Chi ricerca le vere cause dei miracoli e chi si studia di capire da saggio le cose naturali e non di meravigliarsene come uno stolto,
è ritenuto e proclamato ora eretico ora empio da quelli che il volgo adora come interpreti della natura e degli dèi.
Essi sanno infatti che, tolta l’ignoranza, viene meno lo stupore,
l’unico mezzo che abbiano per sostener e difendere la loro autorità.
Etica, Parte II
Essere spinoziani è l’inizio essenziale del filosofare.
Georg Wilhelm Hegel
Indice
1. Il distacco dalla scolastica e il meccanicismo
2. Il fine della conoscenza e il metodo geometrico-matematico
2.1 Il De Intellectus Emendatione
2.2 Beni finiti e bene autentico
2.3 Le forme di conoscenza e il metodo
3. L’unicità della sostanza
3.1 Il concetto di sostanza
3.2 Le proprietà della sostanza
4. La concezione di Dio e il panteismo
4.1 Dio come natura naturans e natura naturata
4.2 La necessità della sostanza che è causa sui
4.3 Deus sive natura
4.4 Il rapporto tra Dio e il mondo: attributi e modi
5. Il determinismo e l’antifinalismo
5.1 Il determinismo
5.2 L’antifinalismo
5.3 La religione come pregiudizio
6. L’etica
6.1 Passioni e appetiti
6.2 Vivere da umani: liberarsi delle passioni tristi e coltivare la gioia
7. Il Trattato «forgiato all’Inferno»
1. Il distacco dalla scolastica e il meccanicismo
Nato ad Amsterdam il 24 novembre 1632 da una famiglia ebrea sefardita originaria del Portogallo, Baruch Spinoza è uno dei massimi razionalisti del XVII secolo.
Come Cartesio, Spinoza eredita dalla scolastica concetti e problematiche, in particolare la nozione di sostanza che concepisce come unica, in opposizione alla molteplicità delle sostanze aristoteliche.
Il distacco dalla scolastica è tuttavia evidente in entrambi: la fisica aristotelica era infatti modellata sulla biologia e il vivente serviva da paradigma per la comprensione dell’insieme della natura, concepito finalisticamente [tutto tende verso un fine e non c’è dunque nulla di contingente o casuale nel mondo].
La fisica moderna, invece, ha per modello la materia e le sue leggi. Interpreti della rivoluzione scientifica, Cartesio e Spinoza sostituiscono così al finalismo aristotelico un modello meccanicistico per il quale di ogni fenomeno si può dar conto attraverso gli urti della materia regolati da leggi.
La natura stessa è l’insieme di queste leggi, universali e oggettive, che regolano ogni fenomeno, così che il caos e la contingenza non hanno alcun ruolo nella loro spiegazione.
La natura infatti è sempre la stessa e la sua virtù e potenza di agire è una e medesima dappertutto; cioè le regole e le leggi della natura, secondo le quali tutte le cose divengono, e certe forme si tramutano in altre, sono dovunque e sempre le stesse, e perciò uno e medesimo deve anche essere il modo di intendere la natura di tutte le cose, quali che siano, ossia mediante le universali leggi e regole della natura [Etica, Parte III, P6].
Di qui un cambiamento radicale nel rapporto tra natura e scienza. Le leggi della natura sono infatti interamente trasparenti alla mente umana perché traducibili in formule matematiche.
Alle pretese della scienza moderna Spinoza fornisce una solida base metafisica, superando anche i risultati di Cartesio che aveva puntato ad assicurare alla mente umana una conoscenza salda e dotata di certezza.
Per il filosofo francese, infatti, ciò che l’uomo conosce è il mondo come realmente è, cioè com’è fatto da Dio, ma non per questo l’uomo ha accesso alla mente e alla natura divine che, secondo Cartesio, avrebbe potuto (e potrebbe) creare logiche e mondi diversi, rendendo inaccessibile all’uomo la verità ultima di cui è fondamento. La scienza è così certa e oggettiva, ma metafisicamente relativa, poiché altri mondi sarebbero possibili.
Il Dio di Spinoza, invece non è libero: il mondo attuale è l’unico possibile [il suo ordine è necessario].
Ne consegue che la conoscenza umana non è solo vera, ma è anche assoluta, poiché non attesta solo come il mondo è fatto, ma rivela anche l’unico modo in cui poteva essere fatto.
Quando è vera, la conoscenza umana coincide, dunque, con quella divina, così che nessuna garanzia è richiesta per attestarne la certezza. Il fine della conoscenza non è così più la fondazione della certezza scientifica, ma, come per gli stoici, la felicità dell’uomo.
2. Il fine della conoscenza e il metodo geometrico-matematico
Nel 1622 Spinoza inizia a stendere il Trattato sull’emendazione dell’intelletto (Tractatus de Intellectus Emendatione, rimasto incompiuto e pubblicato postumo come quasi tutte le opere del filosofo) nel quale, analogamente al cartesiano Discorso sul metodo, riflette sulla conoscenza e sulla ricerca della verità.
In continuità con la tradizione ellenistica [cfr. il Protrettico aristotelico], il filosofo lega la ricerca del sapere alla felicità, come si legge nella bella introduzione.
2.1 Il De intellectus emendatione
[1] Dopo che l’esperienza mi ebbe insegnato che tutto ciò che spesso ci si presenta nella vita comune è vano e futile – e vedendo come tutto ciò che temevo direttamente o indirettamente non aveva in sé niente di buono né di cattivo, se non in quanto l’animo ne veniva commosso, decisi infine di ricercare se ci fosse qualcosa di veramente buono e capace di comunicarsi e da cui solo, respinti tutti gli altri falsi beni, l’animo potesse venire affetto; meglio ancora, se ci fosse qualcosa tale che, trovatolo e acquisitolo, potessi godere in eterno di continua e grandissima felicità.
[2] Dico « infine decisi »: infatti a prima vista sembrava pazzesco voler lasciare il certo per qualcosa d’ancora incerto.
Consideravo appunto gli agi che s’acquistano con le ricchezze e con gli onori e vedevo che sarei stato costretto ad astenermi dal ricercarli se volevo dedicarmi seriamente ad altra, nuova indagine; e se poi la somma felicità si fosse trovata in essi, mi accorgevo che avrei dovuto rimanerne privo. Ma se non si fosse trovata lì e io avessi ricercato solo gli agi, anche in tal caso sarei rimasto privo della somma felicità.
[3] Pensavo dunque se mai fosse possibile raggiungere una nuova impostazione della mia vita, o almeno la certezza su di essa, pur non mutando l’ordine ed il sistema normale della mia vita; ma lo tentai spesso invano.
Infatti, ciò con cui per lo più si ha a che fare nella vita e che gli uomini, per quel che si può dedurre dalle loro opere, stimano sommo bene, si riduce a queste tre cose: le ricchezze, i successi, il piacere dei sensi.
La mente viene da queste tre cose così distratta che non può affatto pensare ad un qualche altro bene.
[4] Infatti per ciò che riguarda il piacere dei sensi, l’animo ne viene tanto assorto come se riposasse in un qualche bene.
Ciò gl’impedisce in maniera gravissima di dedicarsi ad altri pensieri. Ma dopo il godimento di quel piacere segue una grande tristezza che, se non annienta la mente, tuttavia la turba e la stordisce. Anche perseguendo ricchezze ed onori la mente si distrae non poco dal vero bene. E ciò particolarmente quando tali ricchezze ed onori si ricercano solo per se stessi, perché allora si suppone che essi siano il sommo bene.
[5] Dalla ricerca degli onori poi la mente viene assorbita molto di più, perché si ritiene sempre che essi siano dei beni di per sé e si considerano come fine ultimo al quale tutto si indirizza. Inoltre al conseguimento di queste due specie di beni non consegue, come invece a quello del piacere sensuale, il pentimento, ma quanto più si possiede di entrambi, tanto più aumenta la gioia e di conseguenza tanto più siamo eccitati ad aumentarli entrambi; ma se in qualche caso siamo delusi nella nostra speranza, allora nasce una grande tristezza. Infine la ricerca degli onori è di grande impedimento in quanto, per conseguirli, necessariamente bisogna regolare la vita secondo i criteri comuni, evitando ciò che tutti gli altri evitano e cercando ciò che tutti cercano.
