Platone, Il Protagora

by gabriella

Themis

Ci fu un tempo in cui esistevano gli dei, ma non le stirpi mortali. Quando giunse anche per queste il momento fatale della nascita, gli dèi le plasmarono nel cuore della terra, mescolando terra, fuoco e tutto ciò che si amalgama con terra e fuoco; ordinarono poi a Prometeo e a Epimeteo di dare con misura e distribuire in modo opportuno a ciascuno le facoltà naturali.

Il furto del fuoco da parte di Prometeo procurò agli uomini il sapere tecnico e la capacità di produrre cultura, separandosi dal resto del mondo animale, la giustizia fu invece un dono degli dèi, preoccupati che senza di essa l’umanità potesse estinguersi a causa della violenza reciproca.

 

Indice

1. Platone, Protagora 320c-324a [temi della giustizia, dell’uguaglianza e dell’educazione alla virtù]
2. Sintesi dell’intero dialogo


1. Platone, Protagora [320c – 324a]

Prometeo ed Epimeteo

Quando le stirpi mortali stavano per venire alla luce, Epimeteo chiese a Prometeo di poter fare da solo la distribuzione:

Dopo che avrò distribuito – disse – tu controllerai.

Così, persuaso Prometeo, iniziò a distribuire. Nella distribuzione, ad alcuni dava forza senza velocità, mentre donava velocità ai più deboli; alcuni forniva di armi, mentre per altri, privi di difese naturali, escogitava diversi espedienti per la sopravvivenza. [321] Ad esempio, agli esseri di piccole dimensioni forniva una possibilità di fuga attraverso il volo o una dimora sotterranea; a quelli di grandi dimensioni, invece, assegnava proprio la grandezza come mezzo di salvezza. Secondo questo stesso criterio distribuiva tutto il resto, con equilibrio. Escogitava mezzi di salvezza in modo tale che nessuna specie potesse estinguersi.

Procurò agli esseri viventi possibilità di fuga dalle reciproche minacce e poi escogitò per loro facili espedienti contro le intemperie stagionali che provengono da Zeus. Li avvolse, infatti, di folti peli e di dure pelli, per difenderli dal freddo e dal caldo eccessivo. Peli e pelli costituivano inoltre una naturale coperta per ciascuno, al momento di andare a dormire. Sotto i piedi di alcuni mise poi zoccoli, sotto altri unghie e pelli dure e prive di sangue.

In seguito procurò agli animali vari tipi di nutrimento, per alcuni erba, per altri frutti degli alberi, per altri radici. Alcuni fece in modo che si nutrissero di altri animali: concesse loro, però, scarsa prolificità, che diede invece in abbondanza alle loro prede, offrendo così un mezzo di sopravvivenza alla specie. Ma Epimeteo non si rivelò bravo fino in fondo: senza accorgersene aveva consumato tutte le facoltà per gli esseri privi di ragione. 

Il genere umano era rimasto dunque senza mezzi, e lui non sapeva cosa fare. In quel momento giunse Prometeo per controllare la distribuzione, e vide gli altri esseri viventi forniti di tutto il necessario, mentre l’uomo era nudo, scalzo, privo di giaciglio e di armi. Intanto era giunto il giorno fatale, in cui anche l’uomo doveva venire alla luce.

Jan_Cossiers, Prometheus

Allora Prometeo, non sapendo quale mezzo di salvezza procurare all’uomo, rubò a Efesto e ad Atena la perizia tecnica, insieme al fuoco – infatti era impossibile per chiunque ottenerla o usarla senza fuoco – e li donò all’uomo.

All’uomo fu concessa in tal modo la perizia tecnica necessaria per la vita, ma non la virtù politica. [322] Questa si trovava presso Zeus, e a Prometeo non era più possibile accedere all’Acropoli, la dimora di Zeus, protetta da temibili guardie. Entrò allora di nascosto nella casa comune di Atena ed Efesto, dove i due lavoravano insieme. Rubò quindi la scienza del fuoco di Efesto e la perizia tecnica di Atena e le donò all’uomo. Da questo dono derivò all’uomo abbondanza di risorse per la vita, ma, come si narra, in seguito la pena del furto colpì Prometeo, per colpa di Epimeteo.

