Un profilo di Marx quale classico del pensiero sociologico (un testo più ampio è disponibile qui).
Indice
1. L’orazione funebre di Engels
2. Il contesto europeo
3. La critica dell’economia politica e l’analisi del lavoro alienato
4. Il Manifesto del Partito Comunista
5. La concezione materialistica della storia
6. Il Capitale e gli scritti londinesi
6.1 L’analisi della merce. Valore d’uso e valore di scambio
6.2 Il mercato del lavoro e l’accumulazione originaria
6.3 La caduta tendenziale del saggio di profitto e la natura strutturale della crisi nell’economia capitalista
6.4 La transizione al comunismo
7. La tomba di Marx ad Highgate
1. L’orazione funebre di Engels
«Il 14 marzo, alle due e quarantacinque pomeridiane, ha cessato di pensare la più grande mente dell’epoca nostra […]. Non è possibile misurare la gravità della perdita che questa morte rappresenta per il proletariato militante d’Europa e d’America, nonché per la scienza storica. Non si tarderà a sentire il vuoto lasciato dalla scomparsa di questo titano.
Così come Darwin ha scoperto la legge dello sviluppo della natura organica, Marx ha scoperto la legge dello sviluppo della storia umana […]. Ma non è tutto. Marx ha anche scoperto la legge peculiare dello sviluppo del moderno modo di produzione capitalistico e della società borghese da esso generata. La scoperta del plusvalore ha subitamente gettato un fascio di luce nell’oscurità in cui brancolavano prima, in tutte le loro ricerche, tanto gli economisti classici che i critici socialisti.
[…] Tale era lo scienziato. Ma lo scienziato non era neppure la metà di Marx. Per lui la scienza era una forza motrice della storia, una forza rivoluzionaria. Per quanto grande fosse la gioia che gli dava ogni scoperta in una qualunque disciplina teorica, e di cui non si vedeva forse ancora l’applicazione pratica, una gioia ben diversa gli dava ogni innovazione che determinasse un cambiamento rivoluzionario immediato nell’industria e, in generale, nello sviluppo storico […].
Perché Marx era prima di tutto un rivoluzionario. Contribuire in un modo o nell’altro all’abbattimento della società capitalistica e delle istituzioni statali che essa ha creato, contribuire all’emancipazione del proletariato moderno al quale egli, per primo, aveva dato la coscienza delle condizioni della propria situazione e dei propri bisogni, la coscienza delle condizioni della propria liberazione: questa era la sua reale vocazione. La lotta era il suo elemento. Ed ha combattuto con una passione, con una tenacia e con un successo come pochi hanno combattuto […].
Marx era perciò l’uomo più odiato e calunniato del suo tempo. I governi, assoluti e repubblicani, lo espulsero, i borghesi, conservatori e democratici radicali, lo coprirono a gara di calunnie. Egli sdegnò tutte queste miserie, non prestò loro nessuna attenzione e non rispose se non in caso di estrema necessità. E’ morto venerato, amato, rimpianto da milioni di compagni di lavoro rivoluzionari in Europa e in America, dalle miniere siberiane sino alla California. E posso aggiungere, senza timore: poteva avere molti avversari, ma nessun nemico personale. Il suo nome vivrà nei secoli e così la sua opera» [Friedrich Engels, Orazione funebre, 17 marzo 1883 – Cimitero di Highgate].
Come emerge dal discorso funebre pronunciato da Engels davanti a sole undici persone – «incluso il becchino», come commentò ironicamente un cronista – Marx ebbe un destino unico nella storia del pensiero.
La sua fu infatti una vita dedicata alla realizzazione del progetto politico contenuto nella sua filosofia. Ne diedero conto i necrologi che comparvero sui quotidiani di tutto il mondo, definendo la morte di Marx
«una sciagura per tutta l’umanità» e sottolineando: «Il suo ricordo vivrà a lungo dopo che i re saranno stati dimenticati».
Come aveva predetto Engels, l’opera di Karl Marx si sarebbe intrecciata con la storia del novecento, influenzando le vicende politiche da Oriente ad Occidente. L’enorme lascito del suo pensiero è confluito, oltre che nella filosofia, in tutte le scienze umane, tra le quali la sociologia di cui il filosofo di Treviri è uno dei padri fondatori.
