Una rielaborazione didattica della discussione sull’individualismo metodologico tra Dario Antiseri e Luciano Pellicani, in Dario Antiseri, Luciano Pellicani, L’individualismo metodologico. Una polemica sul mestiere dello scienziato sociale, Milano, Franco Angeli, 1992.
Individualismo metodologico vs olismo metodologico: il problema e le sue origini
Secondo l’individualismo metodologico, ai concetti collettivi quali «società», «chiesa», «popolo», non corrisponde alcuna realtà; ciò che esiste davvero sono gli individui che agiscono in base ad idee, con esiti voluti e producendo conseguenze non intenzionali. Sul lato opposto, per l‘olismo metodologico ai concetti di «stato», «nazione», «sistema economico», corrispondono effettive realtà, senza le quali l’individuo non sussisterebbe. E’ la società, infatti, che esiste prima e indipendentemente dagli individui, che li plasma e vigila sui loro comportamenti, imponendo ad essi linguaggio, norme, valori.
La quaestio de universalibus
Questa opposizione, centrale nelle scienze sociali, riattiva l’antica questione degli universali (cioè della realtà dei generi e delle specie) alla quale, nel Medioevo vennero date due risposte contrastanti. Per Roscellino, un nominalista per il quale l’Uomo è un puro nome, i generi e le specie non sono che flatus vocis. Per il realista Guglielmo di Champeaux, invece, i generi e le specie hanno realtà sostanziale, una realtà che si trova in tutti gli individui, i quali si diversificano tra loro solo per qualità accidentali.
Il problema degli universali è dunque il problema del rapporto tra concetti universali e realtà, che ha avuto come soluzioni estreme il nominalismo e il realismo e, tra loro, una serie di prospettive intermedie. Il primo fondamentale problema della filosofia delle scienze sociali è quindi un problema ontologico: stabilire quale realtà corrisponde a concetti come società, nazione, capitalismo [il secondo è poi trovare un metodo adeguato per studiare come queste realtà evolvano].
Come si è visto, per l’olista metodologico questi concetti corrispondono realtà effettive, senza le quali le azioni degli individui resterebbero inspiegabili. Queste entità collettive esistono e sono esterne all’individuo che esse riescono a plasmare. Quel che è necessario comprendere sono i modi di sviluppo di queste realtà collettive e le leggi che le determinano. Ad esempio, per Marx il sistema delle relazioni economiche non è spiegabile in termini di individui, quanto piuttosto in base alle leggi della storia. Per il nominalista, invece, esistono soltanto gli individui, che hanno determinate credenze, in base alle quali compiono determinate azioni. Ne segue che quello che l’olista considera il metodo giusto per lo studio di fenomeni sociali, è per gli individualisti mitologia: una mitologia antropomorfica che attribuisce esistenza reale, vita, volontà, resistenza, ecc. a concetti collettivi come la classe, la nazione, o il sistema economico (von Mises). Fenomeni ed istituzioni sociali sono spiegabili unicamente in termini di individui che hanno assorbito certe idee da altri individui o che hanno prodotto idee nuove in base a cui agire. E le azioni degli individui hanno il più delle volte conseguenze non intenzionali.
Il contrasto che, nelle scienze sociali, oppone realisti e nominalisti, non è un semplice problema teorico. Pone, infatti, il problema politico di decidere se il fine dell’azione pubblica sia costituito dalla società o dall’individuo. Basti pensare alla politica che ha accompagnato i quindici anni della leadership di Margaret Thatcher, il premier britannico che nel 1987 dichiarò appunto in un’intervista «who is society? There is no such thing! ».
La difesa dell’individualismo metodologico
L’individualismo metodologico è nato in ambito economico con le Ricerche sul metodo delle scienze sociali (1882), scritte dall’economista ed epistemologo Karl Menger per affrontare quello che, a suo avviso, era il problema più urgente nel dibattito economico. Dalla prospettiva antipositivistica di Menger, ogni teoria scientifica è parziale e nessuna scienza esatta racchiude in sé la comprensione dell’universale. Per comprendere la sfera economica occorre quindi partire dal concreto interesse individuale.
Nella visione economica mengeriana, ciò che esiste sono risorse scarse e individui alla ricerca della maggior soddisfazione dei loro bisogni e desideri: sono le azioni di questi individui che la teoria economica prende in considerazione. Secondo Menger, ciò che è chiamato «economia sociale» é, infatti, semplicemente, una molteplicità di economie individuali. Chi intende pervenire ad una comprensione teorica dei fenomeni dell’economia sociale deve quindi risalire ai loro veri elementi, cioè alle economie individuali della collettività, e tentare di indagare le leggi secondo le quali l’economia sociale deriva da quelle individuali.
