare a sé stesso come gli altri parlano a lui[10]: la coscienza, che viene spesso definita essenza dell’umano,
«è dunque fin dall’inizio un rapporto sociale»[11].
Il modo di lavorare che contraddistingue i teorici dell’azione che abbiamo citato, Davidson, Velleman, ecc., indaga l’agire come se la verità si potesse trovare tutta in quella sorta di individualismo mentale che è stato alla base delle scienze cognitive, ma che oggi deve essere sostituito dalla
«convinzione che, parlando delle attività cognitive umane, sia necessario parlare di rappresentazioni mentali»[12]
che sono possibili solo e soltanto a «livello […] sociologico e culturale»[13].
Le scienze cognitive, e parte dei filosofi che qui si contestano per il loro approccio parziale, hanno cercato di
«mettere fra parentesi certi fattori che possono essere importanti per il funzionamento cognitivo ma la cui discussione complicherebbe oggi senza necessità l’impresa della scienza cognitiva. Questi fattori comprendono l’influenza di fattori emotivi o emozionali, il contributo di fattori storici e culturali e il ruolo del contesto generale in cui particolari azioni e pensieri si verificano»[14].
Per spiegare l’agire umano – anche se dovessi spiegare l’agire di uno, ed uno e soltanto, degli esemplari della specie Homo Sapiens – non basta né cercare dentro il cervello, né testare i propri argomenti attraverso logica od esperimenti mentali (che poi significa cercare dentro la nostra mente): se vogliamo sapere perché l’umano viva ed agisca come di fatto fa, e perché spesso desideri agire in modo diverso dobbiamo necessariamente osservare il contesto in cui nasce, cresce e muore.
Per definire cosa sia agire – farne un’ontologia – cominciamo ad esplorare il contesto in cui le azioni si sviluppano. Si consideri il seguente passo di Marx sui rapporti di produzione:
Nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali. L’insieme di questi rapporti di produzione costituisce la struttura economica della società, ossia la base reale sulla quale si eleva una sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate della coscienza sociale. Il modo di produzione della materiale condiziona, in generale, il processo sociale, politico e spirituale della vita.
Non è la coscienza degli uomini che determina il loro essere, ma è, al contrario, il loro essere sociale che determina la loro coscienza[15].
In questo celebre passo Marx sostiene, si osservi soprattutto l’ultima frase in corsivo, che il punto di partenza per un’analisi dell’umano non è la mente, il cervello, o la coscienza individuale quanto, piuttosto, i rapporti di produzione sociali in cui gli umani vivono e pensano[16]. Le società umane – che per un’astrazione necessaria, ma infelice, possiamo considerare simili entro certi parametri – sono costituite da un insieme di soggetti dotati di un certo livello di autonomia che diventano parte integrante del tessuto sociale soltanto quando perseguono obiettivi comuni, cooperando socialmente. La prima cosa che dobbiamo fare è dunque quella di utilizzare una definizione (sicuramente stereotipata e parziale) di azione fornita entro il dibattito che in parte contestiamo, e ampliarla e modificarla sulla base dell’argomentazione sviluppata sin qui.
Un modo classico di definire l’azione è utilizzando una formula di questo genere: un agente che compie A – con un intenzione I e con un obiettivo O – e che ottiene quanto desiderava in modo del tutto compatibile alle intenzioni di partenza, senza che fattori o agenti esterni interagiscano nel darsi complessivo dell’agire. La definizione è molto specifica e restrittiva in quanto, nel corso del lungo ed articolato dibattito, sono state sollevate molte obiezioni a definizioni più semplici. Ad esempio, se non inserissimo la dicitura “in modo del tutto compatibile alle intenzioni di partenza, senza che fattori o agenti esterni interagiscano nel darsi complessivo dell’agire” potremmo immaginare [il primo a farlo è Donald Davidson] una situazione del genere: consideriamo un signore qualsiasi – diciamo Flavio – che creda realmente di poter vincere al superenalotto. Ora, la credenza di Flavio, non è una credenza vera e giustificata ma è comunque creduta come certa dall’agente che compie l’azione – “andare al tabacchi e comprare una schedina” – col chiaro obiettivo intenzionale di “vincere al superenalotto”.
