La teoria della conoscenza e la filosofia politica del fondatore del pensiero liberale.
Indice
1. Il problema della conoscenza tra 600 e 700
1.1 Il razionalismo
1.2 L’empirismo e la critica dell’innatismo
1.3 Il problema della conoscenza per Locke
1.4 La critica all’innatismo e la teoria delle idee
1.5 La critica della metafisica e dell’idea di sostanza
1.6 L’analisi del linguaggio e la concezione della conoscenza
2. Il pensiero politico
2.1 I Due Trattati sul governo civile: lo stato di natura e la fondazione della proprietà privata
2.1.1 L’importanza del pensiero politico lockeano
2.1.2 I due Trattati sul governo
2.1.3 La confutazione delle tesi di Filmer
2.1.4 Lo stato di natura e la fondazione del diritto di proprietà
2.1.5 La spinta naturale all’autoconservazione
2.1.6 La derivazione della proprietà dal lavoro
2.1.7 Le due fasi dello stato di natura e la legittimazione del possesso privato
2.2 Locke teorico dello stato liberale
2.2.1 Socievolezza e insocievolezza secondo Locke
2.2.2 La divisione dei poteri dello Stato
2.2.3 I poteri illegittimi e il diritto alla rivoluzione
1. Il problema della conoscenza tra 600 e 700
Niente è nell’intelletto che non fu già nei sensi.
Tommaso d’Aquino
Il problema del valore della conoscenza, cioè della corrispondenza delle nostre rappresentazioni con la realtà esterna, è il problema specifico della filosofia moderna da Cartesio a Kant.
Tra il seicento e il settecento la questione decisiva diventa la determinazione di quanto, nel processo conoscitivo, derivi dall’esperienza e quanto dall’attività dell’intelletto.
Razionalismo ed empirismo possono essere considerate, al riguardo, le due grandi modalità attraverso cui la filosofia tenta di risolvere la discussione circa l’origine, i limiti e la validità della conoscenza.
1.1 Il razionalismo
Secondo la via inaugurata da Cartesio e proseguita dai neoplatonici di Cambridge e da Leibniz, la conoscenza autentica non può provenire dall’esperienza ma da principi a priori, innati.
1.2 L’empirismo e la critica dell’innatismo
Al contrario, secondo l’atteggiamento empirista, tradizionale della filosofia anglosassone, le sensazioni sono l’unico strumento attraverso cui possiamo sapere qualcosa del mondo esterno (che elaboriamo poi con l’intelletto).
Così, in un clima di serrato confronto con il razionalismo dominante nella cultura continentale, i filosofi anglosassoni tra XVII° e XVIII° secolo (Hobbes, Newton, Locke, Berkley e Hume) sviluppano un’indagine critica sull’intelligenza umana, al fine di dimostrare l’origine empirica delle idee, l’infondatezza dei concetti metafisici di sostanza e di essenza e l’impossibilità della ragione di esprimersi sull’oggettiva costituzione dell’universo.
È chiaro che la critica all’innatismo è in primo luogo radicalmente antiplatonica.
In Platone, infatti, c’è l’idea che esistono idee (forme ideali delle cose che la mente coglie) che non derivano dall’esperienza.
Attaccando le idee platoniche, Locke nega che esistano idee assolute perché ogni idea o deriva dall’esperienza o, come si vedrà, da un combinato di idee semplici.
L’empirismo fa dunque propria una teoria dei poteri limitati della ragione e dell’esperienza come fonte e origine del processo conoscitivo, nonché come criterio di validità delle tesi dell’intelletto che risultano valide solo se suscettibili di controllo empirico.
Mentre, per quanto riguarda il primo aspetto, l’empirismo si riconnette a tutta la tradizione antiinnatistica (a partire da Aristotele), il secondo aspetto, pur presente in Locke, sarà fatto valere in tutta la sua forza e coerenza solo da Hume.
2.1.1 I neoplatonici di Cambridge
Quando Locke inizia la sua riflessione filosofica, i neoplatonici di Cambridge hanno già sviluppato la tesi secondo la quale l’intelletto contiene in sé, innati, i principi del proprio funzionamento, cioè – oltrepassando quindi Cartesio – possiede fin dalla nascita i fondamentali principi conoscitivi e morali atti a guidare il suo comportamento i quali, pertanto, sono impressi nell’intelletto prima di qualsiasi esperienza che rendono, anzi possibile.
Ad esempio, secondo il loro ragionamento, di stretta derivazione platonica, un oggetto verde, non sarebbe percepibile ai sensi se il nostro intelletto non possedesse già l’idea innata del verde: conoscere, in questo senso, è un ri-conoscere, cioè platonicamente, un “ricordare”).
Se non possedessimo idee innate, cioè nozioni proprie a tutti in quanto uomini, l’esperienza sensibile sarebbe l’esperienza di ognuno e non avremmo conoscenze comuni (solipsismo): quell’oggetto verde davanti a me, sarebbe un “per me” e non per noi.
Per Ralph Cudworth, infatti, la conoscenza è una libera attività a priori in cui, platonicamente, l’intelletto applica all’esperienza le essenze universali che gli sono innate. La realtà materiale ci è dunque accessibile perché il nostro intelletto è in grado di cogliere le idee eterne che informano la materia.
Perciò, il lumen naturale è l’eco di Dio in noi, la “candela del Signore” che rischiara le tenebre dell’ignoranza e ci permette di comprendere il mondo.
Per John Norris, invece, nulla di quanto è nell’intelletto proviene dai sensi, perché anche quando crediamo di giudicare sulla base delle semplice sensazione, siamo guidati da principi universali innati, senza i quali il giudizio non avrebbe alcuna validità universale.
