Platone

by gabriella

Platone e l’Accademia rappresentano per il pensiero filosofico qualcosa di più della fondazione di un atteggiamento di ricerca o di una scuola filosofica. Sono, in realtà, la più profonda ricognizione dei problemi della vita umana, individuale e collettiva, mai tentata nel mondo antico e forse nella storia occidentale.

In otto lezioni [e dodici videolezioni] tentiamo di presentare questa immensa elaborazione culturale e l’itinerario filosofico di un autore segnato in gioventù dalla morte ingiusta del maestro, la cui vita successiva è stata dedicata alla costruzione delle condizioni di una città giusta, i cui cittadini fossero liberi ed uguali [la versione stampabile della lezione è in coda al testo].

L’intera storia della filosofia non è che
note a margine al pensiero di Platone.

Alfred  N. Whitehead

Esercitazioni: Il Protagora; Il Gorgia; Il Teeteto

1. Eutifrone, Apologia, Critone, Fedone [commento al Fedone]
2. Cratilo, Teeteto, Sofista, Politico 
3. Parmenide, Filebo, Simposio, Fedro
4. Alcibiade maggiore, Alcibiade minore, Ipparco, Amanti
5. Teagete, Carmide, Lachete, Liside
6. Eutidemo, Protagora, Gorgia, Menone
7. Ippia maggiore, Ippia minore, Ione, Menesseno
8. Clitofonte, Repubblica, Timeo, Crizia
9. Minosse, Leggi, Epinomide, Lettere

Indice

1. Il senso della filosofia platonica

1.1 La formazione e la morte di Socrate
1.2 La vita come parresia e il significato pratico (o politico) della filosofia

 

2. L’opera e l’evoluzione del pensiero platonico

2.1 Le caratteristiche dei dialoghi giovanili
2.2 I dialoghi della maturità e l’allontanamento da Socrate

 

3. Il problema della giustizia: Protagora, Gorgia, Lettera VII

3.1 Il Protagora

3.1.1 È possibile insegnare la virtù politica (arete) come si insegna una conoscenza qualsiasi (techne)?
3.1.2 La risposta di Protagora: Prometeo ed Epimeteo
3.1.3 La virtù è unica o molteplice?

3.2 Il Gorgia

      3.2.1 Dialettica e retorica
      3.2.2 I temi del Gorgia

       3.3 La Lettera VII

 

4. Il problema della conoscenza: TeetetoMenone, Repubblica 

4.1 Il Teeteto

4.1.1 Il filo narrativo
4.1.2 L’ipotesi sofista di Teeteto: la conoscenza viene dalla sensazione
4.1.3 La conoscenza è la capacità di cogliere ciò che «è lo stesso in tutti i casi»
4.1.4 La verità non è una cosa, ma un compito

4.2 Il Menone

4.2.1 Il problema del dualismo conoscitivo
4.2.2 Conoscere non è una cosa, ma un’attività
4.2.3 Conoscere è il tornare dell’anima a se stessa 

4.3 La Repubblica

4.3.1 La metafora della linea

 

5. La conoscenza come educazione dell’anima: Simposio, Fedro, Lettera VII

5.1 Dal Menone al Simposio
5.2 Il Simposio

5.2.1 I sette discorsi del Simposio
5.2.2 Il discorso di Aristofane
5.2.3 Il discorso di Diotima

5.3 Il Fedro e la Lettera VII: l’intrasmissibilità della conoscenza

5.3.1 Fedro: la critica della scrittura
5.3.2 Lettera VII: «come fiamma s’accende da fuoco che balza» 

 

6. L’anima e la natura umana. La psicologia platonica nei dialoghi Fedone, Fedro e Repubblica

6.1 Fedone: l’immortalità dell’anima
6.2 Fedro, il mito della biga alata
6.3 Repubblica, il mito di Er

 

7. Giustizia, uguaglianza e libertà. La politica platonica nella Repubblica

7.1 Conoscenza e città giusta nella Repubblica
7.2 Il comunismo platonico
7.3 Riportare la città all’uguaglianza naturale

7.3.1 L’uguaglianza di genere

 

8. Verso Aristotele, l’irrisolto della teoria delle idee negli ultimi dialoghi

8.1 I problemi del dualismo cose-idee
8.2 Il Parmenide

8.2.1 Cosa sono le idee e qual è il loro rapporto con il mondo sensibile?

8.3  Il rapporto delle idee tra loro negli ultimi dialoghi
8.4 Il parricidio di Parmenide nel Sofista

 

Bibliografia essenziale

 

1. Il senso della filosofia platonica

1.1 La formazione e la morte di Socrate

La filosofia è la «via meravigliosa» che porta «a vivere ogni giorno
in modo da diventare il più possibile padroni di se stessi».

Lettera VII

Platone (428 – 347)

Platone, il cui nome era in realtà Aristocle era, secondo Diogene Laerzio (Vite dei filosofi, III), il soprannome forse attribuito al filosofo dal suo maestro di ginnastica per via della fronte spaziosa o delle spalle ampie o, secondo un’altra interpretazione, in riferimento a quell’ampio stile retorico (in greco platus significa infatti “ampio”) che da sempre ci riempie d’ammirazione.

Apparteneva a una famiglia eminente dell’aristocrazia ateniese che vantava una discendenza da Codro, l’ultimo leggendario re di Atene e da Solone.

Fu allievo del filosofo eracliteo Cratilo, poi di Socrate la cui morte rappresenta una svolta decisiva nella sua riflessione: il problema della giustizia, di cosa essa sia e se sia conoscibile e insegnabile è, per questo, il movente essenziale della sua ricerca. 

Come ha scritto Alexandre Koyré:

«tutta la vita filosofica di Platone è stata determinata da un avvenimento eminentemente politico, la condanna a morte di Socrate».

Il problema che la morte del maestro pone al filosofo è quindi quello di rifondare la città e riportarvi la giustizia, dopo la dimostrazione che nessuna forma di stato è per se stessa garante di buon governo.

Socrate era stato, infatti, condannato dalla corrotta democrazia ateniese succeduta al governo sanguinario dei trenta tiranni.

Per Platone, come prima per Socrate, la ricerca della verità non è mai quindi fine a se stessa, ma in funzione dell’azione, cioè della trasformazione di se stessi e della vita pubblica, della polis.

Socrate

La crisi politica ateniese spiegata da Luciano Canfora attraverso due fonti contemporanee al governo dei 30: Lisia e Senofonte.

 

1.2 La vita come parresia e il significato pratico (o politico) della verità

La verità è un fatto di giustizia, non solo di forma logica.

Michel Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica

morte di Socrate

La funzione pratica, non intellettualistica, della filosofia è testimoniata dalla vita di Platone nella quale la ricerca filosofica è sia dialogo, cioè ricerca, esercizio in comune del pensiero, che pratica della giustizia e coraggio della verità. Come racconta Diogene Laerzio nelle Vite dei filosofi, Platone fu quindi parresiastes (vedi anche Parresia) ebbe, cioè, come Socrate il coraggio della verità.

A questo proposito, l’episodio più importante è costituito dalla narrazione dei suoi tre viaggi in Sicilia, presso Dionigi, tiranno di Siracusa, dal quale Platone si recò nel 388, undici anni dopo la morte di Socrate (399 a. C.), stringendo un legame con il cognato del tiranno Dione; quindi nel 367, durante il regno di Dionigi il giovane che il filosofo cercò di guidare, senza successo, a una riforma dello stato, procurandosi il fermo per due anni (365) e l’esilio di Dione, e infine nel 361.

rischiò la vita e la vendita come schiavo

In quest’ultimo viaggio Platone rischiò la vita e la vendita come schiavo, sorte che gli fu risparmiata dall’intervento del pitagorico Archita, che aveva conosciuto a Taranto nel primo viaggio verso Siracusa, e di Anniceride di Cirene – lo stesso che nel 387 aveva donato a Platone, di ritorno dal primo viaggio siciliano, il piccolo giardino su cui sorse l’Accademia che pagò un riscatto di venti mine.

[…] Dionisio, figlio di Ermocrate lo costrinse a entrare in rapporti con lui. Ma quando Platone, conversando sulla tirannide affermò che il suo diritto del più forte aveva validità solo se fosse preminente anche in virtù, allora il tiranno si sentì offeso e, adirato, disse:  «Le tue parole sanno di rimbambimento senile», al che Platone rispose: «Ma almeno non sanno di tirannide» [Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, III].

Un secondo episodio narrato da Diogene Laerzio concerne l’invito dei fondatori greci di Megalopoli di scriverne la Costituzione che Platone,

declinò […] quando apprese che non volevano ammettere l’eguaglianza dei diritti.

Tornato ad Atene, Platone fu l’unico a prendere le difese dello stratego Cabria, accusato di tradimento, e a farsi vedere con lui sulla via per l’Acropoli. Diogene Laerzio riferisce sull’episodio che il sicofante Crobilo abbia cercato di intimidire Platone dicendogli:

Vieni a difendere un altro, ignorando che anche te attende il veleno di Socrate?

Questi episodi della biografia di Platone, attestano che la ricerca della verità è per lui sempre legata all’azione pubblica, cioè alla relazione con gli altri, dall’amicizia alla politica, intesa nel suo significato letterale di costruzione della vita associata, della polis.

Questa ricerca, capace di rendere liberi gli individui e giusta la città, non è un concetto, una nozione appresa dall’esterno, ma esercizio del pensiero (comprensione della realtà, conoscenza) e comportamento politico, cioè di costruzione della giustizia nei rapporti con gli altri.

Non è quindi una cosa, ma un compito. La giustizia è infatti la conquista di una conoscenza che ci rende, socraticamente, liberi e come tali capaci di compiere azioni giuste (Socrate: «conoscere il bene è farlo»).

Di qui l’aspetto pubblico, collettivo, della filosofia di Platone, le cui tesi sono frutto di lunghe discussioni e dell’esame dell’intera Accademia [la scuola fondata da Platone] nella quale si formò e insegnò lo stesso Aristotele. Con Platone arriva dunque a piena maturità un’attività eminentemente razionale, pubblica e collaborativa che presenta gli stessi caratteri della scienza [dalla quale si differenzia per altri aspetti].

 

 

 

2. L’opera e l’evoluzione del pensiero platonico

Platone

Platone è l’unico pensatore antico di cui ci sia giunto l’intero corpus delle opere, formato da 36 testi (di cui 34 in forma di dialogo) e 13 lettere che il grammatico Trasillo raggruppò, nel I secolo d. C., in nove tetralogie (gruppi di quattro).

La vastità dell’impegno di Platone, che inizia a stendere i primi dialoghi tre anni dopo la morte di Socrate, appena trentenne (396 a.C.), per concludere ottantenne la sua riflessione – con le Leggi – permette di individuare l’evoluzione del suo pensiero e la trama di una ricerca straordinaria, fatta di discussioni di scuola, di soluzioni affascinanti, di conclusioni aporetiche e di revisioni.