[6] Vedendo dunque che tutte queste cose mi ostacolavano nella mia impresa di dare una nuova impostazione alla mia vita, anzi che vi erano tanto contrarie da essere necessario rinunciare alle une o all’altra, fui costretto a ricercare che cosa mi fosse più utile; infatti, come ho detto, mi sembrava voler lasciare un bene certo per uno incerto. Ma dopo un po’ di riflessione mi accorsi che se, tralasciate quelle norme di vita, mi fossi accinto a seguirne una nuova, avrei lasciato un bene per sua natura incerto (come si può chiaramente desumere da quanto è stato detto), per un bene incerto non per sua natura (ricercavo, infatti, un bene stabile), ma solo quanto al suo conseguimento.
[7] Meditando costantemente, arrivai alla conclusione che, purché potessi riflettere a fondo, avrei abbandonato dei mali certi per un bene certo. Vedevo, infatti, che versavo in estremo pericolo e che ero costretto a cercare con tutte le forze un rimedio, fosse esso anche incerto; come uno colpito da una malattia mortale che, prevedendo certa la morte se non si apporti un rimedio, è costretto a cercarlo, anche se esso è incerto, con tutte le forze, poiché in esso è riposta tutta la sua speranza; ma quei tali « beni » a cui tutti aspirano non solo non apportano nessun rimedio utile a conservare il nostro essere, ma anzi impediscono ciò; di frequente poi sono causa della perdita di coloro che li posseggono – se è lecito dirlo – e sempre causa della perdita di coloro che ne sono posseduti.
[8] Infatti ci sono moltissimi esempi di persone che hanno subito persecuzioni, fino a morirne, a causa delle proprie ricchezze; ed anche esempi di persone che per acquistare ricchezze si sono esposte a tanti pericoli da pagare infine con la vita la loro pazzia. Né sono meno numerosi gli esempi di persone che per conquistare onori o per difenderli hanno sofferto i mali più penosi. Infine sono innumerevoli gli esempi di persone che con i loro stravizi si sono affrettata la morte.
[9] In verità mi sembrava che tutti questi mali erano sorti dal fatto che ogni felicità o infelicità risiede solo nella qualità dell’oggetto col quale l’amore ci unisce. Infatti per ciò che non si ama non sorgeranno mai liti, non ci sarà tristezza se verrà meno, non invidia se sarà posseduto da un altro, non timore, non odio; in una parola, l’animo non si commuoverà affatto. Passioni, tutte queste, che invece hanno luogo nell’amore dei beni che possono perire, come sono tutti quelli dei quali abbiamo parlato.
[10] Ma l’amore per una cosa eterna ed infinita nutre l’animo di sola letizia, priva di ogni tristezza; cosa che è da desiderare grandemente e da ricercare con tutte le forze.
Ora non senza ragione ho usato l’espressione seguente: « purché potessi riflettere seriamente ». Infatti, sebbene capissi certamente bene queste cose, non potevo tuttavia per questo spogliarmi di ogni desiderio di ricchezze, di piaceri e di successi sociali.
[11] Ma intanto constatavo che, per tutto il tempo che la mente faceva di questi pensieri, si distoglieva da quei falsi beni e pensava seriamente a una nuova condotta di vita. E ciò mi fu di grande consolazione.
Infatti vedevo così che quei mali non erano tali da non voler cedere ai rimedi. E benché all’inizio queste pause fossero rare e durassero pochissimo, tuttavia, dopo che il vero bene mi divenne sempre più noto, esse furono più frequenti e più lunghe, particolarmente dopo essermi reso conto che l’acquisizione di ricchezze o il piacere e la gloria nuocciono nella misura in cui li si ricerchi per se stessi e non come mezzi per altri fini; ma se li si ricerca come mezzi allora resteranno contenuti entro certi limiti e non saranno affatto di ostacolo, anzi di grande aiuto (come mostreremo a suo luogo) per arrivare al fine per il quale si ricercano [Tractatus de intellectus emendazione].
2.2 Beni finiti e bene autentico
I beni universalmente ricercati dagli uomini sono dunque ingannevoli e vani perché, in quanto esteriori e transitori, non appagano veramente l’animo (il loro soddisfacimento è seguito da tristezza, insoddisfazione, bramosia).
Spinoza non li condanna in quanto tali (la sua non è una condanna moralistica), ma solo perché, scambiati per il massimo bene, incatenano l’animo impedendogli di ricercare un bene più stabile e appagante (la libidine impedisce di pensare a qualsiasi altra cosa; la ricerca del successo impone l’adesione alle opinioni altrui; quella della ricchezza espone a mali e pericoli ..).
Il filosofo non condanna quindi i beni finiti dell’esistenza, ma solo la loro assolutizzazione e la loro quotidiana trasformazione da mezzi in fini
“l’acquisizione di ricchezze o il piacere e la gloria nuocciono nella misura in cui li si ricerchi per se stessi e non come mezzi per altri fini; ma se li si ricerca come mezzi allora resteranno contenuti entro certi limiti e non saranno affatto di ostacolo, anzi di grande aiuto”.
L’unico bene in grado di arrecare piena soddisfazione è, invece,
l’amore per la cosa eterna e infinita [che] riempie l’animo di pura letizia e lo rende immune da ogni tristezza,
perché immerge la mente non in una gioia passeggera, ma in una felicità stabile e ferma come il suo oggetto. Tuttavia, mentre per i filosofi cristiani (primo tra i quali Agostino) la «cosa eterna e infinita» si identifica con Dio e la gioia con il suo raggiungimento celeste, per Spinoza l’infinito e l’eterno si identificano con il cosmo, e la gioia suprema
con l’unione della mente con la natura.
Questo traguardo di beatitudine viene presentato da Spinoza in chiave non solo individuale, ma comunitaria:
fa parte della mia felicità anche l’adoprarmi perché molti altri pensino come me ed il loro intelletto e i loro desideri s’accordino perfettamente con il mio intelletto e con i miei desideri.
Per fare questo, vale a dire per accordare armonicamente noi stessi con tutto ciò che esiste e con i nostri simili, occorre conoscere l’intima natura delle cose e distinguere la verità dall’errore. Spinoza si muove qui in modo diverso da Cartesio che aveva cercato la certezza nell’analisi e nella scomposizione dell’oggetto di scienza.
2.3 Le forme di conoscenza e il metodo
Analizzando le forme di conoscenza esistenti, le distingue in quattro generi: la conoscenza per sentito dire, che ci porta a seguire le opinioni altrui; l’esperienza vaga, nella quale ci fondiamo sulla nostra esperienza non condotta secondo ordine, ma acquisita casualmente; la ragione dimostrativa, per la quale risaliamo dagli effetti alla causa e, infine, l’intuizione, con la quale conosciamo gli effetti attraverso le cause e l’ente incausato (cioè che ha in se stesso la propria causa o ragion d’essere) direttamente nella sua essenza.
Di queste quattro tipologie, solo l’ultima ci consente di comprendere adeguatamente l’essenza delle cose e conduce, quindi, nell’ambito del vero.
Ma, come riconoscere un’intuizione vera? Spinoza rifiuta un metodo che prima acquisisca le idee e dopo giudichi della loro verità o falsità e si serve invece di un metodo che organizza deduttivamente le conoscenze intorno all’idea vera già data. In altre parole, è l’analisi dell’idea vera che indica come procedere perché la conoscenza non sia erronea e si riveli feconda.
L’idea fondante il sistema delle conoscenze dovrà essere, perciò, quella da cui tutte le altre idee dipendono, ossia l’idea di un essere che sia causa di tutte le cose; seguiranno poi le idee delle leggi di natura che valgono per tutti gli enti. Cosi l’ordine della conoscenza riprodurrà l’ordine dell’intera natura:
l’ordine e la connessione delle idee è identico all’ordine e alla connessione delle cose [Etica, I, P7]
[si riconoscerà qui il problema della corrispondenza del contenuto delle idee con la realtà che, da Cartesio in poi, condiziona tutta la filosofia moderna]. La questione dell’ordine delle conoscenze è dunque centrale: la deduzione delle proprietà dalla definizione data è, nel pensiero, quel che in natura è la produzione dell’effetto dalla causa.