Allorché l’uomo divenne partecipe della sorte divina, in primo luogo, per la parentela con gli dèi, unico fra gli esseri viventi, cominciò a credere in loro, e innalzò altari e statue di dèi. Poi subito, attraverso la tecnica, articolò la voce con parole, e inventò case, vestiti, calzari, giacigli e l’agricoltura. Con questi mezzi in origine gli uomini vivevano sparsi qua e là, non c’erano città; perciò erano preda di animali selvatici, essendo in tutto più deboli di loro. La perizia pratica era di aiuto sufficiente per procurarsi il cibo, ma era inadeguata alla lotta contro le belve (infatti gli uomini non possedevano ancora l’arte politica, che comprende anche quella bellica).

Cercarono allora di unirsi e di salvarsi costruendo città; ogni volta che stavano insieme, però, commettevano ingiustizie gli uni contro gli altri, non conoscendo ancora la politica; perciò, disperdendosi di nuovo, morivano. Zeus dunque, temendo che la nostra specie si estinguesse del tutto, inviò Ermes per portare agli uomini rispetto e giustizia, affinché fossero fondamenti dell’ordine delle città e vincoli d’amicizia. Ermes chiese a Zeus in quale modo dovesse distribuire rispetto e giustizia agli uomini:

Devo distribuirli come sono state distribuite le arti? Per queste, infatti, ci si è regolati così: se uno solo conosce la medicina, basta per molti che non la conoscono, e questo vale anche per gli altri artigiani. Mi devo regolare allo stesso modo per rispetto e giustizia, o posso distribuirli a tutti gli uomini?» «A tutti – rispose Zeus – e tutti ne siano partecipi; infatti non esisterebbero città, se pochi fossero partecipi di rispetto e giustizia, come succede per le arti. Istituisci inoltre a nome mio una legge in base alla quale si uccida, come peste della città, chi non sia partecipe di rispetto e giustizia.

[323] Per questo motivo, Socrate, gli Ateniesi e tutti gli altri, quando si discute di architettura o di qualche altra attività artigianale, ritengono che spetti a pochi la facoltà di dare pareri e non tollerano, come tu dici – naturalmente, dico io – se qualche profano vuole intromettersiQuando invece deliberano sulla virtù politica – che deve basarsi tutta su giustizia e saggezza – ascoltano il parere di chiunque, convinti che tutti siano partecipi di questa virtù, altrimenti non ci sarebbero città. Questa è la spiegazione, Socrate.

Ti dimostro che non ti sto ingannando: eccoti un’ulteriore prova di come in realtà gli uomini ritengano che la giustizia e gli altri aspetti della virtù politica spettino a tutti. Si tratta di questo. Riguardo alle altre arti, come tu dici, se qualcuno afferma di essere un buon auleta o esperto in qualcos’altro e poi dimostri di non esserlo, viene deriso e disprezzato; i familiari, accostandosi a lui, lo rimproverano come se fosse pazzo.

Riguardo alla giustizia, invece, e agli altri aspetti della virtù politica, quand’anche si sappia che qualcuno è ingiusto, se costui spontaneamente, a suo danno, lo ammette pubblicamente, ciò che nell’altra situazione ritenevano fosse saggezza – dire la verità – in questo caso la considerano una follia: dicono che è necessario che tutti diano l’impressione di essere giusti, che lo siano o no, e che è pazzo chi non finge di essere giusto. Secondo loro è inevitabile che ognuno in qualche modo sia partecipe della giustizia, oppure non appartiene al genere umano.

