Negli ambienti d’apprendimento, come la scuola, si impara in molti modi diversi.
Aspetti consapevoli ed inconsci entrano in gioco nella motivazione, nell’attenzione, nelle convinzioni limitanti, nel rinforzo e in una serie di vincoli e condizionamenti che agiscono attraverso la didattica, la relazione docente-allievo e il clima di classe.
Indice
1. La motivazione ad apprendere
1.1 Le lavagne vuote di Skinner e la motivazione «estrinseca»
1.2 Il disequilibrio cognitivo di Bruner e la motivazione «intrinseca»
1.3 L’autorealizzazione di Maslow
1.3.1 Il desiderio innato di conoscere e la gerarchia dei bisogni
1.3.2 Il paradosso della motivazione: la Legge di Matteo
1.4 La motivazione non è una premessa ma un risultato (non solo individuale, ma del sistema)
1.4.2.1 Il modello svedese
1.4.2.2 Le differenze storiche tra i sistemi educativi svedese e italiano e i punti forza di quello italiano
2. L’analisi dei livelli di aspirazione
2.1 Lo studio di Ferdinand Hoppe su come costruiamo i nostri obiettivi
2.1.1 Susan Harter e il principio di sfida ottimale
2.2 La motivazione al successo e i motivi di chi teme l’insuccesso
3. L’apprendimento negli ambienti d’apprendimento
3.1 L’apprendimento scolastico
3.2 Le difficoltà e i disturbi di apprendimento
4. Il clima di classe e la relazione docente-allievo
4.1 La paura di sbagliare e l’impotenza appresa
4.2 L’effetto Pigmalione
5. I diversi tipi d’apprendimento
5.1 Intelligenza operativa e intelligenza riflessiva
1. La motivazione ad apprendere
«Scegli un lavoro che ami e non dovrai lavorare un solo giorno in vita tua».
Confucio, Massime, VI secolo a. C.
Il primo fattore ad influenzare la qualità e la velocità dell’apprendimento è la motivazione, vale a dire la spinta emotiva a studiare e l’interesse per l’oggetto dell’apprendimento che fanno nascere il desiderio (eros) di impadronirsene.
Nel pensiero occidentale il primo ad affermare che educazione ed apprendimento hanno a che fare con l’eros è stato Platone (V a.C.). Per il filosofo, infatti, l’amore per qualcosa è legato alla percezione di una mancanza che fa nascere il desiderio di possederla.
Recentemente, gli psichiatri Miguel Benasayag e Carl Schmit hanno parlato dell’interesse per il sapere come del«la volontà di sapere e comprendere per abitare il mondo», capace di sconfiggere la tristezza e il vuoto dell’epoca contemporanea [Benasayag, Schmit, L’epoca delle passioni tristi, 2004].
Per i due psichiatri, infatti, la conoscenza è uno strumento di orientamento indispensabile per riconquistare il proprio equilibrio interiore e dare senso al caos contemporaneo.
La psicologia ha interpretato in modo differente la motivazione: per i comportamentisti è legata essenzialmente a gratificazioni esterne, mentre per Bruner e gli psicologi umanisti è il frutto di un bisogno interiore che l’oggetto della motivazione, che si tratti di uno sport, di un hobby o di una disciplina scolastica, soddisfa.
Vediamo le tesi principali.
1.1 Le «lavagne vuote» di Skinner e la motivazione «estrinseca»
Sui fattori e i meccanismi che favoriscono la motivazione sono state elaborate diverse teorie psicologiche.
Per i comportamentisti, il comportamento umano è il risultato di un’interazione semplice, di tipo stimolo-risposta (S-R), della mente con l’ambiente. Di conseguenza, il principale ingrediente della motivazione è il rinforzo, vale a dire, la gratificazione (rinforzo positivo) o l’eliminazione di un disagio (rinforzo negativo).
Il presupposto teorico della scuola colloca infatti il movente dell’azione degli organismi viventi, incluso l’uomo, nel desiderio di evitare il dolore e procurarsi il piacere.
Questi studiosi, tra i quali Burrhus Skinner, suggeriscono quindi agli insegnanti – che vedono più come addestratori che come educatori -, di favorire l’apprendimento attraverso l’incoraggiamento, la lode e ogni altro tipo di gratificazione (rinforzo positivo), ogni volta che l’allievo si comporta nel modo desiderato.
Skinner esclude ogni componente innata della motivazione. Secondo lo psicologo, gli esseri umani iniziano ad esistere come «lavagne vuote» per venire poi modellati da esperienze positive, legate a risposte gratificanti quali lodi, premi e raggiungimento di obiettivi, e negative, cioè connesse a critiche, punizioni e insuccessi.
Scriveva, infatti, John Watson in Behaviourism (1930):
“Datemi una dozzina di bambini di sana e robusta costituzione e un ambiente organizzato secondo miei specifici principi, vi garantisco che sarò in grado di farne un medico, un avvocato, un artista, un imprenditore, un delinquente” (p. 107).
Secondo i comportamentisti, si tratta, dunque, di suscitare una motivazione estrinseca, cioè una spinta all’azione esterna e condizionante, non espressione di bisogni interiori.
Allo sguardo di uno psicologo comportamentista, nessuno quindi nasce con un’inclinazione naturale per la matematica o per la storia; al contrario, l’amore per la matematica o la storia sono l’effetto, per lo più inconsapevole, delle esperienze gratificanti vissute a contatto con queste discipline.
Nel video sottostante, la motivazione estrinseca di Po.
1.2 Il disequilibrio cognitivo di Bruner e la motivazione «intrinseca»
Per i cognitivisti, la mente umana e il suo rapporto con l’ambiente sono decisamente più complessi di quanto ritengano i comportamentisti.
Secondo questo indirizzo di pensiero, la mente lavora come un calcolatore che processa informazioni provenienti dall’esterno (input) e ne produce altre come risultato dell’elaborazione (output).
Conformemente a questo modello, per Jerome Bruner il comportamento umano è determinato dal modo in cui gli individui percepiscono (o elaborano) le cose.
L’orientarsi degli individui in una direzione o in un’altra dipende dalla percezione di un disequilibrio, cioè un rapporto inadeguato con l’ambiente che mette il soggetto in una condizione di disagio (un temporaneo disadattamento) e dal bisogno di superarlo.
