In occasione della giornata mondiale contro la violenza sulle donne, La Repubblica pubblica l’intervista ad un ex maschio violento che ha voluto capire e fermare la propria tendenza a (ri)produrre violenza contro le donne della sua famiglia, sua moglie e sua figlia. Lo ha fatto insieme al Centro di Ascolto per uomini Maltrattanti (CAM), per non perdere le persone che dice di amare di più.
Propongo la sua storia ai miei studenti di Scienze umane perché vi trovino l’esperienza di un uomo che ha saputo trovare nella propria umanità le risorse per fermare il mostro che è in noi [per approfondire vedi La psicologia sociale].
In coda all’intervista, il video Dear Daddy: fa’ in modo che nascere femmina non si il più grande pericolo per me. Qui, la puntata di Fahrenheit, Se questo è un uomo del 18 gennaio 2017.
FIRENZE. “Ricordo ancora quella sera: avevo il coltello in mano e gridavo a mia moglie “ora ti ammazzo”. La bambina era lì che ci guardava. Eravamo in cucina, e il terrore nei suoi occhi e in quelli di suo fratello non posso dimenticarlo. Poi la loro paura, quando venivano a dormire da me, dopo la separazione, perché la mia violenza poteva esplodere in ogni momento, ed erano botte, urla, piatti rotti”.
Alessandro ha 50 anni e non si vergogna di piangere. “Erano così piccoli…”. Seduto in una stanza colorata del “Cam” di Firenze, Centro di ascolto per uomini maltrattanti, mentre stringe tra le mani una lettera della figlia come fosse un oggetto prezioso, Alessandro, alto funzionario in una multinazionale, prova a raccontare cosa c’è nella mente (e nel cuore) di un uomo che terrorizza la moglie, i figli, le persone che più dice di amare. Ma anche il suo lento percorso di rinascita, attraverso gli incontri con gli operatori del “Cam”, il più famoso centro in Italia per il recupero dei maschi violenti.
Alessandro, come ha fatto a capire che aveva bisogno di aiuto?
“Ho sempre pensato di essere nel giusto quando picchiavo e umiliavo tutti. Poi l’anno scorso, quando una sera infuriato ho sbattuto mia figlia contro il portone di casa, ho capito che se non fossi cambiato avrei perso per sempre i miei affetti più cari”.
Ma lei perché si comportava così?
“Rabbioso e iracondo sono stato fin da ragazzo. A casa mia volavano piatti e urla. Sono cresciuto sentendo mio padre gridare a mia madre: “Ora ti mollo un ceffone”. Ma non voglio giustificarmi. Io sono un violento e mio fratello no, eppure abbiamo vissuto le stesse cose. Ho sempre reagito in modo sconsiderato. A 11 anni per una punizione spinsi mia madre contro una poltrona, rompendole una costola. Ma il peggio è arrivato quando mi sono sposato”.
Cosa accadeva?
“Tutto doveva essere fatto come decidevo io. Se mia moglie prendeva un’iniziativa, diventavo brutale. Lanciavo oggetti. Sbattevo i pugni sul tavolo. L’ho presa a schiaffi. La svalutavo in continuazione. Proprio come mio padre aveva fatto con mia madre. In casa tutti avevano paura di me”.
E i suoi figli?
“Il mio rimorso più grande. Nemmeno con loro mi tenevo. Una volta, per strada, strattonai in modo così violento mia figlia di due anni che la gente mi voleva fermare. E a mio figlio, oggi adolescente, ho rotto un oggetto in testa perché non faceva bene i compiti. Per anni non mi hanno parlato. Mia moglie mi ha lasciato quando erano piccoli, ma so che era terrorizzata quando venivano a dormire da me”.
Ma lei non chiedeva perdono, non provava a cambiare?
“Avevo dei rimorsi, ma davo la colpa agli altri. Alla mia ex moglie, ai ragazzi che mi facevano arrabbiare”.
Un padre padrone insomma?
“Forse. Come tanti altri uomini “normali” che ho incontrato qui al centro di ascolto. Convinto, anche in quanto maschio, di avere ragione”.
Ha mai pensato di esser capace di compiere un femminicidio?
“Mi sono fermato in tempo… Purtroppo però ogni volta che ho avuto una nuova relazione ho messo in atto comportamenti violenti. Ho avuto una seconda compagna. Era molto gelosa. Una notte l’ho fatta cadere procurandole una contusione al collo. Naturalmente la storia è finita. Ma io dicevo che era colpa sua…”.
Cosa l’ha spinta a venire al “Cam”? E cioè a curarsi finalmente?
“È stata la mia ex moglie. Mi ha fatto capire che i ragazzi non li avrei più rivisti. Il solo pensiero mi faceva impazzire. Qui però noi non usiamo la parola “curare”. La violenza non è una malattia, è un comportamento. Una scelta. Con i gruppi e i percorsi individuali impariamo a riconoscerla dentro di noi, a controllarla, a modificare le reazioni. Ad esempio smettendo di dare la responsabilità agli altri della nostra aggressività. Ma ci vuole uno sforzo continuo”.