Dunque gli uomini accettano che chiunque deliberi riguardo alla virtù politica, poiché ritengono che ognuno ne sia partecipe. Ora tenterò di dimostrarti che essi pensano che questa virtù non derivi né dalla natura né dal caso, ma che sia frutto di insegnamento e di impegno in colui nel quale sia presente. Nessuno disprezza né rimprovera né ammaestra né punisce, affinché cambino, coloro che hanno difetti che, secondo gli uomini, derivano dalla natura o dal caso.

Tutti provano compassione verso queste persone: chi è così folle da voler punire persone brutte, piccole, deboli? Infatti, io credo, si sa che le caratteristiche degli uomini derivano dalla natura o dal caso, sia le buone qualità, sia i vizi contrari a queste. Se invece qualcuno non possiede quelle qualità che si sviluppano negli uomini con lo studio, l’esercizio, l’insegnamento, mentre ha i vizi opposti, viene biasimato, punito, rimproverato.

[324] Fra questi vizi ci sono l’ingiustizia, l’empietà e in generale tutto ciò che è contrario alla virtù politica; di fronte a ciò ognuno biasima e ammonisce, evidentemente perché pensa che la virtù politica si acquisisca attraverso lo studio e l’apprendimento. Se infatti, Socrate, vuoi capire quale valore abbia punire coloro che commettono ingiustizie, i fatti stessi ti dimostreranno che gli uomini credono che la virtù si possa acquisire.

Nessuno punisce coloro che commettono ingiustizie per il semplice fatto che sono stati ingiusti, a meno che non voglia vendicarsi in modo irrazionale, come una bestia; chi, invece, vuole punire secondo ragione, non vendica l’ingiustizia commessa – dal momento che non può annullare ciò che è stato – ma punisce in vista del futuro, affinché non venga commessa ingiustizia di nuovo, né da quello né da un altro che lo veda punito. Ha un tale proposito perché è convinto che la virtù sia insegnabile.

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2. Sintesi del Protagora

Protagora

Socrate

Il primo argomento del Protagora, una conversazione in una casa privata tra Protagora e Socrate, riguarda la qualità del sapere di cui il sofista fa commercio.

I saperi, infatti, non possono essere valutati come se fossero cose, perché hanno su di noi un potere molto più grande di una mela che acquistiamo e mangiamo.

Il potenziale di manipolazione insito nel rapporto fra il commerciante che deve venderci qualcosa e il cliente è particolarmente grave quando si ha che fare con la conoscenza, che forma l’uomo più profondamente di quanto faccia il cibo, dato che offre strumenti per valutare tutto il resto.

Socrate osserva che tutti hanno la parola ad Atene, quando si deve deliberare sul modo di condurre gli affari di stato, mentre nelle altre arti – la medicina, per esempio – c’è una divisione del lavoro che porta ad affidare le deliberazioni tecniche alle persone competenti.

Evidentemente, per gli Ateniesi, la politica non è insegnabile: se tutti hanno titolo a parlare di politica, tutti la conoscono già e dunque non occorre insegnarla.

Protagora di Abdera

Prometeo ed Epimeteo

Protagora, tuttavia, dice di insegnare l’arte politica, che è l’arte di amministrare con senno tanto la propria casa, quanto le faccende pubbliche e per mostrare in cosa consiste il suo insegnamento illustra il mito di Epimeteo e Prometeo.

Per rendere possibile vivere in società, Zeus ha distribuito agli uomini aidos e dike, cioè umiltà e giustizia. Gli uomini hanno bisogno di queste qualità, cioè della cultura e della politica perché sono esseri privi di qualità naturali, come artigli, denti e corna, con cui gli animali provvedono ai propri bisogni.

Tutti partecipano di queste due virtù “politiche”, ma non ne sono sempre consapevoli: ecco perché è possibile insegnare la modestia e la giustizia agli uomini mentre non si può “insegnare” a un toro ad avere corna e zoccoli.

Socrate non è convinto, perché l’insegnamento della giustizia è spesso talmente fallimentare che la virtù del padre non riesce neppure ad essere trasmessa al figlio.