Il dibattito tra innatisti ed empiristi
1.3 Il problema della conoscenza per Locke
Nell’Epistola al lettore premessa al Saggio sull’intelletto umano (Essay on Human Understanding), Locke racconta dell’occasione che diede avvio alla sua ricerca sul problema della conoscenza.
Un giorno d’inverno del 1671, nella residenza del conte di Shaftesbury, discutendo con gli amici di argomenti morali e religiosi senza che si trovasse un accordo
«mi venne fatto di pensare – scrive il filosofo – che eravamo su una strada sbagliata; e che prima di impegnarci in ricerche di quel genere, era necessario esaminare le nostre stesse capacità, e vedere quali oggetti siano alla portata della nostra intelligenza e quali invece siano superiori alla nostra comprensione».
La filosofia di Locke si propone, dunque, di indagare i limiti e le possibilità dell’intelletto umano, ovvero di chiedersi prima ancora di conoscere, cosa è possibile sapere e quali ambiti superano questa capacità.
Il primo risultato di questa indagine è contenuto nelle due bozze (draft) chiamati Draft A e Draft B che Locke compone tra l’estate e l’autunno del 1671 e che saranno completati da altri studi fino alla stesura definitiva del Saggio sull’intelletto umano nel 1690.
Nel Draft A si trova la prima formulazione dell’empirismo lockeano. Partendo dal problema dell’estensione della conoscenza umana, il filosofo infatti afferma che la conoscenza deriva dai sensi e che ciò che risulta fuori della nostra esperienza non è conoscibile.
Nel Draft B invece, Locke offre un’interpretazione empirica dei concetti di spazio, tempo e sostanza che svilupperà compiutamente nell’Essay.
Scopo dell’indagine sulla conoscenza di Locke è dunque di
«esaminare l’origine, la certezza e l’estensione della conoscenza umana, nonché i fondamenti e i gradi della credenza, dell’opinione e dell’assenso»,
così da spiegare come il nostro intelletto acquisisce le nozioni che ha delle cose e di stabilire i gradi di certezza della nostra conoscenza, indicando nel contempo come ci si debba accontentare di una «quieta ignoranza» delle cose che risultano al di là della nostra capacità.
1.4 La critica dell’innatismo e la teoria delle idee
L’analisi lockeana dei limiti della conoscenza umana parte dalla critica che esistano nel nostro intelletto principi e idee innati che l’uomo possiede fin dal primo momento della sua esistenza.
Al contrario, per Locke, la mente umana è all’inizio come una tabula rasa, senza idee e senza conoscenza; non contiene alcun elemento a priori e deriva integralmente dall’esperienza.
Nel primo libro del Saggio, l’autore critica la dottrina degli innatisti – come si è detto, il suo bersaglio polemico erano soprattutto i neoplatonici di Cambridge – che ritenevano vi fossero nell’intelletto principi innati sia razionali che pratici condivisi da tutti (l’idea di Dio, le regole morali, il principio di non contraddizione).
Locke mostra al riguardo come non esista alcun consenso universale (cioè un accordo generale) su quelle idee che si pretendono innate: i resoconti dei viaggi riferiscono infatti che i popoli primitivi hanno idee di Dio diverse dalla nostra o ne sono del tutto privi, e hanno diversi sistemi di valori e norme morali.
Ciò mostra come quelle credenze che siamo stati indotti a credere naturali ci siano in realtà state insegnate senza che noi ne abbiamo consapevolezza.
Crederle innate darebbe origine all’illusione dogmatica, fonte del fanatismo e dell’intolleranza, che esse non abbiano bisogno di alcuna dimostrazione razionale.
Lo stesso vale per i principi logici e speculativi che non solo sono sconosciuti ai fanciulli ma, in generale, a tutti quelli che non hanno avuto occasione di apprenderli (il principio di non contraddizione si adotta naturalmente se si è letto e si studia, lo si ignora se non si è utilizzato come hanno mostrato. nel 900 le ricerche di Lurjia).
Al fine di indagare la genesi della conoscenza umana non è dunque utile alcuna teoria innatistica: la mente non ha nulla da pensare se prima l’esperienza non le fornisce le idee sulle quali riflettere e gli elementi del giudizio e dell’azione.
L’esperienza è dunque il fondamento della nostra conoscenza: essa imprime le idee nella nostra mente come su un foglio bianco.
Come già Cartesio, Locke definisce le idee come
«tutto ciò che è oggetto della nostra intelligenza quando pensiamo».
L’esperienza che produce le idee è per il filosofo di due tipi: sensazione e riflessione. La prima è un’esperienza esterna, la seconda interna.
Le sensazioni sono i primi atti di pensiero, poiché la mente è vuota di pensiero prima dell’esperienza, mentre le riflessioni elaborano a partire dalle idee di sensazioni.
Tutta la conoscenza, anche i pensieri più sublimi derivano da queste due fonti, perché come dirà poi Kant,
“senza la sensibilità l’intelletto sarebbe vuoto, ma senza l’intelletto la sensibilità sarebbe cieca”.
Sensi e riflessione producono quelle che Locke chiama idee semplici, cioè le idee che corrispondono a singole qualità degli oggetti esterni, oppure a singoli fatti psichici.
Le idee semplici costituiscono per Locke i materiali della conoscenza. Esse si impongono alla mente umana che non ha né il potere di inventarle né di distruggerle una volta acquisite dall’esperienza. Esse costituiscono dunque il limite oltre il quale la mente umana non può andare.