A questa tensione, il soggetto risponde attivando processi di apprendimento con i quali circoscrive e minimizza gli aspetti destabilizzanti o introduce cambiamenti che lo conducono a una nuova visione delle cose e a un nuovo equilibrio.
Sul piano scolastico, letteratura, poesia, storia, ma anche la visione del mondo di cui sono portatrici le matematiche o l’educazione fisica, costituiscono una riserva ricchissima di modelli e soluzioni a cui attingere per conquistare equilibri personali sempre più sofisticati e (dunque) stabili.
Amare queste (o altre) discipline è, per i cognitivisti, espressione di una motivazione intrinseca, cioè di un bisogno interiore che i contenuti disciplinari soddisfano.
1.3 L’autorealizzazione di Maslow
1.3.1 Il desiderio innato di conoscere e la gerarchia dei bisogni
Il talento non esiste: è la voglia di fare qualcosa.
Jacques Brel
Come Bruner, anche gli psicologi umanisti mettono in evidenza la presenza, negli individui, di un desiderio innato di apprendere e capire: una concezione, questa, che risale alle origini stesse della nostra civiltà, basti pensare ad Aristotele e, sulla sua scia, Dante.
«Tutti gli uomini, per natura, amano la conoscenza» [Aristotele, Metafisica, I];
«Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza» [Dante, Inferno, XXVI, 18-20].
La psicologia umanistica accentua l’importanza del rapporto con l’ambiente esterno, parlando più che di un disequilibrio interiore che spingerebbe ad apprendere (Bruner), di un bisogno di adeguatezza all’ambiente esterno che spinge l’individuo a diventare più capace di rispondere in modo appropriato alle diverse situazioni della vita.
Per gli psicologi umanisti, la crescita personale, infatti, non avviene in base a stimoli ed esigenze interne al soggetto, ma nel contesto della sua relazione col mondo.
La riflessione principale in questo ambito è quella di Abraham Maslow, secondo il quale l’individuo possiede una motivazione alla crescita che passa per una gerarchia di bisogni, inizialmente fisiologici, che si identificano poi nei bisogni di sicurezza e di appartenenza, quindi di amore e di stima, fino a coincidere con il bisogno di autorealizzazione, di sapere, di giustizia e di bellezza che è proprio della maturità e del raggiungimento della piena umanità della persona.
Secondo Maslow, appena l’individuo ha soddisfatto i bisogni di tipo inferiore (fisiologici, di sicurezza, di appartenenza e di autostima), che sono bisogni da carenza – il soggetto manca, cioè, di qualcosa che lo completi – è in grado di percepire la motivazione a conseguire bisogni superiori e avvertire il desiderio di realizzare se stesso, costruendo un mondo giusto e godendo della sua bellezza.
Sul piano scolastico, ciò significa che gli allievi trovano le migliori condizioni di motivazione allo studio, che li porta appunto sul piano dell’autorealizzazione individuale e della realizzazione di valori collettivi, se hanno già raggiunto la maturità personale, il che come vedremo tra poco è un drammatico paradosso.
Per Maslow, si è in grado di sentire il bisogno di aurorealizzazione e quindi la voglia di sapere, se sono soddisfatti i bisogni fisiologici (cioè se non si fame né sete o non ci si deve porre il problema di procurarsi da mangiare), di sicurezza (se non si deve temere per la propria vita o per le relazioni fondamentali), e di appartenenza e autostima, cioè se si è ben integrati nell’ambiente relazionale e si ha un’immagine positiva di sé, condizione questa non troppo comune durante l’adolescenza.
Una volta soddisfatti i bisogni da carenza, vale a dire, una volta conquistata la maturità cognitiva ed emotiva e colmate le proprie deficienze interiori, sorge spontaneamente, secondo gli psicologici umanisti, l’interesse verso i temi che costituiscono i programmi di studio delle singole discipline.
1.3.2 Il paradosso della motivazione: la Legge di Matteo
Come ha notato il sociologo Robert Merton, la motivazione è, dunque, un sentimento che solo gli individui dal carattere già formato sanno provare, ciò che dà luogo al paradosso che ha chiamato Legge di Matteo (Matthew Law) per il quale, com’è scritto nel Vangelo secondo Matteo:
«a chi ha verrà dato e sarà nell’abbondanza [mentre] a chi non ha verrà tolto anche quello che ha» [Matteo, 13:12].
Secondo Merton, che ha coniato l’espressione Matthew effect (1968), ciò significa che solo coloro che sono già formati (che possiedono se stessi) sono in grado di amare il sapere e desiderare di conoscere (cioè la formazione), mentre quelli che ne avrebbero più bisogno, perché mancano di qualunque educazione (quelli che non hanno se stessi) non sono in grado di motivarsi ad alcuna acquisizione di conoscenza.
A questi individui che, non possedendo alcun sapere, non sono in grado di vedere la realtà – e, di conseguenza, di trovarla interessante -, Gesù parla infatti per esempi e metafore:
«Per questo parlo loro in parabole: perché pur vedendo non vedono, e pur udendo non odono e non comprendono» [Matteo, 13: 13]
Ne segue che l’amore per il sapere (e la capacità di acquisirlo) pur essendo, in una prospettiva umanistica, innato – cioè un bisogno naturale dell’essere umano – ha bisogno di essere conquistato.
Questo perché, come notato ancora da Platone nel Simposio, un essere umano è per natura incompleto, mancante di una parte, che gli è fornita dalla civiltà (la lingua che parla, la visione del mondo che condividerà ecc.) e deve essere dunque appresa attraverso l’educazione.
In questo compito, la scuola è essenziale, anche se ha una capacità di intervento non illimitata, essendo solo una delle agenzie di formazione (tra famiglia, subculture giovanili, media) che intervengono sugli allievi e non l’ambiente educativo nella sua interezza.