Menger mostrò l’efficacia del metodo individualistico, spiegando la genesi di regole e di istituzioni sociali o come risultato di una volontà di individui diretta ad un fine, oppure quale esito non intenzionale di azioni individuali che miravano ad altro (paradigma dell’azione).
Max Weber è stato il primo a estendere il paradigma mengeriano oltre il campo della sola economia. Il paradigma dell’azione consiste nel principio per cui i fenomeni sociali vanno spiegati in termini di aggregazione di comportamenti di individui e il mutamento sociale va analizzato come il prodotto di un insieme di azioni di singoli che, a loro volta, sono compresi solo se l’osservatore può mettersi al posto dell’attore. Questo può avvenire solo se si tratta di attori individuali, è soltanto ad essi infatti che si possono imputare stati mentali (cioè volontà, desideri, bisogni ..). Per Weber, comprendere un’azione individuale significa procurarsi mezzi di informazione sufficienti per analizzare le motivazioni che hanno ispirato l’azione. Quindi, la sociologia comprendente deve guardare all’individuo singolo e al suo agire come al proprio «atomo».
Weber non intendeva minimamente cancellare dal vocabolario delle scienze sociali i concetti collettivi, ma per l’interpretazione dell’agire le formazioni collettive sono rappresentazioni di qualcosa nella mente di uomini reali. Ciò che era da evitare, insomma, era la concezione sostanzialistica dei concetti collettivi. Il sociologo di Erfurt rifiutò pertanto l’organicismo che spiega l’azione individuale come la fisiologia considererebbe un organo nel funzionamento di un corpo, cioè dal punto di vista della sua conservazione.
Un altro importante individualista metodologico è stato Ludwig von Mises, per il quale tutto ciò che è possibile venire a sapere sui collettivi e sulla società, ci è noto solo studiando le azioni degli individui. L’olismo metodologico era, per von Mises, semplicemente mitologia. Il rifiuto dell’individualismo metodologico implica il presupposto che il comportamento degli uomini sia guidato da alcune forze misteriose non suscettibili di analisi e di descrizione. Ma, notava von Mises, se si capisce che quel che mette in moto l’azione sono idee, allora non si può non ammettere che queste idee originano nelle menti di alcuni individui e vengono trasmesse ad altri individui.
Tra gli studiosi più vicini a noi, il maggior difensore dell’individualismo metodologico è Raymond Boudon, il quale ha riaffermato la validità del paradigma dell’azione e la necessità di ricondurre i fenomeni aggregati ai comportamenti individuali che li compongono, i quali possono essere compresi a patto che si disponga delle informazioni sufficienti sull’ambiente sociale dell’attore. Ciò che Boudon sottolinea è la necessità, per il ricercatore, di concentrarsi sulla presenza degli effetti perversi (cioè inattesi e involontari) della vita sociale, che risultano dalla giustapposizione di comportamenti individuali, senza essere inclusi negli obiettivi perseguiti dagli attori. L’homo sociologicus, osserva Boudon, è un essere mosso da forze sociali esterne; è inintenzionale.
Come si vede in Boudon, l’individualismo metodologico contemporaneo continua a dichiarare inesistenti i concetti collettivi e a rifiutare, conseguentemente, di accettarne la specificità, ma sottolinea l’importanza degli effetti perversi, cioè degli effetti cumulativi delle azioni individuali, i quali si rendono in qualche modo autonomi dai singoli e li condizionano pesantemente.
La critica all’individualismo metodologico
L’approccio contemporaneo dell’individualismo metodologico deve molto al filosofo e sociologo spagnolo José Ortega y Gasset, secondo il quale la società non è che un sistema di usi o, più precisamente, è una comunità di individui assoggettati a un determinato sistema di usi intellettuali, morali, linguistici, religiosi e politici. Ovunque ci si muove ci imbattiamo in un uso che ci obbliga a comportarci in un certo modo, qualunque siano i nostri pensieri. Gli usi sociali non vanno confusi con le convenzioni e i patti. Mentre questi nascono per comune accordo e vigono fino a quando tale accordo esiste, gli usi, quale che sia la loro origine, si impongono senza chiedere il consenso dei singoli individui. Vi sono persino usi irrazionali; un uso sociale può autonomizzarsi al punto da restare in vigore anche quando le ragioni che lo hanno fatto sorgere non esistono più.