L’intelletto non è comunque del tutto passivo, esso ha infatti il potere di combinare e comparare le idee semplici, dando vita alle idee complesse. Anche in questo caso, però, poiché le idee complesse sono derivate dalle idee semplici, l’esperienza rimane l’orizzonte invalicabile entro la quale l’uomo esercita le sue facoltà conoscitive.
1.5 La critica della metafisica e dell’idea di sostanza
Le idee complesse di sostanze sono quelle combinazioni di idee semplici (ad esempio, “sfera, arancione, aspra, rugosa”) che rappresentano cose particolari sussistenti per se stesse (ad esempio, “arancia”).
Per Locke tali idee hanno origine dalla consuetudine di vedere alcune qualità costantemente insieme e dalla convinzione conseguente che appartengano a una cosa sola.
Ne segue che assegnamo un certo nome unitario (ad esempio “albero”) a un insieme di qualità sensibili (“sagoma, chioma, altezza”, ecc.).
Le sostanze non sono dunque oggetto della nostra percezione diretta (o della nostra intuizioni razionali, come vogliono i razionalisti), rivolta sempre e solo alle singole qualità ma sono, almeno in parte, il prodotto di una nostra costruzione mentale.
Locke non arriva a sostenere che la sostanza non esiste, ma la definisce piuttosto «un’idea oscura», lasciando intendere che la sostanza delle cose esista ma che in quanto essenza reale delle cose (cioè aristotelicamente, ciò per cui una cosa è ciò che è) essa sia per noi inconoscibile.
Ciò significa che quanto noi intendiamo come sostanza può essere solo un’essenza nominale, cioè una definizione verbale con la quale riuniamo determinate idee semplici che tendono a presentarsi insieme.
1.6 L’analisi del linguaggio e la concezione della conoscenza
Di qui l’attenzione dedicata da Locke alle parole – nel terzo libro dell’Essay. Esse infatti non nominano le cose reali, come potrebbe immaginare l’ingenuità del senso comune, ma quelle collezioni di idee che abbiamo nella nostra mente e chiamiamo “sostanze”.
Nel fare questo, il linguaggio adempie ad uno scopo pratico piuttosto che teorico, favorendo la rapidità della comunicazione perché abbrevia descrizioni che altrimenti sarebbero lunghissime.
Le parole sono dunque segni delle idee di cui gli uomini si servono per ricordare e comunicare i loro pensieri, ma non potendo indicare le cose – le essenze reali delle cose sono inconoscibili, le sostanze sono solo raccolte di idee semplici aggregate intorno ad essenze nominali – sono solo segni dei segni delle cose stesse.
Nel quarto e ultimo libro del Saggio, Locke delinea infine la sua teoria della conoscenza. Se le idee semplici e poi complesse sono i costituenti della conoscenza, essa consiste
nella percezione del legame e della concordanza, o della discordanza o del contrasto, tra le nostre idee quali che siano.
Questa percezione può risultare, cartesianamente, da un’intuizione immediata o da una dimostrazione, ma anche dai sensi.
Ciò che non è cartesiano dell’argomentazione di Locke è invece che la conoscenza non ha per oggetto una res, una cosa o sostanza estesa, ma una rete di relazioni tra termini: la conoscenza comincia, insomma a desostanzializzarsi – il percorso sarà portato a termine da Hume.
Locke distingue la conoscenza in senso proprio, knowledge, che ha un certo grado di evidenza, dall’opinione (opinion) che si basa sulla sola probabilità. Ma ribadisce che la nostra conoscenza non può mai eccedere l’ambito delle idee che possediamo, le quali costituiscono il limite invalicabile del nostro sapere. Sulla vera natura delle cose (essenze) e sulle realtà ultime (Dio, anima e mondo) non resta che confessare la nostra «absolute ignorance».
2. Il pensiero politico
2.1 I Due Trattati sul governo civile: lo stato di natura e la fondazione della proprietà privata
2.1.1 L’importanza del pensiero politico lockeano
Il pensiero politico di Locke si è formato, da un punto di vista strettamente teorico, attraverso un confronto continuo con la filosofia di Hobbes, ma è stato al tempo stesso sollecitato da esperienze vissute in prima persona sulla scena politica e diplomatica inglese.
Anche il Saggio sull’intelletto umano, in qualche modo, è il risultato di un approfondimento scientifico che si è reso necessario nell’ambito di riflessioni sull’uomo e sulla morale.
Fin da giovane Locke dimostrò una forte inclinazione per l’impegno politico: a trentacinque anni divenne segretario di Lord Ashley, futuro conte di Shaftesbury.
Le controverse relazioni del Conte con re Carlo II condussero Locke in Francia e in un secondo momento in Olanda, dove prese parte attiva nell’organizzazione della spedizione di Guglielmo d’Orange in Inghilterra (1688).
Locke era considerato, già dai suoi contemporanei, un punto di riferimento teorico della politica liberale, il cui profilo è ben delineato nei suoi più importanti scritti politici sui temi della libertà religiosa, della tolleranza, della democrazia, del rispetto dei diritti individuali e della proprietà.
Attraverso tali concetti si delinea quello spostamento culturale e politico che va dalla sudditanza (ancora dominante nel pensiero politico di Hobbes) alla cittadinanza che è l’acquisizione specifica della concezione moderna del soggetto da un punto di vista politico. Come ha sottolineato Danilo Zolo,
«II problema della cittadinanza come attribuzione giuridico-formale dello status di cittadino, e cioè di titolare individuale di diritti entro la società politica, è […] un problema moderno, che sorge nell’alveo delle grandi rivoluzioni borghesi e accompagna lo sviluppo del capitalismo industriale.