2. Il contesto europeo
Tra gli anni ’30 e ’40 dell’ottocento, le condizioni drammatiche in cui viveva il proletariato urbano avevano posto all’attenzione generale la «questione sociale».
L’attività di critica sociale era vivace in Francia, nella quale intellettuali e gruppi politici radicali avevano dato vita ad una riflessione ininterrotta sulla realizzazione dell’uguaglianza fin dalla Rivoluzione del 1789 (e dal Contratto sociale di Rousseau), in quegli anni proseguita da Pierre Joseph Proudhon.
Questo dibattito richiedeva che si traducessero sul piano economico quei diritti d’uguaglianza e libertà che la Rivoluzione francese aveva sancito giuridicamente e politicamente, nella consapevolezza che essi erano stati attuati solo formalmente e che una loro attuazione sostanziale richiedeva una trasformazione strutturale dell’economia e della società.
I moti rivoluzionari che si diffondono in Europa intorno alla metà del diciannovesimo secolo e le concezioni dei socialisti utopici – così li chiamerà polemicamente lo stesso Marx – costituiscono lo sfondo sociale in cui si forma il pensiero di Marx ed Engels.
3. La critica dell’economia politica e l’analisi del lavoro alienato
Nel ’44, contemporaneamente all’Ideologia tedesca che scrive con Engels, Marx stende tre quaderni di annotazioni che vengono pubblicati nel 1932 con il nome di Manoscritti economico-filosofici del 1844.
Inizia qui quell’opera imponente di critica dell’economia politica che sfocia nel Capitale, nella quale Marx dimostra le contraddizioni di cui gli stessi economisti sono inconsapevoli:
- l’aumento delle ricchezze genera l’impoverimento dell’operaio;
- la concorrenza conduce all’accumulazione del capitale in poche mani, cioè al monopolio;
- l’interesse del capitalista si mostra in conflitto con quello dell’intera società.
Ma soprattutto, l’economia politica non mostra nessun interesse per l’uomo in quanto tale, poiché concepisce il lavoratore solo come «bestia da soma» e il lavoro stesso solo come «attività di guadagno».
La sua pretesa di essere scienza, cioè la sua capacità di comprendere e spiegare la realtà sono attaccate direttamente da Marx: il vizio di fondo dell’economia politica è, infatti, il presupporre ciò che deve spiegare, cioè nel partire dalla proprietà privata come se fosse un dato naturale, facendone valere le leggi come fossero leggi naturali.
Marx oppone a questa disciplina acritica un altro modo di leggere la realtà economica, il cui primo risultato è la celebre analisi del lavoro alienato [traduzione ritoccata per una migliore leggibilità degli studenti]:
Noi partiamo da un fatto economico attuale. L’operaio diventa tanto più povero quanto più produce ricchezza, quanto più la sua produzione cresce in potenza ed estensione. L’operaio diventa una merce a buon mercato quanto più crea delle merci. Con la messa in valore del mondo delle cose, cresce in rapporto diretto la svalutazione del mondo degli uomini. Il lavoro non produce soltanto merci, esso produce se stesso e il lavoratore come una merce, precisamente nella proporzione in cui esso produce merci in genere.
Questo fatto non esprime altro che questo: che l’oggetto prodotto dal lavoro, prodotto suo, sorge di fronte al lavoro come un ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, che si è fatto oggettivo: è l’oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare, nella condizione descritta dall’economia politica, come privazione dell’operaio, e l’oggettivazione appare come perdita e schiavitù dell’oggetto, e l’appropriazione come alienazione, come espropriazione.
La realizzazione del lavoro evidenzia tale privazione che l’operaio è spogliato fino alla morte per fame […] Tutte queste conseguenze si trovano nel fatto che l’operaio sta in rapporto al prodotto del suo lavoro come a un oggetto estraneo. Poiché è chiaro, per questo presupposto, che tanto più l’operaio lavora, tanto più acquista potenza il mondo estraneo, oggettivo, ch’egli si crea di fronte, e tanto più povero diventa egli stesso, il suo mondo interiore, e tanto meno egli possiede. […] Quanto maggiore dunque questo prodotto, tanto minore è egli stesso […].