Protagora allora risponde che se gli uomini hanno bisogno della giustizia per poter vivere insieme, occorre comportarsi come se fosse insegnabile, punendo chi si comporta ingiustamente e cercando di formare generazioni migliori.

Inoltre, anche il più ingiusto degli uomini che vivono in città partecipa della virtù politica, proprio come tutti quelli che parlano il greco partecipano della conoscenza.

Omero

Esiodo

All’inizio del dialogo, Protagora aveva affermato che la sofistica è un’arte molto antica, risalente ai poeti Omero, Esiodo e Simonide. Il sofista, infatti, come il poeta, non fa che esprimere e tramandare un sapere comune.

Qui Socrate, che era stato ad ascoltare il lungo argomento di Protagora, lo interrompe, osservando che alcuni oratori pubblici sanno fare lunghi e bei discorsi ma, come dei libri, se venissero interrotti e li si interrogasse, non saprebbero rispondere. Piuttosto, replicherebbero con un altro lungo discorso, risuonando come pentole di rame che non smettono di far rumore fino a che una mano vi si posi sopra.

Come nel Fedro, Socrate nota che un sapere trasmesso, di cui si fa insegnamento senza discussione è un vuoto nozionismo, se non addirittura un esercizio di potere.

Lo stile di insegnamento di Protagora, d’altra parte, si accorda perfettamente con il ruolo politico-educativo che il sofista si attribuisce: il dialogo non serve, quando chi parla si limita ad esprimere meglio ciò che gli altri già sanno, quando, cioè, l’insegnamento è inteso non come costruzione di un sapere critico, ma come trasmissione di una tradizione culturale antica e veneranda.

Socrate

E’ qui che Socrate sferra il suo attacco al sofista, domandandogli se giustizia, costanza e santità sono parti di una stessa virtù, o nomi diversi per indicare la stessa realtà. Protagora risponde che sono come le parti di un volto, qualitativamente differenti tra loro

Socrate allora nota che, se è così, allora ogni parte della virtù è diversa dall’altra e si può avere una parte senza avere l’altra. Per esempio si può essere coraggiosi senza essere sapienti o giusti senza essere pii, così che la giustizia può essere empia e la santità ingiusta. La morale politica in una città andrebbe però in pezzi.

Protagora replica che tutte le cose, anche se differenti, hanno qualche elemento in comune; ma non basta questo per chiamarle uguali. Pertanto, per la presenza di qualche elemento comune, la distinzione fra le parti della virtù non comporta necessariamente né la loro identità né la loro reciproca contraddizione. Non c’è dunque bisogno di trattare le virtù come se fossero una cosa sola.

Tucidide

Ma Socrate non molla e chiede a Protagora se chi compie un atto ingiusto possa agire da saggio. Il sofista risponde che personalmente si vergognerebbe di affermarlo, ma che molti sostengono una tesi simile, e cioè che si può commettere ingiustizia e comportarsi saggiamente, quando se ne ricava dell’utile. Una logica di questo tipo si trova, ad esempio, nel dialogo degli Ateniesi con i Melii riportato da Tucidide.

Protagora, per cui l’uomo è la misura di tutte le cose, afferma che l‘utile è relativo al soggetto cui si indirizza: ci sono cose utili agli uomini e nocive ai cavalli, o utili se usate all’esterno e dannose all’interno del corpo e così via: “in effetti il bene è qualcosa di vario e multiforme….”

Questa conclusione è insidiosissima per le morale della città, di cui Protagora si era detto maestro. Se il bene si riduce all’utile, e l’utile è relativo al tipo di soggetto interessato, allora, come diceva Tucidide, si può parlare di giusto solo dove una costrizione lo faccia dichiarare tale per tutte le parti in causa e non c’è più alcun ostacolo all’etica aristocratica della prevalenza del più forte.

Socrate aveva obiettato che se le parti della virtù vanno intese come parti fra loro differenti, si pone il problema della loro relazione. Un volto con le sue parti, per usare la metafora di Protagora, è un intero già dato. Ma se le virtù sono cose che si imparano, e non doti naturali, allora la loro relazione deve essere costruita e giustificata.