Secondo Ortega, la scelta originaria è stata compiuta da un individuo e poi seguita da altri. E’ in base a questo che Comte diceva che «i viventi sono dominati dai morti», nel senso che la struttura normativa entro la quale operano è il risultato storico di quello che le generazioni scomparse hanno pensato, desiderato, sognato, inventato. Se si assume il punto di vista degli individui, la tradizione culturale appare come una cosa che esiste indipendentemente dalla loro volontà e agisce su di essi come una realtà al tempo stesso coattiva e normativa.
E’ proprio questo che sfugge alle teorie individualistiche dell’azione, le quali sono costruite sulla base dell’assunzione che il paradigma dell’homo oeconomicus [cioè dell’individuo che agisce razionalmente, in base al proprio interesse] abbia un potere esplicativo universale. La teoria weberiana, ad esempio, è incapace di percepire il peso causale delle variabili culturali, proprio in quanto assume che esistono solo gli individui e i significati che si attribuiscono alle loro azioni [e alle azioni degli altri, nonché il calcolo dei mezzi più idonei per conseguire gli scopi prefissati].
Nella sociologia comprendente manca la cultura, se per cultura si intende l’insieme dei modi di pensare, di sentire e di agire istituzionalizzati e interiorizzati che regolano la condotta degli attori sociali. In pratica, manca quello che Parsons ha chiamato il sistema istituzionalizzato di valori, al quali gli attori devono seriamente fare riferimento, il quale, pur essendo creato dagli individui, opera su di essi come una forza autonoma e li obbliga a comportarsi in un determinato modo se non vogliono essere puniti per il loro comportamento deviante. In Weber non si trova una teoria della socializzazione, ma senza di essa non si riesce a capire come sia possibile giustificare l’analisi sociologica dell’azione, la quale ha senso solo se il comportamento degli esseri umani non si spiega ricorrendo solo a variabili biologiche e psicologiche, ma anche a variabili culturali.
Ci sono idee, emozioni, norme che agiscono in noi, ma che sono per la maggior parte fili sociali che passano attraverso di noi e che non sono nati in noi, né possono essere detti di nostra proprietà. Sono le eredità del passato ciò che le precedenti generazioni ci hanno trasmesso, depositando nelle nostre coscienze il risultato delle loro esperienze di vita e dei loro esperimenti sociali. Insistere sulla autonomia della tradizione significa che gli individui pensano attraverso schemi mentali che hanno interiorizzato durante il processo di socializzazione. Parsons ha indicato nel mantenimento dello schema latente di valori istituzionalizzati, uno dei problemi funzionali che ogni società deve adeguatamente risolvere, se vuole conservare il suo equilibrio interno e garantire la sua stessa esistenza.
La scoperta di questa realtà è in effetti ciò che ha reso possibile la nascita della sociologia come disciplina distinta sia dalla psicologia che dall’economia, il cui compito istituzionale è quello di analizzare il comportamento degli uomini tenendo presente l’importanza delle variabili culturali. Per la tradizione sociologica non-individualistica l’uomo diventa uomo solo in quanto è plasmato, attraverso la mediazione di altri uomini da una particolare cultura. E’ dalla cultura che si deve partire se si vuole decifrare quello che gli uomini fanno, fermo restando che essi sono esseri bio-psicologici dominati da bisogni e passioni irriducibili. Si tratta dell’approccio adottato da uno degli studi etnografici più celebri della storia dell’antropologia, vale a dire dalla ricerca sui giapponesi condotta da Ruth Benedict nel 1944, nella quale l’antropologa aveva sottolineato come la cultura istituzionalizzata e interiorizzata si fosse trasformata in basic personality. Fra i valori centrali di tale cultura c’era l’onore, concepito in maniera rigida. I giapponesi erano così prigionieri di una scelta culturale (la shame culture) fatta da uomini morti secoli prima.
Ciò dimostra che Durkheim aveva ragione nell’identificare l’oggetto della sociologia nell’insieme dei modi di pensare, di sentire e di agire esterni all’individuo e che si impongono ad essi in virtù del loro potere coattivo.