Se si troveranno le definizioni vere, quelle da cui tutte le proprietà del definito derivano, il pensiero avrà quindi la garanzia ai muoversi nell’ambito dell’oggettività. Ogni conoscenza che non rispetti questo ordine, e che parli degli effetti senza conoscere le cause, è quindi irrimediabilmente erronea: si tratta della conoscenza immaginativa (mutilata cognitio) che, ignorando le cause, finge spiegazioni fantastiche per ogni fenomeno naturale. Come vedremo, le tesi fondamentali di questa opera incompiuta saranno sviluppate nella teoria della conoscenza contenuta nell’Ethica more geometrico demonstrata, il capolavoro di Spinoza,
Composta in un secolo che erige le scienze matematiche a modello conoscenza vera, l’Etica è, come afferma il titolo, dimostrata secondo il metodo geometrico cioè, si apre con una serie di definizioni e di assiomi a partire dai quali si dimostrano le proposizioni (i teoremi) e gli scholii relativi (o chiarimenti).
La ricerca della verità si muove dunque all’interno della verità stessa: non la certezza soggettiva, dunque, ma la concatenazione deduttiva delle idee secondo premesse e conseguenze deve essere il filo conduttore del sistema. In questo modo, mentre Cartesio aveva ritenuto più adatto alla ricerca della verità il metodo analitico (si affrontano dimostrazioni particolari ad una ad una, senza esporre gli assiomi da cui dipendono), lasciando quello sintetico (da assiomi o definizioni si deducono le dimostrazioni cioè i teoremi) per l’esposizione dei risultati, per Spinoza non c’è differenza tra il metodo della ricerca e l’esposizione della verità: dovendo entrambi rispettare la concatenazione logica del vero, l’unico metodo da seguire è quello sintetico, o geometrico.
3. L’unicità della sostanza
3.1 Il concetto di sostanza
Il concetto fondamentale da cui Spinoza parte per dedurre tutto il sistema del sapere metafisico è quello di sostanza. Nella tradizione greco-medievale, per sostanza si intendeva sia la forma, cioè l’essenza necessaria di una cosa, sia (aristotelicamente) il cosiddetto sinolo, cioè l’individuo concreto in cui essa è incarnata, e si considerava il mondo come un insieme di sostanze gerarchicamente ordinate. Insistendo sull’autonomia e sull’autosussistenza della sostanza (la quale, a differenza degli accidenti, esiste di per sé), Cartesio aveva finito per riferirla non più agli individui, bensì a Dio, inteso come realtà originaria e autosufficiente per eccellenza, che, essendo causa sui (causa di sé), non riceve l’esistenza da altro.
Tuttavia Cartesio non era stato completamente fedele a se stesso, poiché accanto a Dio aveva ammesso, come sostanze seconde o derivate, la res extensa e la res cogitans, intese come due realtà che per esistere hanno bisogno unicamente di Dio. L’ambiguità cartesiana era dunque evidente: se da un lato la sostanza era definita come una cosa che per esistere non ha bisogno che di se medesima, dall’altro lato comprendeva realtà (il pensiero e l’estensione) che per esistere hanno bisogno di un’altra sostanza (Dio). Andando oltre Cartesio, Spinoza si propone dunque di sviluppare con la massima coerenza tutte le implicanze logiche della nozione di sostanza. Egli intende per sostanza
«ciò che è in sé e per sé si concepisce, vale a dire ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa da cui debba essere formato» [Etica, I, def. III].
Con la prima parte della definizione («è in sé») Spinoza afferma che la sostanza, venendo da sé (in sé = da sé), deve la propria esistenza unicamente a se stessa ed è quindi una realtà autosussistente e autosufficiente, che per esistere non ha bisogno di altri esseri. Con la seconda parte, («e per sé si concepisce») intende affermare che la nozione di sostanza, essendo concepibile soltanto per mezzo di se medesima, rappresenta un concetto che per essere pensato non ha bisogno di altri concetti. La sostanza gode pertanto di una totale autonomia ontologica e concettuale, poiché è una realtà che non presuppone l’esistenza di alcuna altra realtà, ma è anzi presupposta da ogni altra possibile realtà, ed è un concetto che non presuppone alcun altro concetto, ma è anzi presupposto da ogni altro possibile concetto.
3.2 Le proprietà della sostanza
Dalla definizione della sostanza come «ciò che è in sé e per sé si concepisce» Spinoza deriva una serie di proprietà che la caratterizzano:
1. la sostanza è increata (def. I), in quanto, essendo, per natura, causa di sé (causa sui), cioè un ente «la cui essenza implica l’esistenza», non ha bisogno di altro per esistere;
2. la sostanza è eterna, perché essa possiede, come sua nota costitutiva, l’esistenza, che non riceve da altro: «intendo per eternità l’esistenza stessa, in quanto è concepita come conseguenza necessaria della sola definizione di una cosa eterna» (def. VIII);
3. la sostanza è unica, perché «nella natura non si possono dare due o più sostanze della medesima natura ossia del medesimo attributo» (prop. 5);
4. la sostanza è infinita, perché se fosse finita, «dovrebbe essere limitata da un’altra della medesima natura, la quale a sua volta dovrebbe esistere necessariamente» (prop. 8).
4. La concezione di Dio e il panteismo
Questa sostanza increata, eterna, infinita, unica (e quindi anche indivisibile) non può essere che Dio, ovvero quell’Assoluto di cui hanno sempre parlato le filosofie e le religioni, e della cui esistenza Spinoza è più certo di quanto lo sia dell’esistenza di qualunque altra realtà.
Così, mentre gli empiristi prendono le mosse dalla certezza delle cose sensibili e Cartesio dalla certezza del soggetto che pensa, come principio del sapere Spinoza assume Dio, la cui esistenza si impone alla ragione come verità evidente. E’ questa la ragione per cui lunga sezione con cui si apre l’Etica è dedicata a Dio (De Deo).
4.1 Dio come natura naturans e natura naturata
Il Dio di Spinoza, però, non è quello teorizzato dalla tradizione giudaico-cristiana (il Dio-persona di Pascal). Il filosofo lo identifica invece con la sostanza che è al tempo stesso causa di sé e realtà causata: cioè, nel linguaggio spinoziano, natura naturans e natura naturata. Dio è, insomma, natura che è causa immanente (naturante) ed effetto (naturata) di se stessa.
4.2 La necessità della sostanza che è causa sui
Dell’esistenza di Dio Spinoza accetta le prove tradizionali: pensare a Dio significa pensare a una realtà che, avendo in sé la propria ragion d’essere, non può non esistere (prova ontologica o a priori) ;
«noi esistiamo in noi o in un’altra cosa che esiste necessariamente» [Etica, I, prop. 11],
poiché non siamo causa della nostra esistenza, deve esistere un ente necessario (Dio o Sostanza) che, avendo in sé la causa del proprio esistere, sia pure la causa degli esseri contingenti (prova a posteriori).
Sembra fin qui che Spinoza non innovi affatto la tradizione. In realtà, egli si stacca nettamente da gran parte della metafìsica occidentale, e in particolare dal filone ebraico-cristiano, quando afferma che Dio e il mondo non sono due sostanze separate, ma la stessa sostanza.
4.3 Deus sive natura
L’identificazione della sostanza con Dio implica infatti che il creatore non sia esterno al mondo creato, ma coincida con quell’unica, assoluta e infinita realtà che è la Natura: Deus sive Natura, dice Spinoza: Dio ovvero la Natura. Infatti, se la sostanza è unica, essa sarà come una circonferenza infinita che ha tutto dentro di sé e nulla fuori di sé, per cui le cose del mondo saranno per forza la sostanza o la manifestazione in atto di tale sostanza:
Tutto ciò che è, è in Dio, e senza Dio nessuna cosa può essere concepita [Etica, I, prop. 15].
Spinoza perviene così a una forma di panteismo che, identificando Dio o la sostanza con la natura, considera anche quest’ultima come una realtà increata, eterna, infinita e unica, dalla quale tutte le cose derivano e nella quale tutte le cose sono.
4.4 Il rapporto tra Dio e il mondo: attributi e modi
Per chiarire la natura del rapporto tra Dio e il mondo, Spinoza ricorre ai concetti di attributo e modo. Attributo è
«ciò che l’intelletto percepisce della sostanza come costituente la sua stessa essenza» [Etica, I, def. IV],
ossia le qualità essenziali o strutturali della sostanza. Ora, poiché la sostanza è infinita (cioè dall’essenza illimitata), anche i suoi attributi saranno infiniti ed essa sarà simile a un unico immenso prisma dalle illimitate facce. Tuttavia, degli infiniti attributi della sostanza (cioè degli infiniti volti della natura, l’uomo ne conosce soltanto due: l’estensione e il pensiero, ovvero la materia e la coscienza, che sono i due ambiti della realtà di cui è partecipe [resta senza risposta in Spinoza, la ragione di questa limitatezza umana].