Per convenzione degli storici della filosofia, questo percorsi si snoda nelle tre fasi dei dialoghi giovanili, o socratici, anche detti aporetici (396-388 circa) – tra i quali Apologia di Socrate, Critone, Protagora, Eutifrone – dei dialoghi della maturità, scritti dal filosofo sessantenne tra il primo e il secondo viaggio in Sicilia (367-361) – tra i quali Gorgia, Menone, Eutidemo, Cratilo, Repubblica (I libro), Fedone, Simposio, Fedro – e della vecchiaiaTeeteto, Parmenide, Sofista, Politico, Filebo, Timeo, Crizia, le Leggi e le Lettere.

 

2.1 Le caratteristiche dei dialoghi giovanili

I dialoghi giovanili prendono avvio dal tema della virtù, concludendosi con la demolizione delle definizioni offerte dagli interlocutori del Socrate platonico e nessuna soluzione – di qui la loro definizione di aporetici, cioè senza uscita a-poros.

L’abbandono del socratismo a partire dai dialoghi Protagora e Gorgia

 

 

2.2 I dialoghi della maturità e l’allontanamento da Socrate 

Il punto di svolta tra la fase socratica e la maturità è collocabile nel Protagora e nel Gorgia, nei quali Platone offre invece le prime conclusioni: tutte le virtù (la pietà, il coraggio, la veracità, la capacità di essere un buon amico) si riducono ad una sola, la sapienza (la sophia o scienza, epistème) che può essere insegnata.

Il senso di questo insegnamento sarà oggetto dei successivi dialoghi Simposio e Fedro.

La retorica e la dialettica sofiste, invece, non sono sono vera scienza: possono convincere solo gli ignoranti.

Il tema dell’unicità della virtù è sviluppato ancora nel Menone e nei dialoghi della maturità nei quali si chiarisce che per rispondere alla domanda di cosa sia la virtù, occorre cercare la sua forma o identità (eidos) che permette di riconoscerla nella molteplicità delle sue espressioni.

È la nozione di idea che d’ora in poi è al centro di tutta la riflessione di Platone e che rappresenta il maggior risultato rispetto al socratismo.

Ad essa e alle sue difficoltà emerse nelle discussioni nell’Accademia – particolarmente, come possiamo immaginare, nel confronto con l’allievo Aristotele – sono dedicati i dialoghi della vecchiaia.

3. Il problema della giustizia, Protagora, Gorgia, Lettera VII

A partire da Platone, la questione della legittimazione della scienza
è indissolubilmente legata a quella

della legittimazione del legislatore

In questa prospettiva, il diritto di decidere ciò che è vero
non è indipendente da quello di decidere ciò che è giusto,

anche se gli enunciati sottoposti alle due autorità sono di natura differente

Il fatto è che esiste un rapporto di gemellaggio fra il tipo di linguaggio che chiamiamo scienza
e l’altro che chiamiamo etica e politica:

derivano entrambi da una stessa prospettiva,
o se si preferisce, da una “scelta” che si chiama Occidente.

Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna

3.1 Il Protagora

Il Protagora è il dialogo dedicato al tema dell’insegnabilità della virtù, in cui Platone si prefigge di dimostrare l’inconsistenza dell’educazione dei sofisti.

Lo scrive probabilmente circa quindici anni dopo la morte di Socrate, nel momento in cui sta abbandonando il socratismo fiducioso, di ritorno dal secondo viaggio in Sicilia, dove aveva patito il carcere per decreto di Dionigi il giovane.

 

 

3.1.1 È possibile insegnare la virtù politica (arete) come si può insegnare un qualsiasi sapere tecnico  (techne)?

Il problema dell’insegnabilità della virtù politica (o giustizia) è la base di quello dell’insegnabilità o trasmissibilità della scienza (epistème) che Platone pone successivamente, .

Nel Protagora, il filosofo entra in polemica con i sofisti che identificavano l’areté politica(la capacità di essere giusti) con una delle conoscenze tecnico-pratiche che erano oggetto del loro insegnamento (poesia, musica, ginnastica, matematica ..) per dichiarare che la virtù è insegnabile solo se coincide con il vero sapere.

 

 

3.1.1.1 Il dialogo

Il dialogo comincia con l’eccitazione di un giovane amico di Socrate, Ippocrate, che prima ancora dell’alba lo sveglia per informarlo che è arrivato ad Atene Protagora, il celebre sofista, e lui vuole diventare suo allievo, ma ha bisogno di qualcuno che lo presenti.

Sarà Socrate allora ad accompagnarlo a casa di Callia dove è ospitato lo straniero di Abdera. Incontrato Protagora che è insieme agli altri sapienti Ippia di Elide e Prodico di Ceo, Socrate gli domanda direttamente quale beneficio avrà Ippocrate dal suo insegnamento e se è davvero possibile insegnare la virtù come si fa con tutte le abilità tecniche (ad esempio, condurre un esercito come il comandante, curare un malato come il medico).

Infatti, mentre ad Atene tutti prendono la parola su questioni di giustizia, se devono sapere come si cura un malato o condurre una guerra si rivolgono a un esperto: non significa questo che gli ateniesi pensano di conoscere già l’arte della politica, cioè la virtù del buon cittadino che Protagora pretende di insegnare?

 

 

3.1.1.2 La risposta di Protagora: Prometeo ed Epimeteo

Platone, Il Protagora

Prometeo ed Epimeteo

Protagora propone allora a Socrate il mito di Prometeo ed Epimeteo. Quando i due fratelli furono incaricati di plasmare gli esseri che avrebbero popolato la terra, Epimeteo distribuì equamente le diverse qualità, così che nessuno potesse prevalere sull’altro, ma si dimenticò dell’uomo che era rimasto nudo e inerme di fronte a qualsiasi offesa.

Prometeo

Mosso a compassione, Prometeo aveva allora rubato il fuoco ad Efesto e la tecnica ad Atena per permettere loro di sopravvivere. Gli uomini adesso avevano la cultura per distinguersi dagli altri viventi, ma si facevano violenza l’un l’altro rischiando di estinguersi per mano propria.

Intervenne allora Zeus che invio Ermes a distribuire aidos e dike, vergogna (rispetto) e giustizia, a tutti gli uomini in modo che tutti possedessero queste virtù. Quindi, mentre per le altre tecniche ci vogliono gli esperti, per la virtù politica non è necessario perché tutti ne sono provvisti.

E’ per questo che gli uomini sono potuti uscire dalla condizione animale e vivere in comune e proprio per mantenere questa condizione civile, conclude Protagora, i genitori educano i figli: dunque la virtù è insegnabile.

Socrate finge grande stupore per la bellezza del discorso del sofista, poi però osserva ironicamente che l’educazione è cosa così dura che i migliori padri hanno spesso figli scellerati: Protagora, infatti, era il maestro dei figli di Pericle e Aspasia che conducevano una vita scandalosa.

Quindi, nella prima parte del dialogo, Socrate mette in dubbio che la giustizia possa essere insegnata (come un qualsiasi sapere tecnico), mentre Protagora mostra che gli uomini, dopo aver ricevuto il dono divino di aidos e dike, hanno la capacità di essere giusti, ma che questo potenziale deve essere educato ed è appunto questo che i sofisti fanno.

Socrate ammette che è così e si dice convinto, ma si prepara a dimostrare che la giustizia si può insegnare solo se coincide con il vero sapere.

 

3.1.3 La virtù è unica o molteplice?

Protagora parla di santità, vergogna e coraggio come di parti di un’unica virtù. Socrate gli chiede allora qual è il loro rapporto, perché possono esserci uomini coraggiosi ma non santi, o giusti ma non moderati.

Tucidide, Il dialogo dei meli 

Protagora, irritato, propone una visione relativista della virtù, coerente con la sua dottrina dell’uomo misura di tutte le cose: le cose sono buone e utili in certe circostanze e in altre risultano dannose, ad esempio, certi farmaci sono utili all’uomo ma letali per alcuni animali: il bene dunque è qualcosa di vario e multiforme: una stessa cosa può essere buona per alcuni e cattiva per altri.

Questa conclusione è però insidiosissima per la morale della città, di cui Protagora si dice maestro.

Se il bene si riduce all’utile e l’utile è relativo al tipo di soggetto interessato, allora, come diceva Tucidide, si può parlare di giusto solo in presenza di una costrizione che lo faccia dichiarare tale per tutte le parti in causa [vedi il Dialogo dei meli ne La guerra del Peloponneso] e non c’è più alcun ostacolo all’etica aristocratica della prevalenza del più forte.

Socrate dimostra, invece, che esiste una sola virtù la quale coincide con la conoscenza. 

Assumendo il punto di vista comune, osserva che certi piaceri sono detti cattivi perché portano dolori e certi dolori buoni perché portano a piaceri. Ma, allora piacere e male coincidono. Chi dice di fare il male perché sopraffatto dal piacere, dice in effetti contraddittoriamente che fa cose spiacevoli, cioè cattive, perché sono piacevoli, cioè buone.

La felicità, quindi, è nell’arte della misura che consiste nella scienza. Lasciarsi sopraffare dal piacere è ignoranza, il vincere se stesso sapienza. Il male non è scelto volontariamente, ma solo per inconsapevolezza.

La conclusione del Protagora è che la virtù è scienza, e dunque è insegnabile. Protagora ha convinto Socrate, ma i due filosofi hanno una diversa concezione della scienza. Protagora dice della propria arte che esprime semplicemente meglio qualcosa che è già conosciuto da tutti, per Socrate, invece, la scienza è produzione di un sapere nuovo, critico e fondato.

La virtù che Socrate propone è qualcosa che non si può né ricevere, né comprare, non è l’aidos e la dike ricevuti in dono da Zeus, ma qualcosa che ciascuno, discutendo con gli altri, deve comprendere e costruire da sé.

 

 

3.2 Il Gorgia

Gorgia

Gorgia

Il Gorgia rappresenta, insieme al Protagora, il punto di passaggio tra i dialoghi giovanili, socratici, e quelli della maturità in cui Platone presenta le proprie soluzioni filosofiche.

In questo dialogo, il Socrate platonico (ormai molto diverso dal Socrate realmente esistito) discute del rapporto tra filosofia e retorica, chiedendosi, in particolare, se la retorica sia vera scienza.

 

3.2.1 Filosofia e retorica

Platone condivide con i sofisti e con Socrate l’idea che il sapere consista in una ricerca da condurre insieme, ma è proprio la sua concezione del dialogo a distanziarlo dalla prospettiva sofista.

Infatti, la dialettica platonica è la via attraverso cui le opinioni vengono confutate, così che possa emergere la vera natura delle cose.