Il contributo della linguistica alla critica dell’individualismo metodologico
Se si accetta la distinzione proposta da Ferdinand de Saussure fra la langue (il prodotto sociale, arbitrario e convenzionale, della facoltà di linguaggio, un sistema di segni che rende possibile l’esercizio di tale facoltà) e la parole (l’atto linguistico del singolo parlante) emerge che la prima è, nella sua essenza, indipendente dall’individuo, pur essendo comune a tutti e collocata fuori della volontà dei depositari. La lingua si impone agli individui con la costrizione di un uso collettivo. Essa è un sistema anonimo di segni che si combinano secondo leggi impersonali alle quali nessuno può sottrarsi. Ciò significa che l’uomo è un essere irrimediabilmente sociale non solo e non tanto perché vive con altri uomini, ma anche perché la società vive in lui sotto forma di tradizione culturale interiorizzata. E dimostra inoltre che la tradizione culturale, pur non essendo altro che il prodotto dell’agire umano, è una realtà autonoma rispetto agli individui e dotata di una formidabile potenza plasmatrice.
La lingua è una specifica istituzione sociale che per Durkheim è esterna, impersonale, coattiva e normativa. Lingua e ideologia si presentano sulla scena sociale come due cose così strettamente legate che distinguerle è impossibile. Per questo, è stato sostenuto che la lingua e l’ideologia sono la stessa cosa.
George Orwell ha descritto la formidabile carica ideologica che può essere iniettata nel linguaggio. Egli ha capito che il progetto totalitario ha bisogno, per centrare i suoi obiettivi, di un linguaggio strutturato in modo tale da diminuire le possibilità del pensiero. A tal fine, il Newspeech, lingua ufficiale di Oceania, contemplava tre vocabolari, di cui il secondo consisteva in parole che erano state create deliberatamente per scopi politici, vale a dire parole che avevano non solo un significato politico, ma che erano intese a imporre un atteggiamento mentale in una direzione desiderata nella persona che ne faceva uso. Sterilizzando il vocabolario erano stati sterilizzati sia il pensiero che i significati delle relazioni fra gli uomini. Ciò sarebbe difficile da capire se ci si attenesse alla concezione weberiana del linguaggio che contempla significati soggettivamente intesi, non già significati impersonali incorporati nelle sue strutture. Il che costituisce un’ulteriore conferma che l’ottica individualistica è incapace di far vedere che l’individuo è immerso nella cultura e che non è possibile imbattersi in strutture di senso che siano esclusivamente soggettive. In sintesi, tutto ciò che è soggettivo nasce e si sviluppa all’interno di un sistema di forme simboliche, rigorosamente anonimo, manipolando il quale è possibile manipolare la mente degli uomini e impedire persino l’emergere di certi pensieri.
Ciò pone gli individualisti in una situazione imbarazzante. Se si ammette l’esistenza della cultura, allora bisogna riconoscere che non esistono solo gli individui, ma anche i prodotti autonomizzatisi delle loro azioni e interazioni; oppure, se si vuole mantenere la coerenza interna dell’approccio individualistico, occorre negare l’esistenza della cultura. Weber, infatti, non dà una definizione di società per la semplice ragione che non si può definire una realtà che non esiste. Si scopre così che non esiste la società italiana, esistono esclusivamente degli individui che per mera convenzione chiamiamo italiani. Per gli olisti metodologici, invece, gli italiani sono qualcosa di più di un semplice aggregato di individui: sono una comunità morale distinta da altre comunità morali, costituitasi attraverso secolari esperienze di vita condivise dai suoi membri. Tali esperienze hanno contribuito a formare una mentalità collettiva, uno specifico modo di essere, il quale non è un’entità metafisica che pre-esiste agli individui, bensì il precipitato culturale emerso dalla loro storia comune, fatta di cooperazione e di conflitti, di vittorie e di sconfitte. La società italiana è un realtà storica che deve essere animata da un progetto coinvolgente, dalla volontà solidaristica degli individui che la costituiscono di stare insieme per costruire un avvenire comune. Di qui la definizione di Ortega: «una nazione è impresa e tradizione».
Il principio di continuità domina l’esistenza storica delle società, così come la vita degli individui. Friedrich von Hayek, un nominalista estremista, ha riconosciuto che ciò che riconcilia gli individui e li unisce per formare il tessuto comune e duraturo delle società è che essi rispondono alle situazioni particolari in base a regole astratte. La società si trasforma, per Hayek, in un gigantesco mercato, nel quale ci sono individui che perseguono, in concorrenza permanente fra di loro, gli scopi che si sono prefissati e che non sentono imperativi morali di alcun tipo, all’infuori dell’obbligo di rispettare le rules of game. In questo modo, l’unica cosa che ci lega è l’accettazione di determinate regole di comportamento.
