Aristotele, Protreptico

by gabriella

aristotele

Raccolgo i passi più significativi dell’Esortazione alla filosofia di Aristotele – nell’edizione curata da Diego Fusaro – con uno stralcio del saggio introduttivo dedicato all’opera da Enrico Berti [E. Berti, Protreptico, Torino, UTET, 2008, pp. XXIII-XVIII].

Se si deve filosofare, si deve filosofare e se non si deve filosofare, si deve filosofare; in ogni caso dunque si deve filosofare. Se infatti la filosofia esiste, siamo certamente tenuti a filosofare, dal momento che essa esiste; se invece non esiste, anche in questo caso siamo tenuti a cercare come mai la filosofia non esiste, e cercando facciamo filosofia, dal momento che la ricerca è la causa e l’origine della filosofia.

Aristotele, Protreptico

Indice

1. L’Accademia contro i retori: la risposta del Protreptikos all’Antidosis
2. Il Protrettico

Nell’anno 353 a.C. Isocrate scrisse un’orazione intitolata Antidosis, che significa “scambio”, perché in essa, a riprova della sua innocenza dall’accusa di essersi arricchito illecitamente, il famoso retore si dichiarava disposto a scambiare tutti i suoi beni con quelli dei  suoi accusatori.

In essa egli fece l’apologia di tutta la propria vita, rispondendo anche alla polemica condotta contro di lui dagli Accademici [Antidosis, 258]. A costoro si riferiscono infatti inequivocabilmente alcuni paragrafi dell’Antidosis, in cui Isocrate allude a certi ferventi dell’eristica che calunniavano i discorsi comuni e utili, non ignorando il valore di essi né quanto rapidamente essi giovino a chi li usa, ma sperando così di rendere più stimabili i propri [Antidosis, 258].

Nella denominazione di eristi, Isocrate accomuna tutti i socratici, noti per le loro discussioni dialettiche, ma tra essi distingue i platonici, che disprezzano il valore dei discorsi utili e tuttavia conoscono il valore della retorica. Da questi Isocrate dichiara di essere stato attaccato aspramente [Antidosis, 259-60] – accennando sicuramente all’esordio del corso di retorica tenuto da Aristotele:

«è turpe tacere e lasciare che parli Isocrate».

[Aristotele aveva peraltro tacciato di servilismo lo scritto isocrateo dedicato a Grillo, figlio di Senofonte, in occasione della morte in battaglia del giovane nel 362. NDR.] e a lui risponde mediante una valutazione critica della paideia accademica.

I principi dell’eristica e i professionisti dell’astronomia, della geometria e di altre simili discipline – come egli li chiama – a suo avviso non fanno male. La gente li critica, afferma Isocrate, perché le discipline che essi insegnano non hanno nulla di utile né per gli affari privati né per quelli pubblici. Tali discipline non aderiscono alla vita né giovano all’azione, ma sono del tutto lontane dalle necessità pratiche [Antidosis, 261-62].

A tali critiche Isocrate dichiara di associarsi per quanto concerne l’inutilità dell’educazione accademica. Tuttavia egli riconosce che quando si passa il tempo nelle sottigliezze dell’astronomia e della geometria, ci si esercita a comprendere facilmente anche le cose più difficili. Tale educazione, vale dunque come ginnastica della mente e preparazione alla filosofia, non come filosofia vera e propria.

E’ chiaro che di fronte a una simile presa di posizione che metteva in questione tutto l’ideale di vita e di cultura professato nell’Accademia Aristotele, cioè uno dei membri più qualificati e conosciuti della scuola, che già in precedenza (col Grillo) era sceso in campo contro la retorica di Isocrate e che, insegnando a sua volta retorica nell’Accademia, si trovava in concorrenza diretta con lui, non poteva tacere.

Se fino a quel momento egli aveva dedicato il suo maggiore impegno all’approfondimento filosofico dei problemi dibattuti all’interno della scuola, così da formarsi una propria concezione organica e matura intorno alle maggiori questioni sollevate da Platone, ormai egli doveva mettere da parte ogni dissenso dottrinale dal maestro e dagli altri condiscepoli, per passare a difendere dagli attacchi esterni l’ideale comune, quello secondo cui la vera cultura, necessaria anche alla vita politica, non consiste nell’esercizio della retorica, ma in una conoscenza rigorosamente scientifica dei principi della realtà.

Come terreno della propria battaglia Aristotele scelse il più impegnativo, cioè quello dei rapporti tra cultura e politica, rivolgendosi a un principe, e in particolare a un principe di quella medesima isola di Cipro, nella quale regnava la dinastia degli Evagoridi, a cui lo stesso Isocrate in precedenza aveva rivolto ben tre orazioni: l’A Nicocle, l’Evagora e il Nicocle.

