Quattro lezioni su Amore liquido. Sulla fragilità dei legami affettivi [Liquid Love. On the Frailty of Human Bonds, Cambridge-Oxford, 2003], trad. it., Bari-Roma, Laterza, 2003.
Che cos’è l’amore liquido
L’eroe di questo libro, dice Bauman nella Prefazione, è «l’uomo senza legami». Così come il celebre personaggio di Musil (l’Ulrich de L’uomo senza qualità) era un soggetto alla ricerca di una identità, senza che nessuna delle qualità acquisite avesse garanzia di durata in un mondo sconcertante e mutevole, il protagonista del saggio di Bauman è l’uomo della modernità liquida, cioè di quella fase dell’età contemporanea che si caratterizza per lo stato mutevole e instabile di ogni sua forma organizzativa (famiglia instabile, ricomposta, multipla, informale; denatalità – lavoro precario, a chiamata, intermittente; ecc.).
Secondo Bauman, dunque, se l’uomo senza qualità è il perfetto ritratto dell’uomo moderno, l’uomo senza legami è l’individuo plasmato dalla «modernità liquida», termine con cui l’autore indica quel periodo che dagli anni ’60 in poi è stato indicato da altri studiosi come postmodernità, tarda modernità, capitalismo maturo, modernità riflessiva ecc. [questo dibattito, che qui non affrontiamo, concorda sul riconoscimento di forti cambiamenti sociali ed economici intervenuti a ridosso del secondo dopoguerra, ma si divide sulla prognosi di tale cambiamento e in particolare sull’interpretazione delle trasformazioni nel segno della continuità con il moderno (ipermodernità, tarda modernità) o della rottura con esso, con i suoi fini e ideali (postmodernità)].
Il tema principale della riflessione di Bauman è dunque
«la relazione umana» e la sua sorte in un’età in cui «gli uomini e donne disperati perché abbandonati a se stessi, che si sentono degli oggetti a perdere, che anelano la sicurezza dell’aggregazione e una mano su cui poter contare nel momento del bisogno, e quindi ansiosi di “instaurare relazioni” [sono] al contempo timorosi di restare impigliati in relazioni “stabili”, per non dire definitive, poiché paventano che tale relazione possa comportare oneri e tensioni che non vogliono né pensano di poter sopportare e che dunque possa fortemente limitare la loro tanto agognata libertà di … si, avete indovinato, di instaurare relazioni» (p. VI).
La relazione è dunque il terreno contemporaneo della più grande ambivalenza: deve essere leggera e flessibile per potersi rompere facilmente e dare la possibilità all’individuo contemporaneo di ricostituirsi, ritessersi, mantenendo intatta tutta la potenzialità relazionale di ognuno. In questo modo, ognuno è molto più solo che in passato, ma libero molto più che in passato di tentare forme e sistemi per uscire da questa solitudine.
Sembra, commenta Bauman, che le cose vadano come aveva osservato Heidegger:
«esse si manifestano alla nostra coscienza solo attraverso la frustrazione che provocano (allorché vanno in malora, svaniscono, tradiscono le nostre aspettative o la propria natura)».
Oggi l’attenzione dell’uomo contemporaneo tende a concentrarsi sulle soddisfazioni che le relazioni si spera arrechino, proprio perché per qualche ragione esse sono frustranti (sono fragili e deludono le aspettative di eternità) o sono temute (perché si scopre che quando soddisfano pienamente, il prezzo da pagare per questo appagamento è eccessivo in termini di perdita di libertà, cioè di quel potenziale che si congela ogni volta che inizia una relazione).
Bauman trova conferma nella centralità di interesse per le relazioni nel boom di consulenze che si occupano di curare i legami (counseling, terapia familiare), agenzie matrimoniali, rubriche rosa o per cuori solitari ecc. Secondo l’autore tutte queste consulenze hanno lo scopo di aiutare i singoli a «quadrare il cerchio», cioè a riuscire nel compito impossibile di costringere la relazione a
«dare senza prendere, a offrire senza chiedere, ad appagare senza opprimere» (p. VIII).