Nel discorso retorico, invece, le opinioni che si contrappongono sono visioni parziali che prevalgono solo in virtù della capacità tecnica dell’oratore.

Per i sofisti, infatti, l’uomo non può raggiungere una verità definitiva.

Obiettivo della dialettica platonica è, dunque, la ricerca della verità, mentre quello della retorica è la sola persuasione, in mancanza della possibilità di raggiungere la verità assoluta.

oltre Socrate

Platone introduce, quindi, particolari procedure logiche attraverso cui è possibile superare la contrapposizione dei punti di vista particolari (doxai), per ottenere un sapere valido per tutti, cioè la scienza o epistème.

La confutazione delle opinioni particolari è il punto di passaggio tra il piano dell’opinione e quello della scienza, un risultato a cui Socrate non era arrivato, perché la confutazione dialettica di cui si serviva era semplicemente il momento che rendeva l’interlocutore consapevole della propria ignoranza e desideroso di cercare la verità.

Eraclito (535 – 475 a.C.)

Nei dialoghi della maturità, Platone colloca nell’omologhìa, cioè l’accordo tra i parlanti, il momento in cui l’argomentazione di uno viene compresa e riconosciuta razionalmente come verità e dunque fatta propria dall’altro.

Essa si verifica quando, attraverso il dialogo, due individui si accordano su un lógos universale che, come sosteneva Eraclito, è

il «mondo comune degli uomini».

Perché si possa raggiungere l’omologhìa, il discorso deve rispondere a determinati criteri: la tesi non deve essere solo enunciata, ma argomentata, e l’argomentazione non deve essere semplicemente plausibile, ma necessaria, tale che poste certe premesse, le cose non possano essere altrimenti.

Questa è la differenza fondamentale tra filosofia o dialettica (platonica) e retorica: la prima convince razionalmente, la seconda seduce emotivamente.

 

3.2.2 I temi del Gorgia

Nel Gorgia, quindi, Platone dimostra al celebre sofista la lontananza siderale della filosofia dalla retorica.

La filosofia, discorso razionale e scelta di vita basata sulla giustizia

La filosofia infatti, coincide col metodo dialettico, inteso come via per sviluppare ragionamenti scientificamente fondati e, sul piano morale, come scelta di vita basata sulla giustizia.

La retorica, invece, sul piano teoretico mostra di non essere scienza (epistème) perché non ha oggetto (si applica infatti a ogni oggetto), né metodo (non ha regole valide per tutto il campo della sua applicazione), né una conoscenza razionale degli oggetti che tratta, e può dunque convincere solo chi ignora tutto dell’argomento trattato, essendo

un credere non accompagnato da sapere.

Sul piano morale si mostra poi, altrettanto, inadeguata perché, non conoscendo la giustizia in sé e non possedendo criteri certi per distinguere il bene dal male, finisce per servire gli interessi di politici spregiudicati e potenti corrotti.

La retorica, quindi, non è scienza e nemmeno un’arte (techné), cioè un sapere tecnico fondato su precise procedure, ma solo empeirìa (esperienza pratica), cioè una prassi non fondata sulla comprensione razionale delle cose, ma sulla sola efficacia momentanea dei suoi argomenti.

i retori sono pentole di rame che colpite continuano a risuonare finché una mano vi si posa sopra

Essa, quindi, è pura arte adulatoria: può convincere solo gli ignoranti che vengono spinti ad approvare senza conoscere, scegliendo da «anime schiave» ciò che altri decidono per loro, non il meglio per la città:

Non è una vergogna – aveva concluso indignato Socrate nel Protagora – che gli uomini debbano essere governati dai retori, i quali “continuano le loro lunghe arringhe come pentole di rame che, appena percosse, continuano a risuonare, finché una mano vi si posi sopra?” [329]

Nel Gorgia la retorica è, quindi, la manifestazione più evidente di una concezione della vita umana e della politica tesa non al miglioramento e al bene, ma al prestigio e alla ricchezza personali di cui sono espressione i maestri di retorica (come Gorgia) e i politici adulatori del popolo (come Polo).

A questi uomini, espressione di una classe politica corrotta, Platone contrappone la figura del filosofo (Socrate) il quale, avendo davanti agli occhi il modello ideale di bene ed armonia, è il solo in grado (come dirà poi nella Lettera VII), di agire correttamente in politica.

Socrate: sono il solo che tenti la vera arte politica e il solo che la eserciti

Socrate infatti, dichiara, alla fine del dialogo, di

essere tra quei pochi Ateniesi, per non dire il solo, che tenti la vera arte politica, e il solo tra i contemporanei che la eserciti.

Platone, Il Gorgia

mappa dei temi del Gorgia

 

3.3 La Lettera VII

Con queste parole Platone espone per la prima volta un concetto che verrà sviluppato e argomentato nella Repubblica: solo il filosofo è il vero uomo di governo, riformare gli stati è impossibile a meno che i filosofi non diventino re, o che i re diventino filosofi. Così si conclude, infatti, la Lettera VII nella quale il filosofo, ormai settantaquattrenne, ripercorre le aspirazione e le delusioni conosciute in gioventù.

Un tempo, nella mia giovinezza, ho provato ciò che tanti adolescenti provano: avevo progettato, dal giorno in cui avessi potuto disporre di me, di dedicarmi subito alla vita politica. E questi erano allora gli avvenimenti politici nei quali mi trovai a vivere: il governo, attaccato da tutte le parti, venne passando in altre mani, e cinquantun cittadini si misero alla testa del nuovo ordinamento, undici in città e dieci al Pireo – gli uni furono preposti all’agorà, gli altri all’amministrazione cittadina – ma trenta costituirono l’autorità suprema con poteri assoluti.

Socrate

Socrate

Di costoro alcuni erano miei parenti o conoscenti [Crizia, uno dei trenta, era suo zio, NDR] e m’invitarono subito come a lavoro che mi convenisse. M’illusi, né c’è da stupirsi, giovane com’ero. M’immaginavo infatti che avrebbero governato la città riconducendola dalle vie dell’ingiustizia su quelle della giustizia, e quindi attentamente consideravo quello che avrebbero fatto. Mi accorsi però che in breve tempo quegli uomini fecero sembrare oro il precedente regime politico. Fra l’altro il mio caro e vecchio amico Socrate, che certo non esito a proclamare il più giusto del tempo suo, vollero associarlo ad alcuni incaricati di arrestare con la forza un cittadino per metterlo a morte, e tutto ciò con il preciso fine, volente o nolente, di comprometterlo alla loro politica. Socrate non obbedì, pronto a correre i più gravi rischi piuttosto che commettere azioni delittuose. Alla vita di queste cose a di altre ancora, simili a queste e non meno gravi, m’indignai e volsi le spalle alle brutture di quei tempi.

Poco dopo caddero i trenta e, insieme, tutto il loro regime. Di nuovo, sebbene con minor ardore, fui preso dal desiderio di dedicarmi attivamente alla vita politica. Molti, anche allora, furono i fatti ripugnanti: ma non c’è da stupirsi che la rivoluzione abbia servito a moltiplicare le vendette. Ad ogni modo, coloro che tornavano, in quel momento si comportarono con molta moderazione.

Eppure fortunosi avvenimenti vollero che alcune potenti personalità trascinassero dinanzi al tribunale quello stesso Socrate, nostro amico, portando contro di lui un’accusa tra le più gravi e che egli certo non meritava affatto: sotto l’accusa di empietà fu dagli uni condotto in tribunale, dagli altri condannato, e fecero morire l’uomo che si era rifiutato di partecipare all’empio arresto d’uno dei loro amici allora al bando, quando essi stessi esuli erano in disgrazia.

Vedendo ciò e vedendo quali uomini tenessero in mano la politica, quanto più consideravo le leggi e i costumi, quanto più divenivo maturo, tanto più mi sembrò difficile amministrare onestamente gli affari dello stato. Senza amici, senza compagni fidati, era impossibile fare qualcosa, e d’altra parte fra quei cittadini non era facile trovarne che la città non era più retta secondo gli usi e i costumi dei nostri antichi: impossibile poi trovarne di nuovi se non a prezzo di grande fatica.

Le leggi scritte e la moralità si corrompevano e dissolvevano in maniera talmente stupefacente che io, un tempo, tutto ardore e pronto a lavorare per il bene pubblico, osservando questa situazione e vedendo come tutto andasse in disfacimento, finii per rimanerne sbigottito […] finché alla fine compresi che tutti gli stati attuali erano mal governati […] fui allora irresistibilmente portato a lodare la retta filosofia e a proclamare che solo attraverso essa è possibile comprendere ove la giustizia sia nella vita pubblica e nella privata. Mai, dunque, per l’umano genere cesseranno i mali finché i puri ed autentici 4.1 filosofi non arrivino al potere, o i capi degli stati, per grazia divina, non diventino filosofi.

Contro i retori e i loro maestri

Il senso dell’affermazione conclusiva sulla necessità di unire governo e filosofia, si spiega con la necessità di uscire dal vicolo cieco sofista (la concezione della relatività della giustizia propria della “seconda sofistica”) e indicare una giustizia che non sia (appunto) «per noi», relativamente ad un determinato contesto o particolari circostanze, ma «in sé», assoluta o universale.

Per affrontare e risolvere il problema della giustizia, perché mai più la città mandi a morte un innocente e si faccia guidare da politici ingannatori, Platone deve dunque dimostrare che la conoscenza è possibile e che la verità e la scienza sono ancora accessibili a chi le cerca.

 

4. Il problema della conoscenza, Teeteto, Menone, Repubblica

 

4.1 Il Teeteto

Il giovane matematico Teeteto, brutto e intelligente come Socrate

Il Teeteto è un dialogo della maturità in cui Platone sviluppa la critica definitiva alle concezioni sofiste della conoscenza.

Poiché apre gli scritti della vecchiaia, il dialogo ci pone di fronte alla riflessione compiuta di Platone sul nucleo centrale del suo pensiero, cioè sulla dottrina delle idee. Infatti Platone argomenta che è impossibile considerare vera la conoscenza se non è basata su ciò che è stabile, cioè sull’essenza delle cose di cui sono espressione le idee.

Il testo presenta molti passi e situazioni memorabili, dall’incontro di Socrate con Teeteto in cui il filosofo scopre che il giovane, presentatogli come uomo di valore, gli somiglia in intelligenza e bruttezza; alla rivelazione al giovane, disorientato e in confusione davanti alla capacità demolitoria di Socrate, del significato della maieutica: «tu hai le doglie, Teeteto»; fino alle qualità che Socrate riconosce in Parmenide, «venerando e terribile»:

Temo che noi non comprendiamo neppure le sue parole e ancor più che ci sfugga il suo pensiero mentre le pronunciava [Teeteto, 184a].