L’economia politica occulta l’alienazione ch’è nell’essenza del lavoro per questo: ch’essa non considera l’immediato rapporto fra l’operaio (il lavoro) e la produzione. Certamente il lavoro produce meraviglie per i ricchi, ma produce lo spogliamento dell’operaio. Produce palazzi, ma caverne per l’operaio, produce bellezza, ma deformità per l’operaio. Esso sostituisce il lavoro con le macchine, ma respinge una parte dei lavoratori a un lavoro barbarico, e riduce a macchine l’altra parte. Produce spiritualità e produce l’imbecillità, il cretinismo dell’operaio […].
Nell’alienazione dell’oggetto del lavoro si riassume l’alienazione, l’espropriazione, dell’attività stessa del lavoro.
In che consiste ora, l’espropriazione del lavoro? Prima di tutto in questo: che il lavoro resta esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e che l’operaio quindi non si afferma nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato ma infelice, non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito. L’operaio quindi si sente con se stesso soltanto fuori del lavoro, e fuori di sé nel lavoro. Come a casa sua è solo quando non lavora e quando lavora non lo è.
Il suo lavoro non è volontario bensì forzato, è lavoro costrittivo. Il lavoro non è quindi la soddisfazione di un bisogno, bensì soltanto un mezzo per soddisfare bisogni esterni ad esso. […] Il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si espropria, è un lavoro-sacrificio, un lavoro mortificazione. Finalmente l’esteriorità del lavoro al lavoratore si evidenzia in questo: che il lavoro non è cosa sua ma di un altro; che non gli appartiene, e che in esso egli non appartiene a sé, bensì a un altro. […] Il risultato è che l’uomo (il lavoratore) si sente libero ormai soltanto nelle sue funzioni bestiali, nel mangiare, nel bere e nel generare, tutt’al più nell’aver una casa, nella sua cura corporale ecc. e che nelle sue funzioni umane si sente più solo una bestia. Il bestiale diventa l’umano e l’umano il bestiale.
Marx insiste, come si è visto, nel sottolineare che il lavoro alienato, il lavoro creato dalla società borghese (o capitalista, o moderna) non è più un momento di realizzazione dell’uomo, ma di perdita dell’uomo stesso; non più fine, ma mezzo. È il rovesciamento del rapporto originario dell’uomo con la natura, dell’uomo con la propria attività, della nostra specie con il suo particolare modo di essere.
Il lavoro dipendente o lavoro alienato, non è, quindi, il lavoro, ma il suo pervertimento, la sua trasformazione moderna.
Hegel aveva visto correttamente che il lavoro realizza l’essenza dell’uomo, quale capacità di trasformare la natura secondo un progetto consapevole, ma nel lavoro alienato l’uomo è spogliato della sua iniziativa e diventa semplice mezzo per la produzione di cose, non il loro artefice.
L’operaio perde così non solo il proprio oggetto, ma anche se stesso, la sua stessa vita diventa proprietà di un altro, del capitalista, la cui proprietà è solo apparentemente un dato di fatto dell’economia politica, mentre è in realtà il risultato dell’espropriazione del lavoro operaio e, insieme, il mezzo attraverso cui questa espropriazione si attua:
«[…] da una parte essa è il risultato del lavoro espropriato, e secondariamente ch’essa è il mezzo col quale il lavoro si espropria, la realizzazione di questa espropriazione».
L’emancipazione operaia sarà dunque la riappropriazione di quanto si è perduto per effetto dell’alienazione ed essa significherà
«la generale emancipazione umana», perché «l’intera servitù umana è coinvolta nel rapporto dell’operaio alla produzione.
4. Il Manifesto del Partito Comunista
Nel 1845, su richiesta del governo prussiano, Marx viene espulso da Parigi e deve trasferirsi in Belgio. Nel 1847, si approfondisce la divergenza politica con i socialisti utopici e particolarmente con Proudhon al quale indirizza polemicamente lo sferzante Miseria della filosofia, in risposta al suo Filosofia della miseria, pubblicato l’anno prima.
Nello stesso anno riceve dalla Lega dei comunisti (sorta dalle ceneri della Lega dei giusti) l’incarico di redigere Il manifesto del partito comunista, che esce nel febbraio 1848, l’anno dei moti rivoluzionari.
Il Manifesto, un piccolo libro di appena ventitré pagine – l’unico insieme alla Bibbia ad essere pubblicato in tutte le lingue del mondo – che poté essere stampato grazie a una colletta di 25 sterline tra gli operai,
«pesa quanto interi volumi – scrisse Lenin – il suo spirito anima e muove tutto il proletariato organizzato e in lotta del mondo civile».