È qui che Bauman paragona l’individuo contemporaneo all’abitante di Leonia, una delle Città invisibili di Calvino, i cui abitanti dichiarano che la loro passione è di «godere di cose nuove e diverse», consegnando al lavoro dello “spazzaturaio”, i resti delle “cose nuove e diverse” di ieri (Cfr. pp. IX-X). La Leonia sprecona sembra a Bauman una metafora calzante dell’ambiguità con la quale si dichiara oggi di desiderare più di ogni altra cosa la relazione, mentre in realtà ci si preoccupa soprattutto di evitare che questi rapporti si stabilizzino e si condensino.
Lo scenario liquido-moderno si presenta così come quello in cui si spera che
«le possibilità romantiche si susseguano a ritmo crescente e in quantità sempre copiosa facendo a gara nel superarsi a vicenda e nel lanciare promesse di essere più soddisfacenti e appaganti» (p. XII).
in questo modo, Amore liquido è dedicato ai rischi e alle angosce del
«vivere insieme e in disparte nel nostro mondo liquido-moderno» [vedi l’intervento di Massimo Recalcati sul tema].
Innamorarsi e disamorarsi [primo capitolo]
Che cos’è l’amore? Si chiede allora Bauman. Si tratta di un’esperienza che si può apprendere, un sapere che si può imparare? O forse si tratta di un’esperienza irripetibile e dunque impossibile da imparare?
È una domanda chiave, già affrontata da Fromm. I due autori concordano nel ritenere che una società malata disincentivi i sentimenti di amore e solidarietà umana, ma mentre Fromm, da filosofo, ne propone un’interpretazione antropologica, Bauman, da sociologo, ammette implicitamente che il comportamento umano, incluso quello amoroso, è una costruzione storica, legata alla cultura e alle esigenze sociali del tempo in cui si vive.
Piuttosto che una domanda su che cos’è l’amore, dunque, bisogna chiedersi a quale dinamica risponde il bisogno di amare nel tempo presente? E qui ritrova Fromm:
«la soddisfazione, nell’amore individuale, non può essere raggiunta senza la capacità di amare il prossimo con umiltà, fede, coraggio», ma «in una cultura in cui queste qualità sono rare, l’acquisizione della capacità di amare è condannata a restare un successo raro» (p. 11).
Perciò, osserva Bauman, «in una cultura consumistica come la nostra, che predilige prodotti pronti per l’uso, soluzioni rapide, soddisfazione immediata, risultati senza troppa fatica, ricette infallibili, assicurazione contro tutti i rischi e garanzie del tipo “soddisfatto o rimborsato”, quella di imparare ad amare è la promessa (falsa, ingannevole, ma che si spera ardentemente essere vera) di rendere l’esperienza dell’amore simile ad altre merci, che attira e seduce sbandierando tutte queste qualità e promettendo soddisfazioni immediate e risultati senza sforzi» (p. 11).
Ma l’eros, come ha notato Emmanuel Levinas, è diverso dal possesso e dal potere,
«è una relazione con l’alterità, con il mistero, vale a dire con il futuro, con ciò che è assente dal mondo che contiene ogni cosa che c’è […]», «il pathos dell’amore consiste nell’insormontabile dualità degli esseri». I tentativi di superare tale dualità, di rendere l’ignoto prevedibile, di domare il bizzoso e incatenare il girovago, tutte queste cose sono la campana a morte dell’amore». «L’amore si sforza costantemente di eliminare le proprie fonti di precarietà e di apprensione, ma qualora ci riesca inizia rapidamente ad avvizzire, svanisce» (p. 12).
Inteso in questo modo, l’amore è desiderio. Il desiderio è impulso ad assimilare, possedere, consumare, qualcosa che è fuori di noi e che svanisce non appena tale movimento si realizza. Nella sua essenza è un impulso di distruzione. Al contrario, l’amore è invece il desiderio di prendersi cura e di preservare l’oggetto della propria cura, è espansione e dono di sé.
«L’amore consiste nella sopravvivenza dell’io attraverso l’alterità dell’io. E dunque amore significa prepotente desiderio di proteggere, nutrire, riparare, coccolare, accudire, oppure difendere gelosamente. Insomma, anche l’amore, come il desiderio, «è una minaccia per il proprio oggetto. Il desiderio distrugge il proprio oggetto, distruggendo nel processo se stesso; la rete protettiva che l’amore tesse amorevolmente intorno al proprio oggetto amato schiavizza l’oggetto stesso» (p. 16).
Con questa analisi della fenomenologia dell’amore, Bauman sembra avanzare la tesi che il tempo attuale, il liquido-moderno, è sfavorevole all’amore, mentre sembra più adatto al desiderio.