I modi di cui parla Spinoza sono invece
«le affezioni della sostanza, ossia ciò che è in altro per mezzo del quale è anche concepito» [Etica, I, def. V].
Se gli attributi sono proprietà essenziali della sostanza, cioè la sostanza stessa nelle diverse modalità in cui essa si esprime -, i modi sono modificazioni accidentali della sostanza, nel senso che esistono e possono essere pensati dall’uomo solo in riferimento all’estensione e al pensiero. In altre parole, i modi sono le manifestazioni o le concretizzazioni particolari degli attributi, e si identificano quindi con i singoli corpi (modificazioni dell’estensione) e con le singole menti con le loro idee (modificazioni del pensiero). In questo senso non hanno sostanzialità (sono «ciò che è in altro, per mezzo del quale è anche concepito»), in quanto esistono e possono essere pensati soltanto in virtù degli attributi della sostanza. Anche gli uomini, come tutto il resto del creato, sono modi, manifestazioni accidentali della sostanza, per se stessi privi di ogni necessità o esistenza piena. Non c’è dunque alcuna specificità, né particolare statuto dell’umanità, in Spinoza.
Anche su questo punto Spinoza cerca dunque di restituire coerenza al discorso cartesiano: ogni corpo è modificazione accidentale dell’unica materia o estensione (come per Cartesio), e ogni mente è modificazione accidentale dell’unico pensiero (diversamente da Cartesio che concepisce la mente individuale, che chiama «anima», come sostanza). Ma l’estensione che “sorregge” i singoli corpi non è sostanza, proprio come non lo è il pensiero che “sorregge” le singole menti e i singoli pensieri. Il “sostegno” di ogni realtà (fisica e psichica) j è Dio, unica sostanza infinita. Da ciò discende la tesi della mortalità dell’anima, probabilmente professata con gran scandalo da Spinoza, ma della quale mancano riferimenti espliciti nelle sue opere.
Il filosofo distingue anche tra modi infiniti e finiti, osservando che i modi infiniti sono proprietà che discendono necessariamente degli attributi stessi. Ad esempio, dato l’infinito attributo dell’estensione, ne seguono, da sempre, «il movimento o la quiete», così come, dato l’infinito attributo del pensiero, ne seguono, da sempre, «l’intelletto e la volontà». Un modo infinito è anche l’universo come totalità, ossia, come scrive Spinoza,
«la faccia di tutto l’universo, la quale, benché l’universo varii in infiniti modi, rimane sempre la stessa».
I modi finiti sono invece gli esseri particolari (questo corpo, quel pensiero) legati, all’interno delle rispettive serie dei corpi e dei pensieri in una catena causale infinita (v. p. 277).
5. Il determinismo e l’antifinalismo
5.1 Il determinismo
Come si è visto, per Spinoza, il rapporto tra causa ed effetto è interamente riducibile al rapporto tra premessa e conseguenza. Spinoza, in altri termini, risolve interamente la necessità causale nella necessità logica – se x può essere adeguatamente spiegato attraverso y, y è la causa di x e x segue da y in modo logicamente necessario, ossia sarebbe contraddittorio negare che da y non segua x.
Non c’è quindi differenza, per il filosofo, tra il modo in cui un teorema segue da un insieme di definizioni e il modo in cui un effetto è prodotto dalla sua causa. Il rapporto causa-effetto è traducibile così in un rapporto premessa-conseguenza. Per questo, se la sostanza unica, Dio, è la condizione senza la quale niente può essere inteso, essa deve dirsi la causa di tutte le cose. Ciò che allora caratterizza la sostanza unica è la sua capacità produttiva: non l’intelletto e la volontà, ma solo la potenza appartiene all’essenza di Dio.
Se Dio è la premessa o causa prima da cui discendono tutte le cose, queste seguiranno dalla potenza divina in modo necessario, come dalla definizione del triangolo discendono necessariamente le sue proprietà. E, d’altro canto, come è impossibile che dalla definizione del triangolo non seguano tutte le proprietà del triangolo, così è impossibile che da Dio non seguano tutti gli effetti di cui la sostanza unica è capace (attributi e modi).
Da Dio seguono necessariamente tutti i modi possibili, quindi l’universo attuale è l’unico mondo possibile. Si tratta della forma più forte di determinismo prodotta dal pensiero occidentale: non soltanto ogni evento si verifica necessariamente, ma questa necessità è di tipo logico, ossia è contraddittorio il suo non verificarsi. Categorie come contingenza o possibilità sono dovute solo all’ignoranza umana. Sarà l’aspetto dello spinozismo contro il quale più energicamente protesterà Leibniz.
L’insieme di tutti gli eventi è dunque causato dalla sostanza unica, Dio, e Dio non avrebbe potuto operare diversamente da come ha operato, esattamente come non è pensabile che dal triangolo seguano proprietà diverse da quelle implicite nella sua definizione, ossia l’operare di Dio è necessario. Al contrario degli enti finiti che sono sempre determinati da altro, cioè dall’inifinita serie causale che li precede – Dio è libero nel senso che non è determinato da altro ad agire e a operare – non quindi nel senso che avrebbe potuto o potrebbe creare ciò che non esiste. In Dio, dunque, libertà e necessità coincidono.
Attraverso il suo meccanicismo e la dottrina dell’unica sostanza, Spinoza abbandona quindi la visione ebraico-cristiana (propria ancora di Cartesio) di un Dio dotato di intelletto e volontà dei quali si serve liberamente per scegliere tra gli infiniti mondi che potrebbe creare.
Tale concezione è falsa, secondo l’olandese, per la natura stessa della scelta: si sceglie, infatti, in base a un fine, e il fine che si sceglie è ciò che ci manca: un Dio che scegliesse mancherebbe di qualcosa; si sceglie in base a un criterio, ma se Dio ne avesse bisogno dovrebbe adeguarsi a un metro indipendente da lui;quando si compie una scelta, si opta necessariamente per una cosa o per l’altra, ma se Dio scegliesse, in lui resterebbero infinite possibilità inattuate che lo renderebbero, ancora una volta, manchevole e imperfetto.
Ne risulta, per l’assurdità della tesi opposta, che Dio non crea il mondo per libera scelta e per un atto di amore gratuito, ma per assoluta necessità. Non esistono altri mondi possibili, visto che è la stessa categoria di possibilità a venire meno.
5.2 L’antifinalismo
È quindi inutile cercare di conciliare il male del mondo, le catastrofi, le pandemie, i flagelli, con la bontà del disegno divino, come se vi fosse un fine segreto della creazione che ci sfugge, ma che garantirebbe come tutto il male apparente sia in realtà in funzione del bene.
Altrettanto inutile è chiedersi se Dio non avrebbe potuto fare di meglio: se Dio non sceglie, esiste solo un modo, questo, dove tutto ciò che accade doveva accadere e dove la stessa libertà dell’uomo che ritiene di poter progettare autonomamente i propri fini, è un’illusione prodotta dall’ignoranza delle cause che lo conducono, di volta in volta, a porre in essere una certa azione.
Le conseguenze rilevanti sono che se il mondo non è stato creato per uno scopo, a maggior ragione questo scopo non può essere rappresentato dall’uomo, né ha alcun senso pensare che la natura esista solo per servirlo.
Inoltre, se non vi sono altri mondi possibili con cui confrontarlo per dichiararlo migliore o peggiore, di questo mondo non si possono predicare qualità morali: esso è al di là del bene e del male. Solo il pregiudizio e l’ingenuo antropocentrismo degli uomini possono far credere il contrario:
5.3 La religione come pregiudizio
Tutti i pregiudizi che passo a indicare dipendono da questo soltanto, che cioè gli uomini comunemente suppongono che tutte le cose naturali, come essi stessi, agiscano per un fine, e anzi asseriscono come cosa certa che lo stesso Dio dirige a un certo fine tutte le cose – dicono infatti che Dio ha fatto tutte le cose per l’uomo, e l’uomo perché adorasse lui [Etica, Parte I, Appendice].