In questo senso la nozione di cittadinanza si oppone anzitutto a quella di “sudditanza”, per la quale l’individuo non è titolare di alcun diritto nei confronti dell’autorità politica, ma è soltanto destinatario di doveri e comandi. […]
Lo status di cittadino discende dalla rivendicazione borghese della libertà individuale contro lo Stato e, di conseguenza, dal carattere “limitato” del sistema politico, dal suo essere uno Stato costituzionale vincolato da meccanismi di divisione e di controllo del potere» [D. Zolo, La cittadinanza democratica nell’era del postcomunismo, “Discipline Filosofiche”, 1992/2, pp. 16-17].
Anche per questo, le idee politiche di Locke ebbero, senza dubbio, un’influenza non secondaria sulla stesura della Dichiarazione d’indipendenza e della Costituzione degli Stati Uniti d’America.
2.1.2 I due Trattati sul governo
Nel 1679, in Inghilterra, lo scontro politico tra Carlo II e il parlamento accelera il confronto ideologico tra tories e whigs.
Fedeli al tradizionale paternalismo monarchico, i conservatori riesumano un inedito di Robert Filmer, il Patriarcha, ovvero il potere naturale del re.
La mossa suscita la pronta reazione degli intellettuali whigs che con diversi interventi oppongono a Filmer il loro programma politico: il costituzionalismo, la centralità del parlamento, la subordinazione del potere esecutivo al legislativo, il pluralismo religioso. Con lo stesso fine nascono i due Trattati sul governo di Locke.
Benché i due trattati fossero stati elaborati unitariamente, già con le prime traduzioni, il Primo trattato – più legato alla circostanza polemica della pubblicazione del Patriarcha – cominciò ad essere trascurato. Fu una versione ridotta (senza il primo capitolo di raccordo) e modificata ad influenzare il pensiero politico europeo. Il testo fu ben presto definito «l’abc della scienza politica» e venne considerato il manifesto del primo liberalismo inglese.
L’opera infatti contribuì a dar voce, nelle rivoluzioni americana, francese, latinoamericana, sino ai moti indipendentisti d’Irlanda e India, a indirizzi e movimenti miranti a istituire governi costituzionali fondati sul consenso, sui diritti civili e sulla divisione dei poteri.
2.1.3 La confutazione delle tesi di Filmer
Come si è visto, i Trattati vennero scritti in risposta al Patriarcha di Robert Filmer, elaborato tra il 1635 e il 1646 e pubblicato postumo dai sostenitori del partito tory nel 1679.
Sostenitore della dinastia Stuart, dell’assolutismo monarchico, del diritto divino dei re, Filmer respinge il principio dell’uguaglianza e della libertà naturale che attribuisce alla volontà sovrana del popolo il diritto di autodeterminare la forma di governo e di deporre e punire il re.
Contro i liberali, Filmer rivisita la tradizionale visione discendente del potere, cercando di saldare diritto divino e diritto naturale, autorità biblica e autorità naturale.
La tesi del Patriarcha è funzionale a questo disegno. Nessuno nasce libero. La naturale, universale soggezione di ciascuno al padre genera l’universale soggezione all’autorità politica.
L’attribuzione e la trasmissione del potere civile, paterno e maschile, sono di istituzione divina.
Derivando dal potere patriarcale di Adamo, la sovranità regia è posta al riparo da un’origine — il diritto del più forte – potenzialmente destabilizzante; la sua primarietà inoltre, fondata sulla naturale potestas del padre sui figli, la pone al di sopra di tutte le leggi.
Conformemente ai diritti di proprietà e di paternità, la titolarità di questi diritti ereditari passò da Adamo ai patriarchi regnanti sui clan familiari, dai quali discendono a loro volta i re attuali.
Rimasti compatti dopo la dispersione di Babele, quei clan hanno originato le diverse nazioni.
Ai re, padri dei loro popoli, si deve indiscussa obbedienza: come a Dio e al padre. Ribellarsi è dunque contro natura, come lo è ogni forma di contratto, di legittimazione del potere sul consenso e su una delega revocabile.
Re e padri governano secondo la propria volontà, senza farsi condizionare dalle leggi positive, dalla volontà e dal consenso dei propri sottoposti. Il re accentra in sé, indivisi, i tre poteri: legislatore, capo dell’ esecutivo, giudice, egli non incontra limiti né nel parlamento né nelle leggi.
Attribuendo al padre e al sovrano un diritto assoluto di sovranità sui figli e sui sudditi, Filmer mette “ in catene” l’intera umanità. Se nessuno nasce libero, ogni governo sarà una monarchia assoluta e nessuno potrà esprimere dissensi in materia politica.
Il Primo trattato di Locke ripudia l’assolutismo e il dispotismo, ma non esprime un autonomo indirizzo politico. Il libro ha dunque un intento soprattutto confutatorio. Locke oppone a Filmer l’esegesi biblica, l’analisi razionale, il richiamo all’ esperienza.
Egli contesta anzitutto l’autorità monarchica di Adamo. Adamo non ebbe da Dio alcun titolo di sovranità: né una signoria sull’umanità, né un dominio privato sulla terra, la moglie e i figli. Nessun dominio privato è fonte di sovranità.
Per natura gli uomini sono liberi e uguali e hanno diritto di soddisfare i propri bisogni in autonomia e libertà mediante il lavoro. Solo il contratto, il consenso delle parti istituisce la diseguaglianza e l’autorità sulle persone.
Filmer subordina l’autorità materna a quella paterna, la moglie al marito: ma né Dio né la natura sottomettono la donna all’uomo. La generazione non dà ai padri un potere sui figli.