[Mappa]
Solo apparentemente, però: il desiderio ha, infatti, bisogno di distanza, di tempo da consumare per essere messo in scena e vissuto. Il tempo attuale invece celebra l’istante e la soddisfazione, ottenuta prima ancora di desiderare. La voglia, prende così il posto del desiderio.
Bauman analizza allora gli interventi di due psicologhe sulla rubrica settimanale del Guardian che gli sembrano rappresentativi del tipo di consigli si offrono ai cuori solitari nella modernità liquida:
«ogni volta che ti impegni sentimentalmente, per quanto alla leggera, ricordati che stai probabilmente chiudendo la porta ad altre opportunità romantiche (vale a dire che stai abdicando al diritto di “rimetterti a caccia”, almeno fino a quando il partner non reclami per primo tale diritto)» (p. 17).
Desiderio e amore qui si escludono a vicenda. Ma forse, osserva il sociologo, quando si deve commentare il breve flirt, la conquista di una sera, parlare di desiderio è eccessivo.
«Come per lo shopping: oggi chi va per negozi non compra per soddisfare un desiderio […] ma semplicemente per
togliersi una voglia. Ci vuole tempo, (un tempo insostenibilmente lungo per gli standard di una cultura che aborre la procrastinazione e postula invece il soddisfacimento immediato) per seminare, coltivare, nutrire, il desiderio.Il desiderio ha bisogno di tempo per germogliare, crescere e maturare. Via via che il “lungo termine” diventa sempre più breve, la velocità con cui il desiderio giunge a maturazione resiste ostinatamente all’accelerazione; il tempo occorrente per ottenere il ritorno dell’investimento della coltivazione del desiderio appare sempre più lungo, lo si avverte esasperante e insopportabile» (p. 17).
«Oggi i centri commerciali tendono ad essere progettati pensando a desideri facili da nascere e rapidi a estinguersi, non all’onerosa e protratta creazione e coltivazione dei desideri. L’unico desiderio che una visita al centro commerciale deve instillare e instilla è quello di reiterare all’infinito l’eccitante momento del lasciarsi andare, del dare briglia sciolta alle proprie voglie senza un copione prestabilito» (p. 18).
«Togliersi una voglia, diversamente dall’esaudire un desiderio, è soltanto un atto estemporaneo, che si spera non lasci conseguenze durevoli che potrebbero ostacolare ulteriori momenti di estasi gioiosa. Nel caso delle relazioni, e delle relazioni sessuali in particolare, seguire le voglie anziché i desideri significa lasciare la porta bene aperta “ad altre opportunità romantiche” le quali, come sostengono le psicologhe del Guardian potrebbero rivelarsi più soddisfacenti e appaganti» (p. 18) (Già André Gide aveva osservato che “scegliere è privarsi”, privarsi cioè delle possibilità non scelte).
«Mentre il principio del togliersi-le-voglie è inculcato a fondo nella condotta quotidiana dai poteri forti del mercato dei beni di consumo, il coltivare un desiderio sembra inquietantemente, inopportunamente, fastidiosamente, propendere dalla parte dell’impegno amoroso. Il desiderio va curato, coltivato, implica una cura prolungata, un difficile negoziato senza soluzioni scontate, qualche scelta difficile e alcuni compromessi dolorosi […] nella sua radicalizzata reincarnazione sotto forma di voglia, il desiderio ha perso gran parte dei suoi attributi fastidiosi […]. Come recitava il messaggio pubblicitario di una famosa carta di credito, oggi “ è possibile eliminare l’attesa dal desiderio”.
Quando è pilotata dalla voglia, la relazione tra due persone segue il modello dello shopping e non chiede altro che le capacità di un consumatore medio, moderatamente esperto. Al pari di altri prodotti di consumo, è fatta per essere consumata sul posto (non richiede addestramento ulteriore o una preparazione prolungata) ed essere usata una sola volta. Innanzitutto, la sua essenza è quella di potersene disfare senza problemi. Se ritenute scadenti o non di piena soddisfazione le merci possono essere sostituite con altri prodotti che si spera più soddisfacenti […] ma anche se mantengono le promesse, nessuno si aspetta da esse che durino a lungo; dopo tutto, automobili, computer o telefoni cellulari in perfetto stato e ancora funzionanti vengono gettati via senza troppo rammarico nel momento stesso in cui le loro versioni nuove e aggiornate giungono nei negozi e divengono l’ultimo grido. Perché mai le relazioni dovrebbero fare eccezione alla regola?» (pp. 19-20).