In seguito alla pubblicazione del Manifesto, Marx viene arrestato ed espulso anche dal Belgio, da dove fa ritorno prima a Parigi, poi a Colonia, dove diviene direttore della «Neue Rheinische Zeitung».
Espulso anche da Colonia, si trasferisce definitivamente a Londra, dove rimane fino alla fine della sua vita, in povertà estrema, costantemente sostenuto dall’amico Engels. Commenterà ironicamente:
«Nessuno ha scritto tanto sul denaro, avendo così poco denaro. Il Capitale non mi ripagherà nemmeno delle sigarette che ho fumato mentre lo scrivevo».
5. La concezione materialistica della storia
Analizzare la storia significa per Marx indagare i fenomeni criticamente, senza presupporli in modo naturalistico e astratto.
Prende forma così la concezione materialistica della storia formulata nell’Ideologia tedesca (Marx-Engels, 1845), nelle Tesi su Feuerbach [appunti manoscritti scritti durante la stesura dell’Ideologia tedesca e pubblicati postumi] e nel Manifesto del Partito comunista (Marx-Engels, 1848).
Nell’Ideologia tedesca, il primo aspetto da cui Marx ed Engels avviano la loro critica è il fatto che per vivere, gli uomini devono soddisfare i loro bisogni primari, dunque la produzione di mezzi di sussistenza è l’attività primaria, la prima «azione storica» e specificamente umana. Essa è già una forma determinata di rapporto con la natura, cioè un modo di vita che definisce ciò che gli uomini, entro quel determinato modo di produzione, sono.
Sulla base di questo aspetto originario, i filosofi ne individuano altre tre: la creazione e la soddisfazione di nuovi bisogni, la riproduzione (dunque, la famiglia) e la cooperazione tra più individui.
La coscienza (cioè la visione del mondo) nasce dalla relazione con altri individui: è dunque un prodotto sociale che si sviluppa in relazione allo sviluppo dei mezzi di produzione, cioè delle forme della cooperazione e dal modo di produrre, concetto che Marx ed Engels rendono con quello di sviluppo delle «forze produttive». Un ruolo fondamentale in questo sviluppo è giocato dalla divisione del lavoro e dalla proprietà privata.
Delineando questa sorta di “storia originaria” della società e della coscienza, Marx ed Engels forniscono un’interpretazione delle relazioni esistenti in ogni situazione determinata. L’indicazione metodologica fondamentale è che la totalità dell’essere sociale va indagata a partire dalla sfera della vita produttiva:
«non è la coscienza che determina la vita, ma è la vita che determina la coscienza».
La coscienza è dunque intessuta di materia, negarlo è produrre ideologia. Ideologia è infatti ogni forma di rappresentazione teorica inconsapevole od occultatrice della propria condizionatezza storico-materiale.
L’ideologia separa le idee dalle loro radici materiali, rendendo arbitrariamente autonomi, e (dunque) universali, valori, concezioni del mondo e idee che nascono invece dall’intreccio con una condizione storicamente determinata.
Questo atteggiamento teorico risponde a una funzione ben precisa: in ogni epoca corrisponde all’esigenza della classe dominante di presentare come naturali e universali i valori che le sono propri [si veda l’uso chiarificatore del concetto di ideologia fatto da Pierre Bourdieu]:
«le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante».
Nello scritto più tardo Per la critica dell’economia politica (anche noto come Grundrisse, 1859, Marx userà il termine di struttura per indicare l’insieme dei rapporti di produzione esistenti nella società, sostenendo che tale struttura costituisce
«la base reale sulla quale si eleva la sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate di coscienza sociale».
È sul piano della struttura che agisce infatti la contraddizione fondamentale che produce il divenire storico, cioè il conflitto tra forze produttive e rapporti di produzione. Da un lato, le forme artistiche, giuridiche, filosofiche, religiose, ossia le forme ideologiche sono condizionate dai rapporti di produzione e dal conflitto in essi esistente, dall’altro sono queste stesse forme ideologiche «che permettono agli uomini di concepire questo conflitto e di combatterlo».
Il materialismo storico si presenta innanzitutto come una metodologia critica antiideologica, il cui compito fondamentale consiste in un’opera di smascheramento e di svelamento che non accetta come un dato la rappresentazione che gli uomini si fanno del loro agire, ma ne mostra le origini (la genealogia) e le motivazioni reali.
