10 marzo 1948, assassinio di Placido Rizzotto

by gabriella

Placido Rizzotto era un giovane contadino che, nell’immediato dopoguerra, dopo aver combattuto la guerra partigiana, scelse la via dell’impegno sindacale nella sua città natale, Corleone.

Una città che in quel periodo vedeva tante famiglie di contadini ridotte alla fame dalla prepotenza dei mafiosi e degli agrari. Ogni mattina, nella piazza centrale, si ripeteva il triste rito della designazione di coloro che sarebbero stati ammessi al lavoro: da un lato i contadini con il cappello in mano, dall’altro i campieri e i gabbeloti che li chiamavano ad uno ad uno, escludendo tutti quelli che avevano avuto il coraggio di chiedere il rispetto dei propri diritti di uomini e lavoratori.

Placido si ribella a questo stato di cose. Inizia a costituire delle cooperative e guida il movimento contadino per  l‘occupazione delle terre incolte, dando una possibilità di riscatto a se stesso e ai suoi compagni. Fu il padrino locale, Luciano Liggio, inquieto per le iniziative sempre più incisive di Placido, a farlo assassinare il 10 marzo 1948 in un’imboscata nelle campagne corleonesi. Aveva 34 anni.

Nel video seguente, la sua storia raccontata da Pippo Fava nell’ultima intervista rilasciata prima di essere, a sua volta, ucciso [la versione integrale qui e qui].

 

Nel 2009 il ritrovamento dei resti in una foiba di Roccabusambra, a Corleone, accanto a una cintura e a una moneta di 10 centesimi coniata negli anni Venti. Ieri (9 marzo 2012), a 64 anni dalla sua scomparsa, la polizia scientifica di Palermo è riuscita ad attribuire il frammento di una tibia al segretario della Camera del lavoro di Corleone, scomparso nel 1948.

Il discorso di Placido Rizzotto: pensare la «città giusta» in termini socratico-platonici

Il discorso che precede la decisione dei contadini di Corleone di occupare il feudo incolto dello Sciasatto incarna fedelmente lo spirito socratico. Rizzotto mostra infatti, con precisione esemplare, come la giustizia sia il risultato dell’agire giusto e come l’oppressione e l’ingiusta servitù siano il prodotto dell’incapacità di “vedere” il bene affermandolo nella concretezza della propria vita.

ammazzateci tutti«Non si nasce schiavi o padroni – spiega Rizzotto – se uno ci vuole diventare ci diventa». La condizione servile è, infatti, prima ancora che sociale ed economica, spirituale e “conoscitiva”, perché vivere da uomini liberi, cioè affermare infinitamente la giustizia, disattiva i meccanismi di oppressione e di controllo e libera nello stesso momento se stessi e la città.

MassimoE’ quindi l’ignoranza del bene che prende forma nelle «nostre paure e nei nostri piccoli egoismi» a rendere effettivo l’arbitrio dei potenti e la violenza dei mafiosi. La conclusione del sindacalista è così convintamente socratica: «noi dobbiamo restare uniti compagni, perché da soli non si cambiano le cose», non è la santità di un individuo o la (platonica) reggenza dei filosofi a riportare la città alla giustizia, ma la cittadinanza, cioè l’intelligenza del vero e del bene di tutti i suoi abitanti. Quella enunciata da Rizzotto è quindi l’indicazione di un mondo giusto in cui non «i re», ma tutti i cittadini sono diventati «per grazia divina», filosofi (cfr. Lettera settima in Platone), uomini nuovi.

Rizzotto non era un eroe isolato, in quegli anni (in cui la CGIL era diretta da Giuseppe Di Vittorio, non Lama o Trentin) i sindacalisti non morivano di sola mafia.

Il video seguente, tratto da Pane e liberta, ritrae un Di Vittorio in Parlamento, tenere il suo discorso sull’eccidio di tre braccianti in sciopero durante la repressione ordinata da Mario Scelba, Ministro degli Interni del governo De Gasperi.

 

Per approfondire la figura di Rizzotto e le circostanze del suo omicidio, si vedano: Giuseppe Casarrubea, Placido Rizzotto e la mafia corleonese e Giuseppe Casarrubea, Un bel funerale per Placido Rizzotto.

 

Riepilogo didattico

 

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