Tuttavia, si decide ancora di investire nelle relazioni: chi lo fa fa si aspetta prima di tutto sicurezza,
«una mano nel momento del bisogno, un sostegno nel dolore, compagnia nella solitudine, soccorso nei guai, consolazione nella sconfitta e plauso nella vittoria» (p. 21).
Ma avendo abolito l’eternità nelle relazioni affettive e avendola sostituita con l’idea di un investimento remunerativo (in termini di sicurezza, piuttosto che di interesse monetario), la relazione non dà più ciò che promette: cerchiamo sicurezza da qualcuno che ha il nostro stesso obiettivo ma che, come noi, può decidere in qualunque momento di spostare altrove l’oggetto del suo investimento. Per questo
«la relazione amorosa vista come una transazione d’affari non è certo una cura per l’insonnia […] la solitudine genera insicurezza, ma altrettanto sembra fare la relazione sentimentale. In una relazione puoi sentirti altrettanto insicuro di quanto saresti senza di essa, o anche peggio. Cambiano solo i nomi che dai alla tua ansia» (p. 22).
Quando le persone si sentono insicure, osserva Bauman citando uno psicologo esperto matrimonialista,
«tendono a comportarsi in modo non costruttivo, tentando o di compiacere o di controllare o forse addirittura venendo alle mani – tutti sistemi che probabilmente non fanno altro che allontanare la persona amata. Una volta insinuato il tarlo dell’insicurezza, la navigazione non è mai sicura, ragionata, tranquilla. Senza timone, la fragile zattera della relazione ondeggia sui due nefasti scogli su cui tanti rapporti si infrangono: sottomissione totale e potere totale, accettazione supina e prevaricazione arrogante, rinuncia alla propria autonomia e distruzione dell’autonomia del partner. L’infrangersi contro uno qualsiasi di questi scogli farebbe affondare finanche una nave in perfette condizioni e con un equipaggio esperto, figuriamoci una zattera con a bordo un marinaio inesperto che, cresciuto nell’epoca dei pezzi di ricambio, non ha mai imparato l’arte della riparazione. Nessuno dei marinai di oggi perderebbe tempo a riparare la parte danneggiata, ma la sostituirebbe con un’altra identica. Sulla zattera delle relazioni tuttavia non ci sono ricambi disponibili» (pp. 23-24).
L’analisi di Bauman prosegue qualche pagina oltre intorno alle cosiddette coppie semi-libere,
«questi rivoluzionari delle relazioni che hanno fatto esplodere la bolla soffocante della coppia. Si tratta di coppie nelle quali i due partner preferiscono mantenere i loro appartamenti, conti in banca e cerchia di amici e nelle quali il matrimonio vecchio stile è sostituito da un modello flessibile, part-time di stare insieme. Su questo fenomeno, gli esperti sono divisi: si oscilla da una entusiastica approvazione del modello visto come la realizzazione della “quadratura del cerchio” di un genuino dare e avere senza pagare il pedaggio della perdita di indipendenza, all’accusa di codardia: il rifiuto di affrontare le prove e le difficoltà che la creazione di una coppia stabile comporta» (p. 52).
Dentro e fuori la cassetta degli attrezzi della socialità [secondo capitolo]
La tesi che Bauman difende a proposito delle forme contemporanee della sessualità è che, così come la modernità liquida sembra aver sgretolato la relazione sentimentale, così ha anche snaturato la sessualità fino a farla diventare problema, piuttosto che opportunità di piacere e soddisfazione per l’uomo moderno.
Come osserva Bauman,
«il desiderio sessuale era e resta […] sociale. Esso si protende verso un altro essere umano, eisge la presenza di un altro essere umano e si sforza di forgiare tale presenza in un’unione. Anela l’aggregazione, rende ogni essere umano, per quanto completo e per alti aspetti autosufficiente, incompiuto e monco – a meno che non sia unito a un altro essere umano» [p. 53].