Al tempo stesso, il materialismo storico inaugura una comprensione critica, non ideologica, della realtà, cioè consapevole della propria origine storica e tesa a mostrare, piuttosto che a nascondere il proprio legame con l’azione sociale.
5.1 Il comunismo
Nel contesto del materialismo storico, la prospettiva del comunismo può essere pensata come risultato di un processo storico che va verso una sempre maggiore universalizzazione della cooperazione e dello scambio e, dunque, verso una contraddizione sempre più profonda tra borghesia (che sfrutta la cooperazione e lo scambio, ma deve opporsi alla loro completa liberalizzazione che abolirebbe il mercato) e proletariato. Per questo, affermano Marx ed Engels,
«il comunismo non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente».
6. Il Capitale e gli scritti londinesi
Essi hanno un solo pensiero, e danno la loro forza e il loro potere alla bestia.
E che nessuno possa comprare o vendere,
se non chi abbia il carattere o il nome della bestia, o il numero del suo nome.
Marx cita l’Apocalisse per spiegare il carattere bestiale del capitale e del denaro
Nel capitale viene posta la perennità del valore […] Ma questa capacità il capitale l’ottiene soltanto succhiando di continuo l’anima del lavoro vivo, come un vampiro.
6.1 L’analisi della merce. Valore d’uso e valore di scambio
L’analisi del Capitale prende avvio dalla merce, la forma elementare della società borghese che ne racchiude molecolarmente in sé l’essenza e le contraddizioni. Il carattere essenziale della merce è la sua duplicità: ogni singola merce è infatti, contemporaneamente, mezzo per soddisfare un bisogno e oggetto che viene scambiato sul mercato; ha un’esistenza naturale e un’esistenza sociale, un valore d’uso e un valore di scambio.
Il valore di scambio prescinde dalle caratteristiche qualitative della merce e dalla sua utilità ed è relativo solo al valore proporzionale della stessa merce rispetto alle altre. Il denaro, quale equivalente universale, ne è il mediatore perfetto, esso infatti non è altro che «la forma in cui tutte le merci si eguagliano, si paragonano, si misurano».
Ma dove viene il valore di scambio? Marx osserva che il riferimento al valore di una merce presuppone il riferimento a una terza entità: il lavoro umano in essa oggettivato. Se si prescinde dal valore d’uso (l’effettività utilità delle cose) resta alle merci solo il fatto di essere state realizzate con lavoro umano.
Il valore di scambio di una merce è dunque dato dal lavoro necessario a produrlo, intendendo per “lavoro” non soltanto l’opera del singolo lavoratore, ma la durata del lavoro sociale erogato per produrre la generalità delle merci scambiate. Questo aspetto è però occultato e le merci appaiono come cose che hanno in se stesse il loro valore, restando nascosti i processi e i rapporti reali di valorizzazione. Si tratta del feticismo delle merci, quel fenomeno di rovesciamento per cui le cose dominano sull’uomo, attraverso
«la personificazione della cosa e la reificazione della persona».
Valorizzazione significa che le merci prodotte hanno un valore di scambio maggiore del valore dei mezzi di produzione (capitale+lavoro). E’ qui (nella sfera della produzione, non della circolazione delle merci) che Marx individua la creazione del plusvalore,consistente nella parte del valore di scambio delle merci non corrisposto al lavoratore.
Poiché nel sistema capitalistico anche il lavoro è una merce, la forza lavoro venduta dal lavoratore ha un valore d’uso e uno di scambio: il capitalista compra questa merce al suo valore di scambio – che tende a identificarsi con il costo dei beni di pura sussistenza del lavoratore e della sua famiglia – e la consuma per il suo valore d’uso che permette di produrre merci di valore superiore al salario. La forza lavoro viene quindi applicata per un tempo superiore (pluslavoro) a quello necessario per pagare il salario del lavoratore, generando un plusvalore che viene appropriato dal proprietario dei mezzi di produzione.
Il capitale non ha inventato il plusvalore, osserva Marx, ma ha fondato un sistema basato sulla sua estrazione sistematica e sulla sua separazione dei mezzi di produzione dall’attività del lavoratore. Questa forma di dominio presuppone precise condizioni non puramente economiche, ma insieme sociali e giuridiche, quali la separazione dei mezzi di produzione (terra e strumenti) dal lavoro (operaio) e la necessità dunque di vendere sul mercato la propria forza lavoro ad una condizione di parità formale (nella società capitalistica è abolita la schiavitù e il lavoro è formalmente libero).