Né i mariti sulle mogli, né i padri sui figli esercitano un potere assoluto. Eguali per natura, uomini e donne, genitori e figli partecipano delle stesse facoltà e poteri, degli stessi diritti e privilegi.
L’ultima parte del Primo trattato liquida il Patriarcha come inservibile.
La tesi di Filmer sarebbe efficace e plausibile se provasse che alla sua morte Adamo trasmise tutto il suo potere a qualcuno, e questi ai diretti discendenti, e che i principi al potere sono i legittimi eredi del potere di Adamo. Filmer invece elude la domanda cruciale: chi ha diritto al governo?
Come ogni teorico del diritto divino, egli predica l’obbedienza verso chi ne ha diritto, ma non sa indicare e provare chi sia legittimamente designato alla sovranità. Se esiste un erede di Adamo, questi sarà uno solo, per linea di progenitura, ma allora tutti i principi della terra, salvo forse uno, perderebbero ogni titolo di legittimità; e chi di loro è l’erede di Adamo?
Non ha senso, perciò, parlare di soggezione e obbedienza senza dire a chi si debba obbedire; e nessuno può sentirsi obbligato a sottomettersi a un potere qualunque. Se non vi è modo di provare chi ha diritto di esercitare il potere monarchico, non si può distinguere un pirata da un principe legittimo.
Filmer, come Hobbes, finisce per legittimare ogni potere di fatto: chi detiene la forza, va obbedito e chiunque sia re, è re legittimo.
2.1.4 Lo stato di natura e la fondazione del diritto di proprietà
«La natura […] profuse a tutti i suoi doni. Perché Dio comandò che tutto si producesse a comune beneficio di tutti e che la terra fosse in certo qual modo comune possesso di tutti. La natura ha dunque generato il diritto comune, l’usurpazione ha generato il diritto privato [Natura igitur ius commune generavit, usurpatio ius fecit privatum].
Sant’Ambrogio, De officiis
«L’erba che il mio cavallo ha mangiato, la zolla che il mio servo ha scavato, il minerale che io ho estratto in un luogo […] diventano mia proprietà […] E’ il lavoro che è stato mio, cioè a dire il rimuovere quelle cose dallo stato comune in cui si trovavano, quello che ha determinato la mia proprietà su di esse».
John Locke, Second Treatise, § 28
Nel Secondo trattato Locke abbandona l’obiettivo confutatorio e tratteggia una compiuta teoria liberale dello stato.
Il testo si articola in quattro grandi sequenze tematiche. La prima descrive lo stato di natura e i diritti umani fondamentali.
Le altre espongono rispettivamente le origini e i fini dello stato civile, il modello istituzionale lockeano, le minacce e le degenerazioni cui le istituzioni sono esposte e le garanzie e difese che i cittadini hanno diritto di prendere.
Come Hobbes nel De cive e Pufendorf nel De iure naturae et gentium, Locke muove dalla descrizione dello stato di natura.
Il suo stato di natura non è pura metafora: ha avuto effettiva storicità e ancora sussiste nelle relazioni tra le comunità indipendenti che non hanno concordato di dar luogo a un solo corpo politico.
Nelle Americhe gruppi di indigeni vivono o vissero privi d’ogni regime politico, liberi e uguali. Allo stato di natura nessuno ha più potere o autorità di altri, nessuno è politicamente inferiore o sottoposto ad altri.
Nei limiti della legge naturale, ognuno è libero di regolare le proprie azioni e di disporre di sé e dei propri beni come meglio crede. L’uguaglianza naturale non implica però una naturale parità di status: età, virtù, capacità, educazione, posizione acquisita, merito, differenziano gli uomini, ma non generano diseguaglianza politica.
2.1.5 La spinta naturale all’autoconservazione
Nei Due trattati sul governo civile, il filosofo accentua, invece, gli aspetti soggettivistici della sua concezione della legge di natura e specificamente dei diritti sui doveri, assumendo il diritto all’autoconservazione e alla ricerca della felicità come cardine dello sviluppo teorico del diritto di proprietà.
«Ammetto che la natura abbia messo, in tutti gli uomini, il desiderio di essere felici e una forte avversione per l’infelicità. Ecco qui dei principi della pratica veracemente innati e che, secondo la destinazione di ogni principio della pratica, hanno un’influenza continua su tutte le nostre azioni.
Possiamo infatti osservarli in ogni sorta di persone, di qualunque età, nelle quali appaiono costantemente e senza discontinuità: ma quelle sono inclinazione del nostro animo verso il bene, e non impressioni di una qualche verità che sia stampata nella nostra intelligenza»
Nello scritto giovanile non datato intitolato Morality e scritto secondo alcuni critici nel 1659, Locke aveva sostenuto l’opinione, riecheggiante Hobbes, che in uno stato di natura descritto come incerto, malsicuro e caratterizzato da penuria, gli uomini avessero uguale diritto su tutto e finissero per stipulare contratti per la definizione della proprietà.
2.1.6 La derivazione della proprietà dal lavoro
Ma dall’idea contrattualistica dell’origine della proprietà Locke si discosta molto presto, avanzando la tesi dell’origine naturale della proprietà come esito dell’appropriazione individuale dell’uomo di beni necessari al sostentamento, resi utilizzabili dal lavoro.
Il primo passo con cui Locke deduce la proprietà privata, è l’affermazione che le cose possono essere utili all’uomo solo dopo che se ne sia precedentemente appropriato.