Ecco dunque come nascono le fedi religiose e la credenza negli dèi, «pregiudizio mutato in superstizione che ha profonde radici nelle loro menti»:
[Gli individui] trovando in sé e fuori di sé non pochi mezzi che giovano parecchio per conseguire il proprio utile, come per esempio gli occhi per vedere, i denti per masticare, erbe e animali per cibarsi, sole per illuminare, mare per allevare pesci, eccetera, è avvenuto che considerino tutte le cose naturali come mezzi per il loro utile; e poiché sanno che quei mezzi sono stati da loro trovati ma non preparati, ne hanno tratto motivo per credere che esista qualcun altro che ha preparato quei mezzi per il loro uso. Infatti, dopo aver considerato le cose come mezzi, non poterono credere che esse si fossero fatte da sé; ma dai mezzi che essi sogliono prepararsi, doverono concludere che ci fosse qualche o alcuni reggitori della natura, forniti di libertà umana, che si fossero curati di tutto per loro, e avessero fatto tutto per il loro uso. Ma anche l’indole di questi, per non averne mai sentito dir nulla, doverono giudicare alla stregua della loro, e quindi stabilirono che gli dèi indirizzano tutto a uso degli uomini, per legarli a sé ed essere da loro tenuti in sommo onore; onde avvenne che tutti escogitassero diverse maniere di adorare Dio, secondo la loro indole, affinché Dio li preferisse agli altri, e dirigesse tutta la natura ad uso della loro cieca cupidità e insaziabile avidità. E cosi questo pregiudizio si mutò in superstizione e mise profonde radici nelle loro menti [Etica, Parte II].
Poiché Dio agisce secondo necessità e non spinto da una qualche volontà, non compie nemmeno miracoli, credenza dovuta unicamente all’ignoranza delle vere cause dei fenomeni. Con parole che dovettero essere ben presenti (come vedremo) al Kant delle antinomie della ragion pura, Spinoza mostra che la ricerca della causa ultima, di causa in causa, impieghi una logica apparente:
Se, per esempio, da un tetto cade una pietra in testa a qualcuno e lo uccide, dimostreranno che la pietra è caduta per uccidere l’uomo in questo modo: se non è caduta a tal fine, per volontà di Dio, come mai hanno potuto convergere per quel caso tante circostanze (giacché spesso ne concorrono appunto molte insieme)? Forse risponderai che soffiava il vento e l’uomo passava di là, e che perciò è avvenuto. Ma domanderanno: perché il vento soffiò in quel momento? Perché in quel medesimo tempo l’uomo passava di là? Se rispondi ancora che il vento era sorto in quel momento per il fatto che il giorno precedente il mare, con il tempo ancora tranquillo, aveva cominciato ad agitarsi; e per il fatto che l’uomo era stato invitato da un amico; chiederanno di nuovo – giacché non c’è fine al domandare – perché il mare era agitato e perché l’uomo era stato invitato quel giorno. E così via, non cesseranno di chiedere le cause delle cause, finché non ti sarai rifugiato nella volontà di Dio, cioè nell’asilo dell’ignoranza [Etica, parte II]
Alla luce di queste tesi, una filosofia come quella spinoziana incentrata sullo studio della sostanza divina viene giudicata dai contemporanei come il sistema ateo per eccellenza. A ventiquattro anni, Spinoza subisce così la scomunica (cherem) e, allontanato dalla comunità ebraica, inizia una vita appartata, dedita allo studio e al suo lavoro di intagliatore di lenti con il quale provvede ai propri frugali bisogni fino alla morte prematura, avvenuta per tisi. La maledizione pronunciata contro di lui il 27 luglio 1656, recita:
Con l’aiuto del giudizio dei santi e degli angeli, con il consenso di tutta la santa comunità e al cospetto di tutti i nostri Sacri Testi e dei 613 comandamenti che vi sono contenuti, escludiamo, espelliamo, malediciamo ed esecriamo Baruch Spinoza. Pronunciamo questo herem nel modo in cui Giosuè lo pronunciò contro Gerico. Lo malediciamo nel modo in cui Eliseo ha maledetto i ragazzi e con tutte le maledizioni che si trovano nella Legge. Che sia maledetto di giorno e di notte, mentre dorme e quando veglia, quando entra e quando esce. Che l’Eterno non lo perdoni mai. Che l’Eterno accenda contro quest’uomo la sua collera e riversi su di lui tutti i mali menzionati nel libro della Legge; che il suo nome sia per sempre cancellato da questo mondo e che piaccia a Dio di separarlo da tutte le tribù di Israele affliggendolo con tutte le maledizioni contenute nella Legge. E quanto a voi che restate devoti all’Eterno, vostro Dio, che Egli vi conservi in vita. Sappiate che non dovete avere con Spinoza alcun rapporto né scritto né orale. Che non gli sia reso alcun servizio e che nessuno si avvicini a lui più di quattro gomiti. Che nessuno dimori sotto il suo stesso tetto e che nessuno legga alcuno dei suoi scritti.
Jean-Maximilien Lucas (1647-1697), primo biografo di Spinoza, sostenne che queste parole vennero da lui accolte «senza battere ciglio».
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6. L’etica
6.1 Passioni e appetiti
Noi siamo agitati in molti modi dalle cause esterne e […] come onde del mare agitate da venti contrari fluttuiamo,
ignari della nostra riuscita e del nostro fato.
Etica, Parte III, P59, scolio
La natura è una realtà in movimento: tutte le cose si trasformano secondo il principio di causa ed effetto, che le regola come legge necessaria. Contro l’antropologia tradizionale dei filosofi che avevano considerato l’uomo un’eccezione all’interno della natura, perché libero dalla necessità e capace di darsi regole, Spinoza afferma che la nostra specie è una manifestazione della natura come le altre. Gli uomini sono parte degli infiniti “modi” di manifestarsi della natura, sono essi stessi natura e, quindi, sottoposti alle leggi del cambiamento: i corpi si trasformano e parallelamente si trasformano le idee della mente. Questi cambiamenti – del corpo e della mente – sono detti da Spinoza affezioni.
Essendo nient’altro che casi particolari di leggi universali, le azioni umane obbediscono a regole fisse e necessarie che possono essere studiate con matematica obiettività.
Considererò le azioni umane e gli umani appetiti come se si trattasse di linee, di piani e di corpi [Etica, III].
In questa prospettiva, l’unico atteggiamento filosofico conveniente di fronte alle passioni, non è quello di deriderle, compiangerle o condannarle, ma comprenderle:
Non ridere, neque lugere, neque detestari, sed intelligere,
trattandole
non come vizi della natura umana, ma quali proprietà che le appartengono necessariamente, così come alla natura dell’aria appartengono il caldo, il freddo, il tuono, il temporale e simili [Trattato politico, I, par. IV].
Conformemente a queste premesse, Spinoza elabora una morale descrittiva, non prescrittiva, scagliandosi contro quella razza di moralisti che
concepiscono gli affetti [le passioni], fonte dei nostri tormenti, come vizi nei quali l’uomo cade per sua colpa: sono soliti perciò deriderli o compiangerli, biasimarli… [così finiscono per concepire] gli uomini non come sono, ma come vorrebbero che fossero (Trattato politico I, IV).
L’Etica non è una morale perché Spinoza non chiede mai cosa «si deve» fare, ma cosa si è in grado di fare, tratta della potenza non del dovere. In altri termini, L’Etica è un’etologia (una scienza del comportamento) che non rinvia ad alcuna istanza superiore.
Là dove la ragione era assunta come specificazione essenziale dell’uomo quale animale razionale, le passioni (concepite come impulsi tipicamente ferini, di qui la loro frequente rappresentazione con simbologie animali) finivano per essere l’elemento perturbante che offuscava la cristallina chiarezza della razionalità e il suo orientamento al bene, perciò erano da evitare, sottomettere, estirpare.
Spinoza rompe decisamente con questo schema. Comprendere l’umano in tutte le sue articolazioni significa riconoscere che le passioni, anche quelle tristi o turpi, appartengono alla natura dell’uomo, unità inscindibile di mente e corpo, e non macchina in cui alberga uno spettro che non si sa bene come si inserisca (di qui la critica mossa a Cartesio e alla sua ghiandola pineale come raccordo; Etica, V, Pref.).