E’ perciò soprattutto a partire da questo capitolo che il sociologo getta una sguardo preoccupato sulle forme della socialità che si esprimono nell’età contemporanea, forme che tradiscono un’incapacità crescente degli individui di uscire da sé e trovare modi gratificanti di aggregazione. Di tale disagio è indice anche la sessualità che
«non compendia più l’ideale di piacere e felicità. Non è più mistificato, in senso positivo come estasi e trasgressione, quanto piuttosto, in senso negativo, come causa di oppressione, ineguaglianza, violenza, abuso e infezione letale» [p. 54].
Il sesso sembra diventato il regno non più di Eros, ma del suo vendicativo fratello Anteros, il dio dell’amore respinto. Sotto gli auspici di questa divinità – prosegue Bauman, insistendo nella metafora mitologica – le passioni devono essere messe al bando e il sesso viene proclamato un’azione razionale, calcolata, dettata da regole ferree: il risultato?:
«Oggi tutti sono al corrente e nessuno ha la più pallida idea» [p. 54].
L’uomo contemporaneo è orfano di Eros. Proprio per questo, il sesso è medicalizzato e fa si che ci si rivolga sempre più spesso al terapeuta. Ci si cura per le patologie della propria vita sessuale e della propria fecondità.
«Oggi la medicina compete con il sesso per la responsabilità sulla “riproduzione”». L’affascinante prospettiva, appena dietro l’angolo – ironizza Bauman – «di scegliere un figlio da un catalogo di attraenti donatori, allo stesso modo in cui i consumatori contemporanei sono abituati a fare ordinativi tramite le aziende di vendita per corrispondenza o le riviste di moda e avere quel figlio scelto da loro nel momento scelto da loro» [p. 56].
C’è stato un tempo in cui i figli erano ponti tra mortalità e immortalità, tra la vita dell’individuo orribilmente breve e una durata auspicabilmente infinita della stirpe. Morire senza figli voleva dire non costruire mai più tale ponte. Con la nuova fragilità delle strutture familiari, con l’aspettativa di vita di molte famiglie più breve di quella dei suoi singoli membri, fare un figlio diventa sempre più spesso una questione di scelta – ma di una scelta revocabile – un figlio può essere un ponte verso qualcosa di più durevole. Ma di cosa? Di un rapporto genitore-figlio più stabile di quello della coppia genitoriale?
Secondo Bauman i figli oggi «sono prima di ogni altra cosa e più di ogni altra cosa, oggetti di consumo emotivo» [p. 58]. Gli oggetti di consumo soddisfano i bisogni, desideri o capricci del consumatore e altrettanto fanno i figli. I figli sono desiderati per la gioia dei piaceri genitoriali che si spera arrecheranno, il tipo di gioie che nessun altro oggetto, per quanto ingegnoso o sofisticato, può offrire.
I figli sono probabilmente gli acquisti più costosi che i consumatori medi compiono in tutta la loro vita. Cosa ancora peggiore, è probabile che il costo totale aumenti nel corso degli anni e il suo volume non può essere determinato anticipatamente, né calcolato con qualche grado di certezza. Ma, in un mondo che non offre più carriere sicure e lavori stabili, per tutti quelli che passano da un progetto all’altro e che in questo modo si procurano da vivere, firmare un contratto ipotecario con termini di pagamento di entità segreta e durata indefinita significa esporsi a un rischio altissimo e a una prolifica fonte di ansie e di paure. Inoltre, oggi avere figli è una questione di libera scelta, non una casualità, circostanza questa che accresce ancora di più l’ansia.
«”Mettere su famiglia” è come tuffarsi testa in giù in acque sconosciute di cui non si conosce la profondità: Abbandonare o posticipare altre seducenti gioie di un’attrazione consumistica ancora mai provata»,
ma non è l’unica conseguenza. Avere figli significa assumersi la responsabilità del benessere di un’altra creatura più debole e indifesa. L’autonomia delle proprie scelte è destinata ad essere compromessa, reiteratamente, anno dopo anno, quotidianamente:
«si corre il rischio di diventare, orrore degli orrori, “dipendente”» [vedi Massimo Recalcati, Incubi della modernità: madri narciso e madri coccodrillo].
Avere figli potrebbe comportare l’esigenza di ridurre le proprie ambizioni professionali, di “sacrificare al carriera”, in quanto chi è chiamato a giudicare il rendimento professionale di una persona, non vedrebbe di buon occhio il benché minimo segnale di fedeltà separate. Ma la cosa più grave e dolorosa di tutte per l’uomo contemporaneo è accettare questa dipendenza per un tempo indefinito, assumere un impegno irrevocabile a tempo indeterminato: è il tipo di obbligo che mal si confà al modo di vivere liquido-moderno.