 

4.1.1 Il filo narrativo

Il dialogo si apre con l’incontro del filosofo socratico Euclide di Megara e Terpsione, in cui il filosofo racconta all’amico di essersi imbattuto in Teeteto morente per aver combattuto ed essere poi caduto malato nella battaglia di Corinto.

L’occasione lo spinge a ricordare il dialogo tra Socrate e il diciassettenne Teeteto avvenuto poco prima che Socrate morisse e del quale aveva preso nota scritta.

Il Teeteto è quindi un dialogo scritto, in cui ciò che viene discusso comincia ad essere più importante della discussione stessa.

 

 

4.1.2 L’ipotesi sofista di Teeteto: la conoscenza viene dalla sensazione

Dallo scritto riemerge il dialogo di Socrate con il giovane matematico intorno all’origine della conoscenza, nel quale Teeteto offre per prima la definizione protagorea che la conoscenza è sensazione: se un frutto ti appare aspro, tale è per te; se invece a me sembra dolce, sarà dolce per me.

se la conoscenza è sensazione, allora la scienza è soggettiva: non abbiamo nessuna scienza

Socrate osserva che la tesi di Protagora si appoggia su quella di derivazione eraclitea, secondo la quale ogni cosa è molteplice e pronta a trasformarsi nel proprio opposto, così ogni sensazione coglie un aspetto momentaneo e mutevole delle cose che non sono mai, ma divengono sempre.

Ciò però fa sì che la conoscenza delle cose sia instabile e transitoria come le cose a cui si riferisce e non sia quindi un sapere certo.

La sensazione quindi non è in grado di darci l’essere delle cose (cioè ciò che sono davvero), ma solo la loro apparenza mutevole (che scambiamo per il suo “essere”): se la conoscenza fosse basata sulle sensazioni, sarebbe sempre particolare e non avrebbero la certezza e stabilità che appartiene alla scienza.

È a questo punto che, davanti all’argomentare di Socrate, da ragazzo intelligente qual è, Teeteto prova le «doglie» del dover abbandonare l’opinione.

 

4.1.3 La conoscenza è la capacità di cogliere ciò che «è lo stesso in tutti i casi»

vedere qualcosa non significa conoscerla: vedere un libro non significa sapere che c’è scritto

Vedere qualcosa non significa conoscere qualcosa, conclude Platone, come vedere una pagina scritta non significa conoscere ciò che c’è scritto.

I sensi sono solo strumenti dell’anima (cioè della ragione) per percepire. Se avessimo solo sensazioni e non conoscenza razionale delle cose, avremmo quindi solo opinioni (doxai), conoscenze particolari (del qui ed ora) non scienza (epistéme) (conoscenza di ciò che è stabile, permanente, uguale a se stesso) delle cose.

Platone è così giunto così alla distinzione tra opinione (doxa) che è sempre empirica o particolare e la scienza (epistéme) o conoscenza universale.

La conoscenza vera, dirà nei dialoghi successivi, è conoscenza dell’eidos (idea), cioè scienza di ciò che

«è lo stesso in tutti i casi».

L’anima è la capacità di pensare l’identico e di congiungersi ad esso: la verità è l’identità dell’essere e del pensare, la loro coincidenza.

[mappa Teeteto].

 

4.1.4 La verità non è una cosa, ma un compito

Inizia a precisarsi la tesi platonica sulla conoscenza, la quale non è né soggettiva, come suggerisce il relativismo sofista, né oggettiva (come sosterranno realisti ed empiristi).

Platone pensa, infatti, che la verità, e la giustizia di cui è il risvolto etico, non sia qualcosa, ma un compito che consiste nel far coincidere infinitamente la realtà e il pensiero, le cose e la loro intima razionalità.

 

4.2 Il Menone

4.2.1 Il problema del dualismo conoscitivo e la soluzione platonica

Se l’anima e le cose sono distinte, come è possibile la conoscenza vera?

La domanda che Platone si pone nel Menone è: come è possibile, se l’anima e le cose (cioè il pensiero e l’essere) sono distinte, avere conoscenza certa?

Se affermiamo che conoscere è un rapporto tra l’anima e le cose, cosa garantisce che il loro collegamento sia giusto? La conoscenza vera si ha infatti quando la rappresentazione delle cose presente nell’anima coincide con la loro realtà esteriore. 

La conoscenza vera non sarebbe problematica se il pensiero e le cose (l’essere) fossero lo stesso, come Parmenide aveva pensato (la stessa cosa è e pensare che è).

Tornare a Parmenide è però impossibile, se si vuole avere scienza delle cose sensibili e non tornare a confinarle nell’apparenza. Sul fronte opposto, inoltre, bisogna sconfiggere chi, come i sofisti, afferma che la verità coincide con l’opinione mutevole.

La risposta di Platone è che perché l’anima e le cose possano coincidere, è innanzitutto necessario che tanto la nostra coscienza che le cose si mostrino capaci di identità.

Per quanto riguarda le cose, è la forma (eidos) a dirci che le cose hanno una caratteristica che le rende uniche e che costituisce la loro essenza (ousia), perché l’eidos è appunto ciò che è lo stesso in tutti i casi.

 

4.2.2 Conoscere non è una cosa, ma un’attività

idein, vedere

Il criterio della definizione, però, non può essere usato per l’anima, cioè per il pensare: questo infatti non è una cosa, ma un’attività (idein, vedere) che si muove e si trasforma nel tempo, che tende alla conoscenza. La nostra essenza non è quindi il contenuto di un pensiero o un concetto, ma è il pensare o l’agire stesso.

E’ proprio l’impossibilità di definire l’anima come una cosa a permettere a Platone di sconfiggere l’argomento eristico secondo cui la ricerca della conoscenza è vana, perché non ha senso cercare quello che si sa già, né quello che ancora non si sa (in tal caso non si potrebbe nemmeno riconoscere ciò che si stava cercando, qualora si riuscisse a trovarlo).

Menone: Ma in quale modo, Socrate, andrai cercando quello che assolutamente ignori? E se per caso l’imbrocchi, come farai ad accorgerti che è proprio quello che cercavi, se non lo conoscevi?
Socrate: Capisco quello che vuoi dire, Menone! Vedi un po’ che bell’argomento eristico proponi! L’argomento secondo cui non è possibile all’uomo cercare né quello che sa né quello che non sa: quel che sa perché conoscendolo non ha bisogno di cercarlo; quel che non sa perché neppure sa cosa cerca.
Menone: E non ti sembra, Socrate, che questo sia un ragionamento assai ben condotto?
Socrate: A me no [Menone, 80d5-81a 2]

La soluzione che Platone dà del dilemma eristico è quindi che la relazione conoscitiva può essere ammessa solo se non la si pensa come una cosa, ma come un processo in cui l’anima comprende il significato delle cose.

 

mappa prima parte del Menone

 

4.2.3 Conoscere è il tornare dell’anima a se stessa

(ri-conoscere, ricordare)

Ma, si chiede Platone, qual è l’attività che dona alla coscienza identità e stabilità nel tempo durante i suoi processi? Solo la memoria.

E’ la teoria della reminiscenza (anàmnesis): il sapere (epistéme) è un imparare a ricercare in cui la coscienza si volge a sé per diventare capace di comprendere la realtà.

“trova il lato del quadrato doppio di quello che ho disegnato”

Platone espone la teoria della reminiscenza attraverso la scena nella quale Socrate fa dimostrare il teorema di Pitagora [il quadrato costruito sull’ipotenusa è la somma dei quadrati costruiti sui cateti] ad uno schiavo di Menone del tutto privo di conoscenze matematiche [“trova il lato del quadrato doppio di quello che ho disegnato”].

Lo schiavo sembra ricavare il teorema da sé, perché Socrate lo assiste nella sua riflessione solo attraverso la confutazione delle tesi errate (élénchos), mettendolo nella condizione di considerare le cause delle proprie tesi: il risultato della dimostrazione dello schiavo è perciò valido, cioè vero, perché egli ha individuato il legame necessario tra le premesse (opinione vera indimostrata) e i risultati dell’indagine (epistéme).

Ciò che conferisce stabilità alla scienza è infatti il ragionamento causale o conoscenza delle cause.

Conoscere, perciò è ricordare. La conoscenza è un processo attivo che l’uomo ricava da sé nel momento in cui si relaziona agli oggetti, non un’acquisizione di informazioni dall’esterno. L’anima non ricava la conoscenza dai sensi, ma possiede una predisposizione innata al conoscere che si attiva a contatto con l’esperienza, facendo risvegliare il nostro sapere latente. Conoscere è quindi un atto di riflessione e scoperta interiore, è un compito (il compito del giusto).

Non c’è nulla che l’anima non abbia visto e appreso

perché la conoscenza è lo sviluppo di una capacità, non passiva ricezione di nozioni, come volevano i sofisti.

Socrate: Che te ne sembra, Menone? Nelle sue risposte lo schiavo ha mai espresso una sola opinione che non fosse sua propria?
Menone: No, egli ha ricavato tutto da sé.
Socrate: Eppure, come dicevamo poco fa, non sapeva nulla.
Menone: E’ vero.
Socrate: E tali opinioni erano in lui o no?
Menone: si.
Socrate: Ma allora, in chi non sa sono insite opinioni vere sulle stesse cose che ignora?
Menone: Sembra.
[…]
Socrate: Senza dunque che nessuno gli insegni, ma solo in virtù di domande egli giungerà al sapere avendo ricavato lui, da sé, la scienza?
Menone: Si
Socrate: Ma ricavare da sé, in sé, la propria scienza, non è ricordare? [Menone, 85b10 – 96b1]

La dimostrazione platonica che il conoscere è il volgersi a sé dell’anima e che ciò è una facoltà innata dell’anima.

Ma come accade questa reminiscenza? Lesposizione all’esperienza non è sufficiente, occorre che qualcuno la risvegli nell’anima, è quindi necessaria un’educazione dell’anima. Su questo aspetto insistono il Simposio e il Fedro.

 

4.3 La Repubblica

4.1.3 La metafora della linea

C’è un passo della Repubblica in cui Platone offre una metafora illuminante delle modalità dialettiche attraverso cui la conoscenza evolve, di superamento in superamento:  è la metafora della linea.

metafora della linea

Il filosofo mostra che la vera conoscenza viene solo dall’esercizio e da un processo dialettico di critica e dubbio sull’opinione che ci rende capaci di elevarci dall’esperienza sensibile alla comprensione intellettuale.

La linea AB rappresenta l’intera conoscenza, mentre i segmenti di cui è divisa i suoi gradi.

Il primo di essi (AC), l’opinione (doxa) è dato dall’immaginazione o congettura (eikasía), cioè dalla semplice rappresentazione sensibile delle cose e dalla credenza (pístis), cioè dall’atto di fede o assenso che riserviamo alle nostre opinioni (DC).

