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24 Marzo, 2012
Emilio Carnevali, La Repubblica romana
La Repubblica riguarda tutti i popoli come fratelli: rispetta ogni nazionalità: propugna l’italiana.
Articolo IV, Costituzione della Repubblica romana
Il 17 marzo del 1861 Vittorio Emanuele II veniva proclamato re d’Italia. Il compimento dell’unità rappresentava il successo, fino a non molto tempo prima improbabile per quanto sperato, del movimento nazionale; ma suggellava anche la vittoria di una precisa componente del movimento, quella monarchico-sabauda su quella repubblicano-democratica. Anche da un punto di vista simbolico Vittorio Emanuele continuava a chiamarsi “Secondo”, come se nulla fosse mutato rispetto a quando c’era ancora il Regno di Sardegna (qualche decennio prima, per fare un esempio contrario, Ferdinando IV di Borbone era diventato Ferdinando I salendo sul trono del Regno delle Due Sicilie dopo l’unificazione post-Restaurazione dei due regni di Napoli e di Sicilia). La costituzione del nuovo Stato era quella in vigore in Piemonte, lo Statuto albertino (che dava diritto di voto a circa il 2% della popolazione). Ed infatti la legislatura che si apriva dopo le prime elezioni politiche generali tenutesi il 27 gennaio e il 3 febbraio 1861 era l’ottava, non la prima, come sarebbe stato normale in presenza del “nuovo Parlamento”.
Ci vorrà ancora qualche anno prima che l’ufficialità del nuovo Stato rendesse omaggio anche all’“altro Risorgimento”, quello di Garibaldi e di Mazzini. Una delle date “spartiacque” può essere individuata nel 1896, quando Francesco Crispi inaugurò al Gianicolo la statua equestre di Garibaldi, monumento all’«amico fedele e devoto di Vittorio Emanuele». «In questi due nomi, e in quello di Giuseppe Mazzini», dichiarò l’allora presidente del Consiglio, «si compendia la storia del Risorgimento nazionale». A poche decine di metri dal luogo dove ancora sorge la statua, e da dove si gode una vista mozzafiato sul centro di Roma, c’è anche quella di Anita Garibaldi, opera dello scultore Mario Rutelli (bisnonno dell’ex sindaco). Dalla parte opposta, a Porta San Pancrazio, c’è il piccolo “Museo della Repubblica Romana e della Memoria garibaldina”, dedicato a una delle pagine più intense, drammatiche e commoventi del nostro XIX secolo.
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17 Marzo, 2012
16 marzo 1968, Massacro di My Lai
Il massacro di My Lai [qui raccontato da Alessandro Portelli], conosciuto anche come massacro di Song My, fu un eccidio di civili inermi nella Guerra del Vietnam, quando i soldati statunitensi della Compagnia Charlie agli ordini del tenente William Calley, uccisero oltre 500 civili, perlopiù vecchi, donne, bambini e neonati. La strage, ricordata per la ferocia dei soldati che si abbandonarono allo stupro e alla tortura di molte delle vittime, avvenne il 16 marzo 1968 a My Lai, una delle quattro frazioni raggruppate nei pressi del villaggio di Song My, nella provincia di Quang Ngai a circa 840 chilometri a nord di Saigon.
Come venne riferito da un tenente dell’esercito sudvietnamita ai suoi superiori, si trattò di una rappresaglia decisa dagli americani dopo uno scontro a fuoco con alcuni Viet Cong che erano sfuggiti alla cattura confondendosi tra i contadini.
Il massacro fu fermato dall’equipaggio di un elicottero dell’esercito USA in ricognizione, che atterrò frapponendosi tra i soldati americani e i superstiti vietnamiti. Il pilota, sottufficiale Hugh Thompson Jr., affrontò i capi delle truppe americane minacciandoli di aprire il fuoco su di loro se non si fossero fermati. Mentre due membri dell’equipaggio dell’elicottero – Lawrence Colburn e Glenn Andreotta – puntavano armi pesanti contro i soldati che avevano preso parte alle atrocità, Thompson diresse l’evacuazione del villaggio.