Le difficoltà di superare i bisogni da carenza negli studenti, cioè il problema dell’assenza di motivazione e di come stimolarla diventano, quindi, per la scuola una delle questioni principali, perché, come osserva Maslow, i bisogni da mancanza insoddisfatti hanno «un potere fissante e regressivo», in quanto l’attrattiva della sicurezza, della protezione dal dolore, dalla paura, dalla perdita e dalla minaccia si oppongono al bisogno di crescere:
«Ogni essere umano possiede entrambi i gruppi di forze dentro di lui. Un gruppo fa aderire alla sicurezza e alla difesa per paura, tendendo alla regressione, attaccandosi al passato, timorosi di crescere […] timorosi di rischiare, di compromettere ciò che già si possiede, spaventati dall’indipendenza, dalla libertà e dalla separazione. L’altro gruppo di forze spinge in avanti, verso la totalità e l’unicità del sé, verso il completo funzionamento dì tutte le capacità, verso la fiducia di fronte al mondo esterno, così come l’accettazione del sé più profondo, reale, inconscio» [Maslow, Toward a Phychology of Being (Verso una psicologia dell’essere)].
Di questa condizione di incompletezza, di immaturità strutturale dell’essere umano, parlano spesso i testi religiosi.
Nell’Antico Testamento è Giobbe che definisce gli uomini
«incapaci di crescere, di raggiungere l’età matura» [Giobbe, 30:2],
mentre Gesù paragona la superficialità degli esseri umani al suolo roccioso dove non nasce nulla e non si può dunque crescere.
La conquista della motivazione a conoscere coincide quindi, anche in questo contesto, con quella della maturità, con la conquista di se stessi.
1.4 La motivazione non è una premessa, ma un risultato (non solo individuale)
Nessuna delle virtù etiche nasce in noi per natura:
infatti, nulla di ciò che è per natura può assumere abitudini ad essa contrarie […].
Per conseguenza, non è né per natura né contro natura che le virtù nascono in noi,
ma ciò avviene perché per natura siamo atti ad accoglierle,
e ci perfezioniamo, poi, mediante l’abitudine […]
così […] compiendo azioni giuste diventiamo giusti, azioni temperate temperanti, azioni coraggiose coraggiosi.
Ne è conferma ciò che accade nelle città: i legislatori, infatti, rendono buoni i cittadini creando in loro determinate abitudini […]
e coloro che non lo effettuano adeguatamente sono dei falliti;
in questo differisce una costituzione buona da una cattiva.
Aristotele, Etica a Nicomaco, II, 1 1103a-b]
Se, come abbiamo visto, la motivazione al sapere non è qualcosa che nasce con l’individuo, ma qualcosa che diventiamo capaci di far nascere in noi stessi, sorge quindi il problema di come coltivarla.
Infatti, poiché l’individuo immaturo non è capace di motivazione e non riesce ancora ad agire su di sé, è necessario che sia il suo ambiente a sostenerne i percorsi di crescita.
Ciò sposta l’attenzione dal grado di sviluppo personale dell’allievo alla qualità dell’intervento scolastico a sostegno della sua maturazione – cioè come vedremo tra poco nell’approfondimento di pedagogia, dalla prospettiva platonica del Fedro a quella della Repubblica o dell’etica aristotelica della «vita buona».
1.4.2 L’esempio maslowiano della scuola svedese
1.4.2.1 Il modello svedese
I video seguenti, tratti dall’inchiesta di Riccardo Iacona La scuola tagliata (2012), ci permettono di osservare l’organizzazione maslowiana del sistema scolastico svedese.
Con il primo spezzone entriamo nella scuola del quartiere più povero di Stoccolma, dove la direzione ha deciso di fornire agli studenti, per il 70% figli di immigrati, un pasto gratuito prima delle lezioni, anteponendo così al lavoro scolastico la soddisfazione dei loro bisogni alimentari e relazionali.
Il nuovo setting (l’organizzazione dei tempi e spazi scolastici) risponde a necessità che, sulla scala di Maslow, precedono i bisogni di autorealizzazione, aumentando il benessere scolastico e la motivazione personale degli allievi (Video 5 di 6) 5:00-10:21).
Nella diversa organizzazione della scuola italiana, la mancanza di momenti di socializzazione prima della campanella di inizio delle lezioni è causa di gran parte dei ritardi all’ingresso e del relativo sanzionamento da parte del sistema scolastico, mentre la scarsa educazione alimentare di molti studenti, fa sì che tanti di essi entrino a scuola senza aver fatto colazione, con ripercussioni significative sulla loro reattività e capacità di attenzione.
Con la sua organizzazione, la qualità dei suoi spazi e la cura didattica (7:20-8:31), la scuola svedese sostiene una motivazione non legata semplicemente alle inclinazioni o alle propensioni personali, ma al clima scolastico e alla qualità di un ambiente che si fa carico del benessere di tutti i suoi componenti.
I suoi studenti infatti sono motivati [lo studente “che ha il futuro nelle sue mani” 7:56], amano le discipline scientifiche ed hanno un bassissimo tasso di difficoltà (un solo bocciato, racconta il Preside della scuola media, su più di 300 ragazzi), frequentano spontaneamente i corsi di recupero e potenziamento se sentono di averne bisogno e raggiungono facilmente il successo scolastico.
L’intervista al gruppo di ragazzi più bravi in matematica (0:40-10:21).
Il politico spiega i motivi degli investimenti (video 6 1:40-2:44).
La grande differenza di motivazione tra gli studenti italiani e svedesi intervistati nell’inchiesta di Iacona, mostra come la motivazione personale dell’allievo sia dunque non soltanto un effetto del grado di maturità personale raggiunto, ma anche della qualità del sistema scolastico e della scelta implicita di sostenere o meno i percorsi di maturazione degli allievi.
1.4.2.2 Le differenze storiche tra i sistemi educativi svedese e italiano e i punti forza di quello italiano
C’è, però, un altro aspetto che differenzia fortemente l’ambiente educativo svedese e quello italiano.
Si tratta dell’abilità media di lettura (litteracy) dei cittadini italiani e svedesi che vede questi ultimi in notevole vantaggio rispetto a noi e permette alla scuola svedese di operare in un contesto più omogeneo, dove le differenze individuali e le condizioni di svantaggio sono molto meno presenti.
Ciò significa che i ragazzi svedesi riescono, in generale, molto più facilmente negli studi, grazie a competenze diffuse nella società in cui vivono, mentre gli studenti italiani devono colmare, frequentando la scuola, lacune nelle competenze di base.