Il principe in questione era un certo Temisone, che le fonti ricordano come “re dei ciprioti”, ossia probabilmente, di una delle maggiori città comprese nell’isola nel periodo immediatamente precedente alla guerra che scoppiò contro i persiani fra il 351 e il 350. E’ probabile che Aristotele e l’Accademia fossero venuti in contatto con Temisone attraverso un altro cipriota, quell’Eudemo, membro dell’Accademia e amico personale di Aristotele a cui questi, in occasione della sua morte, aveva dedicato il dialogo sull’immortalità dell’anima.

A Temisone comunque, Aristotele rivolge il suo Protreptico, autentica esortazione alla filosofia, intesa come ricerca puramente teoretica sui principi supremi. Il Protreptico viene così ad essere una specie di manifesto dell’ideale educativo platonico-accademico, nel quale Aristotele ormai maturo e affermato come maestro – non si dimentichi che nel periodo in cui l’opera fu scritta, ossia tra il 353 e il 351, egli contava circa 33 anni – prende pubblicamente posizione in difesa della scuola di Platone e nel medesimo tempo di quella concezione della filosofia che egli stesso che contribuito ad elaborare.

E’ interessante anche la motivazione che Aristotele, probabilmente nel proemio dell’opera, adduce per convincere Temisone a dedicarsi alla filosofia. Questa è riferita da Zenone di Cizio, giunto ad Atene proprio da Cipro (dove si trovava Cizio) alla fine del IV secolo a. C., cioè a pochi anni di distanza dalla morte di Aristotele (322 a.C.).

Egli racconta infatti che il suo maestro Cratete, che era un cinico e quindi un fautore della vita ascetica e del disprezzo totale dei beni esteriori, leggeva il Protreptico “che Aristotele scrisse per Temisone, re dei ciprioti”, nella bottega di un calzolaio, un certo Filisco. Ebbene, secondo Zenone, Aristotele avrebbe dichiarato a Temisone che questi si trovava in una condizione particolarmente favorevole per dedicarsi alla filosofia, poiché possedeva grandi ricchezze da poter spendere a questo scopo e inoltre possedeva la fama (fr. 1). A commento di tale dichiarazione, Zenone disse a Filisco:

Mi sembra proprio, o Filisco, che scriverò io un Protreptico per te, perché vedo che tu sei, in rapporto con la filosofia, in una condizione molto migliore di colui al quale lo scrisse Aristotele [Stobeo, IV, 32, 21].

Dalla relazione di Zenone e dal suo commento emerge tutto il contrasto tra la concezione cinico-stoica della filosofia e del suo rapporto con i beni esteriori, e quella propria di Aristotele. Per i cinici e gli stoici, infatti, i beni esteriori quali la ricchezza e la fama, sono in ogni caso d’ostacolo all’esercizio della filosofia, per cui si trova in condizioni migliori, rispetto a questa, un calzolaio come Filisco, piuttosto che un re come Temisone.

Per Aristotele, invece, la ricchezza e la fama non sono necessariamente d’ostacolo, ma possono essere anche un vantaggio, a condizione, come risulta dai frammenti successivi, che vengano usate bene. Il motivo per cui la ricchezza può essere un vantaggio, è detto chiaramente nel testo, cioè perché essa consente di spendere allo scopo di fare filosofia.

Evidentemente Aristotele non allude solo alle spese necessarie per l’acquisto dei mezzi di sopravvivenza, in vista delle quali è pure un vantaggio possedere molte ricchezze, perché in tal modo si è liberi dalla necessità di lavorare e si possono dedicare tutto il proprio tempo e le proprie energie all’esercizio della filosofia. Ciò corrisponde alla concezione aristocratica della vita, propria degli intellettuali dell’antica Grecia, cioè di una civiltà preindustriale, in cui la dedizione alla cultura era incompatibile col lavoro.

Ma per essere liberi dal lavoro non è necessario essere dei re come Temisone, né possedere la fama di questo. Se Aristotele insiste sulla “grande ricchezza” di Temisone e sulla sua fama, evidentemente egli pensa a qualche altra ragione per cui queste possono essere di vantaggio all’esercizio della filosofia. Probabilmente egli pensa alla possibilità che le ricchezze e la fama conferiscono, di fondare e mantenere una scuola come l’Accademia, nella quale i discepoli sono ospitati a spese del maestro per lungo tempo (Aristotele restò nell’Accademia per ben vent’anni) e possono disporre di tutti i mezzi necessari a compiere ricerche non solo nel campo della filosofia, ma anche in quelli di tutte le discipline ad essa propedeutiche, cioè aritmetica, geometria, astronomia, musica ecc..