Socrate interrompe così Protagora, chiedendogli ironicamente di abbreviare i suoi lunghi discorsi, altrimenti, a causa della sua scarsa memoria, non riuscirebbe a seguirlo.

Protagora ribatte che se avesse dato retta alle richieste degli avversari, ora non sarebbe il migliore, né sarebbe diventato famoso.

Socrate minaccia di andarsene, ma il sofista si mostra accomodante, così che Socrate può incalzarlo con un’altra domanda fondamentale: se il sapere è oggetto di competizione, e si fa a gara tra chi è il migliore, inevitabilmente verrà scelta la modalità di comunicazione più vantaggiosa per chi parla.

Il discorso lungo e monologico è un ottimo espediente se si vuole mettere a tacere l’avversario e rendergli difficile seguire e criticare i nostri passaggi logici.

Una comunicazione funzionale al potere preferirà dunque la il discorso lungo, senza domande e senza interruzioni. Chi è collaborativo e critico, invece, preferirà l’argomentazione breve e il contraddittorio. Se il sapere deve essere venduto, chi discute con noi è giocoforza o un concorrente o un cliente, e non un nostro pari nella ricerca della conoscenza.

Socrate propone di ritornare sul problema dell’insegnabilità – e dunque della scientificità – della virtù e chiede di nuovo se sapienza, coraggio, costanza, giustizia e pietà religiosa, cioè le virtù tradizionali del cittadino, sono solo sinonimi o virtù diverse.

Protagora risponde che sono tutte parti della virtù, ma il coraggio può esserci anche in mancanza di sapienza, temperanza, giustizia e pietà religiosa. Socrate dimostra che coraggio e sapienza sono identici perché si propone di dimostrare che tutte le virtù hanno come loro componente essenziale la conoscenza.

Questo implica che ciascuna virtù possa avere anche altri caratteri, ma che sia identificabile come virtù perché ha la connotazione essenziale della sapienza o conoscenza.

Socrate osserva, assumendo il punto di vista della maggioranza, che certi piaceri sono riconosciuti cattivi perché conducono a dolori, e certi dolori buoni perché conducono a piaceri. Ma, allora, bene e piacere coincidono. E dunque chi dice di fare il male perché sopraffatto dal piacere, dice in effetti contraddittoriamente che fa cose spiacevoli, cioè cattive, perché sono piacevoli, cioè buone.

E anche affermando che si scelgono piaceri minori presenti contro piaceri maggiori futuri, si ricade nella stessa difficoltà. Si può però dire che l’apparenza dei piaceri vicini è più forte ed evidente di quella dei piaceri futuri e lontani.

La felicità, allora, è nell’arte della misura, o nella forza dell’apparenza? Se vale la prima risposta, la salvezza della nostra vita consisterà nella scienza. Lasciarsi sopraffare dal piacere è ignoranza. L’essere vinto da se stesso è ignoranza, il vincere se stesso sapienza. Nessuno fa volontariamente e consapevolmente qualcosa che ritiene male.

La virtù è scienza, e dunque è insegnabile, ma se trattiamo la virtù come una pluralità di facoltà, come fa Protagora, nulla ci assicura che la loro relazione sia giusta.

Protagora e Socrate non hanno però la stessa concezione della scienza. Protagora dice della propria arte che esprime semplicemente meglio qualcosa di comune, per Socrate invece la scienza è produzione di un sapere nuovo, critico e fondato.

La virtù come conoscenza è qualcosa che non si può né ricevere, né comprare, non è l’aidos e la dike ricevuti in dono da Zeus, ma qualcosa che ciascuno, discutendo con gli altri, deve comprendere e costruire da sé.

Protagora è quindi riuscito a convincere Socrate che la virtù sia insegnabile? Certo, ma non si tratta della virtù del sofista. La virtù del cittadino consiste invece proprio nella critica della tradizione di cui Protagora è maestro.

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