In questo bellissimo scritto apparso su Outlet [n. 2, 2002, pp. 33-38], Emilio Quadrelli riflette sul cambiamento del regime di governamentalità delle società contemporanee che si esprime nel passaggio dal far vivere e lasciar morire al lasciar morire e far vivere. Il mondo della prigione, dei CIE, dell’esclusione, sono ancora, come ha insegnato Michel Foucault, gli indicatori più preziosi della condizione e dei mutamenti dell’intero corpo sociale.
I borghesi hanno ottime ragioni per attribuire al lavoro una soprannaturale forza creativa, poiché proprio dalla natura condizionata del lavoro risulta che l’uomo, possessore soltanto della propria forza – lavoro, deve essere, in tutte le condizioni sociali e culturali, schiavo di altri uomini che si sono resi proprietari delle materiali condizioni di lavoro.
K. Marx, Critica al programma di Gotha
Intorno al carcere, alla sua storia e funzione, sono state scritte intere biblioteche […]. Il carcere non è, come certa letteratura di genere (prendiamo su tutti i romanzi di Edward Bunker) ama mostrare, un mondo a sé con regole e retoriche diverse e distanti dai mondi sociali esterni bensì la sintesi, portata sino alle estreme conseguenze, del mondo che lo circonda. Il carcere è esattamente lo specchio, neppure troppo deformato, del mondo cosiddetto normale. Questo, chiaramente, non significa che tra dentro e fuori non esistano differenze ma, più realisticamente, che le regole e i modelli della prigione sono i medesimi della società circostante. Parlare del carcere, quindi, significa parlare dei modelli sociali nei quali siamo immessi. Ciò è vero sia per quanto riguarda la società ufficiale e legittima, ossia quella che utilizza e gestisce il carcere, sia per quanto riguarda la parte deputata a subirlo e ad abitarlo. Il carcere, non diversamente da qualunque altro ambito sociale, non può che essere l’effetto di una condizione storicamente determinata.
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