Ammettiamo adesso che per una serie di coincidenze improbabili, ma non impossibili, Flavio vinca davvero il montepremi in questione. Se non avessimo ampliato, restringendone l’estensione, la nostra definizione d’azione, avremmo dovuto considerare – azione intenzionale – il fare di Flavio il cui obiettivo, tuttavia, è raggiungibile solo attraverso fortuna, caso, ed agenti esterni. La funzione del miglioramento costante della nostra definizione d’azione dovrebbe dunque essere chiara, e potremmo fare numerosi esempi speculari a quello di Flavio per sostenere questo modus operandi[17]. Ciò che chiaramente contestiamo, in modo del tutto coerente all’argomentazione svolta fin ora, è la totale assenza della dimensione storica e culturale, entro queste definizioni, in cui le azioni umane si sviluppano. Tradizionalmente, questo modo di procedere in teoria dell’azione, si caratterizza come dualista, nel senso che separa – dedicandosi solo al primo caso – la struttura formale delle azioni, dal modo in cui le azioni possono svilupparsi nelle relazioni che possiamo intrattenere con l’ambiente. È un modo del tutto simile, per principi e parametri, a quello che caratterizza la filosofia della mente contemporanea in cui – la mente individuale – è del tutto distinta dalle interazioni che questa può intrattenere con ambiente e individui circostanti; e questa dicotomia vale anche per la teoria della extended mind di Andy Clark[18]
«che è una mente individuale che viene appunto estesa, che si avventura all’esterno del cranio; questo è un cognitivismo ammorbidito, ma che non mette in discussione l’individualismo»[19].
Ma esiste qualcuno oltre Marx, che certo non fu teorico dell’azione, che colloca al centro dell’analisi sull’agire la relazione fra corpo/mente/azione e società?
Se stabiliamo che le teorie dell’azione debbano focalizzare l’attenzione sui rapporti d’interazione individuale, sui significati che le persone attribuiscono alle loro azioni, e sull’origine sociale di questi significati, allora troviamo in Max Weber e in George Herbert Mead due capisaldi da cui costruire la nostra analisi che dovrà interagire con le definizioni parziali dell’agire che prima abbiamo discusso. L’analisi sociale, secondo Weber,[20] deve cogliere il senso implicito all’azione individuale, ma per il riferimento che tale senso implicito ha rispetto all’atteggiamento di altri individui. Secondo la teoria weberiana, infatti, l’agire – che poi è essenzialmente agire sociale – è determinato dal senso veicolato dalle forme culturali. Le forme culturali (Weber le chiama anche “forme simboliche”) costituiscono forme codificate che, una volta interiorizzate dai soggetti, formano la base del reciproco agire di ciascun individuo, a partire dalla previsione degli effetti che esse produrranno sugli altri.
George Herbert Mead, di questo “interazionismo simbolico” derivato da Weber, fece tesoro discutendo una teoria[21] che inquadra il senso dell’agire individuale in una sua universalizzazione sullo sfondo di un contesto generale di riferimento.
Ma è in Lev Semënovič Vygotskij che questo cambio di prospettiva diviene evidente, ed infatti se diciamo dell’agire che è un
«processo esterno equivale a dire che è sociale. Ogni funzione psichica superiore è stata esterna perché è stata sociale prima ancora che interiore e psichica, è stata cioè originariamente un rapporto sociale tra due persone. Il mezzo per esercitare un’azione su sé stessi è inizialmente un mezzo per esercitare un’azione sugli altri, o un mezzo che gli altri adoperano per esercitare un’azione sulla persona»[22].
Ancor prima che l’interno, dunque, è l’esterno a rendersi fondamentale nella costituzione individuale; ed è chiara l’inversione teorica rispetto a quanto detto nel primo capitolo a proposito degli studi riduzionisti. Il prototipo di tutte le operazioni di interiorizzazione è quello in cui si agisce nel proprio ambiente sociale che diventa il principale sostegno cognitivo del pensiero individuale. In una prospettiva del genere, non basta definire le azioni sulla base di una formula astratta, perché queste
«vanno valutare in relazione ad un contesto ben definito, ed in relazione ai sistemi complessi che gli individui si trovano ad abitare»[23].
Le azioni, in analisi come quella di Vygotskij, sono entità in cui la scissione tra I-action ed E-action è assolutamente priva di senso. Non solo non basta sapere come a livello cerebrale o mentale l’individuo codifichi l’azione, ma sarebbe altrettanto parziale osservare l’agire solo a livello sociale. Il meccanismo descritto da Vygotskij è decisamente interattivo: non ha senso di parlare di interno senza un esterno, e viceversa. Come mostra lo schema che segue, l’azione in senso proprio è intersezione tra le due dimensioni che fin qui abbiamo distinto:
Il punto centrale per l’ontogenesi della mente individuale è quando le due distinte linee evolutive – I-action ed E-action – si incontrano dando vita ad un nuovo sistema che è quello dell’agire in società. Nonostante Vygotskij, ma la cosa vale anche per Weber, venga molto prima di Davidson, Anscombe, ecc., è diffusa la tendenza ad analizzare le azioni entro una scatola teorica chiusa, in cui ha senso approfondire solo ciò che è stato affermato dagli abitanti di quella scatola. Tuttavia, le interazioni tra le due macro prospettive brevemente riassunte, appaiono come naturali. Avrebbe senso, ad esempio, tentare il tratteggio di una definizione dell’agire di questo tipo:
“un agente A, inserito in una società S, che compie intenzionalmente G – con il desiderio di raggiungere O – in modo del tutto compatibile alle intenzioni di partenza. L’obiettivo scelto è uno dei finiti obiettivi proposti entro il sistema sociale considerato”.