«Acquisire la consapevolezza di un tale impegno può rivelarsi un’esperienza traumatica: depressione post-parto e crisi coniugali (o di convivenza) dopo la nascita di un figlio appaiono mali prettamente liquido-moderni, allo stesso modo dell’anoressia, della bulimia e di innumerevoli forme di allergia. Le gioie dell’essere genitori, fanno insomma parte di un pacchetto tutto compreso, contenente anche le pene dell’autosacrificio e le paure di ignoti pericoli»:
né la clausola soddisfatti o rimborsati, né la promessa di un servizio di assistenza post-vendita fanno parte dell’evento nascita-di-un-figlio.
«In conclusione: l’ormai ampiamente riconosciuta separazione del sesso dalla funzione riproduttiva è assistita dal potere. E’ un prodotto congiunto dello scenario di vita liquido moderno e del consumismo quale strategia scelta e unica disponibile di “cercare soluzioni biografiche a problemi prodotti dalla società”. È la mescolanza di questi due fattori che sottrae le questioni della riproduzione e del parto all’ambito sessuale e le consegna ad una sfera affatto diversa, guidata da una logica e da regole totalmente avulse dall’attività sessuale». «Come a voler anticipare il modello che avrebbe prevalso ai nostri tempi, Erich Fromm tentò di spiegare l’attrattiva del “sesso in quanto tale” (sesso fine a se stesso, sesso praticato separatamente dalle sue funzioni ortodosse), definendo la sua qualità una risposta (fuorviante) all’umanissimo “desiderio di una fusione completa” attraverso una “illusione di unione” [p. 62].
Unione: è esattamente ciò che uomini e donne cercano, cercando disperatamente di sfuggire alla solitudine.
Illusione: perché l’unione raggiunta nel breve momento dell’apice orgasmico
«lascia gli estranei distanti esattamente come lo erano prima» cosicché «essi avvertono il loro estraneamento in modo ancora più marcato di prima» (le citazioni sono di Fromm). In tale modo, secondo Fromm, l’orgasmo sessuale «assume una funzione che lo rende non molto diverso dall’alcolismo e dalla tossicodipendenza». Al pari di questi, esso è intenso, ma «transitorio e periodico». L’unione è illusoria, secondo Fromm, e il sesso destinato a rivelarsi frustrante, a causa della separazione dall’amore (ovvero, sottolinea Bauman, da una dedizione intenzionalmente duratura, a tempo indefinito, verso il benessere del partner). Ancora per Fromm, «il sesso può essere solo uno strumento di genuina fusione, anziché essere un’effimera, ingannevole e in ultima analisi autodistruttiva impressione di fusione, grazie alla sua comunione con l’amore. Qualunque capacità di generare unione il sesso possa possedere, deriva dalla sua stretta connessione con l’amore» [p. 63]».
«Come a voler anticipare il modello che avrebbe prevalso ai nostri tempi, Erich Fromm tentò di spiegare l’attrattiva del “sesso in quanto tale” (sesso fine a se stesso, sesso praticato separatamente dalle sue funzioni ortodosse), definendo la sua qualità una risposta (fuorviante) all’umanissimo “desiderio di una fusione completa” attraverso una “illusione di unione” [p. 62].
Secondo Bauman, però,
«dai tempi di Fromm, l’isolamento del sesso dagli altri regni della vita è progredito più rapidamente che mai» [p. 63].
Per questo ci si attende oggi che il sesso sia autonomo e autosuffciente, che la performance sessuale il più alto grado di perfezione e che arrechi il più alto grado di soddisfazione. Ma in questo modo, esso è diventato paradossalmente sempre più insoddisfacente: non regge al’esame delle alte aspettative ed è esso stesso fonte di frustrazione e ansia. La vittoria del sesso nella «guerra di indipendenza» dalle altre relazioni umane è dunque una vittoria di Pirro. E’ una vittoria nella quale il sesso si presenta come aspirazione alla felicità senza legami, libera da effetti collaterali, una felicità del genere «soddisfatti o rimborsati», ovvero una felicità che è la massima incarnazione della libertà liquido-moderna: una libertà di consumare (dopo quella del “sapiens” siamo all’era dell’homo consumens).