Proprio quando la maturazione delle forze produttive porta a dissoluzione le condizioni operanti nei modi di produzione antichi, ha inizio la cosiddetta accumulazione originaria, erroneamente collocata dagli economisti borghesi nel risparmio e nata invece «dalla conquista, dal soggiogamento, dalla rapina, in breve dalla violenza», ovvero dalla costituzione di un rapporto sociale basato sul dominio di una classe sull’altra, chiamato capitale.
6.2 Il mercato del lavoro e l’accumulazione originaria
«scritto a lettere di fuoco e sangue negli annali dell’umanità»,
Fu così che i contadini, dapprima espropriati con la forza delle proprie terre, cacciati dalle proprie case, trasformati in vagabondi e poi frustati, marchiati, torturati in base a leggi grottescamente terribili, fu condotta alla disciplina necessaria per il sistema salariale (Il capitale, Libro I, Sez. VII).
Il lavoro salariato, cioè la trasformazione del lavoro in merce, è al centro del sistema capitalista. E l’esistenza di una massa di nullatenenti costretti ad aspirare a un salario per poter vivere è ciò che permette al sistema di funzionare.
In quest’ottica, Marx ritiene che la piena occupazione sia in contrasto con il sistema capitalista, che ha interesse a disporre di un “esercito industriale di riserva”, e cioè di una massa di disoccupati privi di reddito che siano disponibili a essere impiegati in cambio di un salario. Per questo, ogni volta ci si avvicina alla piena occupazione, che determina un aumento del potere contrattuale dei lavoratori, si innesca un ciclo di contrazione della domanda di manodopera che porta a ricostituire l’esercito industriale di riserva.
6.3 La caduta tendenziale del saggio di profitto e la natura strutturale della crisi nell’economia capitalista
6.4 La transizione al comunismo
Marx si è sempre rifiutato di«prescrivere ricette per le osterie dell’avvenire», cioè di teorizzare le caratteristiche economiche e giuridiche della futura società comunista, ma nella Critica del programma di Gotha ha espresso l’idea che la transizione dalla società borghese richiedesse un periodo caratterizzato sotto il profilo politico dalla dittatura del proletariato (il debole controllo politico era stata infatti per Marx la causa della sconfitta della Comune di Parigi) e, sotto quello economico, dalla proprietà collettiva dei mezzi di produzione.
In quanto prodotto dell’opposizione alla società borghese, essa conservava alcune delle sue caratteristiche negative, in primo luogo il diritto uguale nella distribuzione che fatalmente riproduce le diseguaglianze di attitudini e capacità tra gli individui.
Questo «angusto orizzonte giuridico borghese» potrà essere superato solo in una seconda fase, quando gli individui non saranno più asserviti e avranno potuto realizzarsi integralmente, accrescendo insieme le forze produttive sociali. Solo allora il motto di questa società sarà
«Ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo i suoi bisogni».
L’orizzonte entro il quale Marx pensa la società del futuro rimane, in tutto l’arco del suo pensiero, quello della realizzazione della libertà, intesa come sviluppo di tutte le facoltà umane.
7. La tomba di Marx ad Highgate
Nel dicembre 1881 muore Jenny von Westphalen, «anche il Moro [così era chiamato Marx nella cerchia intima per via della chioma corvina] ne morirà», scrive Engels a un corrispondente. Quattordici mesi dopo il filosofo cessa di vivere.
Il suo funerale si tenne il 17 marzo 1883 in forma privata, con la lettura di due discorsi commemorativi di Engels e Karl Liebknecht e del saluto del socialista russo Pètr Lavrov. Marx fu seppellito nella sezione riservata agli indigenti del cimitero di Highgate, accanto alla moglie. Sulla sua tomba sono incise, come epitaffio, la chiusa del Manifesto
Proletari di tutto il mondo unitevi!
e l’undicesima tesi su Feuerbach:
The philosophers have only interpreted the world in various ways. The point, however, is to change it – I filosofi hanno soltanto interpretato in modo diverso il mondo, ora è tempo di cambiarlo.
Il pesante monumento che orna il suo sepolcro è stato eretto solo nel 1956.
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