In questo modo tentiamo una prima interazione tra una visione dell’agire troppo astratta, ed un’altra ben attenta al sociale ma spesso troppo poco formalizzabile per essere utilizzata in analisi successive. L’agire sociale è una di quelle caratteristiche, insieme alla facoltà di linguaggio, che ci caratterizza come animali; ospitare come specie la facoltà dell’agire sociale significa possedere un dispositivo innato (I-action) che genera diversità (E-action). Una vita può diventare umana solo se può esplorare, agendo, gli spazi altri delle vite umane che interagiscono nel suo stesso ambiente.
La differenza delle azioni, che tipicamente caratterizza l’ampio spettro delle società umane, è tale perché non c’è una sola vita che gli umani possano vivere e tanto più, una società rende possibile lo sviluppo delle potenzialità biologiche e culturali dell’agire umano, tanto più quella società è umana. Ogni ambiente è diverso, ed ogni diversità è varietà possibile:
«su questo possibile modelliamo il nostro comportamento e le nostre azioni. In un certo senso, molte attività umane […] non sono che modi particolari, ognuno con le sue proprie regole , di giocare il gioco dei possibili»[24].
Bibliografia
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Lev Semënovič Vygotskij, Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori, Giunti Editore, Milano 2009.
Max Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 2003.
NOTE
[1]L. Caffo, I-Action e E-Action, in “Filosofia.it”, online: http://www.filosofia.it/images/download/argomenti/i_and%20e_action_caffo.pdf
[2] J. Pultitzer, Sul giornalismo, Bollati Boringheri, Torino 2009, pp. 15-16.
[3] E. Fenton contrasta egregiamente questa visione. Cfr. Elizabeth Fenton, Genetic Enchancement. A threat to Human Rights?, in “Bioethics”, 22 (1), 2008, pp. 1-7.
[4] C. Darwin, L’origine dell’uomo e la scelta sessuale, Rizzoli, Milano 1982, pp. 158-159.
[5] D. Davidson, Essay on Actions and Events, Oxford University Press, Oxford 1980.
[6] H. Frankfurt, The Importance of What We Care About, Cambridge University Press, Cambridge 1988 – H. Frankfurt, Volition, Necessity, and Love, Cambridge University Press, Cambridge 1999.
[7] Non concordo con Marx, ma utilizzare quanto afferma come pretesto per la mia argomentazione è funzionale allo scopo di queste pagine.
[8] K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino 2004, p. 110.
[9] F. Cimatti, La vita che verrà: biopolitica per Homo Sapiens, ombrecorte, Verona 2011, p. 101.
[10] Id., La scimmia che si parla. Linguaggio, autocoscienza e libertà nell’animale umano, Bollati Boringheri, Torino 2000.
[11] K. Marx, F. Engels, L’ideologia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1975, p. 21.
[12] Cimatti, La vita che verrà, cit., p. 105.
[13] H. Gardner, La nuova scienza della mente. Storia della rivoluzione cognitiva, Feltrinelli, Milano 1994, p. 18.
[14] Ibidem.
[15] K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Editori Riuniti, Roma 1974, p. 5.
[16] Per approfondire questa visione di Marx si veda Peter Singer, Marx: A Very Short Introduction, Oxford University Press, Oxford 1980, capitoli 4, 5 e 6.
[17] Un altro caso celebre è quello dell’omicidio desiderato ma involontario in cui un agente X, uccide un soggetto Y, in un modo completamente diverso rispetto a quello che intenzionalmente aveva previsto, ad esempio, sparando, mirando al viso, colpisce in realtà un vespaio che libera gli insetti che colpiscono mortalmente Y.
[18] A. Clark, Natural-Born Cyborgs: Minds, Technologies, and the Future of Human Intelligence, Oxford University Press, Oxford 2003.
[19] F. Cimatti, La vita che verrà, cit., p. 110.
[20] Cfr. M. Weber, Il metodo delle scienze storico-sociali, Einaudi, Torino 2003.
[21] Cfr. G. H. Mead, La socialità del sé, Armando Editore, Roma 2011.
[22] Lev Semënovič Vygotskij, Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori, Giunti Editore, Milano 2009, p. 200.
[23] L. Caffo, Azioni e natura umana, Fara Edizioni, Rimini, 2011, p. 89.
[24] F. Jacob, Il gioco dei possibili, Mondadori, Milano 1983, p. 8.
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