Il punto è che questa realtà è emersa solo di recente, con le moderne società industriali, nelle quali i processi di mercatizzazione hanno assunto dimensioni mai registrate in passato. Tutte le società premoderne erano e sono caratterizzate dall’esistenza di scopi comuni e da una forte coesione interna. Questo spiega perché in sociologia il metodo individualistico perde gran parte della sua forza di ricerca e scoperta. L’approccio individualistico è costretto, per dare una parvenza di universale validità dei suoi assunti a sostenere la tesi secondo la quale l’azione umana è sempre razionale. Ma von Mises la contraddice quando afferma che l’economia pianificata, nella misura in cui elimina il mercato, cancella la stessa possibilità di una condotta razionale. Ciò implica infatti che esistano modelli di organizzazione sociale che rendono possibile la razionalizzazione della razionalità strumentale, sia perché incentivano l’efficienza, sia perché hanno strumenti di misurazione della stessa.
Ortega y Gasset è il sostenitore della potenza creativa degli individui e della potenza coattiva-normativa delle istituzioni sociali. Per lui le credenze non sono pensieri che abbiamo, ma sono invenzioni, perciò non sono idee che abbiamo, ma idee che siamo. Delle idee-invenzioni si può dire che le produciamo, che le sosteniamo, le propaghiamo, che combattiamo per esse. Sono idee-istituzioni che troviamo già operanti ed imperanti nel nostro ambiente sociale sotto forma di opinioni condivise acriticamente; idee che hanno perso le qualità proprie delle idee poiché le viviamo inconsciamente e per questo si identificano con la realtà stessa. L’insieme di credenze radicali si chiama ideologia ed è la base spirituale dell’ordine sociale. Essa è una particolare lettura della realtà che è radicali diventata senso comune, in quanto è penetrata, grazie al lavoro delle agenzie di socializzazione, nelle menti degli attori sociali e si è depositata in esse. Le credenze sono vissute inconsciamente e non sono percepite come costrutti del pensiero, come accade alle idee. In effetti, esse sono nate come idee, pensate ed elaborate da questo o da quell’individuo, ma si sono trasformate in credenze collettive, cioè in senso comune. Il senso comune ha di tipico che si impone meccanicamente, senza bisogno che sia sostenuto da chicchessia, poiché tutto ciò che corrisponde al senso comune appare naturale allo sguardo di coloro che vivono all’interno di una determinata ideologia e quindi indiscutibile.
Si obietta che se gli uomini sono prigionieri della tradizione culturale (credenze e valori interiorizzati) e della struttura sociale (ruoli e normae agendi istituzionalizzate) non dovrebbero poter ideare nulla di nuovo. Se si rifiuta l’espediente tipico dell’olismo metodologico, cioè l’attribuzione alla totalità sociale della capacità di mutare se stessa, non resta aperta che la strada dell’individualismo metodologico. Ci si chiede allora se bisogna operare una scelta tra il modello dell’homo sociologicus della tradizione olistica e quello dell’homo oeconomicus della tradizione individualistica. Nel primo caso il soggetto, più che agire, è «agito» dalle istituzioni sociali, nel secondo, sono le istituzioni sociali ad uscire di scena e con esse la stessa legittimità dell’analisi sociologica.
Una delle vie d’uscita dall’opposizione netta tra i due paradigmi è la quella di Ortega y Gasset che spiega il mutamento sociale senza dover ricorrere al potere creatore della società. La coscienza, sostiene Ortega, è sempre un fenomeno individuale, ma essa si sviluppa all’interno di un sistema di usi intellettuali e morali impersonali e anonimi che l’individuo non ha appunto creato e che trova già imperanti nel suo ambiente sociale. Anche per de Saussure, niente entra nella cultura senza essere stato nella fantasia di questo o quell’uomo; tutti gli usi sociali hanno una matrice individuale o inter-individuale. Per Parsons, il sistema comportamentale di ogni attore sociale è una variante unica della cultura e dei suoi particolari modelli di azione.
Per risolvere il problema del mutamento non è sufficiente né la spiegazione basata sul modello a mano invisibile elaborato da Menger né quello elaborato da Mises e Hayek. Se invece si parte da una concezione non-individualistica delle istituzioni e si adotta il metodo comparativo, emerge la variabile decisiva per spiegare i cambiamenti sociali: il controllo che la società ha sull’individuo. Si può parlare di primato delle strutture sugli attori sociali, il che significa che ogni qual volta ci troviamo di fronte ad una innovazione, occorre trovare le condizioni di possibilità che l’hanno resa possibile. In altre parole, non è sufficiente, per spiegare il mutamento sociale, porre al centro dell’analisi i processi creativi: è necessario individuare i fattori strutturali che hanno offerto agli attori sociali la possibilità di allontanarsi dai modi di pensare, di sentire e di agire istituzionalizzati. Perciò la spiegazione psicologica del mutamento sociale è insufficiente poiché prescinde dalla struttura della società che è invece di decisiva importanza.