L'”indagine” iniziale su My Lai venne svolta dal comandante dell’11a Brigata, Col. Oran Henderson, su ordine dell’assistente comandante della Divisione Americal (dalla contrazione di America e Caledonia), BG Young. Sei mesi dopo, Tom Glen, un giovane soldato dell’11a (la “Brigata dei macellai”) scrisse una lettera accusando la Divisione Americal (e altre intere unità dell’esercito USA, non dei singoli individui) di ordinaria brutalità nei confronti dei civili vietnamiti; la lettera era dettagliata, le sue accuse terrificanti, e il suo contenuto riecheggiava denunce di altri soldati americani. Colin Powell, all’epoca un giovane Maggiore dell’Esercito, venne incaricato delle investigazioni sul massacro. Powell scrisse:
A diretta refutazione di quanto ritratto, c’è il fatto che le relazioni tra soldati americani e popolazione vietnamita sono eccellenti.
In seguito, la confutazione di Powell sarebbe stata chiamata un atto di “white-washing” (candeggiatura) delle notizie del massacro.
Dopo i crimini contro l’umanità commessi a Falluja e le torture disumanizzanti di Abu Graib, le azioni di Robert Wales e dei suoi commilitoni oggi a Kandahar tengono vivo in noi il ricordo di My Lai.
18 Agosto, 2011
Sandro Moisio, Old England
Qui mira e qui ti specchia,
secol superbo e sciocco,
che […]volti addietro i passi,
del ritornar ti vanti,
e proceder il chiami.Giacomo Leopardi – La ginestra, 1836
Per fortuna questa volta non hanno tirato in ballo i black block. Cameron ha sbraitato contro atti da ritenersi puramente criminali, dimenticando o cercando di far dimenticare i suoi legami con la criminalità d’élite della stampa di Murdoch. Mentre qui da noi i neo-liberisti di destra e di sinistra si sono accontentati di parlare delle gang delle periferie inglesi, sperando in questo modo di ridurre il problema ad una mera questione di ordine pubblico.
Eppure, eppure…
Non è la prima volta nella storia inglese che la mano di gentlemen e ladies trema durante l’ora del tè. Il suono delle vetrine infrante, degli incendi, delle urla di giubilo e degli sghignazzi dei rivoltosi ha già scosso in altri tempi la proverbiale flemma della classe dirigente inglese. E qui non si sta parlando solo delle rivolte studentesche dello scorso inverno o degli scontri di Brixton dei tardi anni settanta, tanto felicemente cantati dai Clash di Joe Strummer.
Agli albori della rivoluzione industriale e nei decenni precedenti si diffusero moti di rivolta che caratterizzarono le grandi città europee da Napoli a Londra. Costituivano una particolare forma di sollevazione sociale che lo storico Eric Hobsbawm non ha esitato a definire, usando una classica espressione inglese, mob poiché una delle più appariscenti caratteristiche del fenomeno era data, appunto, dalla sua estrema mutabilità.
Il fatto che non fossero ispirati a nessuna ideologia in particolare e costituissero dei fenomeni prepolitici, destinati a sparire mano a mano che si andava formando una vera e propria classe operaia industriale, non vuole assolutamente dire che essi non fossero portatori di idee politiche implicite o esplicite. In primo luogo perché questi movimenti chiedevano di essere presi in considerazione e speravano, così facendo, di ottenere qualcosa.
Che la rivolta partita oggi da Tottenham o quella di Los Angeles dei primi anni novanta siano entrambe iniziate a seguito dell’ennesimo episodio di violenza da parte delle forze “del disordine” nei confronti di individui appartenenti ai settori di popolazione o alla periferia più diseredata non fa che confermare il parallelismo tra i fenomeni del XVIII e del XXI secolo.
Se poi, seguendo Hobsbawm, si osserva che a quei tempi “la massa dei poveri delle città, anche in tempi normali, viveva al limite delle necessità di sussistenza, e che ogni aumento dei prezzi o della disoccupazione li precipitava nella catastrofe” e che “assai di frequente le loro sommosse non erano altro che reazioni automatiche e inevitabili a tali mutamenti”, diventa facile interpretare le rivolte odierne alla luce di quelle di allora.
Ma, si sa, la storia del movimento operaio non è più di moda in un mondo in cui vanno per la maggiore misteri, arcani, complotti e simboli perduti. La lotta di classe trionfa sui complotti e unifica le miserie e questo proprio non piace più. Già, lotta di classe anche se i giovani rioter di ogni sesso e razza hanno saccheggiato negozi di telefonia, videogiochi, abbigliamento sportivo e computer.