Concepire ciò che fa parte della natura come un difetto è il segno di una conoscenza ancora oscura e confusa, inadeguata (di cui sono figlie anche molte passioni, in particolare quelle tristi): il ‘primo genere di conoscenza’, la mutilata cognitio (E, IV, 2), l’immaginazione opinante. Perciò la terapia della vita inizia con la comprensione filosoficamente adeguata della stessa, intesa come elevazione (transitio), della nostra conoscenza dal primo al secondo e al terzo genere (dall’immaginazione opinante, al raziocinio dimostrante, all’intuizione intellettuale delle cose sub specie aeternitatis). Solo così è possibile offrire una praticabile farmacologia filosofica, volta a indicare un’ardua ma raggiungibile felicità [si veda l’introduzione del Tractatus de intellectus emendatione].
Essa si propone come vitae meditatio in una meditazione che si trasforma costantemente in prassi, della quale Spinoza è teorico e cavia. La sua non lunga vita, come ebbe a dichiarare, si ispirò alla regola di evitare la malinconia come la fame e di coltivare le semplici gioie alla portata di tutti (E, IV, App., 25). Malinconia e gioia sono passioni, o meglio, come dice il nostro, affetti (ché affetto, più che passione, indica non solo il subire, ma anche il lato attivo del disporre, del trattare, del moderare). Spinoza rivendica il diritto della filosofia di incarnare al più alto livello l’amore per la vita, un amore rasserenante e rallegrante, capace di sgomberare la mente, per quanto è possibile, dalla malinconia, dalla paura, dalla tristezza, aprendola alla gioia. Ma che cosa fa provare gioia?
Ciò che costituisce l’uomo (la sua essenza, E, III, pp. 7-9) è il conatus, lo sforzo, la pulsione, la tensione a conservarsi e a incrementare il proprio essere; in quanto viene riferito ‘simultaneamente’ [unitariamente] alla mente e al corpo si chiama appetito; e l’appetito «con la coscienza di sé» è il desiderio (cupiditas). Ciò fonda la nostra etica: consideriamo buono ciò verso cui si orienta il nostro desiderio e cattivo ciò che lo ostacola o lo contrasta; di qui l’importanza di sapere che cos’è in verità ciò verso cui tendiamo. La suprema virtù umana consiste nell’assecondare secondo ragione il conatus. Di questo tendere siamo fatti e i poli che lo strutturano sono le passioni e la ragione. Non è virtuoso (e felice) quell’uomo che rinnega le passioni oppure si abbandona a esse rinnegando la ragione; entrambe ci costituiscono, esse
«ci appartengono essenzialmente», e «quelle passioni che sono buone hanno una costituzione e una natura tali che senza di esse non potremmo né esistere né sussistere» (Breve Trattato, II, XIV, 3).
Gli affetti sono inscindibilmente costituiti da affezioni corporee e dalle corrispondenti idee; si distinguono in passivi e attivi a seconda che esprimano la forza delle cose esterne sul corpo umano o la potenza della mente umana sulle cose. I fondamentali o primari per l’uomo sono tre: la cupiditas (desiderio), la gioia,
«il passaggio da una minore a una maggiore perfezione»,
ossia l’incremento della propria capacità-potenza di essere e di agire; la tristezza, ossia la frustrazione del conatus, la percezione della diminuzione della propria capacità-potenza di essere e di agire. Da questi tre, more geometrico, si deducono tutti gli altri (più di quaranta); per esempio, siccome il desiderio si scarica prevalentemente su oggetti esterni, quando l’unione con essi si accompagna alla gioia si genera l’amore; quando si accompagna alla tristezza si genera l’odio ecc.
[nel video seguente, Alfred Hitchcock definisce felicità e infelicità in termini spinoziani]
https://www.facebook.com/391266544402788/videos/534649423397832/
6.2 Vivere da umani: liberarsi dalle passioni tristi e coltivare la gioia
Le passioni tristi, impulsi irrefrenabili di ira o di odio, rendono schiavi. Scrive, infatti Spinoza,
chiamo schiavitù l’impotenza dell’uomo a moderare e a reprimere gli affetti (l’unità delle affezioni del corpo e della mente); giacché l’uomo sottoposto agli affetti non è padrone di sé, ma in balia della fortuna [Etica, Parte quarta, Prefazione].
e l’impotenza è maggiore quanto più la conoscenza è oscura e confusa. Compito della filosofia [che diventa prassi, comportamento] è quello di liberare l’uomo da tale servitù e ciò è possibile aumentando la potenza della mente. Più le passioni sono adeguatamente comprese (nella loro genesi e nella loro struttura) meno le si patisce. Più la mente attinge al secondo e terzo genere di conoscenza più scopre che
a tutte quelle azioni a cui siamo determinati da una passione, possiamo essere determinati, senza la passione, dalla ragione” [Etica, IV, 59].
Ora, vivere secondo ragione esprime la massima potenza di essere e di agire dell’uomo e, dunque, è causa di gioia autentica. Questo processo di affrancamento dalla servitù della tristezza è un processo di gioiosa e consapevole liberazione. Quando la conoscenza si innalza al terzo genere di conoscenza attinge, infatti, lo amor Dei intellectualis:
quanto più conosciamo le singole cose [compresi gli affetti], tanto più conosciamo Dio” e lo amiamo [Etica, V, 15-24];
in ciò realizziamo la somma virtù e la massima perfezione intellettuale e morale; portiamo a compimento la tensione che ci costituisce, potenziamo il nostro essere e sperimentiamo una gioia continua e suprema,
la più grande soddisfazione che possa esistere per la mente [Etica, V, 24-27],
«la piena acquiescientia in se ipso, la vera pace interiore [Etica, V, 27]. L’amore intellettuale della mente verso Dio è lo stesso amore con il quale Dio ama se stesso» [Etica, V, 36] e perciò
«la beatitudine non è il premio della virtù, ma la virtù stessa; e non godiamo di essa perché reprimiamo le nostre voglie, ma possiamo reprimere le nostre voglie perché godiamo di essa». [Etica, V, 42].
In conclusione, come è possibile essere «liberi dagli affetti» se sono necessari? La risposta è contenuta nel titolo delle ultime due sezioni dell’Etica: La schiavitù umana, ossia la forza delle passioni (IV); La potenza dell’intelletto, ossia la libertà umana (V).
Non sfugge a Spinoza la consapevolezza che questo cammino è arduo, difficile, raro ma, come conclude l’Etica,
«tutte le cose preziose sono tanto difficili quanto rare».
7. Il trattato «forgiato all’inferno»
« Forgiato all’inferno dall’ebreo apostata a quattro mani con il diavolo, e pubblicato con la consapevolezza e la connivenza di M. Jan».
Annotazione anonima su un catalogo di libri appartenuti a Jan, cioè a Johan de Witt, il principale artefice della politica liberale degli Stati d’Olanda, ucciso barbaramente a due anni dall’uscita del Trattato.
Durante la sua breve vita Spinoza pubblicò, anonima, una sola opera in cui la propria dottrina veniva esplicitamente argomentata, il Tractatus theologico politicus (1670)(da p. 211); l’altra, i Principi della filosofia di Cartesio, era dedicata, come sappiamo, all’esposizione della filosofia cartesiana.
Dedicati entrambi alla ricerca della libertà, l’Etica e il Trattato sono tra loro complementari. Nella prima, il problema della «liberazione da ogni schiavitù, psicologica, politica o religiosa» è affrontato dal punto di vista metafisico e morale, nel secondo da una prospettiva teologica, politica e storica. Mentre l’Etica è scritta soprattutto per i filosofi, il Trattato, benché in latino, si rivolge a un pubblico più vasto. Ai teologi di ogni razza e ai filosofi di ogni scuola, certo, ma anche alle élites patrizie e liberali che governavano le città delle varie province d’Olanda, ai figli di facoltose famiglie di mercanti e imprenditori che spesso avevano manifestato insofferenza per l’ingerenza della Chiesa negli affari pubblici, alle piccole ma combattive comunità di chrétiens sans Église che Spinoza aveva conosciuto ad Amsterdam e che, da persone profondamente devote quali erano, in più occasioni avevano contestato le gerarchie della Chiesa riformata olandese.