Questa differenza tra Svezia e Italia e, in generale, tra paesi del Nord Europa e paesi del Sud, ha ragioni storiche.
La Svezia, infatti condivide con gli altri paesi del Nord Europa divenuti protestanti a metà del ‘500, un diverso destino culturale e scolastico rispetto ai paesi rimasti cattolici dell’Europa del Sud.
La teologia protestante esigeva, infatti, che la salvezza dell’anima passasse per un rapporto personale e diretto del fedele con le Sacre Scritture che ciascuno doveva leggere da sé e su cui doveva riflettere in famiglia e nella comunità. Ciò ebbe come conseguenza la nascita delle prime scuole aperte ai poveri di entrambi i sessi e a una estensiva campagna di alfabetizzazione popolare che nel sud Europa iniziò oltre 400 anni più tardi.
Se l’insuccesso scolastico è così raro in Svezia e così drammaticamente presente in Italia si deve quindi anche agli obiettivi molto più ambiziosi che il nostor sistema si pone e che raggiunge con buona parte, ma non con tutti gli studenti.
Posiamo concludere, quindi, che la motivazione non è soltanto una caratteristica personale – acquisita prima di entrare a scuola o addirittura già inscritta nel codice genetico – ma, come tutti i fenomeni relazionali o comunicativi, è sia causa che effetto del successo scolastico, sia a monte che a valle di esso. E’ cioè un fenomeno sistemico non semplicemente individuale.
Oltre agli aspetti relazionali e comunicativi, anche aspetti didattici possono sostenere la motivazione.
Il cervello umano è costantemente alla ricerca di schemi e collegamenti tra aspetti diversi della realtà esterna e tutto questo viene archiviato nella propria rete neuronale che così cresce e si sviluppa.
Quando si sviluppano apprendimenti totalmente nuovi, il cervello crea nuove ramificazioni e connessioni tra i neuroni.
Quando invece si rafforzano apprendimenti precedenti, si ritiene che le connessioni esistenti si rafforzino per mezzo della mielinizzazione dei dendriti, e questo sembra avere effetti sulla memoria e sulla velocità con cui il cervello è in grado di gestire quel dato compito o azione.
Il curricolo scolastico viene generalmente presentato come un insieme di discipline diverse e separate e raramente le nuove informazioni e conoscenze vengono proposte come parti di una rete di saperi e culture precedenti.
In questo modo non si favorisce la crescita di connessioni cerebrali perché le connessioni del mondo esterno vengono nascoste o frammentate.
Al contrario, il modo più efficace di apprendere è quello che lega l’apprendimento a reali eventi della vita scolastica e del mondo esterno, dove nuove informazioni vanno ad aggiungersi e connettersi alle esperienze e conoscenze precedenti.
Chiarita la natura della motivazione allo studio, consideriamo ora il ruolo giocato nella voglia di studiare dal tipo di risultati che l’allievo si prefigge o gli vengono indicati e dai successi (o insuccessi) conseguiti.
2. Il livello di aspirazione e la motivazione al successo
2.1 Lo studio di Ferdinand Hoppe su come costruiamo i nostri obiettivi
La riflessione aperta da Maslow sull’opposizione tra sicurezza e crescita, quindi tra la stagnazione in una condizione rassicurante (di incompletezza) e la motivazione ad apprendere, è stata ripresa da altri psicologi.
Uno di essi, Ferdinand Hoppe, allievo del gestaltista Kurt Lewin, ha prodotto un’analisi del livello di aspirazione (1930), nella quale ha osservato la tendenza a elevare le proprie mete dopo aver riportato successi e ad abbassarle dopo gli insuccessi. Questa dinamica fornisce agli individui una sorta di protezione dall’insuccesso continuato e dall’insoddisfazione per successi troppo facili.
Per uno studente la situazione ideale consisterebbe, dunque, nel mantenere un livello realistico di aspirazioni – anche se non bisogna sottovalutare la spinta propulsiva del coltivare un sogno.
2.1.1 Susan Harter e il principio di sfida ottimale
La didattica dovrebbe, invece, valutare il livello di capacità presente in una classe e fornire agli allievi prove e ambienti d’apprendimento adeguate ad esso, cioè non così facili da non impegnare affatto, né così difficili da scoraggiare l’impegno e demotivarli.
Ne Il diritto di sbagliare (1978, 1982), Susan Harter ha definito questo criterio “principio di sfida ottimale”, intendendo con esso obiettivi scolastici che si collochino a debita distanza tra l’assenza di sfida (noia) e il suo eccesso (ansia) (flow cognitivo).
A questo proposito, ostacoli significativi alla giusta identificazione degli obiettivi scolastici da parte degli insegnanti sono l’eterogeneità degli studenti (esito dell’incapacità del sistema scolastico di ridurre lo svantaggio e le differenze di partenza) e la difficoltà crescente dei diversi gradi di istruzione di conseguire gli obiettivi formativi di ogni grado (in particolare, le competenze di lettura e scrittura).
2.2 La motivazione al successo e gli obiettivi di chi teme l’insuccesso
John Atkinson è, invece, partito dall’osservazione che alcuni individui sono orientati verso il successo, mentre altri temono molto l’insuccesso e ne sono angosciati.
Chi teme fortemente di non farcela, secondo i risultati di esperimenti condotti dallo stesso Atkinson, tende a porsi o obiettivi molto bassi o mete elevatissime, perché se non ha successo nei compiti difficili nessuno può biasimarlo, mentre nei compiti facili è sicuro di riuscire. In generale, secondo questi studi, il bisogno di evitare l’insuccesso è tanto più intenso quanto più numerosi sono stati gli insuccessi passati.
Come ha notato William Glasser, per avere successo nella vita, bisogna aver aver avuto qualche successo prima, da bambini e da ragazzi, in qualche settore importante della propria esistenza. Quel settore importante può essere la scuola o una particolare disciplina scolastica, ma anche uno sport, un hobby, o la vita sociale e di relazione.