Per dirigere una scuola di questo tipo, oltre alle grandi ricchezze di cui sicuramente disponeva Platone, era necessaria una certa reputazione, poiché in essa dovevano essere formati soprattutto gli uomini politici, destinati a governare le città, e questi potevano essere attirati solo dalla fama del maestro, come era avvenuto appunto nel caso di Platone, che apparteneva a una delle migliori famiglie ateniesi, discendente da parte di padre dal mitico re Crodo e per parte di madre dal grande legislatore Solone, nonché nipote di Crizia, uno dei Trenta Tiranni.

Ma strettamente connessa alla motivazione addotta da Aristotele per indurre Temisone a dedicarsi alla filosofia, cioè il possesso dei beni esteriori, era la valutazione che Aristotele, a nome dell’intera Accademia, dava a tali beni. Questi infatti, se usati male possono condurre alla rovina colui che li possiede, in quanto possono favorire l’insorgere di vizi quali la sregolatezza, l’arroganza, la prepotenza che sono causa della più grande infelicità. Bisogna dunque saper fare buon uso dei bene esterni e chi insegna questo è la saggezza: perciò i bene esterni senza la saggezza sono un male, mentre solo congiunti al possesso della saggezza si rivelano autentici beni (fr. 2).

Anzi, la saggezza insegna, prosegue Aristotele, che la vera felicità non consiste nel possesso di beni (oggi diremmo nell’avere) bensì in una certa condizione dell’animo (oggi diremmo nell’essere), perché i beni esterni sono come un bel vestito per il corpo, o dei preziosi finimenti per un cavallo, ma ciò che conta per il corpo è la salute, mentre per il cavallo è la buona costituzione. Ora, l’analogo della salute e della buona costituzione é per l’anima dell’uomo la saggezza, che si acquista per mezzo dell’educazione. Di qui dunque la necessità, anche per un re quale era Temisone, di procurarsi una buona educazione, cioè di dedicarsi all’esercizio della filosofia (frr. 2-5).

Già in questo discorso che è riportato tanto da Giamblico che in un papiro di Ossirincoe che probabilmente costituiva il proemio al Protreptico, Aristotele introduce alcuni concetti di importanza fondamentale dal punto di vista filosofico, cioè che la felicità consiste non nell’avere ma nell’essere, che l’essere migliore per l’anima consiste nella saggezza e che l’acquisto della saggezza richiede un’adeguata educazione o formazione. Quest’ultima ovviamente, è il tipo di educazione impartito nell’Accademia, cioè una formazione essenzialmente filosofica. Ma fino a questo punto, il concetto di filosofia che viene impiegato è ancora molto generico, perché coincide con quello di saggezza (phronesis), intesa come capacità di fare buon uso dei bene esterni, cioè come un sapere essenzialmente pratico.

 

2. Il Protreptico προτρεπτικός

Il tuo desiderio di sapere e i tuoi sforzi, mio caro Temisone, per conseguire l’eccellenza e una vita felice, mi sono noti per sentito dire, ed io sono convinto (B1) che nessuno è in condizioni più propizie delle tue per accostarsi alla filosofia, dal momento che tu sei ricco, sicché puoi prodigare del denaro a questo scopo, e la tua posizione è eminente. Ora la maggioranza delle persone pensa che una vita felice si fondi sul possesso dei beni esterni, e non del tutto senza ragione, perché vediamo che ad alcuni tutto procede per il meglio, e il successo arride, sebbene siano stolti.

Ma certamente tu hai anche sperimentato dei casi in cui accade il contrario. Sia, quindi, dalla tua conoscenza del passato, che per la tua personale esperienza ti verranno in mente molti casi in cui l’orgogliosa grandezza è caduta in rovina; tu hai conosciuto degli uomini che riponevano troppa fiducia nella ricchezza, nella felicità e nel potere, e che quindi dovettero provare una repentina caduta nell’infelicità. Quanto maggiore fu il loro successo, tanto più grave sentono l’insuccesso e l’infelicità, e si vergognano perché la loro attuale posizione

(B2)

impedisce loro di prendere l’iniziativa di compiere ciò che considerano il loro dovere. E poiché vediamo le disgrazie di queste persone, dovremmo evitare una sorte simile, e tenere presente che la felicità della vita non consiste nel possesso di grandi sostanze, quanto piuttosto nel trovarsi in una buona condizione dell’anima. Anche per quanto riguarda il corpo, nessuno dirà che è favorito perché è avvolto in abiti magnifici, ma piuttosto si dice così di quello che è dotato di buona salute e si trova in buona condizione, dovessero pure mancargli tutti quegli ornamenti esterni. Allo stesso modo, si può chiamare felice soltanto quell’anima che sia educata, e soltanto l’uomo educato, non colui che è ornato di splendidi beni esterni, ma che personalmente non vale nulla. Così è anche per un cavallo; può portare un morso d’oro e finimenti preziosi, ma se per il resto non vale nulla, non lo apprezziamo affatto, e diamo invece la preferenza a quello che possiede delle buone qualità.