Perché mica si penserà che nel settecento e nel primo ottocento ad essere assaltati fossero soltano i forni di manzoniana memoria?! Tutt’altro, anzi alcune delle più famose rivolte inglesi passarono sotto il nome di “gin riot”, rivolte del gin, mentre ancora nel 1844 un giovane Federico Engels avrebbe scritto un articolo sui tumulti della birra avvenuti in Baviera nel maggio di quell’anno.
In quell’occasione Engels ebbe modo di sottolineare che dopo quattro giorni di tumulti a Monaco i manifestanti erano riusciti ad ottenere, nonostante la massiccia presenza di soldati e guardie, ciò che volevano ovvero il ritiro dell’aumento della tassazione sulla loro bevanda preferita. Per far questo i lavoratori, sempre secondo la testimonianza engelsiana, si erano riuniti in gran numero, erano sfilati per le strade assaltando gli spacci, rompendo le vetrine, sfasciando i mobili e distruggendo tutto quanto si era trovato a portata di mano.
Ma la rivolta più imponente fu sicuramente quella londinese del giugno 1780, passata alla storia con il nome di “sommossa di Gordon” dal nome del giovane e avventato nobile scozzese che finì col diventarne, suo malgrado, leader virtuale. Per una settimana Londra fu messa letteralmente a ferro e fuoco, mentre orde di manifestanti gioiosamente ubriachi percorrevano le vie della city, giungendo ad incendiare anche le prigioni.
Alle dieci del mattino del 2 giugno 1780 una massa di più di cinquantamila scontenti aveva imboccato le vie di una città che, all’epoca, non contava più di settecentomila abitanti. La gente dei vicoli si mischiava a quella delle officine, furfanti e ladruncoli con artigiani e garzoni; scippatori e ubriaconi con operai ed ex-schiavi neri, che all’epoca già costituivano il sette per cento della popolazione londinese.
Tre giorni più tardi, dopo assedi al Parlamento e disordini di vario genere, la vita economica della più grande città europea si è fermata, mentre la folla ne percorre ancora le strade. L’insurrezione, nata in parte per i privilegi nuovamente concessi ai papisti cattolici, sceglie i suoi bersagli in base ai conti da regolare: ricche dimore da saccheggiare e simboli della schiavitù da demolire.
La sera del 5 giugno centoventi incendi illuminano la città. Il popolo balla in piazza in una luce irreale. Gira a ritmo di gighe e nell’odore del gin e del uisge (wiskey) la promessa di una società libera dalla schiavitù e dai padroni. Mentre altri settemila soldato sono inviati a presidiare la capitale.
Il numero dei morti, in rapporto alle dimensioni della sollevazione è ancora incredibilmente modesto, da una parte e dall’altra della barricata, ma preoccupato di difendere i centri nevralgici del potere economico e amministrativo l’esercito si fortifica spingendo così gli insorti ad armarsi. La sera del 7 giugno la tensione e alle stelle , mentre bande di giovani insorti di entrambi i sessi si mettono a battere tutte le vie dei quartieri popolari al fine di chiamare a raccolta i loro sostenitori.
Un gruppo meglio organizzato si darà come obiettivo la Banca d’Inghilterra, nel tentativo di realizzare un’immensa rapina a mano armata collettiva. Qui respinto dalle truppe schierate e, soprattutto, dall’artiglieria ripiegherà dando l’assalto ad altre tre prigioni. Solo un carcere sui sette presenti a Londra all’epoca resterà in piedi. Successivamente saranno attaccate ancora distillerie e l’impopolare pedaggio del ponte di Blackfriars.
L’esercito riconquista palmo a palmo la città, anche se ancora una volta i rivoltosi, con ingenti perdite, tentano l’assalto alla banca del regno. Alle quattro del mattino Londra è surriscaldata da trecento roghi, mentre i reggimenti provenienti dalle province più lontano iniziano il lavoro della repressione e i più derelitti tra i londinesi non trovano di meglio che darsi allo sciacallaggio tra i corpi degli stessi rivoltosi. Dal giorno successivo l’ordine può tornare, gradualmente, a regnare nella capitale.
