L’avvenire di un’illusione (1927), è dedicato da Freud al ruolo svolto dalla religione nel mantenimento della convivenza sociale, la civiltà che il padre della psicanalisi vedeva edificata sulla rinuncia alla scarica delle pulsioni sessuali e aggressive.
Le forme di religiosità più arcaiche sono ricondotte da Freud a una trasfigurazione delle forze della natura in termini paterni, legata al bisogno di protezione dal rischio dell’annientamento. Il sentimento religioso ha dunque origine nel vissuto di radicale impotenza sperimentato da ognuno durante l’infanzia, significato che emerge esplicitamente nell’immagine del Dio ebraico.
La componente allucinatoria rinvenuta nelle rappresentazioni religiose, del tutto affine alle altre produzioni dell’inconscio quali i sintomi e i sogni, porta lo scienziato a definire la religione «la nevrosi ossessiva universale dell’umanità», la cui carica affettiva rende solida un’eredità arcaica e infantile che l’umanità stenta a lasciarsi alle spalle.
«L’insieme è così manifestamente infantile, così irrealistico, da rendere doloroso,
a un animo amico dell’umanità, pensare che la grande maggioranza dei mortali
non sarà mai capace di sollevarsi al di sopra di questa concezione della vita».
[…] La civiltà umana – voglio dire tutto ciò in cui la vita umana si è elevata al di sopra delle sue condizioni animali e in cui essa si distingue dalla vita delle bestie – e qui mi rifiuto di distinguere tra civiltà e civilizzazione – mostra, com’è noto, all’osservatore due aspetti. Abbraccia, da un lato, tutto il sapere e il saper fare che gli uomini hanno acquisito per dominare le forze della natura e strappare a quest’ultima i beni necessari per il soddisfacimento dei bisogni umani; dall’altro, tutti gli ordinamenti che sono necessari per regolare i rapporti degli uomini tra loro, e in particolare la distribuzione dei beni ottenibili. Questi due aspetti della civiltà non sono indipendenti l’uno dall’altro, in primo luogo perché i rapporti reciproci degli uomini sono influenzati in profondità dalla misura di soddisfacimento pulsionale che i beni esistenti consentono; in secondo luogo perché l’uomo singolo può rapportarsi a un altro come fosse un bene egli stesso, in quanto l’altro se ne serve come forza lavoro o lo prende come oggetto sessuale; ma in terzo luogo perché ogni individuo è virtualmente un nemico della civiltà, anche se essa dovrebbe essere un interesse comune a tutti gli uomini.
È singolare che gli uomini, che quasi non possono esistere nell’isolamento, sentano come un peso opprimente i sacrifici che vengono loro richiesti dalla civiltà al fine di rendere possibile la vita in comune. La civiltà deve pertanto essere difesa contro l’individuo, e i suoi ordinamenti, istituzioni e imperativi si pongono al servizio di questo compito. Essi mirano non solo a istituire una certa distribuzione dei beni, ma anche a mantenerla, e anzi devono proteggere dagli impulsi ostili degli uomini tutto quello che serve per il dominio della natura e per la produzione dei beni. Le creazioni umane sono facili da distruggere, e la scienza e la tecnica che le hanno edificate possono essere usate anche per annientarle.