È un’opera appassionata, a tratti rabbiosa in cui fin dalle prime pagine sulla religione come superstizione istituzionalizzata – un’interpretazione secolarizzata del fenomeno religioso già avanzata da Giulio Cesare Vanini – si percepisce quanto in Spinoza bruciasse ancora l’espulsione dalla comunità ebraico-portoghese di Amsterdam che lo aveva allontanato per aver pensato che «Dio esiste solo in un senso filosofico», che «l’anima non è immortale» che «la legge di Mosè non è vera», tesi quest’ultima argomentata appunto nel Trattato.
L’accezione prevalente in cui Spinoza usa nell’opera la parola teologia è quella di «religione rivelata»: il Trattato è infatti dedicato alle Sacre scritture e alla loro corretta interpretazione che Spinoza propone di affrontare applicando le regole usate dai filologi per qualunque altra opera dell’antichità (conoscenza della lingua, del contesto ecc.). Il filosofo si opponeva esplicitamente ai due indirizzi alternativi di interpretazione scritturale: quello “ortodosso” che si appella all’illuminazione dello Spirito santo e alla tradizione dei concili, e quello “eterodosso”, il quale, in opposizione al primo, sostiene il diritto della ragione di interpretare la Scrittura.
Ortodossi ed eterodossi concordano sul fatto che il senso della Scrittura coincide con la verità, il loro dissenso verte solo sulla possibilità che l’uomo, non assistito dallo Spirito santo, possa raggiungerla (anche per effetto del peccato originale). Spinoza rigetta entrambe le interpretazioni, mostrando che il testo è apocrifo o irrimediabilmente oscuro, oppure in conflitto con le interpretazioni che ne sono state date dalle chiese: vi si trova scritto, ad esempio, che «Dio è geloso», sono attribuite a Dio da tutti i profeti passioni e corporeità, ect.. Il filosofo ne conclude, scandalosamente, che lo scopo della Rivelazione non consiste nella divulgazione della verità, ma di indurre all’obbedienza, il suo messaggio è infatti esclusivamente pratico e coincide con il comando di obbedire a Dio e di amare il prossimo. Tutta la teologia razionale prodotta dalla filosofia di ispirazione cristiana non ha quindi niente a che fare con lo scopo della scrittura ed è dunque inutile cercare nel testo sacro informazioni a questo proposito.
Tale tesi ha una conseguenza politica di grandissimo rilievo: nessuno ha diritto di vietare la libera ricerca filosofica e la libera circolazione delle idee in nome della presunta violazione di qualche verità rivelata: filosofia e Rivelazione non hanno niente in comune, concernendo l’una la pietà e l’obbedienza, e l’altra la verità. Dunque, chi ha a cuore il messaggio scritturale non ha motivo di inibire la libertà di pensiero. Stabilito che è illegittimo porre limiti alla libera circolazione delle idee in nome della salvaguardia di una qualche “verità” rivelata, Spinoza mostra poi che neppure lo stato può legittimamente opporsi alla libertà di pensiero.
Come ha osservato Steven Nadler – uno dei più noti storiografi di Spinoza,
«l’aspirazione di Spinoza è che una politica fatta di speranza (nella ricompensa eterna) e di paura (del castigo eterno) venga sostituita da una politica della ragione, della virtù, della libertà e del comportamento etico».
Questo sarà il progetto della sua vita, a cui dedicherà tutte le sue forze e di cui l’Etica e il Trattato saranno le fondamenta e gli archi portanti: parti comunicanti di un unico straordinario libro nel 1681 messo all’Indice con tutti gli altri scritti spinoziani.
Nel seguente passo del Trattato, tratto dalla Prefazione, Spinoza mostra che se uno stato democratico non ha alcun motivo per cercare di dominare le coscienze, nessun incentivo alla persecuzione del libero pensiero può essere ricavato nemmeno dalle Scritture.
Se gli uomini potessero procedere a ragion veduta in tutte le loro cose o se la fortuna fosse loro sempre propizia, non andrebbero soggetti ad alcuna superstizione. Ma, poiché essi vengono spesso a trovarsi di fronte a tali difficoltà che non sanno prendere alcuna decisione e poiché il loro smisurato desiderio degli incerti beni della fortuna li fa penosamente ondeggiare tra la speranza e il timore, il loro animo è quanto mai incline a credere qualsiasi cosa; quando è preso dal dubbio, esso è facilmente sospinto or qua or là, e tanto più allorché esita in preda alla speranza o al timore, mentre nei momenti di fiducia è pieno di vanità e presunzione. Credo che nessuno ignori queste cose, benché io sia convinto che la maggior parte degli uomini non conoscano se stessi; nessuno, infatti, che sia vissuto tra gli uomini può non essersi accorto come per la maggior parte essi siano così ricchi di sapienza, finché le cose vanno bene e ancorché siano ignorantissimi, da ritenersi offesi se qualcuno voglia dar loro consigli; mentre nelle avversità non sanno da che parte voltarsi e implorano consiglio a destra e a sinistra, e non c’è suggerimento così insulso, così assurdo o inutile ch’essi non seguano; salvo poi, per i motivi più insignificanti, tornare ad oscillare tra la speranza del meglio e il timore del peggio.
Se, poi, sono vivamente impressionati dal verificarsi di qualcosa di insolito, quei superstiziosi denigratori della religione lo credono un prodigio rivelatore dell’ira degli Dei o del sommo Nume, che perciò reputano nefando non placare con offerte e sacrifici, escogitando così un’infinità di stranezze e dando della natura le più bizzarre interpretazioni, come se questa partecipasse in tutto alla loro follia. Se questa, dunque, è la causa della superstizione, è chiaro che tutti gli uomini sono ad essa naturalmente inclini (checché ne dicano coloro i quali ritengono esserne la causa il fatto che tutti i mortali abbiano una qualche idea confusa della divinità). Segue inoltre che essa deve essere del tutto mutevole e incostante come tutte le finzioni mentali e gli impeti del furore, e infine che non può reggersi se non sulla speranza, sull’odio, sull’ira e sulla frode, dal momento che non dalla ragione essa ha origine, ma dalla passione, anzi dalla più irruente delle passioni. Quanto è facile, perciò, che gli uomini si lascino indurre in ogni genere di superstizione, altrettanto è difficile che essi persistano in un unico e medesimo genere. Al contrario, poiché il volgo non si sottrae mai al suo stato di miseria, proprio per questo non sta mai a lungo in quiete, e nulla ama più di ciò che è nuovo e che non l’ha ancora deluso: incostanza, che fu già causa di innumerevoli agitazioni e di guerre atroci; infatti, come si rileva dalle cose or ora dette e come osserva molto bene anche lo stesso Curzio (IV 10) «nulla riesce più della superstizione a dominare le masse»; onde avviene che queste siano facilmente indotte, col pretesto della religione, ora ad adorare come Dei i loro re, ora a esecrarli e a detestarli come una peste comune del genere umano.Allo scopo di evitare questo inconveniente si pose un grande studio nel corredare sia la vera sia la falsa religione di un culto e di un apparato tali, da farla ritenere sempre più importante e da imporne a tutti la massima osservanza.
E in verità, se tutto il segreto e tutto l’interesse del regime monarchico sta nell’ingannare gli uomini e nell’adombrare col nome specioso di religione il timore che serve a frenarli, così da indurli a combattere per la propria schiavitù come se combattessero per la propria salvezza e da far loro credere che, non solo non sia sconveniente, ma che sia il massimo degli onori il sacrificare il proprio sangue e la propria vita per la gloria di un sol uomo, nulla invece si può pensare né si può tentare in una libera Repubblica che sia di ciò più assurdo; poiché ripugna assolutamente alla comune libertà il soffocare coi pregiudizi o il costringere comunque la libera opinione individuale; e quanto ai conflitti che vengono suscitati sotto il pretesto della religione, per certo essi sono originati soltanto dal fatto che si emanano leggi intorno alle cose speculative e le opinioni, come se fossero delitti, vengono incriminate e condannate: onde i difensori e i propugnatori di esse sono sacrificati, non alla salute pubblica, ma soltanto all’odio e alla violenza degli avversari. Mentre invece se in base al diritto dello Stato fossero perseguibili soltanto le azioni, e le parole rimanessero impunite, simili conflitti non potrebbero in alcun modo assumere aspetto giuridico, né le dispute stesse si convertirebbero in conflitti. Poiché dunque è toccato a noi questo raro privilegio, di vivere in una Repubblica in cui è consentita a ognuno piena libertà di giudizio e la facoltà di onorare Dio secondo il proprio criterio, e dove nulla è stimato più caro e prezioso della libertà, ho ritenuto di non far cosa ingrata o inutile dimostrando che questa libertà non soltanto è compatibile con la pace dello stato, ma anzi non può essere soppressa senza pregiudizio della stessa pietà e della stessa pace dello stato: la dimostrazione di questo principio costituisce il principale intento del presente trattato.