Il tratto successivo (CE) rappresenta il pensiero discorsivo (diánoia), il ragionamento cioè la capacità della nostra mente di mettere in relazione le cose attraverso ragionamenti (lógos, discorso) e inferenze. E’ la conoscenza intellettuale (speculativa, duplice) che fa sì che la conoscenza si concentri sul significato della relazione anziché sul risultato conoscitivo (sapere e non capire veramente).

L’ultimo grado della conoscenza è l’intellezione (nóesis), cioè la comprensione, l’intuizione intellettuale, la perfetta coincidenza del pensare con la cosa pensata. Il grado di certezza e universalità del sapere noetico è massimo, perché non ci sono mediazioni (separazioni) in cui il pensiero possa rischiare l’errore nel passaggio da un termine all’altro.

La nóesis è dunque intuizione intellettuale delle idee, le forme intelligibili e universali.

L’anima non deve quindi fissare l’attenzione sulle immagini percepite attraverso i sensi, ma sulla forma vera delle cose [sul dualismo doxa/epistéme e sulla potenza persuasiva della doxa sugli intelletti non educati: Il mondo invertito dell’articolo di Tonino Bucci sulla crisi dell’intellettuale contemporaneo].

 

5. La conoscenza come educazione dell’anima: Simposio, Fedro, Lettera VII

5.1 Dal Menone al Simposio

Diotima di Mantinea

Nella scena dello schiavo del Menone, Platone aveva mostrato che la conoscenza non è semplice esposizione all’esperienza, né acquisizione passiva di nozioni, ma apprendimento della capacità di cogliere l’essenza razionale delle cose attraverso l’educazione.

E’ attraverso l’educazione, infatti, che l’anima impara a riconoscere l’identico – cioè a conoscere – congiungendosi con le cose.

l’antisoggettivismo platonico: le cose sono irriducibili al nostro pensarle

Nel Simposio e nel Fedro, Platone affronta il tema della conoscenza evidenziando l’indipendenza delle cose e della loro irriducibilità ai nostri pensieri (antisoggettivismo).

La conoscenza, come l’amore, è desiderio e mancanza, tensione verso l’altro. Per conoscere è necessario dunque far sorgere le motivazioni che, sotto forma di volontà e desiderio, rendono possibile l’unione con il proprio oggetto.

Per questo, nel Simposio, Diotima indica nell’Amore (éros) il filosofo ed Aristofane il symbolon, la ricomposizione dell’intero, mentre nel Fedro Socrate definisce l’amore (e la filosofia)

questa specie di delirio [che] è la più grande fortuna concessa dagli dèi [Fedro, 245 b-d].

5.2 Il Simposio

5.2.1 I sette discorsi del Simposio

Lo schema del dialogo:

  1. Il primo discorso è di Fedro: amore è il più antico tra gli dèi
  2. Il secondo di Pausania: eros volgare vs eros celeste [7:48]
  3. Il terzo di Erissimaco: l’eros è una forza cosmica in grado di unire e armonizzare i diversi elementi della natura [8:18]
  4. Il quarto discorso è quello di Aristofane [8:50]
  5. Il quinto a parlare è Agatone, il padrone di casa: Eros è il dio più bello e più nobile
  6. Il sesto discorso è quello di Socrate che riferisce il Discorso di Diotima di Mantinea [10:42] (la natura di Eros 12:03; la bellezza e la vita umana 15:10; 20:00; il rapporto tra l’eros come passione per il bello e la creazione «l’amore è la procreazione nel bello secondo il corpo e secondo l’anima» 22:10).
  7. L’ultimo a a parlare è Alcibiade che entra ubriaco nella sala del banchetto dichiarando il suo amore non corrisposto per Socrate.

 

5.2.2 Il discorso di Aristofane: l’amore come simbolo e ricomposizione di un intero

androgino

Aristofane illustra la propria concezione dell’amore attraverso una narrazione che ha al centro l’originaria pienezza della natura umana: un tempo gli esseri umani erano sferici, possedevano due braccia, due gambe e due volti sui due lati della testa. Anche i loro genitali erano doppi, alcuni ne possedevano maschili e femminili, gli androgini appunto, altri di un sesso soltanto.

Erano così perfetti e completi da tentare la scalata all’Olimpo e insidiare il potere degli dèì, scatenando così l’ira di Zeus che decise di dividerli in due, determinando per sempre la loro insufficienza e incompletezza. Da allora, le metà ottenute dal taglio di Zeus si cercano, avendo nostalgia dell’antica perfezione, desiderando la propria metà maschile o femminile con la quale un tempo erano congiunte.

Il mito è ricco di significati, il primo antropologico indica nell’uomo un essere incompleto, incapace di essere senza gli altri. Egli è sempre metà (symbolon) di qualcosa, riflesso di una realtà che gli è esterna, sulla quale non ha mai presa definitiva. L’uomo, insomma, è per natura, mancante di una parte, che è la cultura, cioè il particolare riferimento al mondo che gli sarà trasmesso dalla società umana entro cui vivrà. 

C’è poi un significato psicologico e relazionale che sottolinea come ogni uomo sia parte entro una relazione: nessuno può definire se stesso, essere qualcosa, se non identificandosi o differenziandosi dagli altri, specchiandosi nell’alterità, cosa che accade sia ai singoli individui che alle collettività.

Emerge così in Aristofane il ruolo dell’altro, il quale può corrisponderci, creando il clima emotivo/cognitivo che ci permette di esprimerci e di essere ciò che vogliamo, rendendoci stabili e appagati, o non corrisponderci ed essere per noi limite, ostacolo, impedimento, l’inferno di cui parlava Sartre [l’enfer c’est les autres].

Amore è allora trovare corrispondenza, l’altra metà di ciò che vuoi essere: è un uomo che ti fa essere la donna che hai scelto di essere (o la donna che ti fa essere l’uomo che sei), è entrare in una classe che ti permette di essere il prof. che hai scelto di diventare o il prof che ti fa essere ciò che hai voglia di diventare.

Amore è la perfetta armonia tra il dentro e il fuori, il completamento senza scarti di ciò che siamo, di cui un pezzo è sempre fuori di noi.

 

 

Il discorso di Aristofane

 

5.2.3 Il discorso di Diotima: l’amore come desiderio, figlio di mancanza ed espediente

Diotima

Socrate è il sesto a parlare.  Il filosofo non ammaestra direttamente i suoi interlocutori, ma riferisce l’insegnamento ricevuto dalla sacerdotessa di Mantinea, Diotima che descrive l’amore come qualcosa di mezzo tra umano e divino, figlio di mancanza ed espediente, essere dalla natura desiderante.

Con il mito narrato da Diotima, Platone mostra che l’amore è percezione di insufficienza, in quanto figlio di póros, “espediente” o “buon consiglio”, e penía, la povertà [discorso di Diotima].

Il discorso di Diotima

Esso esprime inoltre la natura simbolica dell’uomo perché ciascuno di noi è la metà (symbolon) di un uomo (il verbo symballein significa infatti “mettere insieme”) e tende a cercare il proprio completamento, alla ricomposizione di un intero [discorso di Aristofane].

Eros, quindi, non è la soddisfazione di un desiderio, ma il desiderio stesso che, da un lato, insegue nelle cose particolari ciò che le rende desiderabili (la bellezza in sé) e dall’altro supera necessariamente ogni soddisfazione privata trovando piena espressione solo nella vita etica, cioè nella vita in comune.

L’amore è dunque una tendenza alla bellezza in sé, nella quale si ritrovano insieme l’aspetto estetico (il bello) quello conoscitivo (il vero) e quello etico (il bene).

Il discorso di Alcibiade

concezione trasmissiva della conoscenza

Oltre ai discorsi di Aristofane e Diotima, nel Simposio troviamo un altro esempio del rifiuto platonico di pensare la conoscenza come trasmissione di saperi.

In una scena iniziale del dialogo, Socrate tarda ad unirsi ai convitati perché è rimasto in meditazione, immobile, fuori di casa. I suoi ospiti vorrebbero chiamarlo (in particolare Agatone), ma su insistenza di uno di essi (Aristodemo) che conosce questa sua abitudine, lasciano che arrivi a metà della cena.

Allora Agatone che giaceva ultimo e solo: Qui – disse – Socrate, vicino a me distenditi, affinché toccandoti, anch’io possa gioire della sapienza che ti è venuta incontro nel vestibolo. E’ chiaro che l’hai trovata e l’hai con te, sennò non ti saresti mosso.
Socrate sedette e disse: Sarebbe bello, Agatone, se la sapienza fosse di tal natura che scorresse dal più pieno al più vuoto di noi solo a toccarci, come l’acqua che in due tazze scorre, attraverso un filo di lana, da quella più piena a quella più vuota. Se anche la sapienza fa così, ritengo impagabile giacerti accanto […] [Simposio, 175b-d]

 

In virtù di questa concezione della conoscenza [meravigliosamente spiegata nella Lettera VII], Socrate scelse di non scrivere, perché la parola scritta – argomenta Platone nel Fedro – cristallizza il pensiero di chi l’ha prodotta ed espone il lettore ad un ascolto acritico e improduttivo.

Platone, invece, non ci ha lasciato trattati, ma dialoghi (dia-lèghestai=ragionare, discutere insieme), nei quali ha tentato di conservare nella scrittura la parola viva della riflessione nel suo svolgersi, dedicando la vita adulta a un insegnamento inteso come discussione orale con gli allievi (i cosiddetti insegnamenti non scritti, gli àgrapha dògmata).

non si può in alcun modo comunicare, ma come fiamma s’accende da fuoco che balza: nasce d’improvviso nell’anima dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento e una vita vissuta in comune, poi si nutre di se medesima [Lettera VII].

 

 

 

5.3 Il Fedro e la Lettera VII: L’intrasmissibilità della conoscenza

5.3.1 Il Fedro, la critica della scrittura  

Il ripetere senza sapere crea falsità e visioni distorte.

Fedro

Nella parte finale del Fedro, Platone fa raccontare a Socrate del dialogo tra Theuth, creatore semi-divino della scrittura, e Thamus, re d’Egitto, alle cui critiche si associa:

Theuth

Theuth

«Questa scienza, o re, renderà gli egiziani più sapienti e arricchirà la loro memoria perché questa scoperta è una medicina per la sapienza e per la memoria». Risponde allora Thamus:

«O ingegnosissimo Theuth, una cosa è la potenza creatrice di arti nuove, altra cosa è giudicare qual grado di danno e di utilità esse posseggano per quelli che la useranno. E così ora tu, per benevolenza verso l’alfabeto di cui sei inventore, hai esposto il contrario del suo vero effetto. Perché esso ingenererà oblio nelle anime di chi lo imparerà: essi cesseranno di esercitare la memoria perché fidandosi dello scritto richiameranno le cose alla mente non più dall’interno di se stessi, ma dal di fuori, attraverso segni estranei: ciò che tu hai trovato non è una ricetta per la memoria, ma per richiamare alla mente.