E così si ha l’impressione che la civiltà sia qualcosa che è stato imposto a una maggioranza recalcitrante da una minoranza che ha saputo impossessarsi del potere e dei mezzi di coercizione. Naturalmente è facile supporre che queste difficoltà non ineriscano all’essenza della civiltà stessa, ma siano condizionate dalle imperfezioni delle forme di civiltà quali si sono finora sviluppate. In realtà non è difficile individuare queste deficienze. Mentre l’umanità ha fatto costanti progressi nel dominio della natura e può aspettarsene di ancora maggiori, non si può stabilire con sicurezza un progresso simile nella regolamentazione delle questioni umane, e probabilmente molti uomini si sono domandati in ogni tempo, come anche di nuovo si domandano oggi, se questa parte di civiltà acquisita meriti in genere di essere tutelata. Si può credere che sia possibile una nuova regolamentazione dei rapporti umani, la quale, rinunciando alla coercizione e alla repressione delle pulsioni, estingua le fonti di insoddisfazione nei riguardi della civiltà, in modo che gli uomini, non più disturbati da discordia intestina, possano abbandonarsi all’acquisizione dei beni e al loro godimento. Questa sarebbe l’età dell’oro, ma c’è da domandarsi se un tale stato sia realizzabile. Sembra piuttosto che ogni civiltà sia destinata a edificarsi in base alla coercizione e alla rinuncia alle pulsioni; non sembra neanche accertato che, qualora cessasse la coercizione, la maggioranza degli individui sarebbe pronta a sobbarcarsi l’esecuzione del lavoro occorrente per l’acquisizione di nuovi mezzi di sussistenza. Si deve, voglio dire, fare i conti con il fatto che in tutti gli uomini sono presenti tendenze distruttive, e perciò antisociali e ostili alla civiltà, e che in un gran numero di persone esse sono abbastanza forti da determinarne il comportamento nella società umana […]
[36] Siamo a un tratto passati dalla sfera economica a quella psicologica. All’inizio eravamo tentati di cercare il patrimonio della civiltà nei beni esistenti e negli ordinamenti che ne regolano la distribuzione. Ma una volta riconosciuto che ogni civiltà si fonda sulla coercizione al lavoro e sulla rinuncia pulsionale, sicché suscita inevitabilmente opposizione in coloro in confronto dei quali queste esigenze sono fatte valere, diventa chiaro che i beni stessi, i mezzi per acquisirli e le regole concernenti la loro distribuzione non possono essere la caratteristica essenziale o unica della civiltà. Beni, mezzi e regole sono infatti minacciati dalla ribellione e dalla smania distruttiva dei partecipanti alla civiltà. Accanto ai beni fanno ora la loro apparizione i mezzi che possono servire a difendere la civiltà, i mezzi di coercizione e altri destinati a conciliare gli uomini con essa e a indennizzarli dei loro sacrifici. Questi ultimi possono quindi essere descritti come il patrimonio spirituale della civiltà.
Ai fini di una terminologia uniforme, chiameremo “frustrazione” il fatto che una pulsione non possa essere soddisfatta, “divieto” la disposizione che istituisce questa frustrazione, e “privazione” lo stato che è prodotto dal divieto. Poi, il passo successivo sarà distinguere tra le privazioni che riguardano tutti e quelle che non riguardano tutti, ma solo gruppi, classi, o addirittura individui. Le prime sono le più antiche: coi divieti che le istituiscono, la civiltà ha avviato, chissà quante migliaia di anni fa, il distacco dalla condizione animale primitiva. Con nostra sorpresa, abbiamo scoperto che essi si fanno ancora sentire e costituiscono il nucleo dell’ostilità alla civiltà. I desideri pulsionali, che soffrono a causa loro, rinascono con ogni nuovo bimbo; c’è una categoria di uomini, i nevrotici, che reagiscono già a questa frustrazione con l’asocialità. Questi desideri pulsionali sono quelli dell’incesto, del cannibalismo e della brama di uccidere. Suona strano mettere insieme questi desideri, che tutti gli uomini sembrano concordi nel rigettare, con quegli altri, per ammettere o respingere i quali nella nostra civiltà si contende così vivacemente; ma dal punto di vista psicologico ciò è legittimo. D’altra parte, l’atteggiamento della civiltà verso questi più antichi desideri pulsionali non è affatto uniforme, solo il cannibalismo appare condannato da tutti e del tutto superato nella considerazione non analitica; noi possiamo ancora avvertire dietro il divieto la forza dei desideri incestuosi e, a determinate condizioni, l’omicidio viene ancora praticato e anzi comandato dalla nostra civiltà. Forse ci attendono sviluppi della civiltà in cui anche altri soddisfacimenti di desideri, oggi pienamente possibili, appariranno inaccettabili, alla stessa stregua di quelli del cannibalismo oggi.