(B3)

Inoltre accade che, quando gente dappoco giunge in possesso di grandi sostanze, spesso apprezzi queste proprietà perfino più dei beni dell’anima, che è la cosa fra tutte più vergognosa. Se un signore apparisse da meno del suo servo, sarebbe oggetto di derisione; allo stesso modo, bisogna considerare uomini meschini coloro per i quali l’acquisizione di qualche ricchezza è più importante del loro carattere.

(B4)

Così è in realtà; poiché, come dice il proverbio, sazietà genera insolenza; e quando la mancanza di educazione si accompagna al potere, ne nasce la megalomania. A coloro la cui anima è mal disposta, né la ricchezza, né la forza, né la bellezza sono utili, ma invece quanto più abbondantemente essi posseggono queste cose, tanto più profondamente e per modi più numerosi questo possesso li danneggia, se non è accompagnato da saggezza. Il detto “al bambino non dare un coltello” significa “non dare potere alle persone da poco”.

(B5)

La saggezza filosofica per contro – su questo punto tutti concorderanno – è il risultato del proprio più serio impegno e della ricerca di quelle cose che la filosofia ci pone in grado di cercare; perciò dobbiamo dedicarci alla ricerca filosofica senza cercar scampo in pretesti.

(B6)

L’espressione “filosofare” significa da un lato chiedersi se bisogna dedicarsi alla filosofia, e dall’altro dedicarsi alla filosofia.

(B7)

Poiché ci rivolgiamo a uomini, e non a quegli esseri la cui vita è divina, allora dobbiamo aggiungere a quelle anche altre esortazioni che siano di utilità pratica nella vita sociale. Si dirà dunque così. (B8) Ciò che abbiamo a disposizione per vivere, cioè il corpo, e ciò che serve al corpo, costituisce per noi come una sorta di strumento. L’uso di questi strumenti è esposto a pericolo: per le persone che non li sanno usare nel modo retto, essi producono per lo più l’effetto opposto. Noi dobbiamo dunque aspirare a quella forma di sapere che ci possa aiutare ad adoperare nel modo migliore tutti questi strumenti, dobbiamo conseguirla ed usarla in modo appropriato. Dobbiamo diventare filosofi, se vogliamo attendere rettamente agli affari dello stato e ordinare utilmente la nostra vita privata.

(B9)

Esistono, ora diversi tipi di conoscenza; quella conoscenza che produce i beni della vita, e quella che se ne serve. Un’altra partizione è questa: ci sono tipi di conoscenza subordinati, ed altri che impongono l’ordine. Questi ultimi occupano il posto più elevato, e presso di loro si trova il bene in senso autentico. Se ora soltanto quella sorta di sapere che è capace di esprimere un giudizio esatto, che usa la ragione ed ha di mira il bene nella sua totalità, vale a dire la filosofia, sa servirsi di tutti gli altri tipi di conoscenza e dirigerli in accordo ai princìpi della natura, questo è un ulteriore argomento che indica che dobbiamo dedicarci alla filosofia. Infatti soltanto la filosofia include in sè l’esattezza di giudizio e l’infallibile saggezza, la quale ha la capacità di determinare con i suoi ordini che cosa bisogna fare e che cosa no.

(B10)

Cerchiamo ora di penetrare più addentro nel nostro problema, e consideriamolo da un punto di vista teleologico, per arrivare alla stessa esortazione.[…]

(B40)

Tutti gli uomini decidono a favore di ciò che ha maggiore consonanza con il loro carattere, così per esempio il giusto sceglie la vita giusta, il valoroso la vita valorosa, l’uomo temperato la vita secondo la temperanza. Similmente è chiaro che l’uomo dotato di capacità intellettuali si deciderà per la filosofia, perchè il filosofare è compito di quella capacità. Da questo giudizio, espresso con la maggiore sicurezza possibile, risulta chiaramente che la capacità dell’intelletto è il più alto di tutti i beni.