2.1.7 Le due fasi dello stato di natura e la legittimazione del possesso privato
La questione del passaggio dalla condivisione del possesso dei beni naturali – secondo l’idea, sposata da Locke, del dono indiviso di Dio al genere umano – al possesso individuale [«[…] come gli uomini siano potuti giungere ad avere la proprietà in proporzioni diverse da ciò che Dio ha concesso agli uomini in comune, e ciò senza un contratto espresso tra i membri della sua comunità». [Secondo trattato, par. 25, p. 259] viene risolta dal filosofo con l’individuazione dell’elemento di collegamento tra le due fasi nella proprietà che l’individuo ha di se stesso.
Infatti lavorando, l’uomo toglie le cose dalla loro condizione naturale unendole a sé, come originariamente le sue mani gli appartengono:
«ha congiunto (ad essa) il proprio lavoro, ha cioè unito qualcosa che gli è proprio, e con ciò la rende sua proprietà» [Secondo Trattato, par. 27, pp. 261]
Le limitazioni che Locke individua nel diritto all’appropriazione di beni nello stato di natura che precede l’istituzione della proprietà in un mondo che non conosce il denaro, sono fondamentalmente due: il vincolo d’uso consistente nel divieto di trattenere presso di se più di quanto si possa consumare e l’obbligo di lasciare agli altri uomini beni sufficienti ed altrettanto buoni per il loro sostentamento.
«Colui che raccoglieva quanti frutti selvatici poteva, e uccideva o catturava o domava quanti animali poteva, colui che impiegava la sua fatica intorno a qualcuno dei prodotti spontanei della natura, si da trasformarli dallo stato in cui la natura li aveva posti, con l’introdurvi una parte del proprio lavoro, ne acquistava con ciò la proprietà: ma se essi andavano perduti in suo possesso senza che ne facesse il debito uso, se i frutti marcivano o la cacciagione imputridiva prima che egli la consumasse, egli violava la comune legge di natura, ed era passibile di punizione: invadeva la parte del vicino, perché non aveva diritto oltre a ciò che il suo proprio uso esigeva per alcuna di quelle cose che potevano servire ad offrirgli i comodi della vita» [Secondo Trattato, par. 37, pp. 268].
E’ evidente, per Locke, l’iniquità di un possesso che sottrae beni al godimento altrui improduttivamente e senza alcun vantaggio: esso è senz’altro contrario alla legge di natura e, probabilmente, nella sua irrazionalità, molto raro, come piccole sono le cupidigie (coventouness) degli uomini dell’età primigenia.
«Di quanto si può prima che vada perduto far uso a vantaggio della propria vita, di tanto si può col proprio lavoro istituire la proprietà: tutto ciò che oltrepassa questo limite, eccede la parte di ciascuno e spetta ad altri» [Secondo Trattato, par. 31, p. 263].
Poiché nello stato di natura regna la volontà divina, vale a dire la giustizia, è in questa condizione – la seconda fase dello stato di natura – che Locke introduce il denaro: la moneta infatti permette di superare il problema della deperibilità dei beni e di accumulare non più merci ma il loro equivalente monetario.
Qui, da un lato, Locke non pretende di dichiarare il denaro come eticamente neutro – l’introduzione della moneta segna infatti il passaggio dall’armoniosa condizione originaria al conflittuale mondo storico –, dall’altro aggira il divieto assoluto alla accumulazione cieca dei beni non godibili, legittimando quella proprietà privata moderna che dall’assenza di limiti trae la possibilità stessa della sua conservazione e del suo accrescimento.
«Chi raccoglieva cento staia di ghiande o di mele, ne aveva con ciò stesso la proprietà […] Doveva soltanto badare a servirsene prima che andassero perdute […] e se barattava prugne, che sarebbero marcite in una settimana, con noci che perdurassero buone da mangiare per un anno intero, non faceva ingiustizia […] e ancora, se egli voleva dare le sue noci per un pezzo di metallo attratto dal suo colore o cambiare le sue pecore con conchiglie, o la sua lana con pietre luccicanti o con un diamante […], non violava il diritto altrui, e poteva ammassare quante ne voleva di queste cose durevoli, dal momento che l’eccedere i limiti della giusta proprietà non sta nell’estensione del possesso, ma nel fatto che qualcosa vada in rovina inutilizzata nel possesso di alcuno.
E così siamo giunti all’uso della moneta, cioè a dire di qualcosa di durevole che si può tenere senza che vada perduto, e che per mutuo consenso si può prendere in cambio dei mezzi di sussistenza per la vita che sono utili, si, ma corruttibili» [Secondo trattato, par. 46, p. 175].
E’ in questo modo che, dall’Essay ai Two Treatises, Locke sostituisce il patristico disprezzo dell’utilità con l’apprezzamento sociale dell’utile privato.
Per farlo ha dovuto sacrificare se non entrambi, almeno uno dei due vincoli naturali all’appropriazione individuale.
Infatti, se il vincolo della deperibilità è facilmente aggirato dall’esistenza del denaro, non è così per l’obbligo di curarsi che dei beni naturali resti ancora una parte altrettanto buona e sufficiente per gli altri uomini.
Questo secondo limite è trattato meno estesamente da Locke al quale non sfugge la sua difficile praticabilità nel mondo moderno, ma nemmeno che la povertà nasce insieme alla ricchezza all’uscita dalla prima fase dello stato di natura:
«L’incremento della popolazione e delle scorte, con l’uso della moneta, aveva reso in qualche parte del mondo (…) la terra scarsa [benché in altre parti del mondo] i cui abitanti non si sono uniti con gli altri uomini consentendo a servirsi della loro comune moneta [vi siano ancora vaste estensioni di terreno incolto, ciò non succede] fra quegli uomini che hanno convenuto l’uso della moneta» [Secondo Trattato, par. 45].
