(voce inglese, dal latino medievale lobia, loggia, portico; dalla metà del XVI secolo ha il significato di ‘passaggio’, ‘corridoio’; in tedesco, Laube, portico).
Il significato attuale – ‘gruppo di pressione’, ‘gruppo di interesse’ – nasce dal fatto che lobby è anche la grande anticamera nella Camera dei Comuni, a Londra, dove i rappresentanti degli interessi sociali – i lobbisti – fino dalla prima metà del XIX secolo prendevano contatto con i deputati, per rendere note a essi le esigenze e le richieste dei loro mandanti.
Oggi negli Usa il lobbismo, ossia il rappresentare interessi sociali davanti ai parlamentari, è del tutto ufficiale e pubblico. Al contrario, negli ambiti politici continentali, dove la rappresentanza politica si legittima attraverso il bene comune, o la volontà della nazione, il lobbismo – pur diffusissimo – è informale, non ufficiale e non trasparente. Se infatti è in linea di principio ammissibile che un parlamentare venga a contatto con pezzi della società civile, per conoscerne le esigenze, è anche evidente che non può essere il portavoce diretto di interessi particolari, perché il suo compito è precisamente legiferare avendo come obiettivo l’interesse generale. Il passaggio di denaro, poi, dal lobbista al politico, è sempre illecito, e in sospetto di corruzione.
L’esistenza di interessi particolari è strutturale nella società. Questi interessi possono farsi valere sulla scena politica attraverso i partiti, che nei loro programmi fanno riferimento abbastanza chiaro a ceti o a gruppi – anche quando, come avviene oggi, i partiti sono largamente post-ideologici e post-classisti -. Gli interessi, in questa ipotesi, si affacciano sulla scena pubblica attraverso il processo elettorale, i partiti, il parlamento; dove, peraltro, devono sforzarsi di assumere un valore generale, di acquisire una piena legittimità politica attraverso un processo di confronto aperto e pubblico. Quello che gli interessi particolari non possono fare – e dovrebbero in ogni caso non trovare ascolto – è chiedere e ottenere, dal ceto politico, specifiche esenzioni da obblighi, o specifiche conferme di privilegi, o specifiche omissioni di intervento legislativo. In tal modo si assiste a una sorta di ‘trionfo del particolare’, che lede sia l’autonomia della politica sia l’uguaglianza dei cittadini: se la politica è fatta dalle lobbies, infatti, è più che probabile che vincano sempre i più forti, i più ricchi, i più influenti. La lobby dei farmacisti (solo per fare un esempio fra i mille possibili) prevarrà sempre su quella dei pensionati.
Tramontata da molti decenni l’ipotesi corporativa – che consisteva nel dare rilievo pubblico e giuridico agli interessi sociali organizzati, all’interno di uno Stato autoritario -, la crisi del modello liberaldemocratico, che prevede una forte e decisa mediazione dei partiti e del parlamento, porta di fatto l’anticamera a prevalere sulla Camera, la politica di corridoio a sostituire quella dell’aula.
Oggi, così, le lobbies sono più forti e influenti che mai, e hanno abbastanza potere per impedire riforme sgradite agli interessi più forti, o più diffusi, bloccando di fatto la società (e le sue energie) in una miriade di privilegi grandi e piccoli, che non si limitano a danneggiare il cittadino in quanto consumatore ma impoveriscono anche la politica e la sfera pubblica in generale, trasformandola in una giungla in cui vige la legge del più forte e nessuno è vincolato a un orizzonte generale. Questa vittoria del privato sul pubblico, in ogni caso, è frutto di scarsa lungimiranza. Un Paese senza politica, composto da gruppi che si comportano come free rider e tendono a spostare il peso della politica sulle spalle altrui, in un ‘si salvi chi può’ permanente, è infatti intrinsecamente a rischio. E, se crolla, trascina alla rovina anche gli interessi particolari delle lobbies oggi trionfanti. E non si salva nessuno.
http://www.repubblica.it/rubriche/la-parola/2011/12/16/news/lobby-26740927/
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