(B41)

Con ancora maggiore chiarezza la verità di questa tesi risulta dai seguenti argomenti. La riflessione e la conoscenza sono desiderabili dagli uomini di per sè, in quanto senza di esse non è possibile vivere una vita degna di un uomo. Ma esse sono anche utili per la vita pratica, perché nulla ci appare buono, se non è portato a compimento con la riflessione e mediante un’attività avveduta. Ora, la vita felice, può consistere nella gioia e nel benessere, o nel possesso dell’eccellenza morale, o nell’esercizio della capacità intellettuale: in ognuno di questi casi, comunque, bisogna dedicarsi alla filosofia, perché un giudizio chiaro su queste cose si può conseguire soltanto mediante la filosofia.

(B42)

Chi cerca da ogni forma di scienza un risultato diverso da essa ed esige che ogni scienza debba essere utile, ignora completamente quale fondamentale differenza ci sia tra ciò che è buono e ciò che è necessario; è, infatti, una differenza straordinariamente grande. Perché quelle cose che noi desideriamo in vista di qualcos’altro, e senza le quali non è possibile vivere, le chiamiamo necessarie e concause; ciò , invece, che desideriamo per se stesso, anche se non ci procura null’altro, lo chiamiamo bene in senso proprio. Infatti una cosa non è desiderabile sempre in vista dell’altra, e così avanti all’infinito: da qualche parte ci deve essere un punto fermo. E’, di fatto, completamente ridicolo cercare ovunque un’utilità che sia diversa dalla cosa stessa, e chiedersi: “quale vantaggio ne abbiamo?”, e “a cosa può servire?“. Chi parla così, in nessun modo, come s’è detto, risulta simile a colui che conosce il bello ed il bene e sa distinguere tra causa e concausa.

(B43)

La verità di quanto dico risulterebbe nel modo più chiaro se qualcuno ci portasse con il pensiero nelle isole dei beati. Là non avremmo alcun bisogno, e nessuna delle altre cose ci procurerebbe alcuna utilità; rimarrebbero unicamente il pensiero e la filosofia, quindi ciò che appunto ora chiamiamo la vita libera. Se questo è vero, come sarebbe possibile non vergognarsi a ragione, se, quando si ha la possibilità di trasferirsi nell’Isola dei beati, se ne è incapaci per colpa propria? Non è affatto da disprezzare, perciò la ricompensa che la conoscenza offre agli uomini, e il bene che ne risulta non è cosa da poco. Proprio come dicono i sapienti tra i poeti, che cioè noi raccogliamo i frutti della giustizia nell’Ade, così anche dobbiamo supporre che i frutti della filosofia li raccogliamo nell’Isola dei Beati.

(B44)

Non dobbiamo perciò preoccuparci se la filosofia non si dimostra utile o vantaggiosa perché non affermiamo innanzi tutto che sia vantaggiosa, ma piuttosto che è buona, e che la si debba scegliere non per qualcos’altro, ma per se stessa. Infatti come noi andiamo ad Olimpia per lo spettacolo dei giochi in sé, anche senza averne alcun altro vantaggio (perch-è lo spettacolo vale in sé più di molto denaro), e come non guardiamo le rappresentazioni drammatiche delle feste Dionisie in base al calcolo di ricevere qualcosa dagli attori – anzi siamo proprio noi a pagare – e come valutiamo molti altri spettacoli più di una gran somma di denaro, così anche valuteremo la contemplazione dell’universo più che non tutte quelle cose, che ci si dia molta pena per andare a vedere delle persone che sulla scena si presentano come donne e schiavi, oppure lottano o gareggiano in corse ad Olimpia, e d’altra parte si consideri che non si debba contemplare senza un compenso la natura delle cose e della verità.

(B45)

Così ora abbiamo preso le mosse dal finalismo della natura per un’esortazione alla filosofia, convinti che il dedicarsi alla filosofia costituisca un bene ed è nobile cosa già per sé, anche se non ne dovesse derivare alcuna utilità per la vita pratica.

(B46)

Che però la speculazione filosofica sia realmente utile anche per la vita pratica di ogni giorno si comprenderà facilmente se lo si esemplifica con le arti e le professioni. Tutti i medici intelligenti e la maggior parte dei maestri di ginnastica dichiarano unanimemente che chi desidera diventare un buon medico ed un buon ginnasta deve conoscere bene la natura. Così anche i buoni legislatori devono avere conoscenza della natura, e anzi in misura molto superiore a quegli altri. I primi infatti esplicano la loro abilità professionale promuovendo l’eccellenza del corpo, questi invece si occupano dell’eccellenza dell’anima e pretendono di insegnare la via per la felicità o l’infelicità all’intera comunità. Ad ancora maggior ragione hanno bisogno della filosofia. (B47) Nelle altre attività artigianali i migliori attrezzi sono scoperti mediante l’osservazione della natura; così, per esempio, nell’arte di costruire il piombino, la riga e l’attrezzo con cui si traccia il cerchio; per alcuni strumenti ci offre un modello di osservazione l’acqua, per altri l’osservazione della luce e dei raggi del sole. Con l’aiuto di questi strumenti noi stabiliamo che cosa è diritto e piano in misura sufficiente per i nostri sensi. Allo stesso modo anche il politico deve avere certi termini di riferimento, che desume dalla natura stessa e dalla verità, con l’aiuto dei quali potrà giudicare che cosa è giusto, che cosa è bello e che cosa è conveniente. Infatti, come gli strumenti del tipo di cui abbiamo parlato sono i migliori nelle attività professionali, così anche il miglior termine di riferimento è quello che in massimo grado si conformi alla natura. […]