E’ inutile farlo notare: al di là del numero di morti, che alla fine fu di centinaia, le rivolte inglesi di ieri e di oggi si assomigliano nelle dinamiche. E così pure rinviano a quella di Monaco che, col successo ottenuto nel respingere le tasse sulla birra, ricorda, comunque, che grazie al riot attuale anche Scotland Yard ha dovuto chiedere scusa per l’immotivata uccisione del giovane Mark Duggan.
Cosa occorre invece sottolineare, in barba ai cantori della modernità e della superiorità del modo di produzione capitalistico, è che le rivolte di oggi tornano a forme pre-capitalistiche, quando non esistevano partiti di classe o sindacati dei lavoratori, proprio perché il capitale e i suoi agenti (di ogni sesso e colore politico) stanno trascinando sempre più le società occidentali verso un passato economico, politico e sociale che si pensava superato per sempre.
Licenziamenti, tagli alla spesa pubblica e all’assistenza, gioco d’azzardo finanziario condotto ai limiti del gore e dello snuff movie; cinismo travestito da liberalismo e neo-liberismo che più che una dottrina economica rinvia sempre più ad una ideologia conservatrice e controrivoluzionaria; guerre odiose e sempre più inutili ed occupazione militare delle metropoli occidentali non potranno far altro che risvegliare demoni antichi agitati da bisogni moderni.
E non basteranno gli strilli contro i black block o contro le gang o contro i juvenile delinquent a bloccare processi di rivolta inevitabili e giustificati. La cancellazione di qualsiasi reale rappresentanza politica e sindacale non lascia, infatti, altra via alla ripresa allargata di una lotta di classe che deve ancora riconoscere i propri obiettivi comuni e riunificarsi su scala internazionale dal regno Unito ad Israele, dalla Spagna alla Grecia e “anche qui da noi da Terzigno a Torino”.
Parafrasando il finale dell’articolo di Engels si potrebbe oggi dire che se il popolo dei diseredati scopre che può dettar legge in fatto di scuse, non tarderà ad accorgersi che può dettar legge anche su questioni più importanti.
(Il presente intervento è debitore nei confronti dei seguenti testi:
E:J Hobsbawm, Il mob cittadino, in I ribelli, Einaudi, Torino 1966
Friedrich Engels, I tumulti della birra in Baviera, in Marx – Engels Opere complete vol.III, Editori Riuniti, Roma 1976
Julius Van Daal, Bello come una prigione che brucia, 415, Torino 1998
Tratto da: http://www.carmillaonline.com/archives/2011/08/003996.html
24 Luglio, 2011
Berliner Mauer
Alcune foto e graffiti del Muro eretto dalla DDR nella notte tra il 12 e il 13 agosto 1961. La costruzione, alta tre metri, circondava e di fatto isolava i quartieri occupati dagli alleati, Berlino Ovest, dividendo la città in due.
Il famoso bacio tra Bresnev (segretario del PCUS) e Honecker (segretario del Partito Comunista della DDR; a destra di chi guarda). L’effetto orrido è ottenuto dall’artista mediante la rappresentazione di un gesto comune tra i russi (il bacio tra uomini come espressione di cordialità) portato fuori contesto, cioè imposto a un tedesco (popolo in cui questa prassi è inesistente).
23 Luglio, 2011
Giovanni Passannante: l’attentato, la condanna, la morte
TreccaniChannel pubblica oggi su youtube un video dedicato a Giovanni Passannante, l’anarchico lucano che attentò alla vita di Umberto I di Savoia e fu condannato al carcere a vita in condizioni disumane.
Nato da una poverissima famiglia di braccianti, presto orfano, Giovanni non potè frequentare la scuola e sarebbe rimasto analfabeta come sua madre se uno zio che viveva a Salerno non gli avesse insegnato a leggere e scrivere sulla bibbia e sui discorsi di Mazzini. La storia narra che acquistò il temperino con cui intendeva compiere il suo gesto dimostrativo, definito dal proprietario del negozio che gliel’aveva venduto “buono solo per sbucciare le mele”, barattandolo con la sua giacca.