Mi sono spesso meravigliato che uomini, i quali si vantano di professare la religione cristiana, e cioè l’amore, la gioia, la pace, la moderazione e la lealtà con tutti, contendessero tra di loro con tanto astiosa irruenza e si odiassero a vicenda con sì feroce e costante accanimento, da far capire da ciò, piuttosto che dall’esercizio di quelle virtù, la specie di fede da ciascuno professata; le cose sono ormai arrivate al punto, che quasi non si può più distinguere di chi si tratti, se di un Cristiano, cioè, o di un Turco o di un Ebreo o di un Pagano, se non dalla veste esteriore di ognuno e dal culto o dalla Chiesa che frequenta o dall’opinione che segue o dal maestro sulla cui parola suole giurare. Per il resto conducono tutti la stessa vita. Cercando io dunque la causa di questo male, la ravvisai senza dubbio nel fatto che per il volgo ebbero valore di religione il considerare il ministero ecclesiastico come una dignità e i doveri ad esso connessi come un beneficio il rendere i massimi onori ai pastori. Infatti, non appena incominciò nella Chiesa questo abuso, tosto si accese nei peggiori una gran voglia di accedere all’amministrazione dei sacri uffici, e lo zelo della propaganda religiosa degenerò in vergognosa avidità e ambizione, trasformando il tempio stesso in un teatro dove presero la parola, non dottori della Chiesa, ma oratori, il cui proposito non era di istruire il popolo, bensì di imporsi alla sua ammirazione, di criticare pubblicamente gli avversari e di insegnare soltanto novità sensazionali, che suscitassero soprattutto la meraviglia del volgo; di qui un cumulo di contrasti, di invidie, di odi, che il passar del tempo non riuscì a sedare. Non c’è da stupirsi, dunque, se dell’antica religione non sia rimasto altro che il culto esterno (col quale il volgo sembra adulare Dio più che adorarlo), e che la fede non sia ormai altro che un complesso di credulità e di pregiudizi: pregiudizi, che trasformano gli uomini da esseri razionali in bestie, in quanto li inducono nell’assoluta impossibilità di usare la propria facoltà di giudizio e di distinguere il vero dal falso, escogitati come sembrano allo scopo di estinguere del tutto il lume dell’intelletto. In verità, se una scintilla almeno di quella luce divina li illuminasse non sarebbero vittime della loro superba insania, ma imparerebbero a onorare Dio con maggiore saggezza e, invece che la caratteristica dell’odio, quella dell’amore li distinguerebbe dagli altri; e non perseguiterebbero con tanta ostilità quelli che da loro dissentono, ma piuttosto avrebbero pietà di essi, se davvero si preoccupassero più della loro salvezza che del proprio successo. Inoltre, se avessero qualche lume divino, questo risulterebbe almeno dalla dottrina; bisogna riconoscere invece che con tutta la loro ammirazione per i profondissimi misteri della Scrittura, nulla hanno saputo insegnare all’infuori di quanto era contenuto nelle speculazioni degli Aristotelici e dei Platonici; e a queste, per non aver l’aria di seguire i pagani, adattarono la Scrittura. Non bastò loro di perdersi dietro ai Greci, ma pretesero che vi si fossero smarriti anche i profeti: il che dimostra chiaramente che essi non hanno la più pallida idea della divinità della Scrittura e che quanto più si ostinano a contemplarne i misteri, tanto più chiaramente mostrano come essa sia per loro oggetto di infatuazione, più che di fede; e ciò si vede anche dal fatto che, per lo più, ad intendere la Scrittura nel suo vero significato, essi partono dal presupposto che essa sia veritiera e ispirata da Dio in tutte le sue parti: cosa, che dovrebbe risultare soltanto dalla intelligenza e da un severo esame di essa, sicché essi stabiliscono come regola preliminare della sua interpretazione ciò che essa stessa è in grado di insegnarci assai meglio, senza bisogno di umani artifici.
Riflettendo dunque su queste cose, e cioè che il lume naturale è da molti non soltanto disprezzato, ma condannato come fonte di empietà; che l’interpretazione umana è tenuta in conto di rivelazione divina; che la credulità ha preso il posto della fede e che le controverse opinioni dei filosofi sono discusse con estrema passione nelle chiese e nelle curie, donde odi e contrasti fierissimi, che si convertono facilmente in lotte, e molte altre conseguenze, che sarebbe troppo lungo enumerare, venni nella deliberazione di istituire un nuovo, completo e libero esame della Scrittura, con il proposito di non affermare nulla intorno ad essa e di non ammettere come sua dottrina nulla che in essa non risultasse chiarissimamente contenuto. Seguendo questo criterio ho elaborato un metodo di interpretazione dei Sacri Volumi, sulla scorta del quale ho incominciato anzitutto a chiedermi che cosa dovesse intendersi per profezia, in qual modo Dio si fosse rivelato ai profeti e perché questi gli fossero accetti: se, cioè, perché possedessero sublimi concetti intorno a Dio e alla natura o soltanto per la loro pietà. Conosciuto questo, ho potuto facilmente stabilire che l’autorità dei profeti vale soltanto in ciò che concerne la pratica della vita e della vera virtù, mentre nel resto le loro opinioni ci interessano poco.
Esposti quindi i principi fondamentali della fede, concludo infine che l’oggetto della conoscenza rivelata non è che obbedienza, e che essa si distingue perciò assolutamente, nell’oggetto, nel fondamento e nel metodo, dalla cognizione naturale, con la quale non ha nulla in comune, occupando ciascuna di esse un proprio dominio, senza mutua ripugnanza né motivo di reciproca subordinazione. Siccome, poi, l’indole degli uomini è così varia, che chi si acqueta a questa chi a quella opinione, onde la medesima cosa suscita nell’uno il sentimento religioso e muove l’altro al riso, dalle cose sopra dette concludo doversi lasciare a ciascuno la libertà di giudizio e la facoltà di interpretare a suo modo il fondamento della fede, giudicando esclusivamente dalle opere se questa sia santa o empia. Così tutti potranno obbedire a Dio in piena e perfetta libertà, e soltanto la giustizia e la carità saranno da tutti tenute in pregio. Dimostrata così la libertà che la legge divina rivelata riconosce a ciascuno, passo all’altra parte della questione: che, cioè, questa stessa libertà può, anzi deve essere concessa senza pregiudizio della pace della Repubblica e del diritto delle supreme autorità, e che non può essere tolta senza grave pericolo della pace e senza grave danno di tutta la Repubblica: e per dimostrare ciò prendo le mosse dal diritto naturale individuale, il quale si estende fin là dove si estende la cupidigia e il potere di ciascuno, nessuno essendo costretto per diritto di natura a vivere secondo la volontà altrui, ma essendo invece ciascuno padrone della propria libertà. Dimostro in seguito che nessuno decade da questo diritto, a meno che non deferisca ad altri la facoltà di difenderlo, nel qual caso questo diritto che ciascuno ha di vivere a modo suo, congiuntamente con il potere di difendersi, viene necessariamente esercitato in modo assoluto dalla persona in cui è trasferito; e quindi dimostro che coloro i quali detengono il sommo potere hanno diritto a tutto ciò che rientra nel loro potere e che essi soli sono i custodi del diritto e della libertà, mentre tutti gli altri non possono agire se non in conformità dei loro decreti. Tuttavia, poiché nessuno può privarsi della facoltà di difendersi fino al punto da cessare di essere uomo, ne segue che nessuno può privarsi in modo assoluto del proprio naturale diritto e che i sudditi mantengono quasi per diritto naturale alcune prerogative che non possono essere loro tolte senza grave pericolo dello Stato e che sono loro tacitamente riconosciute o da loro espressamente stipulate con i detentori del sommo potere.
Salvatore Natoli parla di Spinoza a Uomini e profeti dell’8 novembre 2015.
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