Sebbene differenti, la teoria della motivazione di Maslow, quella dei livelli di aspirazione di Hoppe e della motivazione al successo di Atkinson invitano gli insegnanti a dedicare attenzione alla paura dell’insuccesso nel predisporre le esperienze di apprendimento. Entriamo quindi nelle dinamiche scolastiche per esaminare le difficoltà d’apprendimento, la relazione docente-allievo e i diversi tipi di intelligenza che i diversi tipi d’apprendimento sviluppano.
3. L’apprendimento negli ambienti d’apprendimento
3.1 Che cos’è l’apprendimento scolastico
Lev Vygotskij ha dato uno dei contributi maggiori alla comprensione dei processi d’apprendimento in ambito scolastico. È stato infatti lo psicologo sovietico a osservare come lo sviluppo dell’intelligenza non avvenga per effetto di dinamiche esclusivamente interne, ma attraverso l’interazione tra individuo e ambiente.
L’apprendimento è definito da Vygotskij come un cambiamento pervasivo, cioè come un cambiamento qualitativo o di struttura. Imparare, infatti, significa passare da ciò che si è potenzialmente in grado di fare a ciò che si è effettivamente capaci di fare.
Quando un allievo impara, diventa dunque capace di fare cose prima impossibili.
Vygotskij ha descritto questo processo in termini di potenziamento della zona di sviluppo prossimale, lo spazio d’esperienza collocato tra ciò che l’allievo sa fare e ciò che ancora non sa fare. Operando su questa frontiera, vale a dire sul potenziale d’apprendimento, si amplia la zona di sviluppo prossimale, cioè si sviluppa l’intelligenza dell’allievo.
Lo sviluppo dei circuiti cerebrali è infatti legato sia alla programmazione genetica, cioè alle istruzioni contenute nel DNA di ogni individuo, che alle esperienze postnatali. Nel 2007, grazie ai nuovi strumenti di imaging (uno dei quali è la tomografia neuronale), la biologia molecolare ha scoperto e fotografato il meccanismo di sviluppo prossimale, cioè quella plasticità neuronale che permette alle cellule nervose di modificarsi in reazione agli stimoli ambientali.
Le immagini a lato ritraggono, a sinistra dei neuroni inattivi e, a destra, gli stessi neuroni che reagiscono a stimolazioni sensoriali e cognitive. La sequenza fotografica mostra la moltiplicazione dei dendriti durante il processo di apprendimento, cioè la modificazione della struttura biologica dell’imparare durante il processo educativo.
Gli studi più recenti, attestano che la stimolazione educativa ha la capacità di aumentare i dendriti (ramificazioni dei neuroni che ricevono le informazioni e le trasmettono al corpo cellulare del neurone) del 30% (Lucangeli, 2012). In questo processo, l’insegnante svolge la funzione di acceleratore e facilitatore di un catalizzatore chimico, qual è ad esempio il cucchiaino in una tazza di caffè con zucchero. Il gesto di girare il caffè con il cucchiaino, consiste appunto nel rompere con un catalizzatore chimico le molecole di zucchero e di caffè per fonderle insieme. Senza il cucchiaino ad accelerare la fusione tra i due elementi presenti nella tazzina, il caffè si zucchererebbe in 3 anni.
Compito dell’insegnante è soprattutto avvicinare temi e argomenti della propria disciplina alla vita degli studenti, salvando la significatività dei saperi, perché il cervello umano è costantemente alla ricerca di schemi e collegamenti tra aspetti diversi della realtà esterna (cioè alla ricerca di senso) e tutto questo viene archiviato nella propria rete neuronale che così cresce e si sviluppa.
Quando si sviluppano apprendimenti totalmente nuovi, il cervello crea nuove ramificazioni e connessioni tra i neuroni; quando invece si rafforzano apprendimenti precedenti, si ritiene che le connessioni esistenti si rafforzino per mezzo della mielinizzazione dei dendriti, e questo sembra avere effetti sulla memoria e sulla velocità con cui il cervello è in grado di gestire quel dato compito o azione.
Nel modello scolastico in cui attualmente lavoriamo, il curricolo scolastico è presentato come un insieme di discipline diverse e separate e raramente gli insegnanti riescono a connettere i saperi che insegnano con quelli dell’intero curricolo (se sono bravi, evidenziano come le nuove informazioni e conoscenze siano parti di una rete di saperi e culture già presentate agli studenti). In questo modo non si favorisce la crescita di connessioni cerebrali perché le connessioni del mondo esterno vengono nascoste o frammentate. Al contrario, il modo più efficace di apprendere è quello che lega l’apprendimento a reali eventi della vita scolastica e del mondo esterno, dove nuove informazioni vanno ad aggiungersi e connettersi alle esperienze e conoscenze precedenti. Ciò in quanto, i meccanismi di apprendimento sono un insieme integrato di aspetti cognitivi freddi (memoria, problem solving, attenzione ecc.) e caldi (emozioni e credenze).
3.2 Le difficoltà e i disturbi d’apprendimento
Una molteplicità di situazioni contribuisce tuttavia a creare una vasta area di disagio che, Italia, genera una dispersione scolastica del 15,2% (Istat, 2014: ultimo dato disponibile, in miglioramento rispetto ai dati 2012 rappresentati sotto e al 17,6% del 2013), il che significa che uno studente su sei tra 18 e 25 anni non arriva al termine degli studi.
Sull’insuccesso scolastico hanno una forte incidenza le difficoltà e i disturbi d’apprendimento, due problemi diversi, anche se gli allievi che li manifestano hanno le stesse difficoltà a compiere determinate attività, come leggere un testo o eseguire un calcolo, e a fornire specifiche prestazioni, come comprendere un testo o risolvere un problema.
Alle difficoltà d’apprendimento si è cominciato a prestare attenzione, nel nostro paese, nei primi anni ’60, quando la scolarizzazione di una generazione di ragazzi di modesta estrazione sociale (i cui genitori non erano mai andati a scuola), cominciò a segnalare sofferenze e ritardi sugli standard dell’istruzione media inferiore [qui un articolo sulla situazione attuale]. Di disturbi d’apprendimento (DSA) si parla invece solo da alcuni anni, in un dibattito che nel 2010 è sfociato nella Legge 170 sulla dislessia e gli altri disturbi di apprendimento.