«La vita del consumatore predilige la leggerezza e la velocità, nonché la novità e la varietà che si spera leggerezza e velocità stimolino e facilitino. Di norma, l’utilizzabilità di un prodotto sura ben più a lungo dell’attrattiva che esercita agli occhi del consumatore. Ma se usato troppo a lungo, il prodotto acquistato ostacola la ricerca di varietà e a ogni successivo utilizzo la vernice della novità si deteriora e si scrosta» [p. 69].
Il matrimonio è la negazione di un uso ottimale delle proprie risorse sessuali in quanto costituisce un patto di esclusiva e di durevolezza della relazione. In questo clima, emergono nuove abitudini e nuovi modi di coniugare l’esclusività della relazione e la massima soddisfazione nella variazione del partner: lo scambismo, la pratica di scambiarsi il partner per una sera, sembra andare per la maggiore nelle grandi metropoli del nord. Esso infatti, sembra avere tutti i vantaggi e nessuno degli svantaggi della nuova relazione liquido-moderna: non è un adulterio (che minerebbe la stabilità della coppia incrinando la fiducia reciproca dei coniugi) poiché i coniugi sono informati e consenzienti dell’azione del partner e la riproducono nel medesimo tempo: il ménage à quatre sembra più efficace del ménage à trois.
A questo punto la riflessione di Bauman si sofferma sulla definizione del rapporto tra sesso e civiltà di Freud. Come si ricorderà, secondo Freud, sessualità e civiltà, libido e società, sono incompatibili: la civiltà sorge sulle energie sublimate degli uomini che rinunciano a scaricare sulla sessualità la loro energia vitale. Questa lettura freudiana era alla base della critica radicale che lo studioso muoveva alla società moderna, vista come una società essenzialmente repressiva, i cui luoghi di controllo e dominio sono stati individuati molto più tardi, dagli studiosi degli anni ’70 (tra cui Foucault, Deleuze e Lyotard) nella fabbrica, nella scuola, nel carcere (cioè nelle foucaultiane istituzioni disciplinari). E’ a questo insieme di studi che Bauman fa implicitamente riferimento quando osserva:
«dopo l’era in cui l’energia sessuale doveva essere sublimata per tenere in funzione la catena di montaggio della fabbrica di automobili, è giunta l’era in cui c’è stato bisogno che l’energia sessuale venisse nutrita, lasciata libera di scegliere qualsiasi canale di sfogo disponibile e incoraggiata a dilagare, di modo che le automobili che lasciavano la catena di montaggio potessero essere desiderate come oggetti sessuali».
«Sembra che il legame tra la sublimazione dell’istinto sessuale e al sua repressione, da Freud ritenuto una condizione indispensabile di qualunque ordinamento sociale regolato, si sia spezzato. La società liquido moderna ha trovato un modo di sfruttare la propensione/disponibilità dell’uomo a sublimare gli istinti sessuali senza ricorrere affatto alla loro repressione. Ciò si è verificato grazie alla progressiva deregolamentazione dei processi di sublimazione che mutano perpetuamente direzione, guidati dalla seduzione degli oggetti del desiderio sessuale in offerta anziché da qualsiasi pressione coercitiva» [p. 80].
La diagnosi di Bauman si accorda su questo punto, con quella dei filosofi post-modernisti quali Deleuze e Lyotard, secondo i quali a partire dalla frattura socio-economica dei primi anni ‘60, staremmo abbandonando le foucaltiane società disciplinari per entrare nelle società di controllo: il postmoderno si qualifica infatti per l’allentamento del controllo-dominio centralizzato a vantaggio di un controllo capillare, reticolare e decentralizzato di cui la rete internet rappresenta la metafora per eccellenza, a cavallo tra l’onnipresenza della telecamera (il grande fratello, ovvero il massimo controllo del panottico ovunque) e la moltiplicazione delle possibilità espressive (dunque di libertà) di ognuno.
Conclusione [mia]
Il superamento postmoderno della dinamica edipica di costruzione dell’Io e dell’epoca delle nevrosi (l’epoca di Freud e della psicanalisi), ha aperto l’epoca delle psicosi, in cui gli individui non riescono più a costituirsi come soggetti e non soffrono più dunque, della repressione del desiderio, ma dell’inesistenza del principio di senso della realtà, cioè dell’Io. E’ l’individuo lacaniano del discorso del capitalista, è l’uomo senza inconscio di Recalcati.