2.2 Locke teorico dello stato liberale
2.2.1 Socievolezza e insocievolezza secondo Locke
Il passaggio dallo stato di natura a quello civile non è, per Locke né immediato né automatico.
Inadatto alla solitudine, l’uomo non è predisposto né a una vita sociale del tutto armoniosa, né a una vita solitaria e asociale.
Poiché i tratti dell’uomo naturale coincidono con quelli dell’individuo borghese che Locke aveva ben presente, non esiste nemmeno, nella sua visione, una condizione prepolitica in cui uomini non conoscono egoismo e cooperano in pace e fratellanza (come sarà in Rousseau), né una ferina in cui singoli individui isolati e contrapposti si sovrastano reciprocamente per sopravvivere (Hobbes).
L’uomo è spinto alla vita associata da forti impulsi di necessità, vantaggio e inclinazione.
La prima e più naturale associazione è la società coniugale.
Locke è estraneo all’organicismo medievale: l’istituto familiare, l’attività economica, le opinioni culturali e religiose, i costumi esulano dalle competenze dello stato e non ne tollerano l’invadenza.
Lo stato vigila sulle attività dei singoli ma non le promuove; non educa, né redime o arricchisce i cittadini: nel rispetto delle leggi che regolano la vita civile, l’educazione compete alla famiglia, la salvezza alle chiese, l’entità del reddito all’iniziativa individuale.
2.2.2 La divisione dei poteri dello Stato
In uno stato, l’istituzione del potere legislativo è la prima, fondamentale legge positiva che assicura l’unione della società sotto la guida di persone scelte dal mandato popolare a emanare leggi universalmente vincolanti e rese efficaci dalla forza dello stato.
In quanto potere supremo, il legislativo dà forma e coesione al corpo politico, incarna e custodisce la volontà collettiva, espressa dalla maggioranza, previene lo scollamento tra le autorità dello stato.
La legge divina e naturale e il mandato della società pongono tre limiti al potere legislativo.
Un limite di contenuto: il legislatore emana le leggi in vista del pubblico bene, in particolare della conservazione della specie.
Un limite di competenze: tutto ciò che riguarda lo stato riguarda l’individuo, l’interesse pubblico è interesse di ciascun privato, ma non tutto ciò che riguarda l’individuo è di competenza e rilevanza pubblica. Il campo degli interessi privati è fuori del raggio d’azione dello stato, l’individuo conserva cioè una sua autonomia, rispetto ad esso.
C’è infine, un limite formale: le leggi dovranno essere promulgate in forma costituzionalmente legittima; dovranno essere certe, stabili, uguali per tutti e dovranno essere applicate da giudici noti e imparziali. Leggi emanate da fonti o in forme illegittime non hanno valore e nessun potere di obbligazione.
Il potere supremo è costituito dalla comunità e tutti i poteri sono subordinati al popolo.
Ordinariamente però la comunità non può elevarsi a diretta forma di governo e la sua supremazia è esercitata politicamente come potere popolare solo nel caso eccezionale di dissoluzione del governo.
Una volta istituita la legge costituzionale dello stato, la comunità aliena l’effettivo esercizio della sovranità agli organi di governo e conserva il diritto di salvaguardare se stessa e i diritti naturali dagli abusi di chi esercita i poteri esecutivo e legislativo.
In ogni regime legittimo la designazione di chi deve governare è un aspetto essenziale e necessario quanto la forma di governo, e richiede modalità stabili di designazione, secondo quanto originariamente stabilito dal popolo. Tra il popolo sovrano e i legislatori vige un rapporto fiduciario: il potere politico è esercitato per delega popolare, attraverso il consenso, ed è sempre revocabile se agisce contro la fiducia riposta o trascuri i suoi fini istitutivi. In tal caso l’esercizio della sovranità torna direttamente nelle mani del popolo.
Il legislativo non può prendersi più poteri di quelli conferitigli dal patto istitutivo dello stato, né può trasferire ad altri il potere di legiferare. Solo il popolo può scegliere a chi affidare l’autorità di legiferare.
Privi di poteri sulla vita e i beni del popolo, i legislatori non possono, inoltre, espropriare senza consenso. Il rispetto della proprietà vale senza eccezioni per il privato cittadino come per il magistrato civile. L’imposizione fiscale non contraddice tale principio, poiché uno stato senza risorse non potrebbe esistere. Benché sottragga risorse ai privati, la tassazione è quindi un male necessario che viene risarcito ai cittadini nella forma di un bene più grande.
Il potere esecutivo presiede all’esecuzione delle leggi ed è subordinato al potere legislativo che può revocargli il mandato, se ne ha motivo, punendo gli atti amministrativi non conformi alle leggi.
La divisione dei poteri è la suprema garanzia costituzionale per i diritti del popolo. L’accentramento dei poteri nelle stesse persone sbilancia l’equilibrio tra società civile (cioè i cittadini) e stato a favore dello stato; può spingere chi li detiene a violare la legge costituzionale, a piegare le istituzioni e le leggi a fini privati, a imporre interessi distinti da quelli della comunità e in contrasto col fine della società e del governo. Consente infine al potere esecutivo di sopraffare il legislativo e di prevaricare la volontà popolare.
La separazione del potere giudiziario da quello esecutivo, che negli stati liberali completa l’articolazione del potere, non compare ancora nella versione lockeana dello stato liberale: Locke conclude la sua articolazione con il potere federativo relativo alla politica estera e alla difesa.
2.2.3 I poteri illegittimi e il diritto alla rivoluzione
Conquista, usurpazione, tirannia azzerano lo stato civile e dissolvono le istituzioni politiche; restituiscono dunque al popolo l’esercizio diretto della sovranità.