Certamente non è la struttura sociale che cambia se stessa, come sostengono le sociologie olistiche, ma certamente da essa dipendono le dimensioni delle azioni, le quali se sono particolarmente ridotte, rendono impossibili l’invenzione e l’innovazione. L’insufficienza dell’approccio individualistico risulta chiaramente se si esamina il modo in cui Popper ha cercato di spiegare la genesi della filosofia. Se ci si pone il problema della genesi della filosofia, il primo fattore da spiegare non è, come pensa Popper, l’atteggiamento critico del maestro nei confronti della sua teoria, né la stimolazione della libera discussione tra i suoi discepoli, bensì la perdita della fede e il distacco nei confronti della tradizione. Il secondo fatto di decisiva importanza è l’istituzionalizzazione di un vero e proprio “tribunale della ragione”, di fronte al quale tiene tradotto tutto ciò che, via socializzazione, è stato tramandato di generazione in generazione.
E’ decisivo per spiegare l’essenza del mutamento sociale la totale subordinazione dell’individuo agli imperativi della collettività. Subordinazione che, di regola, é garantita attraverso tre mosse strategiche: a) l’ipersocializzazione; b) l’istituzione di un controllo sociale tendenzialmente totale; c) l’isolamento culturale. Ogni qualvolta si verificano queste tre condizioni, i processi creativi e innovativi sono bloccati per la ragione che lo spazio concesso all’iniziativa individuale è ridotto ai minimi termini. Queste condizioni si verificano spontaneamente nelle società primitive, le quali sono per questo definite società fredde. Le cose cambiano a partire dal momento in cui inizia il processo di differenziazione strutturale che porta alla formazione di società caratterizzate da una complessa e articolata divisione del lavoro, che fa proliferare le subculture dalla formazione delle città, nelle quali il controllo sociale è esteso dalla presenza di flussi di socializzazione differenziati, infine, dalla moltiplicazione dei contatti con altri universi culturali.
La società primitiva cede il passo ad un macrocosmo e la società si mette in movimento lungo una strada di cambiamento e di sviluppo. Inizia il processo di civilizzazione basato sulla dialettica “minoranze creatrici-masse mimetiche”. Nelle culture complesse, o civiltà, la creatività è istituzionalizzata ed è proprio per questo che esse presentano, rispetto alle culture primitive, un superiore dinamismo. Le società primitive sono naturalmente chiuse, le società tradizionali lo sono artificialmente: esse possono preservare il modello di base solo a condizione di proteggerlo; la condizione essenziale perché una società complessa riesca a bloccare le spinte al cambiamento è l’esistenza di un apparato politico fortemente centralizzato capace di sottoporre al suo controllo le variabili strategiche.
Mentre la concezione olistica delle istituzioni appare plausibile con riferimento alle società tradizionali, dove l’individuo e sommerso nel sociale e impossibilitato a fuoriuscire dalla tradizione, la concezione individualistica va bene in riferimento alle società moderne, che si basano sulla istituzionalizzazione dell’azione elettiva, strettamente legata al ruolo centrale che in essa ha il mercato. Nessuna delle due quindi, è in grado di dare ragione delle diverse forme che il rapporto fra individuo e la società può assumere e che di fatto ha assunto. Sono due concezione estremistiche che devono essere messe da parte a favore di una teoria capace di far vedere come e perché certe società sono riuscite ad aprirsi e, aprendosi, a liberare progressivamente l’individuo dalla pretesa della tradizione che non può essere costruita attingendo esclusivamente alle risorse della psicologia e dell’economia (uniche contemplate dagli approcci individualistici), ma deve rivolgersi alla tradizione sociologica non-/ individualistica e, in particolare, al suo teorema fondamentale, il quale fa presente che all’interno di ogni formazione sociale le relazioni inter-individuali erano spontaneamente proprietà emergenti che si autonomizzano e che acquistano un’importanza causale dalla quale non si può prescindere se si vuole spiegare il modo con cui gli uomini pensano e agiscono e se si vuole capire perché solo alcune società’ hanno potuto incamminarsi lungo la via della modernizzazione.
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