[Elaborazione dagli atti di un convegno dell’Università di Bergamo] L’espressione «discorso del capitalista» è dello psicanalista Jacques Lacan. La sua tesi è che il fondamento ideologico e culturale del capitalismo sia un discorso dello slegame, della proliferazione della frammentazione e della precarietà della condizione esistenziale e sociale.
Egli rovescia l’ipotesi di Max Weber, che trova la genesi spirituale del capitalismo nell’ascetismo protestante, nella rinuncia e nel sacrificio di sé. Il «discorso del capitalista» esalta il godimento a scapito di ogni forma di legame. Il sacrificio di sé tipico dei primi capitalisti, è annullato dall’imperativo del consumismo, inteso come consumo di consumo. Dopo due secoli di incontrastato sviluppo, Lacan intuisce che il capitalismo non è solo uno dei modi più potenti di trasformare la società, da feudale a industriale, da contadina a urbana, da nazionale a globale, ma è un discorso che frantuma le relazioni affettive e solidali.
Il «discorso del capitalista», più di ogni altro, impoverisce la complessità del presente e le nostre qualità mentali. Pone dei forti limiti a quell’immaginazione creativa necessaria per interpretare in modo evolutivo le trasformazioni in corso. Il «discorso del capitalista» è una manifestazione del pensiero positivista monocausale. Espressione di una visione dell’agire sociale unidimensionale, esso rimanda agli schemi dualistici tipici della modernità (comunità/società, civiltà/cultura, Stato/società civile, normale/patologico), che hanno operato una riduzione drastica della complessità sociale e culturale.
Il «discorso del capitalista» è dunque immediatamente produttore di realtà, della quale si osservano le derive dell’utilitarismo, della crisi della gerarchia, della mercificazione, della “liquefazione” dei rapporti e delle regole, dei processi di normalizzazione e standardizzazione, ecc. Il pervertimento dell’utile, ad esempio, indica che, nell’attribuire un valore all’azione sociale, l’utile è il singolo parametro, che annichilisce qualsiasi altra dimensione dell’agire. Bellezza, giustizia, solidarietà, evaporano, assumendo la fumosità retorica delle buone intenzioni. Nella relazione con l’altro diventa prioritario avere un congruo tornaconto e le relazioni sociali tendono ad assumere un valore strumentale. Non solo l’utilità è assunta a valore, ma anche l’idea di performance efficiente è centrale, nel senso della velocità con cui si deve ottenere ciò che serve [da vent’anni la scuola sta cambiando in questa direzione: smettendo di preoccuparsi della crescita integrale degli studenti e adottando criteri di mera misurazione dell’adeguatezza a singoli compiti. NDR]. I contesti sociali richiedono una velocità di esecuzione degli obiettivi imposti o sollecitati che lascia poco tempo per ritardi, eventi gratuiti, momenti di socialità, di ascolto e di condivisione, ecc. Oltre all’utilità, e alla velocità, è richiesto di rispondere a standard rigorosi, che stabiliscono criteri universali per essere più veloci ed efficienti nel raggiungimento dei risultati.
La metafora millsiana del “docile robot” rende immediatamente il significato che si tende ad attribuire all’ottimizzazione dei processi produttivi.
È l’inumano tecnologico riproducibile in modo seriale, dove la dimensione sociale e artigianale del lavoro rischia continuamente di essere ridotta a procedura standardizzabile e anonima. L’umano del gesto tende trasformarsi in una componente meccanica riproducibile, impersonale, volta alla veloce precisione di un gesto utile e puntuale, che non si può permettere approssimazioni o improvvisazioni fuori dagli schemi protocollati. Restano forse spazi e tempi nuovi, inesplorati, in cui l’umano possa esprimersi con tutta la sua spontaneità, fragilità, consapevolezza. Al di fuori del gergo dell’ossessivo, dell’utile, del performativo, gli ambiti generativi della socialità, della giustizia, della prossimità forse possono ancora essere frequentati. Un forse che non è semplicemente avverbio dubitativo, ma è – come disse una volta André Neher – un “teologumeno”, appiglio sottile ma sublime su cui il discorso del capitalista si infrange, pietra d’inciampo su cui provare a modulare un’andatura nuova. Non pascersi nel vittimismo significa anche mantenere vigile l’attenzione, la “preghiera spontanea dell’anima”, verso le occasioni di riscatto, di nuovo inizio.
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