La differenza tra disturbi e difficoltà di apprendimento consiste nella natura biologica del disturbo – definito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità «una patogenesi organica geneticamente determinata, espressione di disfunzione cerebrale» – assente nelle difficoltà che hanno, invece, origine psicologica e socio-culturale.
I disturbi d’apprendimento vengono accertati clinicamente, mediante test che misurano le prestazioni intellettuali del soggetto e precisano la causa delle anomalie emerse dall’osservazione degli insegnanti; non esistono infatti prove biologiche per rilevarli. Ciò che i test possono evidenziare sono, ad esempio, un’insufficiente velocità di lettura o la volatilità della memoria a breve termine che rendono indisponibili informazioni necessarie a comprendere un testo, una lezione, un compito. Le stesse anomalie possono però emergere, oltre che a causa di disfunzioni cerebrali, anche di insufficiente stimolazione e attività intellettuale. Il che significa che studenti perfettamente sani possono manifestare gli stessi problemi d’apprendimento dei ragazzi con DSA.
Queste problematiche possono essere affrontate e risolte potenziando il sistema scolastico e garantendo il diritto allo studio.
Infatti, secondo i dati disponibili, lavorando sulla zona di sviluppo prossimale e adottando strategie efficaci di potenziamento, si ottiene l’80% di normalizzazione nell’attività di comprensione del testo.
Restano sotto la norma solo i ragazzi che hanno una resistenza neurobasale, vale a dire i pochi veri dislessici, i quali migliorano ugualmente i propri apprendimenti, pur rimanendo sotto il livello medio di certe prestazioni di base (Lucangeli, 2010).
3.2.1 La paura di sbagliare e l’impotenza appresa
Se ci si domanda perché l’insuccesso scolastico è così alto e tende ad aumentare avanzando nei livelli di studio, la risposta quindi non è biologica, ma legata alla risposta psicologica degli allievi alle sollecitazioni del sistema scolastico.
La scuola impone sempre più strettamente percorsi che costruiscono l’immagine dello studente. Come ha osservato Daniel Goleman,
in un bambino il senso del proprio valore dipende sostanzialmente dal rendimento scolastico. Un ragazzo che fallisce a scuola, comincia ad assumere quegli atteggiamenti controproducenti che possono oscurare le prospettive di tutta la sua vita [Goleman, Intelligenza emotiva].
In particolare la valutazione, quando perseguita ossessivamente, come da alcuni anni si chiede di fare alla scuola, ostacola l’acquisizione degli apprendimenti, determinando il fenomeno dell’impotenza appresa, una sindrome psicologica che blocca i meccanismi neurobiologici dell’apprendimento, inceppandone le normali modalità d’espressione.
L’impotenza appresa, cioè la paura di sbagliare che genera l’incapacità di eseguire bene un compito, è l’unico meccanismo capace di contrastare il normale funzionamento della funzione biologica dell’apprendimento. Ciò in quanto l’imparare è ostacolato da un’altra funzione biologica – quale è appunto la paura – in conflitto con esso.
L’apprendimento è un cambiamento qualitativo, inspiegabile.
4. Il clima di classe e la relazione docente-allievo
Il modo in cui ci trattano le persone importanti determina in larga parte la nostra percezione di noi stessi,
sono queste persone che ci aiutano a comprendere chi siamo.
Carl Rogers
Le relazioni interpersonali determinano, all’interno della classe, la cosiddetta atmosfera socio-emotiva, entro cui si producono i processi di apprendimento.
I fattori che intervengono sulla sua costruzione sono molti, ma l’aspetto su cui occorre mettere l’accento è che il clima di classe è una relazione comunicativa, fondata come tale su meccanismi di reciproco rispecchiamento.
Ciò significa che ogni sentimento provato dai componenti della classe genera, di norma, sentimenti corrispondenti o (per reazione) contrari, e che insegnanti ed allievi tendono a guardare se stessi attraverso i messaggi in arrivo, accettandoli o respingendoli a seconda delle esperienze di successo o di insuccesso già vissute.
Le esperienze d’apprendimento trovano in queste comunicazioni, fatte di messaggi plurimi che si influenzano reciprocamente, gli elementi facilitanti o di disturbo del processo di cambiamento personale in cui consiste la formazione.
In un frammento di Kung Fu Panda – vera e propria allegoria della trasformazione alchemica dell’apprendimento – emerge la complessità relazionale del rapporto dell’allievo con il maestro e con i compagni, fatta a volte di rifiuto e sfiducia, tra sprazzi di consapevolezza e desiderio di cambiamento.
L’aspetto più significativo della sequenza si trova nell’affermazione di Po che ogni segnale di sfiducia del maestro Shifu o dei cinque lo feriva non in se stesso, ma perché lo confermava nel giudizio negativo su di sé con il quale era entrato nella relazione d’apprendimento.
Ciò mostra come la comunicazione di un insegnante non sia mai interpretata dall’allievo come elemento a se stante, ma come l’ultima mossa comunicativa di una lunga serie che si proietta all’indietro lungo tutta la sua vita scolastica e che egli ha incorporato nel proprio giudizio di autostima.
La volontà di cambiare e scoprirsi diverso, oltre alla convinzione che quel maestro, se diventasse il suo – «voi non siete il mio maestro e io non sono il guerriero dragone» -, sarebbe capace di operare il miracolo – vale a dire di insegnargli facendolo diventare un «non me» – è un altro momento significativo.
Intercettare, comprendere e considerare il punto in cui si inserisce ogni volta la comunicazione con l’allievo, costituisce l’ingrediente principale di una didattica di successo.
L’insegnante però non solo comunica sempre in un flusso polifonico, ma spesso non dispone di tempo e autonomia sufficienti per inviare i messaggi più utili. L’aspetto su cui si scarica tutta la complessità di una relazione nella quale ciò che importa è il risultato, ma si è tenuti a valutare le tappe intermedie, è quello della valutazione, con particolare sovraccarico se si tratta di un voto invece di un giudizio – che può essere più articolato.
Il voto è un giudizio che riguarda la (singola) prestazione, ma che gli allievi tendono a inglobare nella percezione della propria adeguatezza o capacità personali.