Né tu offri vera sapienza ai tuoi scolari, ma ne dai solo l’apparenza perché essi, grazie a te, potendo avere notizia di molte cose senza insegnamento, si crederanno d’essere dottissimi, mentre per la maggior parte non sapranno nulla; con loro sarà una sofferenza discorrere, imbottiti di opinioni invece che sapienti [Fedro, 274e, 275a].

La vera ricerca e il vero insegnamento sono quindi per Platone quelli che formano la capacità di pensare e che la esercitano fino in fondo per rendere migliore l’individuo e il mondo. Nessun valore invece è attribuito dal filosofo a quella sapienza apparente che si nutre di molte conoscenze, senza vera comprensione della realtà a cui alludono. Vediamo quindi in Platone una secca svalutazione dei saperi appresi senza insegnamento, cioè senza ricerca attiva e dialogica (vale a dire senza discussione) della verità, cioè delle nozioni imparate e immagazzinate senza che ci abbiano reso diversi e migliori.

 

5.3.2 La Lettera VII, «come fiamma s’accende da fuoco che balza»

Nella Lettera VII, il filosofo sembra così ammonire i propri stessi commentatori – la propria futura scolastica – attraverso la celebre allusione alle dottrine non scritte:

Questo tuttavia io posso dire di tutti quelli che hanno scritto e scriveranno dicendo di conoscere ciò di cui io mi occupo per averlo sentito esporre da me o da altri o per averlo scoperto essi stessi, che non capiscono nulla, a mio giudizio di queste cose.

Su di esse non c’è né vi sarà alcun mio scritto. Perché non è questa mia, una scienza come le altre. Essa non si può in alcun modo comunicare ma come fiamma s’accende da fuoco che balza: nasce d’improvviso nell’anima dopo un lungo periodo di discussioni sull’argomento e una vita vissuta in comune, poi si nutre di se medesima.

La verità, insomma, non può essere trasmessa, ma può essere conosciuta e praticata insieme: si è giusti e si pensa solo nella relazione comunicativa con gli altri, nel dia-lógos, in uno sforzo costante di superamento dei propri limiti e di adeguamento al compito. Il che significa che la verità non è un discorso sulle cose, ma l’atto di comprenderle, insieme all’attività di ricercarle con gli amici (e di dire cosa sono e cosa non sono davanti ai potenti).

Umberto Galimberti, La visione platonica della conoscenza e la fondazione dell’Occidente

 

6. L’anima e la natura umana. La psicologia platonica nei dialoghi Fedone, FedroRepubblica

6.1 Fedone, l’immortalità dell’anima

corpo_anima

dualismo corpo e anima

L’occasione per parlare dell’immortalità dell’anima, viene offerta nel Fedone dalla domanda di Echecrate di Fliunte che chiede a Fedone di Elide se ha assistito alla morte di Socrate. Echecrate vorrebbe infatti saperne di più, visto che a Fliunte si sa solo che il filosofo ha bevuto un farmakon ed è morto.

Fedone quindi racconta all’amico i particolari della morte del maestro, dando così avvio a una riflessione sull’immortalità dell’anima, tema che Platone aveva già affrontato nel Menone, a sostegno della teoria della reminiscenza, cioè della tesi che conoscere è ricordare, trarre da se stessi la comprensione delle cose.

Nel Fedone, Platone aggiunge all’argomento della reminiscenza quello della metempsicosi, cioè della reincarnazione dell’anima e una visione dualistica del rapporto anima-corpo.

Giocando sulla somiglianza dei termini greci séma (carcere), soma (corpo), il filosofo suggerisce che il corpo corruttibile è il carcere dell’anima da cui questa deve fuggire: ecco perché Socrate non teme la morte, ma ne ringrazia Asclepio come della liberazione da una malattia dello spirito (Critone).

Platone dimostra l’immortalità dell’anima con tre argomenti:

1. Il primo è l’argomento dei contrari, un tema di origine eraclitea (Platone era stato allievo di Cratilo, filosofo eracliteo) secondo il quale ogni cosa si definisce e ha origine dal proprio contrario, così la vita genera la morte e la morte la vita, ma in questa successione che non può finire, qualcosa deve restare permanentemente (Aristotele lo chiamerà substrato”, hypokeimenon), altrimenti saremmo di fronte ad un illusorio circuito del nulla che già Parmenide aveva ammonito a non considerare.

reminiscenza

2. Il secondo è proprio l’argomento della reminiscenza: se conoscere è ricordare, l’anima ha conosciuto precedentemente, prima di questa vita, ciò di cui ha ricordo.

3. L’ultimo argomento, quello della semplicità, è forse il più longevo e convincente dei tre, visto che fino ai tempi di Kant era considerato la dimostrazione per eccellenza della natura immortale dell’anima e che sarà proprio Kant a distruggere alla fine del 700.

L’argomento sostiene che l’anima, come le idee, è semplice, senza parti e perciò non può morire, visto che morire è sostanzialmente il disgregarsi e scomporsi delle parti di cui il vivente è composto (è l’argomento contrario alla tesi di Democrito per il quale ogni cosa è composita e viene ad essere o a perire con l’aggregazione e disgregazione degli atomi.

Si oppongono alla tesi platonica dell’immortalità dell’anima due pitagorici presenti alla discussione, Simmia e Cebete, per i quali il rapporto tra anima e corpo è come quello tra melodia e strumento musicale.

Per loro, come per i greci in generale prima di Platone, l’anima è una manifestazione del corpo (cioè, ciò che lo fa agire: in altre parole è la nostra razionalità, volontà e sensibilità) il suo epifenomeno: sarebbe quindi assurdo sostenere che la musica esiste ancora quando lo strumento è rotto [vedi anche la bella spiegazione del Fedone di Gianfranco Marini]

Umberto Galimberti, Il corpo in Occidente

 

6.2 Il mito della biga alata nel Fedro

biga alata

biga alata

Con il Fedro, entriamo propriamente nella psicologia platonica.

Come si è visto a propostito del Fedone, per i Greci il termine psiché, oggi tradotto con anima, era essenzialmente, ciò che muove, che fa agire, il corpo, quindi ciò che oggi chiameremmo il complesso di funzioni del nostro spirito quali la razionalità, la volontà e la sensibilità.

Secondo Platone, queste funzioni sono in conflitto e nel Fedro, un dialogo sull’amore e sul desiderio, il filosofo riflette perciò sul rapporto tra passione e ragione, in particolare nel caso in cui la prima prenda il comando del comportamento individuale.

volontà e passioni

Nel mito della biga alata il filosofo dà forma a questa idea, paragonando la razionalità umana ad un auriga al comando di cocchio tirato da due cavalli alati, uno bianco, espressione dei sentimenti e delle passioni più elevate (thymeide), cioè dell’anima volitiva, l’altro nero, rappresentazione dell’anima desiderante o concupiscibile.

La buona conduzione della vita, suggerisce Platone, consiste dunque nella capacità di ognuno di orientare razionalmente le pulsioni e la volontà.

Il male perciò, non è solo ignoranza del bene, come pensava Socrate, ma anche la vittoria delle passioni sulla ragione.

Se, a causa dell’incapacità dell’auriga, la parte pulsionale di natura inferiore, tende a prevalere, portando lo stile di vita lontano dalla bellezza e dal bene, allora l’anima tende a cadere in basso, come accade nel caso dei sofisti di professione, dei demagoghi e dei tiranni.

Nessuna anima è però condannata fin dall’inizio a questo destino, perché ogni uomo può prendere possesso di sé – diventando libero e autonomo dai condizionamenti.

 

6.3 Il mito di Er nella Repubblica

Mito di Er

Er

Platone torna sulla libertà del volere umano nel decimo libro della Repubblica, dove racconta il mito di Er: la storia del soldato caduto in battaglia e tornato in vita dopo dodici giorni per raccontare cosa accade alle anime dei defunti.

Lachesi

Er racconta infatti di aver visto le anime scegliere il loro destino, dopo essere passate davanti alle tre Moire, le figlie di Ananke (necessità): Cloto, la filatrice, Lachesi, la distributrice, e Atropo, la tagliatrice.

E’ Lachesi che si rivolge alle anime:

Anime, che vivete solo un giorno comincia per voi un altro periodo di generazione mortale, portatrice di morte. Non vi verrà in sorte un dàimon, ma sarete voi a scegliere il dàimon. E chi viene sorteggiato per primo scelga per primo una vita, cui sarà necessariamente congiunto.

La virtù (areté) è senza padrone (adéspoton) e ciascuno ne avrà di più o di meno a seconda che la onori o la spregi. La responsabilità è di chi sceglie; il dio (theos) non è responsabile.

Agamennone, Ulisse

Davanti allo sguardo di Er passano così anime illustri, come quelle di Ulisse e Agamennone, che il soldato vede scegliere il proprio destino sulla base dell’esperienza vissuta: Ulisse, stanco di avventure e peregrinazioni sceglie infatti la vita oscura del mendicante, mentre Agamennone, sazio di sangue e lotte di potere, lascia il mondo degli uomini ma, non volendo rinunciare alla regalità, sceglie la vita di un’aquila.

Dopo aver scelto il loro destino le anime bevono l’acqua del fiume Lete che provoca oblio, dimenticando dunque la propria scelta e le esperienze precedenti.

Platone evidenzia così che la virtù non è innata (è «senza padrone»), perciò chiunque può diventare eccellente attraverso la conoscenza (aristoi, eccellenti, si diventa, non si nasce), ma che la libertà umana non è assoluta; la scelta di ognuno appare infatti vincolata dalle condizioni in cui la scelta si è determinata.

E’ negli ultimi libri della Repubblica che il filosofo espone il nesso tra la natura dell’anima, il conoscere e la fondazione della città giusta.

 

7. Giustizia, uguaglianza e libertà nella Repubblica

7.1 Conoscenza e città giusta nella Repubblica

La riflessione di Platone sul rapporto tra conoscenza e giustizia, iniziata in gioventù con il Protagora e il Gorgia, si conclude negli anni della vecchiaia con gli ultimi libri della Repubblica, in greco Politeia. 

E’ qui, nel libro VII, che Platone colloca le celebri pagine dell’allegoria della caverna nelle quali delinea la propria visione della realtà, cioè la sua ontologia, e mette in relazione le diverse modalità del conoscere con la vita della città.

Platone paragona la condizione umana a quella di uno schiavo incatenato all’interno di una caverna che può guardare solo avanti a sé, verso il fondo buio. L’unica fonte di luce è rappresentata dal fuoco che arde dietro un muretto e che proietta le ombre degli oggetti sul fondo della caverna.