E lei si sente al sicuro?
“Ho sempre paura. Noi ex violenti siamo come gli alcolisti. Sempre a rischio di ricaduta. Io ero un persecutore perché volevo avere ragione a tutti i costi. Oggi ascolto gli altri”.
Lei ha in mano una lettera di sua figlia. Cosa la commuove tanto?
“Piango di gioia e di dolore. Me l’ha scritta dopo l’inizio del mio percorso al “Cam”. Racconta la sofferenza che ho causato a lei e al fratello. Ma dice, anche, che mi vuole bene”.
E suo figlio maschio?
“È chiuso, distante. L’ho picchiato e fatto sentire una nullità. Ma da qualche giorno viene a fare i compiti a casa mia. Una gioia incredibile”.
Se i maschi violenti frequentassero questi centri, si potrebbero evitare alcuni femminicidi?
“Sì, ne sono certo. Ho incontrato diversi uomini, qui dentro, che si sono fermati prima di commettere un omicidio”.
Il buongiorno oggi ve lo diamo con questo video realizzato dall'associazione norvegese CARE. A noi piace molto e lo stiamo portando anche nelle scuole, dove sta riscuotendo molto successo. A voi piace? Che ne pensate?
Publié par Associazione Centro Antiviolenza di Parma sur lundi 1 février 2016
Violenza domestica: ciò che solo gli uomini sanno
L’intervista di Alessandra di Pietro, per La Stampa, a Giacomo Grifoni, psicoterapeuta del CAM.
Lo psicoterapeuta Giacomo Grifoni ha 44 e da 8 anni lavora al recupero degli uomini violenti. Lo fa dentro il Cam, Centro ascolto uomini maltrattanti, una sede a Firenze, la prima fondata con la collega Alessandra Pauncz, e altre tre aperte a Ferrara, Olbia, Cremona e Roma. È autore di più testi sul suo lavoro, ma a febbraio ha pubblicato un romanzo largamente ispirato alle tante, troppe, che ogni giorno incontra.
La casa dalle nuvole dentro (AmicoLibro) racconta di Andrea, un padre di famiglia che abita a Firenze e conduce una vita normale. Un giorno i riti della quotidianità saltano: una spirale di tensione e violenza coinvolge la moglie Rebecca e il figlio Luca in uno scenario per loro inedito. L’incontro con uno psicoterapeuta permetterà ad Andrea di guardarsi dentro e poter scegliere che maschio vuole essere.
«L’uomo violento è uno di noi, questo l’ho imparato sul campo: nessuno può tirarsi fuori, può accadere a chiunque» dice Grifoni. Vuol dire che chiunque è un soggetto a rischio? Lo psicoterapeuta continua:
«Parto da me e le racconto che dopo la nascita del primo figlio mia moglie ha perso il lavoro e mi sono sentito addosso la responsabilità di tre vite più un mutuo, avevo paura di non farcela da solo, non mi sentivo all’altezza di questo compito. Capita a molti di ritrovarsi in situazioni impreviste ed estreme e se non hai punti di riferimento interiori forti – l’educazione, i valori, le conoscenze – che ti permettono di tirare dritto fino alla luce in fondo al tunnel, la violenza psicologica o fisica diventa un criterio per gestire lo stress, riportare l’ordine, governare la propria vita».
È una giustificazione?
«Non ne esiste nessuna, ma il mio mestiere è capire che cosa succede e individuare il bandolo da cui partire per ristrutturare una vita e le relazioni che hai distrutto agendo in modo sbagliato. Usando la parola per tirare fuori le emozioni e riconoscerle, imparare a dire che cosa non sopportiamo e che cosa vogliamo, riaggiustando i comportamenti e insegnando alternative». In 8 anni di esperienza, il Cam ha lavorato con centinaia di maschi che volevano smetterla con una vita violenta. Ci sono riusciti? «Non tutti, ma in gran parte sì». Insomma, dal suo punto di vista, nessuno è perduto? «Esatto. Certo, non è facile, né veloce. La violenza domestica è un problema complesso, non c’è un solo modo di agirla ed esistono molteplici dinamiche nella coppia che possono generarla e potenziarla. Lavorando su alcuni processi, è possibile però interromperla e noi al Cam ci concentriamo su un pezzo, che è l’assunzione di responsabilità del maschile».
È vero però che esiste un mondo lì fuori dalla stanza del terapeuta che rafforza stereotipi di machismo e sessismo:
«Solo noi uomini però possiamo opporci e smontarli. Parto sempre da me. Sono cresciuto come la maggior parte degli italiani nella logica della quantità: chi corre più veloce, chi ha più donne, chi diventa più ricco. Un sistema vincolante e stressante che per primo ho dovuto riconoscere e dal quale ho preso le distanza. Talvolta anche allontanando amici e persone. E non sarò mai abbastanza grato al femminismo per il lungo e quotidiano lavoro per combattere il potere patriarcale e la disuguaglianza tra uomo e donna».
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