Raccolta di risorse per studiare il problema ecologico e le possibili strategie di attenuazione.
Lezione
Sostenibilità sociale: tutto quello che c’è da sapere
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Perciò accolse l’uomo come opera di natura indefinita e postolo nel cuore del mondo, così gli parlò: non ti ho dato, Adamo, né un posto determinato, né un aspetto proprio, né alcuna prerogativa tua, perché tutto secondo il tuo desiderio e il tuo consiglio ottenga e conservi. La natura limitata degli altri è contenuta entro leggi da me prescritte. Tu te la determinerai senza essere costretto da nessuna barriera, secondo il tuo arbitrio, alla cui potestà ti consegnai […]. Non ti ho fatto né celeste, né terreno, né mortale, né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto.
Pico della Mirandola, Oratio de hominis dignitate
1. L’animale linguistico
Secondo Chomsky, la natura umana «dal Cro-Magnon in avanti» sarebbe caratterizzata da tratti stabili, il principale dei quali è la facoltà di linguaggio.
Oltre alle obiezioni di Foucault, dalle scienze sociali si obietta a Chomsky che una facoltà articolata in una grammatica, in strutture profonde e regole universali non è più una facoltà, ma una superlingua universale.
«La vera sapienza, come il vero amore, sono uno stato, una maniera di essere, un atteggiamento, una situazione dell’anima, non sono né idee, né principi, né sistema» [Notas].
Una quarantina circa di anni fa, stavo facendo una lunga camminata, tra cime assolutamente sconosciute ai turisti, in quella antica regione delle Alpi che penetra in Provenza.
Questa regione è delimitata a sudest e a sud dal corso medio della Durance, tra Sisteron e Mirabeau; a nord dal corso superiore della Drôme, dalla sorgente sino a Die; a ovest dalle pianure del Comtat Venaissin e i contrafforti del Monte Ventoux. Essa comprende tutta la parte settentrionale del dipartimento delle Basse Alpi, il sud della Drôme e una piccola enclave della Valchiusa.
Si trattava, quando intrapresi la mia lunga passeggiata in quel deserto, di lande nude e monotone, tra i milledue e i milletrecento metri di altitudine. L’unica vegetazione che vi cresceva era la lavanda selvatica.
L’oceano Pacifico è morto, è svuotato di ogni vita. Ci sono solo rifiuti e barche per la pesca industriale intente a saccheggiare accuratamente quel poco che è ancora rimasto.
Sta facendo il giro del mondo, sui media di lingua inglese, il racconto struggente, tragico e a suo modo poetico di un marinaio, Ivan Macfadyen (foto), che ha ripetuto la traversata del Pacifico effettuata dieci anni fa. Allora fra l’Australia e il Giappone bastava buttare la lenza per procurare pranzo e cena succulenti. Stavolta in tutto due sole prede. Dal Giappone alla California, poi, l’oceano è diventato un deserto assoluto formato da acqua e rottami.
Nessun animale. Non un solo richiamo di uccelli marini. Solo il rumore del vento, delle onde e dei grossi detriti che sbattono contro la chiglia. Il racconto di Ivan Macfadyen, vecchio marinaio col cuore spezzato dopo 28 giorni di desolata navigazione nel Pacifico, è stato raccolto dall’australiano The Newcastle Herald ed è stato variamente ripreso da decine e decine di testate, tutte in inglese.
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Cataldo Ranieri ci dà appuntamento in un piazzale, alle otto di sera, in uno dei tanti baracchini in cui si mangiano le pucce tarantine. La nostra intervista dovrebbe svolgersi prima della riunione del Comitato cittadini e lavoratori liberi e pensanti, ma ben presto si tramuta in una sorta di chiacchierata collettiva con circa trenta persone che, a nostro avviso, mostrano bene le diverse sfaccettature di questo movimento ancora in fasce. L’incontro avviene il 9 agosto, cioè il giorno prima che il giudice per le indagini preliminari di Taranto, Patrizia Todisco, notificasse all’Ilva che il risanamento va fatto a fuoco spento. Colpisce come l’onnipotente governo tecnico sia messo in crisi dalla decisione tecnica di una funzionaria burocratica. Improvvisamente la decisione politica torna a essere occasionale e in deroga alle regole. E’ persino divertente che il provvedimento di ieri esautori Bruno Ferrante, scelto affinché la sua faccia tecnico-burocratica nascondesse quella del padrone interessato solo al profitto. Ma più che sulle sventure tecniche dei vari livelli di governo tecnico della crisi, o sul ruolo della magistratura che, immaginiamo, abbia ancora molto altro da indagare, ci interessava cominciare a ragionare sulla condizione operaia in Italia, a partire da quanti sembrano esprimere nuove forme di soggettività dentro e fuori le fabbriche.
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Situata nello Stato di Michoacán, nel nord-ovest del Messico, la comunità indigena di Cherán K’eri è protagonista da oltre un anno di una formidabile lotta in difesa del territorio e di un interessante esperimento di autogoverno. Durante la Convención Nacional di Atenco del 14-15 luglio scorsi, abbiamo incontrato David Romero e Samuel Ramos, delegati di Cherán all’evento, i quali ci hanno parlato dei nodi del conflitto e del processo di trasformazione che stanno vivendo. La data che segna lo spartiacque nella storia della comunità è il 15 aprile del 2011, giorno in cui gli abitanti di Cherán, attraverso un vero e proprio levantamiento (sollevamento) popolare, decidono di riprendere in mano il territorio e di ribellarsi allo strapotere della mafia locale (la cosidetta Familia Michoacana, un cartello del narcotraffico operativo nel centro del Messico), che stava letteralmente devastando il monte Pacaracua con una deforestazione senza precedenti.
Che cos’hanno in comune la Tav in Val di Susa e le new towns berlusconiane che assediano L’Aquila dopo il terremoto? Che cosa unisce l’autostrada tirrenica e il “piano casa” che devasta le città? Finanziatori e appaltatori, banche e imprese sono spesso gli stessi, anche se amano cambiare etichetta creando raggruppamenti di imprese, controllate, partecipate, banche d’affari e d’investimento. E sempre gli stessi, non cessa di ricordarcelo Roberto Saviano, sono i canali per il riciclaggio del denaro sporco delle mafie. Ma queste lobbies, che senza tregua promuovono i propri affari, non mieterebbero tante vittorie senza la connivenza della politica e il silenzio dell’opinione pubblica. Espulso dall’orizzonte del discorso è invece il terzo incomodo: il pubblico interesse, i valori della legalità.
Se questo è il gorgo che ci sta ingoiando, è perché l’Italia da decenni è vittima e ostaggio di un pensiero unico, spacciato per ineluttabile. Un unico modello di sviluppo, una stessa retorica della crescita senza fine governano le “grandi opere”, la nuova urbanizzazione e la speculazione edilizia che spalma di cemento l’intero Paese. Ma su questa idea di crescita grava un gigantesco malinteso. Dovremmo perseguire solo lo sviluppo che coincida col bene comune, generando stabili benefici ai cittadini. E’ invalsa invece la pessima abitudine di chiamare “sviluppo” ogni opera, pubblica o privata, che produca profitti delle imprese, anche a costo di devastare il territorio. Si scambia in tal modo il mezzo per il fine, e in nome della “crescita” si sdogana qualsiasi progetto, anche i peggiori, senza nemmeno degnarsi di mostrarne la pubblica utilità.
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