Ciò che gli schiavi incatenati possono vedere sono quindi solo le ombre delle cose proiettate sul fondo della caverna, che scambiano per cose reali.

Come si vede dall’immagine, l’effetto illusorio delle ombre è il prodotto di un artificio allestito da quelli che hanno interesse a governare attraverso l’ignoranza, cioè da quei gruppi di individui che agitano le immagini e producono opinione dalla condizione di privilegio di una società basata sulla diseguaglianza. Questi uomini sono i retori, gli aristocratici e i loro sacerdoti.

Uno di questi schiavi però riesce a liberarsi ed vede così direttamente le cose e gli uomini incatenati intorno a sé, di cui prima vedeva solo le ombre. Spezzate le sue catene cerca allora l’uscita, per fuggire dalla prigione in cui è nato e conoscere la realtà esterna illuminata dalla luce del sole.

allegoria della caverna

Giunto all’esterno resta abbagliato dalla luce, ma a poco a poco i suoi occhi si abituano al chiarore e riesce a vedere le cose come sono davvero. Alla fine potrà volgere lo sguardo al sole, cioè al bene, cosa che rende felici e pieni di compassione per quelli che ancora vivono di ombre e opinioni.

Liberato e felice quest’uomo che era stato schiavo, si volge però indietro. La sua liberazione che coincide con la filosofia, non avrebbe infatti significato se non tornasse nella caverna dai suoi fratelli affrontando lo scherno, l’incredulità e il rischio di essere ucciso. La ricerca filosofica non ha infatti nessun valore per Platone se non contribuisce a costruire relazioni giuste.

E’ questa concezione della filosofia intesa come liberazione dalla menzogna e sforzo di costruzione di una città giusta che Platone oppone alla morale individualistica di alcuni sofisti, in particolare di Trasimaco, per il quale la giustizia non è la felicità di tutti, ma l’utile del più forte, cioè quello che i potenti dicono e fanno credere che sia.

Al realismo cinico di Trasimaco Socrate però risponde che se così fosse nella polis non esisterebbe alcuna giustizia, ma solo l’oikos più in grande, cioè il trasferimento degli interessi privati in ambito pubblico.

– Alla fine, credo, potrà osservare e contemplare quale è veramente il sole, non le sue immagini nelle acque o su altra superficie, ma il sole in se stesso, nella regione che gli è propria.
– Per forza, disse.
– Dopo di che, parlando del sole, potrebbe già concludere che è esso a produrre le stagioni e gli anni e a governare tutte le cose del mondo visibile, e ad essere causa, in certo modo, di tutto quello che egli e i suoi compagni vedevano.
– È chiaro, rispose, che con simili esperienze concluderà così.
E ricordandosi della sua prima dimora e della sapienza che aveva colà e di quei suoi compagni di prigionia, non credi che si sentirebbe felice del mutamento e proverebbe pietà per loro?
– Certo.
– Quanto agli onori ed elogi che eventualmente si scambiavano allora, e ai premi riservati a chi fosse più acuto nell’osservare gli oggetti che passavano e più rammentasse quanti ne solevano sfilare prima e poi e insieme, indovinandone perciò il successivo, credi che li ambirebbe e che invidierebbe quelli che tra i prigionieri avessero onori e potenza? 0 che si troverebbe nella condizione detta da Omero e preferirebbe “altrui per salario servir da contadino, uomo sia pur senza sostanza”, e patire di tutto piuttosto che avere quelle opinioni e vivere in quel modo?
– Così penso anch’io, rispose; accetterebbe di patire di tutto piuttosto che vivere in quel modo» [Repubblica, 517 a 8].

 

7.2 Il comunismo platonico

ottima repubblica

L’ottima repubblica

È a questo punto che Platone delinea il profilo di uno stato ideale, una callipolis, in cui regnano giustizia e armonia perché i cittadini non svolgono un’attività ereditata con la nascita, ma un ruolo liberamente scelto in base all’inclinazione personale.

Lo stato appare così un grande organismo vivente, le cui funzioni o parti svolgono ognuna il proprio compito, contribuendo al benessere dell’insieme.

filosofi-reggitori

Questo macrocosmo sociale è composto dai reggitori, i governanti-filosofi, dai difensori, cioè i soldati, e dai produttori cioè i contadini che procurano il cibo a tutta la città.

Platone sottolinea che la ragione per cui gli uomini si costituiscono in società è appunto la divisione del lavoro, ma nella città ideale questa divisione non poggia sull’ereditarietà della condizione, ma sulle attitudini che ogni individuo avrà sviluppato fin dall’infanzia e che l’educazione avrà saputo valorizzare.

difensori

La Repubblica platonica non ignora la differenza di prestigio sociale che appartiene alle diverse classi di cittadini. Concepisce perciò uno stato in cui reggitori e difensori, a cui spettano i maggiori onori, non possano possedere privatamente alcun bene e vivano sobriamente nella comunione delle donne e dei figli che saranno educati in comune al riparo dai possibili favoritismi dei padri.

produttori

Ai cittadini che dovranno produrre il cibo per tutti sarà invece consentito possedere dei beni, perché in questo modo anche loro vivranno felici visto che identificano il bene con il piacere e con l’avere.

Nel Fedro, infatti Platone aveva notato che ognuno di noi decide quale parte dell’anima far risaltare nel proprio comportamento: possiamo essere uomini-auriga centrati sulla ragione e la misura, oppure uomini-thymeide in cui prevale la volontà e il coraggio o ancora uomini-desideranti in cui prevale la passione per le cose.

Nella città giusta, ad ogni modo di essere corrisponderà quindi l’attività che gli è propria: ai filosofi reggitori che dovranno guidare la città e ai difensori che immoleranno la loro vita in sua difesa sarà data la massima responsabilità e il massimo onore, ai produttori che lavoreranno per tutti sarà lasciato invece il piacere di possedere le cose materiali.

 

7.3 Riportare la città all’uguaglianza naturale

il mito di Er

Nella Repubblica, quindi, Platone porta a compimento la sua riflessione sulla giustizia, sostando in particolare sui temi dell’uguaglianza e della libertà che aveva già affrontato con la metafora della biga alata e il mito di Er.

Raccontandoci questi due miti Platone, individua nella scelta ciò che differenzia gli uomini e ne spiega le azioni: gli uomini, infatti, condividono la stessa natura molteplice e complessa, nella quale la ragione si intreccia con la volontà e con i desideri.

Non ci sono perciò anime elevate o ignobili, cioè d’oro, d’argento o di metallo vile per natura o per destino, ma ognuno è potenzialmente filosofo, guerriero o umile contadino a seconda della parte di sé che decide di far emergere o, in termini platonici, della funzione dell’anima a cui decide di obbedire.

Lachesi

A differenza di quanto dicono i poeti – Platone detestava Omero –gli uomini nascono uguali, nessuno è aristos (eccellente) per nascita o condizione, ma lo diventa o non lo diventa, come dice la moira Lachesi, amando o trascurando la conoscenza e la virtù.

Questo è perciò il significato del mito di Er. L’ammonimento di Lachesi a non attribuire al Dio o alla sorte ciò che invece è scelto da sé, indica esattamente il compito di ogni uomo di decidere chi essere, di forgiare la propria personalità o di individuarsi per usare la terminologia junghiana, diventando se stesso.

Platone sottolinea però che la faticosa costruzione di sé non avviene in una libertà astratta, ma nel vincolo delle condizioni in cui ognuno si trova a vivere. Ognuno perciò è potenzialmente libero, ma di fatto condizionato dalle esperienze concrete che influenzano le sue scelte.

l’abbattimento delle cause della diseguaglianza

E’ questo il problema a cui Platone intende dare risposta nella parte centrale della Repubblica con quelle che consapevolmente definisce le ondate demolitrici che si abbattono sulla proprietà e sulla famiglia: cioè appunto sulle cause originarie della diseguaglianza.

La città giusta è quindi uno stato in cui uomini e donne, sciolti da un vincolo sentimentale esclusivo, vivono in perfetta comunione dei beni e dei figli.

I figli appartengono quindi a tutta la città e lo stato riserva loro uguali cure e uguale educazione. Solo così è infatti possibile realizzare quell’uguaglianza delle condizioni che offre ad ognuno la possibilità di scegliere liberamente in quale direzione sviluppare la propria personalità. La sola libertà possibile per un essere umano.

 

7.3.1 L’uguaglianza di genere

la differenza sessuale è irrilevante nella vita pubblica, le donne possono essere tanto virtuose quanto gli uomini

Platone non fa mancare una riflessione sull’uguaglianza di genere. Le bambine avranno infatti la stessa educazione dei loro fratelli, senza che vi sia preclusione di principio alla loro possibile inclusione tra i reggitori o i difensori: la comune natura umana è infatti ciò che conta in relazione alla sfera pubblica, mentre le differenze riproduttive tra maschi e femmine sono in questo ambito puramente accidentali, cioè riservate alla vita privata

«Se dunque», proseguii, «il sesso maschile e quello femminile risulteranno differenti in rapporto a una determinata arte o a un’altra occupazione, diremo che l’assegnazione dei rispettivi compiti va fatta con questo criterio; se invece risulteranno differenti solo per il fatto che il sesso femminile partorisce e quello maschile feconda, diremo che per quanto concerne la nostra questione non è ancora stato dimostrato che la donna differisce dall’uomo, ma resteremo dell’idea che i nostri guardiani e le loro donne debbano svolgere le stesse mansioni» […].

«Pertanto, caro amico, nel governo della città non c’è alcuna occupazione propria della donna in quanto donna, né dell’uomo in quanto uomo, ma le inclinazioni sono ugualmente ripartite in entrambi, e per sua natura la donna partecipa di tutte le attività, così come l’uomo, pur essendo più debole dell’uomo in ognuna di esse» […].

«Allora le leggi che abbiamo fissato non sono impossibili da realizzare né simili a pii desideri, se davvero la nostra legislazione è conforme alla natura; piuttosto vanno contro natura, a quanto pare, le disposizioni vigenti contrarie alle nostre!» […].
«Quindi abbiamo stabilito una legislazione non solo realizzabile, ma anche ottima per la città».
«E’ così » [Repubblica, V, 454c-457a].

Libertà ed eguaglianza in Platone

Nonostante la convergenza sulla necessità platonica della soppressione della proprietà e della famiglia, Marx considerava lo stato delineato dalla Repubblica platonica un «sistema di caste» (Il Capitale) eppure Platone ha concepito una società egualitaria, non soltanto esente da discriminazioni delle donne, ma anche in grado di porsi il problema della realizzazione dell’uguaglianza.

Infatti, se nella fase fondativa della costruzione dello stato giusto (callipolis), i produttori sono esclusi, filosofi e difensori hanno la stessa educazione.