Per questa ragione, oltre ad avere insufficienti elementi conoscitivi in relazione allo specifico campo del sapere su cui incide la valutazione, gli studenti hanno difficoltà a valutare adeguatamente i propri risultati perché tendono a leggerli attraverso la lente della propria disposizione psicologica: l’allievo con locus d’attribuzione interno sarà incline a dar ragione all’insegnante che gli restituisce un compito insufficiente, trovando conferma in quel giudizio della sfiducia che lui stesso nutre nei propri confronti (ed è questa che detesta, più dell’insegnante che gliela rafforza).
Viceversa, l’allievo con locus d’attribuzione esterno tenderà ad attribuire il proprio insuccesso all’ostilità dell’insegnante, cercando di delegittimare il suo giudizio. Vale anche in questo caso il principio che, quando giudica la valutazione ricevuta dall’insegnante, lo studente tendenzialmente conferma o rimuove il proprio giudizio su di sé, provando sentimenti corrispondenti.
3.2.2 L’effetto pigmalione
Lo scultore greco Pigmalione è noto per aver dato il nome al particolare meccanismo psicologico noto, appunto, come Effetto Pigmalione, che si instaura quando una persona deve relazionarsi con un’altra verso la quale nutre già dei pregiudizi.
- Degli alunni di una scuola elementare furono sottoposti ad un test per il quoziente intellettivo
- Vennero selezionati a caso, senza tener conto dei risultati del test, dei bambini, che furono descritti agli insegnanti come dei piccoli geni.
- Dopo un anno Rosenthal accertò che i bambini selezionati, pur non essendo più dotati, avevano avuto rendimenti scolastici migliori degli altri.
- Il primo soggetto (nel caso Rosenthal, l’insegnante) si comporterà nei confronti dell’altro in modo da confermare i suoi pregiudizi.
- Il secondo soggetto (l’allievo), venendo trattato in un determinato modo, tenderà ad adeguare il suo comportamento all’opinione che l’altro nutre nei suoi confronti.
Dedichiamo ora, le riflessioni conclusive ai diversi tipi di apprendimento e ai diversi tipi di intelligenza che ogni differente apprendimento sviluppa.
5. I diversi tipi d’apprendimento
Per imparare le tabelline, una filastrocca o una sequenza di date ci si può affidare alla memoria meccanica e alla ripetizione. Se invece il materiale da imparare è il pensiero di un filosofo, un teorema matematico o una teoria economica, ragionare su quello che si sta imparando è molto più produttivo che studiare a memoria, anche se inizialmente questo approccio può richiedere un tempo più lungo e risultati non immediati.
Quando si impara a memoria, infatti, si è in qualche modo rassicurati sulla forma che assumerà la futura esposizione, perché nella memorizzazione non entrano elementi personali, alterazioni creative che a volte possono far perdere elementi importanti del contenuto che si sta apprendendo.
Il problema però è che se non si comprende il significato di ciò che studia, se non si ragiona sui concetti, se non inquadra l’argomento e non si cerca di capire le implicazioni di ciò che sta imparando, l’apprendimento, oltre ad essere noioso, è destinato ad essere usato nel solo ambito scolastico, ad essere presto dimenticato in quanto non significativo e a non diventare mai un elemento di formazione personale.
In Learning Theories for Teachers, un testo dedicato agli insegnanti, lo psicologo americano Michael Bigge ha descritto tre diversi livelli di apprendimento.
Il primo livello è quello mnemonico. Chi impara facendo affidamento soltanto sulla memoria può anche, a volte, usare il materiale appreso per risolvere dei problemi; più spesso però la memorizzazione pura e semplice è inefficace non soltanto perché, in mancanza di significati, i fatti si dimenticano più in fretta, ma anche perché nel momento dell’apprendimento l’allievo non opera alcun collegamento con altri apprendimenti precedenti, né provvede a inquadrare e a organizzare il materiale fornendolo di maggiore significato (rielaborazione).
Il secondo livello è quello della comprensione. In questo caso l’allievo, invece di memorizzare soltanto un insieme di fatti o concetti o definizioni, considera dei «rapporti» e quindi arriva a comprendere dei «principi» che gli possono servire per capire altri fatti, concetti e definizioni o per risolvere futuri problemi.
Nell’apprendimento scolastico, è l’insegnante che deve indicare, inizialmente, i rapporti che collegano tra loro i diversi eventi, concetti o teorie. Nel lavoro pomeridiano, l’allievo può passare in rassegna i nessi proposti dal’insegnante e studiare in modo significativo, sebbene ancora non creativo.
Il terzo livello è, infatti, quello della riflessione. La differenza tra il secondo e il terzo livello consiste nel fatto che, mentre per la comprensione l’allievo può essere passivo di fronte all’insegnante che gli indica i principi in base ai quali organizzare l’apprendimento, al livello della riflessione, invece, egli deve «partecipare attivamente» con le sue intuizioni e i suoi ragionamenti affrontando un problema posto dall’insegnante.
Questo tipo di approccio ha il vantaggio di non restare confinato all’ambito scolastico o della classe e di sviluppare il pensiero divergente, cioè lo sviluppo di un pensiero autonomo e originale. I bambini e i ragazzi abituati a riflettere, a cogliere incongruenze logiche e a confrontare posizioni antitetiche, mostrano un incremento di intuizioni utili e creative e tendono a fare uso di queste capacità anche al di fuori dell’ambiente scolastico.
5.1 Intelligenza operativa e intelligenza riflessiva
Da molti anni è in corso un dibattito sull’utilità negli apprendimenti delle nuove tecnologie. In Italia, le politiche di alcuni ministri dell’istruzione si sono legate alla promozione (peraltro non sostenuta dai relativi investimenti) di tecnologie digitali come le LIM (Lavagna Interattiva Multimediale) o i tablet sulla base del presupposto che questi nuovi strumenti potenziassero e velocizzassero l’intelligenza.