(B50)

Infatti il filosofo soltanto vive mirando costantemente alla natura ed al divino. Come il buon capitano di una nave, egli ormeggia la sua vita a ciò che è eterno e costante, là getta l’ancora e vive padrone di sé.

(B51)

Ora questa conoscenza è di per sè teoretica, però ci offre la possibilità di regolare su di essa ogni nostra azione. Come cioè, la vista non crea né produce nulla, perché la sua funzione è soltanto quella di distinguere a rendere evidenti ognuna delle cose visibili, però ci pone in grado di fare certe cose ricorrendo ad essa, e ci offre l’aiuto più importante per l’azione (infatti saremmo pressoché completamente incapaci di muoverci, se non la possedessimo), così anche risulta chiaro che mediante questo sapere noi compiamo innumerevoli azioni, sebbene esso sia teoretico; con il suo aiuto decidiamo se una certa cosa deve essere ricercata, un’altra evitata; ma soprattutto, mediante questa conoscenza, conseguiamo tutto ciò che è buono.

(B52)

Chi si propone di verificare ciò che abbiamo detto, deve avere ben chiaro che tutto ciò che per l’uomo è buono e utile alla vita sta nell’esercizio e nell’azione, e non nella sola conoscenza del bene. Rimaniamo in buona salute non perché conosciamo le cose che ci assicurano la salute, ma perché le forniamo al corpo; non siamo ricchi in conseguenza del fatto che sappiamo che cosa è la ricchezza, bensì del fatto che abbiamo acquistato grandi sostanze; e infine, ciò che importa più di tutto, non viviamo una vita più bella e più nobile perché conosciamo qualcosa dell’essere, ma piuttosto perché il nostro agire è buono; questa infatti è veramente la vita felice. Ne consegue che anche la filosofia, se è davvero utile come noi asseriamo, o è un esercizio di azioni rette, oppure è giovevole per tali azioni.

(B53)

Quindi non bisogna fuggire la filosofia, se davvero la filosofia è, come io credo, acquisizione e applicazione della sapienza, e si annovera la sapienza tra i beni più alti. Se per amore del denaro si viaggia fino alle colonne d’Eracle e ci si espone a molti rischi, perché non si dovrebbe affrontare qualche fatica e qualche spesa per la filosofia? E’ tipico dell’uomo comune, in realtà, di desiderare la vita e non la vita buona, di seguire le opinioni del volgo invece di aspettarsi che sia esso a dare ascolto alla sua opinione, di essere avido di denaro, ma di non occuparsi per nulla delle cose nobili. (B54) L’utilità e l’importanza dell’oggetto mi sembrano ormai sufficientemente provate. Ci si dovrebbe poi convincere che è molto più facile conseguire la conoscenza filosofica che qualsiasi altro bene in base a quanto segue.

(B55)

Coloro che si dedicano alla filosofia non ne hanno dagli uomini una ricompensa che li possa spronare a tali sforzi. Essi possono aver dedicato molta fatica per conseguire altre capacità, e tuttavia in tempo minore compiono rapidi progressi verso la scienza esatta; questo mi sembra indicare con quale facilità si può conseguire la conoscenza filosofica.

(B56)

Un ulteriore argomento è che tutti gli uomini si sentono a loro agio nella filosofia, e volentieri si dedicano ad essa, mentre lasciano ogni altro interesse. Anche questo costituisce una prova non piccola che è un piacere occuparsi di essa, giacché, se fosse semplicemente una fatica, nessuno si tormenterebbe a lungo con essa. Inoltre l’attività filosofica ha un altro grande vantaggio rispetto a tutte le altre; non si ha cioè bisogno di un particolare strumento, né di una sede particolare per esercitarla, ma in qualunque punto della terra uno si ponga all’opera con il pensiero, dovunque gli sarà allo stesso modo possibile afferrare la verità, come se essa fosse presente.

(B57)

Così dunque è provato che è possibile dedicarsi alla filosofia, che essa è il maggiore di tutti i beni, e che è facile conseguirla. Per tutti questi motivi, vale la pena di coltivarla con passione.