 

8. Verso Aristotele, l’irrisolto della teoria delle idee negli ultimi dialoghi

Con questo capitolo concludiamo il nostro studio platonico che ha cercato di tracciare l’itinerario di un filosofo che in gioventù aveva visto morire ingiustamente il proprio maestro, che aveva reagito prefiggendosi di dare una nuova fondazione al problema della giustizia e aveva infine concepito il disegno di una città giusta retta dai filosofi.

Sappiamo già che Platone aveva cercato di dimostrare, contro i sofisti, che la verità e il bene sono accessibili agli uomini e che la chiave di volta di questa dimostrazione poggia sulla dottrina delle idee.

In questa videolezione finale cerchiamo perciò di districarci anche noi tra i difficili problemi logici degli ultimi dialoghi che Platone tenta di risolvere senza riuscire completamente nell’impresa per dare una base solida a questa teoria.

MAPPA

8.1 I problemi del dualismo cose-idee

le idee sono oltre le stelle, nell’hyperouranos

Per capire le ragioni di questo scacco, occorre ricordare che per Platone la verità non è né soggettiva, né oggettiva, ma è il compito di unificare il pensiero con le cose. 

Tuttavia, la dimostrazione logica di come questo sia possibile è ardua, soprattutto perché quando deve definire la natura delle idee, Platone le rappresenta come enti esistenti in sé, cioè come realtà universali separate dalle cose sensibili.

Nel Fedro ad esempio colloca il mondo delle idee oltre le stelle, oltre la sfera celeste, nell’iperuranio, per sottolineare che l’anima deve elevarsi sopra le cose sensibili per giungere alla verità.

Ma, indipendentemente, da questa immagine, la stessa dialettica, in virtù della quale la verità è sempre negazione dell’opinione sensibile, dà luogo a un dualismo non colmabile tra la realtà delle cose che divengono e la realtà intelligibile del mondo dell’essere.

Aristotele

Per questo, nelle opere della vecchiaia che elabora a partire dal dibattito nell’Accademia e in cui certamente si confronta già con il giovane Aristotele, Platone si dibatte tra le difficoltà del dualismo che emergono dalla continua squalificazione del mondo sensibile.

È quindi per lui sempre più urgente e problematico definire la realtà delle idee e del loro rapporto con il mondo sensibile, difficoltà che documenta nel Parmenide.

 

8.2 Il Parmenide

Il Parmenide prende il nome dallo straniero che, in compagnia dell’allievo Zenone si reca ad Atene dove parla con un giovane Socrate. È in questo dialogo che Platone affronta definitivamente il «venerando e terribile» eleate a cui aveva alluso nel Teeteto, perché anche lui, come per altre ragioni Anassagora e Democrito, deve in qualche modo superare il divieto eleatico di pensare la realtà sensibile.

L’obiettivo di battere i sofisti e riportare la giustizia ad Atene richiedeva infatti non di indicare una verità che abita oltre le stelle, ma di renderla accessibile qui, nel mondo imperfetto di tutti i giorni.

 

 

8.2.1 Che cosa sono le idee e qual è il loro rapporto con il mondo sensibile?

Nel Parmenide Platone prova dunque per tre volte a definire cosa sono le idee e come fanno a dare l’essere alle cose sensibili.

 

Prima definizione: l’idea come oggetto di ordine superiore

Methexis: le cose partecipano dell’essere

Il primo tentativo di spiegare il rapporto tra idee e cose fa perno sul concetto di partecipazione (mèthexis): le cose partecipano dell’essere.

Bisogna dire perciò che le idee sono degli oggetti di ordine superiore che si distribuiscono sugli oggetti di ordine inferiore donando ad essi l’essere.

Questa ipotesi trova corrispondenza sul piano linguistico, infatti nella frase «alcuni ateniesi sono buoni», certi ateniesi partecipano della bontà. E’ insomma, in virtù della bontà che essi sono buoni.

Ad un esame più attento, però, questa soluzione si rivela del tutto insoddisfacente. Lo straniero infatti fa notare che se l’idea è una, non si capisce come possano le cose che sono molte, partecipare della sua essenza.

Questo perché se fosse accolta interamente dalle cose l’idea sarebbe molteplice (e non una), mentre se fosse accolta come “parte” sarebbe divisibile e cadrebbe nelle contraddizioni evidenziate dai paradossi di Zenone.

Inoltre, se c’è una relazione tra l’idea e la cosa sensibile, anche la relazione, se è vera, dovrà essere espressione di una idea, e la nuova relazione dovrà fare lo stesso con la precedente in un processo all’infinito noto come argomento del terzo uomo.

Ma c’è di peggio: se le idee e le cose hanno natura differente, se sono radicalmente diverse, come può l’una spiegare l’altra ed esserne il modello ideale? 

È il paradosso della reificazione (da res=cosa) delle idee: se si pensano le idee come cose si cade in contraddizione.

 

Seconda definizione: l’idea è un pensiero della mente

Se le idee non sono delle cose superiori a quelle sensibili, potrebbero essere dei pensieri che esistono solo nella nostra mente.

Si eviterebbe così il paradosso dell’idea divisibile, perché come ente immateriale potrebbe distribuirsi su molte cose senza dividersi.

Si tratta di una concezione sostenuta da alcuni sofisti nella versione estrema del nominalismo e in quella più moderata del concettualismo, secondo le quali le idee sarebbero solo dei nomi o, nella migliore delle ipotesi, dei nomi che indicano l’insieme delle proprietà possedute dalla cosa, cioè concetti comuni a più individui).

Ma se le idee sono pensieri e non oggetti va, appunto, a monte qualsiasi tentativo di dare oggettività alla nostra conoscenza.

 

Terza definizione: l’idea come archetipo o modello

Per aggirare il problema della reificazione dell’idea, cioè della la sua interpretazione come cosa che la rende un ente contraddittorio, e quello della sua idealizzazione che invece la trasforma in un puro contenuto mentale (noema), Platone chiama in causa la tesi pitagorica secondo la quale il rapporto tra idee e cose è simile a quella tra un modello (parádeigma) e la sua immagine.

E’ l’interpretazione più conosciuta dell’idea platonica: le cose sensibili sarebbero delle copie o delle imitazioni delle idee.

l’identità eleatica è simmetrica: se A=B, B=A

Ma questo, di nuovo, obietta l’eleate, non è possibile, perché tra l’originale e la copia c’è un rapporto di somiglianza che è sempre simmetrico: se A somiglia a B, allora B somiglia ad A. Di conseguenza, non c’è alcuna ragione per distinguere la copia dall’originale.

Sembra quindi che ogni ricerca della relazione tra cose e idee dia ragione a Parmenide, secondo cui la molteplicità dell’essere è impossibile, per cui o ci affidiamo totalmente ai sensi e cadiamo nell’illusorietà dell’opinione, o prestiamo fede alla ragione e rinunciamo ad avere scienza dei fenomeni.

Ma Platone lotta ancora e fa un ultimo disperato tentativo attaccando la concezione eleatica dell’identità e notando che la relazione tra cose e idee invece è asimmetrica.

l’identità platonica è asimmetrica: l’immagine allo specchio è un riflesso del volto, ma il volto non è un riflesso dell’immagine

Infatti tra le cose e le idee non c’è un semplice rapporto di somiglianza. Perché se immaginiamo che l’idea sia un volto e la copia l’immagine del volto nello specchio, l’immagine è un riflesso del volto, ma il volto non è il riflesso dell’immagine.

Il rapporto di imitazione (mímesis) che lega un modello alla sua immagine resta così in piedi, anche se precariamente.

Infatti, le difficoltà sia della prima definizione (quella della partecipazione) che della terza, la tesi dell’imitazione, dipendono da un problema insormontabile che viene dall’aver pensato cose e idee come due mondi separati perché se tra le idee e le cose esistesse un’autentica separazione, sarebbe inutile cercare una relazione tra di esse.

Ogni relazione apparterrebbe a uno solo dei due mondi e ogni tentativo di istituire un rapporto conoscitivo con le cose si rivelerebbe un’illusione.

 

8.3 Il rapporto delle idee tra loro negli ultimi dialoghi

Nel Sofista,nel Politico e nel Filebo, Platone torna sul concetto di partecipazione, non più riferito però al rapporto delle cose con le idee, ma al rapporto delle idee tra loro, alla loro koinonia.

Platone adesso non cerca più la fondazione unitaria della realtà sulla base delle idee, ma riflette sul momento opposto della divisione e dell’analisi, notando che ogni idea si collega con quelle più particolari e più generali secondo precise regole di partecipazione e comunanza.

Ad esempio, lo schema dell’idea di uomo che presenta nel Politico, parte dalla distinzione generalissima tra essere inanimati e esseri viventi, per mostrare l’appartenenza dell’uomo alla sfera degli animali domestici, terrestri, pedestri, bipedi e implumi e la sua esclusione, per opposizione a quella degli animali selvatici, acquatici ecc..

A questo punto, la verità dei nostri giudizi è garantita dalla capacità di ripercorrere attraverso il lógos le articolazioni del mondo empirico.

 

8.4 Il parricidio di Parmenide nel Sofista

Nel Sofista,Platone spiega infine che l’errore non è affermare ciò che non è, ma semplicemente indicare in un rapporto un’idea che sta in un’altra articolazione o diairesis.

Quindi mentre Parmenide aveva vietato di dire o di pensare «che il non essere in qualche modo sia»,nel Sofista Platone indica «un essere del non essere» cioè il non essere come diverso, un  non essere relativo, come “altro”.

Quando ero più giovane, appena uno parlava di ciò che ora costituisce la ragione delle nostre difficoltà, ciò che non è, io credevo di averlo compreso fino in fondo. E ora tu vedi in quale mare di difficoltà siamo in relazione ad esso. […] Ma forse, anche riguardo a ciò che è, non meno che riguardo a ciò che non è, noi internamente ci troviamo affetti dalla medesima difficoltà, e pure diciamo di non avere problemi riguardo a ciò ed affermiamo di comprendere quando uno dice l’espressione che lo indica, e di non comprendere nell’altro caso, mentre siamo nella stessa situazione, nell’un caso e nell’altro [Sofista, 243b7-c7].

Il corpo a corpo tra Platone e il padre dell’ontologia si conclude perciò con un parricidio, con la morte del maestro e l’abbandono del suo insegnamento, giusto un momento prima che anche il discepolo più grande di Platone commetta il suo.

Aristotele

Platone dottrina delle idee

Bibliografia essenziale

Cioffi, Luppi, Vigorelli, Zanette, Il testo filosofico, Bruno Mondadori, 1991
Michel Foucault, Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli, 2005
Pierre Hadot, Che cos’è la filosofia antica? Torino, Einaudi, 2010
Alexandre Koyré, Introduzione a Platone, Vallecchi, 1973

https://gabriellagiudici.it/platolab/

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