Si tratta di un tema molto vasto e controverso, ma è possibile sostenere che un uso standardizzato delle tecnologie digitali abilita, cioè tende a sviluppare, un’intelligenza di tipo operativo piuttosto che che un’intelligenza riflessiva, critica e creativa. Il sociologo Richard Sennett ne ha proposto una lettura in un saggio che prende in esame i problemi emergenti della soggettività contemporanea (il cui titolo originale, reso con l’italiano L’uomo flessibile, suona infatti The Corrosion of Character, 1999) :
«Il fisico Victor Weisskop disse una volta a degli studenti che lavoravano solo con esperimenti al computer [ossia soltanto negli spazi virtuali e non in quelli reali] “Quando mi mostrate un risultato del genere, il computer comprende la risposta, ma non credo che voi la comprendiate”. Come qualunque attività mentale, l’intelligenza nell’impiego delle macchine si sviluppa poco quando è operativa piuttosto che riflessiva o autocritica. L’analista tecnologica Sherry Turkle riferisce di avere intervistato una ragazzina molto intelligente sui modi migliori per giocare con SimCity, un gioco di pianificazione urbana per bambini; una delle regole più importanti era: “aumentare le tasse conduce sempre a una rivolta”. La ragazzina non si chiedeva il motivo per cui l’aumento delle tasse conduce a rivolte, si limitava a sapere che il rispetto di questa regola rendeva il gioco più facile. Nel caso del CAD [Computer Assisted Design, ossia “progettazione assistita dal computer” utilizzato da geometri e architetti] si può disegnare al computer la piccola frazione di un oggetto e vedere quasi subito l’insieme; se ci si chiede che aspetto avrebbe un dato oggetto nel caso fosse ingrandito, rimpicciolito, invertito specularmente o visto da dietro, lo si può sapere premendo un paio di tasti. Ma il programma non è in grado di dire se il prodotto è buono o no» [R. Sennett, L’uomo flessibile, Feltrinelli, pp. 72-73].
Ciò significa che l’uso più comune delle tecnologie, ad esempio quello legato a videogiochi che chiedono di scegliere tra opzioni predefinite o l’impiego di test standardizzati a scuola come i quiz INVALSI, sviluppa alcune competenze a danno di altre, di qui l’insostituibilità della lettura, della discussione, della narrazione (e, nel caso degli INVALSI, la necessità di abbandonare la pratica di un rilevamento parziale e distorcente gli obiettivi formativi complessivi della scuola).
L’intelligenza «operativa» è dunque soltanto un aspetto dell’intelligenza che è necessario curare in ogni sua dimensione, da quella riflessiva e critica alla capacità trasferire un apprendimento da un ambito all’altro o di adattarlo a una situazione nuova.
Boston School of Medicine, Bambini meno intelligenti. Tablet e smartphone ritardano lo sviluppo bambini
A cura di Mariagrazia Ceraso. 16 febbraio 2015.
La notizia arriva dalla Boston University School of Medicine: tablet e smartphone farebbero male ai bambini, ritardandone lo sviluppo delle capacità intellettive e di linguaggio.
A preoccupare i ricercatori è stato l’utilizzo spropositato e precoce di questi dispositivi, soprattutto se adoperati al di fuori dell’ambito educativo (giochi e app non formative) o se utilizzati come sedanti di capricci e pianti ininterrotti. Soprattutto riguardo questo ultimo punto, Jenny Radesky, ricercatore della statunitense Boston University, fa notare che il rischio sarebbe quello di una diminuzione delle capacità di auto-controllo dei bambini, che dovrebbero invece calmarsi da soli. L’intervento del tablet nelle fasi di crisi, impedisce al bambino di controllare le proprie emozioni e sentimenti, portando a coprirli o reprimerli in favore di un momento di distrazione. Tutto ciò sarebbe produttivo nel breve periodo ma nocivo per lo sviluppo intellettivo ed emotivo.
Inoltre, l’aumento delle ore trascorse davanti a questi dispositivi, che spesso sostituiscono efficacemente la presenza dei genitori, diventando delle vere e proprie tate, avrebbe un impatto negativo sui più piccoli, riducendo anche la quantità di tempo trascorsa in compagnia di altri bimbi ed indebolendo i rapporti umani e sociali. Molte maestre inglesi facenti parte dell’associazione insegnanti, hanno notato quanto molti piccoli avrebbero più capacità ed elasticità nello sfogliare tablet e cellulari che non nell’utilizzo delle classiche costruzioni, compromettendo i rapporti umani e l’utilizzo delle dita, eccessivamente stimolate in età puerile.
La fascia d’età più a rischio sarebbe quella al di sotto dei tre anni. Uno studio del Choen Children’s medical Central di New York, ha sottoposto i figli di 63 coppie, mettendoli in contatto con tablet e smartphone già ad 11 mesi. Il risultato è stato che non si è registrato nessun miglioramento dell’apprendimento, piuttosto si è visto peggiorare, a dispetto della convinzione di circa il 60% delle coppie sui soli benefici dell’adoperare le tecnologie. Per questo motivo gli esperti consigliano di tenere i più piccoli lontani da questi dispositivi almeno fino ai due anni e, in seguito, permettere il loro utilizzo solo per circa un’ora al giorno.
Diverso il discorso per tutti i dispositivi e le App educativi. I ricercatori hanno preso in rassegna tutte quelle applicazioni e giochi che avrebbero un ruolo formativo, come ad esempio eBook, applicazioni per imparare a leggere ed altri media interattivi: questi, invece, stimolerebbero l’apprendimento, ma solo e sempre nei bambini in età pre-scolastica o anche più grandi.
La differenza sta nel tipo di utilizzo che si fa della tecnologia. Quindi niente allarmismi: ridurre il tempo di contatto con gli schermi, aumentare l’età del primo “touch” e limitare l’utilizzo alle app educative, potrebbe bastare ai genitori nella tutela dello sviluppo cognitivo e intellettivo dei proprio figli.
L’apprendimento significativo
Esercitazione
Sulla base del lavoro svolto sul tema dell’apprendimento e sui fattori che lo condizionano, analizza il tuo modo di apprendere, evidenziando i fattori che facilitano e quelli che ostacolano il tuo apprendimento. Dopo averli sintetizzati nella tabella sottostante, elabora un commento di 1/2 cartelle in cui riprendi i fattori indicati alla luce di ciò che hai studiato in classe.
Criteri di valutazione
Il lavoro verrà valutato in base alla capacità di argomentare circa i fattori facilitanti e ostacolanti indicati e all’attinenza con quanto studiato sull’argomento, sulla base della griglia allegata.
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