Il gesto di Passannante suscitò scalpore e profonda commozione per chi leggeva nel tentativo di regicidio la ribellione degli affamati in cerca di giustizia. Giovanni Pascoli, intervenendo a Bologna in una riunione di aderenti ad ambienti socialisti diede pubblica lettura di una sua Ode a Passannante che si afffrettò poi a distruggere. Dell’ode non si conosce nulla, se non il contenuto dei versi conclusivi di cui è stata tramandata la parafrasi: «Con la berretta d’un cuoco faremo una bandiera». Passannante era infatti diventato cuoco a Napoli.
Le condizioni disumane della sua detenzione a Portoferraio in una cella alta 1,40 sotto il livello del mare sono forse l’aspetto più memorabile del dramma di Passannante (da Wikipedia):
Passannante è rimasto seppellito vivo, nella più completa oscurità, in una fetida cella situata al di sotto del livello dell’acqua, e lì, sotto l’azione combinata dell’umidità e delle tenebre, il suo corpo perdette tutti i peli, si scolorì e gonfiò […] il guardiano che lo vigilava a vista aveva avuto l’ordine categorico di non rispondere mai alle sue domande, fossero state anche le più indispensabili e pressanti. Il signor Bertani […] poté scorgere quest’uomo, esile, ridotto pelle e ossa, gonfio, scolorito come la creta, costretto immobile sopra un lurido giaciglio, che emetteva rantoli e sollevava con le mani una grossa catena di 18 chili che non poteva più oltre sopportare a causa della debolezza estrema dei suoi reni. Il disgraziato emetteva di tanto in tanto un grido lacerante che i marinai dell’isola udivano e di cui rimanevano inorriditi.
Sua madre e i suoi fratelli rimasti a Salvia di Lucania furono rastrellati e condotti in manicomio criminale, dove rimasero fino alla morte. Al suo paese fu imposto il nome di “Savoia” di Lucania.
Ecco il ricordo di Ulderico Pesce che si è battutto perchè il cranio e il cervello di Passannante conservati al manicomio criminale di Roma (in ossequio alla fisiognomica criminale e alle teorie sociobiologiche di Cesare Lombroso) fossero sepolti, come è avvenuto finalmente nel 2007:
[youtube=http://www.youtube.com/watch?v=4BlEzG-3Dpw&feature=digest]
1 Luglio, 2011
Rodolfo De Angelis, Una volta non c’era Mussolini, Ma cos’è questa crisi, Bravo ma come parla bene
La discografia degli anni ’30 di Rodolfo De Angelis riassume i topoi più significativi della cultura fascista che una propaganda fatta anche di canzonette attivava e faceva circolare. Così, in Una volta non c’era Mussolini va in scena il disprezzo fascista per la discussione e la negoziazione liberale e il culto del duce decisore.
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23 Giugno, 2011
Ilaria Amato, Chi sono le streghe oggi?
Omeopate, ginecologhe, lifecoach, agronome… sono molte le professioni attualmente in voga che nel Quattrocento avrebbero portato una donna sul rogo. Roberto Borin, autore del libro Viaggio nei borghi delle streghe ricorda quella strage silenziosa tutta al femminile. Tratto da Repubblica del 20 aprile 2011.
Rasate, affamate, torturate e arse vive. La colpa? Una sola: essere streghe. Una vera e propria “pulizia etnica” tra il Quattrocento e il Seicento, costrinse all’estinzione le detentrici di un sapere tutto femminile [la giornalista usa il termine “pulizia etnica” in modo non scientifico, per segnalare che venne colpito il “gruppo” delle donne che possedevano un sapere incompatibile con quelli ufficiali, NOTA DELLA PROF]. I numeri parlano di una cifra non inferiore alle 100mila donne uccise, ma ci sono anche teorie che parlano di dati superiori al milione [in realtà, si ritiene che complessivamente i roghi dell’Inquisizione abbiano ucciso circa un milione di persone, NOTA DELLA PROF]. Il motivo era semplice: quelle che venivano considerate streghe erano donne che si erano tramandate di madre in figlia una conoscenza approfondita delle erbe e dei cicli della natura, del corpo umano e, non da ultimo dei riti pagani pre-cristiani di Iside e Diana. La colpa di queste donne è che non si riconoscevano nell’ufficialità “intoccabile” di scienza e religione e perseguivano vie alternative.
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