Se questa restituzione non è possibile in forma pacifica, il popolo ha diritto di ricorrere alla forza per liberarsi dall’oppressore.
Tra i grandi giusnaturalisti, solo Locke riconosce apertamente il diritto di rivoluzione, ossia la resistenza a un potere illegittimo.
A rigore, tuttavia, in Locke non si dà mai “rivoluzione”, quanto restaurazione, reintegro di un precedente stato di diritto legittimo in contrasto con uno stato di fatto illegittimo, imposto con la forza e l’ingiustizia [vedi Rivoluzione e riforma, di Umberto Curi].
Il diritto di resistenza esula però dall’ordinarietà politica. Prima di ricorrere all’arma estrema della rivoluzione, il cittadino dispone di mezzi intermedi, previsti dal sistema di garanzie costituzionali, per impugnare atti illegali di organi dello stato e difendersi dalle prevaricazioni dell’ autorità politica.
La forza va opposta solo alla forza iniqua e illegale, solo se non è possibile ricorrere alla legge, per violazioni del diritto gravi, continuative e su scala collettiva.
La resistenza è legittima e necessaria se atti illegali colpiscono la maggioranza, o se l’oppressione, sia pure di una minoranza, minaccia le leggi e i beni, la libertà, la vita, la religione di ciascuno. Chiude l’opera un appello al giudizio insindacabile della coscienza. Il consenso o dissenso del popolo, il libero e responsabile giudizio di ogni individuo è in ultima istanza il metro per valutare se i poteri dello stato agiscono o meno secondo il mandato ricevuto.
Nella sua riflessione, Locke dedica ampio spazio anche al rapporto tra politica e religione. Si tratta di una relazione complessa, in quanto costituita da due contesti radicalmente differenti – alla politica spetta infatti l’elaborazione delle regole della vita civile, alla religione la sfera intima della vita spirituale – che devono quindi essere reciprocamente autonomi.
«[…] io penso che prima di tutto si debba distinguere l’interesse della società civile e quello della religione, e che si debbano stabilire confini tra la Chiesa e lo Stato. Se non si fa questo, non si può risolvere nessun conflitto tra coloro che hanno effettivamente a cuore, o fanno finta di avere a cuore, la salvezza dell’anima o quella dello Stato» [J. Locke, Sulla tolleranza].
Un atto di scomunica non può dunque avere effetti civili, e non è compito del potere politico occuparsi della vita spirituale dei cittadini. Lo stato non solo non può imporre uno specifico credo, ma deve guardarsi dal perseguitare chi aderisce a una religione diversa da quella dei governanti.
Nella Lettera sulla tolleranza (1689), Locke mostra inoltre come le persecuzioni religiose, oltre che controproducenti, non siano difendibili perché nessuno può vantare una credenza “più vera” di altre. Per questo, lo stato dovrebbe essere laico e tenersi fuori dalle controversie religiose.
Nonostante il suo relativismo, Locke non giustifica l’ateismo, e non include il cattolicesimo tra le fedi da tollerare, poiché, oltre ad essere a sua volta intollerante, questo credo comporta obbedienza al capo di uno stato estero.
La tesi della necessaria intolleranza verso gli intolleranti è sta ripresa nella filosofia contemporanea da altri pensatori liberali tra i quali Karl Popper.
Qui la versione integrale in italiano dei Due trattati sul governo
Qui il sito dedicato alle risorse bibliografiche lockeane.
Esercitazione
«Ammetto che la natura abbia messo, in tutti gli uomini, il desiderio di essere felici e una forte avversione per l’infelicità. Ecco qui dei principi della pratica veracemente innati e che, secondo la destinazione di ogni principio della pratica, hanno un’influenza continua su tutte le nostre azioni. Possiamo infatti osservarli in ogni sorta di persone, di qualunque età, nelle quali appaiono costantemente e senza discontinuità: ma quelle sono inclinazione del nostro animo verso il bene, e non impressioni di una qualche verità che sia stampata nella nostra intelligenza» [Essay, p. 65].
In questo «verace principio della ragion pratica» [l’uomo sente la] «voce di Dio in lui [che] non poteva se non suggerirgli ed assicurargli che perseguendo l’inclinazione naturale di conservare la propria esistenza egli seguiva la volontà del suo creatore» [senza di esso, infatti, questa] «opera così perfetta e meravigliosa perirebbe nuovamente subito dopo una durata di poco tempo».
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- Di quale principio Locke sta parlando
- Quale conseguenza ne trae successivamente.
«Colui che raccoglieva quanti frutti selvatici poteva, e uccideva o catturava o domava quanti animali poteva, colui che impiegava la sua fatica intorno a qualcuno dei prodotti spontanei della natura, si da trasformarli dallo stato in cui la natura li aveva posti, con l’introdurvi una parte del proprio lavoro, ne acquistava con ciò la proprietà: ma se essi andavano perduti in suo possesso senza che ne facesse il debito uso, se i frutti marcivano o la cacciagione imputridiva prima che egli la consumasse, egli violava la comune legge di natura, ed era passibile di punizione: invadeva la parte del vicino, perché non aveva diritto oltre a ciò che il suo proprio uso esigeva per alcuna di quelle cose che potevano servire ad offrirgli i comodi della vita». [Secondo Trattato, par. 37, pp. 268].
Stendi un commento a questo passo, specificando:
1. Quale fase Locke sta descrivendo;
2. Quale tesi sta sostenendo
3. Quali vincoli sta evidenziando e quale via d’uscita proporrà successivamente.
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