(B58)

Affrontiamo ora il problema del compito specifico della conoscenza filosofica, e per quale motivo a essa tutti aspiriamo. Vorrei giungere a una risposta procedendo da un diverso punto di partenza. […]

(B68)

Sicché nessuna delle virtù particolari, di cui si parla comunemente, costituisce l’opera della saggezza filosofica; infatti essa è superiore a tutte queste. Il fine conseguito è sempre superiore alla conoscenza mediante la quale lo si consegue. Per altro non ogni eccellenza dell’anima è un risultato della saggezza filosofica, e neppure la vita felice. Se infatti la saggezza filosofica fosse produttiva, allora produrrebbe qualcosa di diverso da se stessa, così come l’architettura fabbrica le case, pur senza essere una parte della casa; la saggezza filosofica, invece, è una parte dell’eccellenza dell’anima e della vita felice. Infatti io affermo che la vita felice, o ne deriva, oppure è essa stessa.

(B69)

In base a questo argomento, la saggezza filosofica quindi non può essere una scienza produttiva; il fine deve stare al di sopra della via che conduce ad esso; ma non esiste nulla di più alto della vita filosofica, se non forse una delle cose che abbiamo menzionato prima, cioè eccellenza e vita felice: ma la loro opera non è niente altro che la vita filosofica. Bisogna quindi tener per fermo che la conoscenza di cui parliamo è teoretica, dal momento che il suo fine non può essere una produzione.

(B70)

La conoscenza e il pensiero filosofico costituiscono dunque il compito proprio dell’anima. Questa è la cosa più desiderabile per noi, paragonabile, io credo alla vista, che certamente si apprezzerebbe anche nel caso in cui grazie ad essa non si ottenesse altro risultato se non appunto e soltanto il vedere.

(B71)

Lo si potrebbe provare in questo modo. Se qualcuno ama una cosa perché essa ha qualche cosa d’altro come qualità aggiuntiva, è allora chiaro che ancor di più amerà quella cosa che possiede in misura più elevata quella qualità. Se, per esempio, una persona ama camminare perché è un esercizio salutare, allora, se correre è un esercizio più salutare ancora ed egli ne è capace, lo preferirà, e l’avrebbe già prima preferito, se solo l’avesse saputo prima. Citiamo un argomento ulteriore. Se un’opinione vera è simile alla conoscenza scientifica (perché noi ammettiamo che un’opinione vera è desiderabile in quanto è simile alla conoscenza scientifica grazie al suo contenuto di verità), e se questo contenuto di verità è proprio in misura superiore della conoscenza scientifica, allora il conoscere risulta più apprezzabile dell’opinare rettamente.

(B72)

Il fatto poi che noi amiamo la facoltà della vista per se stessa, costituisce una prova sufficiente che tutti gli uomini amano in misura elevatissima il pensare e il conoscere,

(B73)

perchè amano la vita, e perciò amano anche il pensare e il conoscere. Per nessun altro motivo la vita appare loro apprezzabile, se non per la percezione dei sensi, e innanzi tutto per la vista. Questa facoltà è da essi apprezzata sopra ogni misura, perché essa è, a paragone delle altre percezioni sensoriali, proprio come una sorta di conoscenza.[…]

(B78)

Che coloro che scelgono una vita intellettuale possono vivere in modo sopra tutti piacevole risulterà da quanto segue.[…]

(B87)

Inoltre l’attività perfetta e libera da impedimenti porta già in sèé gioia, e perciò l’attività filosofica è certo quella che procura gioia maggiore. (B88) Ma la gioia può porsi in relazioni diverse con l’attività. Bere con gioia e darsi al bere con gioia non sono la stessa cosa. Infatti nulla impedisce a uno di bere senza essere assetato, ma di bere così qualcosa che non gli dà alcun piacere, e di provare tuttavia gioia, non nel bere, ma perché, occasionalmente, mentre sta seduto da qualche parte, considera qualcosa, o è oggetto di considerazione. Diremo di lui che prova gioia, e che beve con gioia, ma la sua gioia non viene dal bere, né trova nel bere la gioia. Allo stesso modo diciamo che camminare, star seduti, imparare ed ogni altro tipo di movimento sono piacevoli o dolorosi, non perché fortuitamente proviamo gioia o dolore, mentre ci dedichiamo appunto a queste attività, ma perché proviamo gioia o dolore per il fatto stesso di dedicarci ad esse. (B89) Parimenti chiamiamo vita felice quella vita felice la cui presenza dà felicità alle persone che la vivono; non parliamo di vita felice nel caso di persone che nel vivere hanno gioia da qualche cosa, ma nel caso di coloro per i quali la vita stessa costituisce una gioia, e che appunto provano gioia nel vivere. (B90) In base a queste considerazioni, diciamo che chi è desto vive in maggior grado di chi dorme, chi è intelligente in maggior grado di chi manca di intelligenza, e riteniamo che la gioia nella vita dipenda dall’uso che si fa dell’anima; l’attività dell’anima costituisce realmente la vita. (B91) Si può essere attivi con l’anima in diversi modi, però l’attività più importante di tutte è comunque quella di pensare quanto più intensamente si può. E’ un punto acquisito, quindi, che la gioia che deriva dal pensiero costituisca l’unica, o la più eminente delle gioie della vita. Vivere felicemente e provare la vera gioia è dunque una prerogativa esclusiva o preminente del filosofo. Infatti l’esercizio dei nostri pensieri più veri, che traggono alimento dai più alti princìpi dell’essere e custodiscono continuamente e con saldezza la compiutezza che a essi è accordata, è proprio quella che procura in massimo grado la gioia della vita fra tutte le altre attività.

