Pablo Pineda è un insegnante a attore spagnolo nato nel 1975 con la sindrome di Down. E’ stato il primo ragazzo europeo con Trisomia 21 a laurearsi (in Scienze della formazione).
Con il video Si podemos, girato con il gruppo di ragazzi down dell’Obra social di Madrid, la sua storia ha superato i confini della Spagna. Dall’età di sedici anni conduce trasmissioni televisive, rilascia interviste, gira film. La sua interpretazione in Yo tambien, una storia d’amore tra un ragazzo down e una ragazza normodotata, è stata premiata al Festival internazionale del film di San Sebastiàn. [Sottotitoli miei, traduzione di Greta Dormentoni. Attivarli cliccando sull’icona ]
In questa intervista, pubblicata da El Pais, il 12 dicembre 2003 e tradotta in italiano dal blog di Gigi Cortesi, Pablo Pineda ricostruisce la propria infanzia e la propria educazione. Il sevillano, ora trentanovenne, noto per essere stato il primo portatore di sindrome di Down a laurearsi, vi descrive la sua lotta per l’abbattimento del pregiudizio e dell’esclusione verso i ragazzi down, combattuta con il coraggio e l’abnegazione di chi ha qualcosa di più importante di se stesso a cui pensare [per approfondire, L’intelligenza].
La prima notizia che la mia era la sindrome di Down la ebbi a sei o sette anni. Un professore universitario che portava avanti il Progetto Roma¹, don Miguel Garcia Meleto, nell’ufficio del rettore mi domandò: ‘sai che cos’è la sindrome di Down?’. Io, innocentemente, gli dissi di si, anche se non ne avevo idea. Lui lo notò e si mise a spiegarmi che cosa fosse, anche se non era un genetista, ma un pedagogista. E io, siccome sono puntiglioso e ho una certa acutezza mentale, gli chiesi: ‘don Miguel, sono stupido?’ .
D. Perché glielo domandò?
Non so. E’ difficile saperlo. Chissà, se a sei anni ti associano ad una sindrome, tu lo associ al fatto di essere stupido o no. Lui mi disse che non ero stupido, e io gli domandai: “potrò continuare a studiare?”. Lui mi disse: “Si, certo”. Poi cominciò il processo della strada ; i bambini cominciarono a dirmi: “Poverino è malato”. E io mi infuriavo, perché non ero malato.
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