(B92)

Proprio per gustare le gioie vere e buone gli uomini intelligenti devono dunque dedicarsi alla filosofia.

(B102)

Anche la paura della morte che è propria dell’uomo comune attesta il desiderio di conoscenza dell’anima. Essa infatti fugge ciò che le è ignoto, l’oscurità ed il mistero, e per sua natura cerca ciò che è visibile e conoscibile. prima di tutto per questo motivo diciamo che dobbiamo onorare più di ogni altro coloro a cui siamo debitori di vedere la luce del sole, e che dobbiamo provare reverenza per nostro padre e nostra madre, perché essi sono gli autori dei nostri beni più preziosi; infatti sono essi, così mi sembra, la causa del fatto che noi conosciamo qualcosa e vediamo. Per la stessa ragione riceviamo gioia dagli oggetti e dagli uomini a noi più familiari, e per l’appunto, chiamiamo amici queste persone a noi note. Tutto questo dimostra che amiamo ciò che è conoscibile ed evidente; e se amiamo ciò che è conoscibile, visibile e chiaro, necessariamente amiamo il conoscere ed il pensare.[…]

(B104)

Si potrebbe capire questa stessa cosa anche in base a ciò che diremo ora, se soltanto si considerasse la vita umana spassionatamente. Allora si scoprirebbe che tutte quelle cose che appaiono importanti agli uomini, altro non sono che un gioco delle vane ombre. Perciò a ragione si dice anche a ragione che l’uomo è un nulla, e che nulla delle cose umane ha stabilità. Infatti la forza, la grandezza e la bellezza sono cose risibili, e prive di ogni valore; esse ci appaiono tali soltanto perché non siamo in grado di vedere nulla rettamente.

(B105)

Se qualcuno potesse vedere con l’acutezza che si dice avesse Linceo, che riusciva a vedere attraverso le pareti e gli alberi, potrebbe mai trovare sopportabile di guardare un uomo come il tanto celebrato Alcibiade, se riuscisse a vedere anche la totale miseria di cui questi è composto? Onore e reputazione, le cose a cui solitamente l’uomo aspira più che ad ogni altra, sono piene di indescrivibile stoltezza; infatti chi ha visto qualcuna delle realtà eterne giudica assurdo faticare per tali scopi. Che cosa c’è tra le cose umane che viva a lungo o abbia una durata consistente? Soltanto per la nostra debolezza e per la brevità della nostra vita, a mio giudizio, anche queste ci appaiono grandi.

(B106)

Se si prende in considerazione ciò, chi potrebbe allora pensare di essere felice e beato, – chi fra noi, che tutti, fin dal principio (come si dice quando si è iniziati ai misteri), siamo costruiti dalla natura come se dovessimo portare una pena? Perché davvero divina è la parola degli antichi, quando dicono che l’anima deve pagare una pena, e che noi viviamo per l’espiazione di un qualche grande peccato.

(B107)

Mi sembra che questa immagine esprima bene l’unione dell’anima con il corpo: come si racconta che i prigionieri dei Tirreni spesso vengono sottoposti alla tortura di essere legati vivi a dei cadaveri, con il viso contro il viso e le membra unite insieme con le membra, allo stesso modo anche l’anima sembra distesa e incatenata a tutte le membra sensibili del corpo.

(B108)

Per gli uomini non c’è dunque nulla di divino e di beato, all’infuori di quell’unica cosa che sola merita i nostri sforzi, cioè quanto esiste in noi di intelligenza e capacità della mente. Di tutto ciò che è nostro, questo solo sembra incorruttibile.

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