Già per queste più antiche rinunce pulsionali viene in considerazione un fattore psicologico, che rimane importante anche per tutte quelle successive. Non è giusto pensare che dai tempi più antichi la psiche umana non abbia subito alcuna evoluzione e che essa, nonostante i progressi della scienza e della tecnica, sia oggi ancora la stessa che all’inizio della storia. Possiamo qui mostrare uno di questi progressi della psiche. È nel senso della nostra evoluzione che una costrizione esterna venga a poco a poco interiorizzata, in quanto una particolare istanza psichica, il Super-io dell’uomo, la accoglie tra i suoi imperativi. Ogni bambino rappresenta per noi il processo di una tale trasformazione, e solo grazie a questa egli diventa morale e sociale. Questo rafforzamento del Super-io è un patrimonio psicologico di altissimo valore per la civiltà. Le persone in cui esso si è compiuto si trasformano, da nemiche della civiltà, in portatrici di civiltà. Quanto maggiore è il loro numero in un ambito della civiltà, tanto più sicura è questa civiltà, e tanto prima essa può fare a meno dei mezzi di coercizione esterni.
La misura di questa interiorizzazione è però assai diversa per i singoli divieti pulsionali. Per le più antiche imposizioni della civiltà menzionate l’interiorizzazione sembra, [38] se mettiamo da parte l’indesiderata eccezione dei nevrotici, in larga misura raggiunta. Questo rapporto però cambia se si si volge a considerare le altre richieste pulsionali. Si nota allora con sorpresa e preoccupazione che la maggioranza degli uomini obbedisce ai relativi divieti della civiltà soltanto sotto la pressione della coercizione esterna, cioè soltanto là dove questa può farsi valere e fintantoché è da temere. Ciò si applica anche alle cosiddette esigenze morali della civiltà, che sono destinate allo stesso modo a tutti. La maggior parte di ciò che si sperimenta dell’inaffidabilità morale degli uomini ne fornisce esempi. Innumerevoli uomini civili, che indietreggerebbero con orrore di fronte all’omicidio o all’incesto, non esitano a soddisfare la loro avidità, la loro aggressività, le loro voglie sessuali, e non rinunciano a far del male agli altri con la menzogna, l’inganno e la calunnia, sempreché possano rimanere impuniti, e ciò è stato certo sempre così per molte epoche della civiltà.
Per quanto riguarda le restrizioni che si riferiscono solo a determinate classi della società, ci si imbatte in situazioni scabrose, che del resto non sono state mai neanche disconosciute. C’è da aspettarsi che queste classi emarginate invidino ai privilegiati le loro prerogative e facciano di tutto per sbarazzarsi del loro sovrappiù di privazione. Dove ciò non è possibile, si instaurerà all’interno di questa civiltà una certa misura di malcontento durevole, che potrà portare a pericolose ribellioni. Ma se una civiltà non ha superato lo stadio in cui il soddisfacimento di un certo numero dei suoi membri ha per presupposto l’oppressione di altri e forse della maggioranza, e ciò è quanto si verifica in tutte le civiltà attuali, è comprensibile che questi oppressi sviluppino un’intensa ostilità alla civiltà che essi rendono possibile col loro lavoro, ma ai cui beni partecipano in maniera troppo scarsa. Allora non ci si può aspettare un’interiorizzazione dei divieti della civiltà da parte degli oppressi, anzi costoro non saranno disposti a riconoscere questi divieti, tesi come sono a distruggere la civiltà stessa e ad eliminarne eventualmente gli stessi presupposti. L’ostilità di queste classi nei confronti della civiltà è così palese che a causa di essa si è persa di vista la più latente ostilità [39] degli strati sociali più fortunati. Non c’è bisogno di dire che una civiltà che lascia insoddisfaitto un così gran numero dei suoi membri e che spinge alla ribellione non ha speranza di conservarsi a lungo, né lo merita.
La misura d’interiorizzazione delle regole civili – espresso in termini popolari e non psicologici: il livello morale dei membri – non è l’unico bene psichico che viene in considerazione quando si tratta di stabilire: il valore di una civiltà. Oltre a quella conta il patrimonio di ideali e di creazioni artistiche, ossia di soddisfazioni che si traggono da quelli e da queste. Si sarà fin troppo propensi ad includere nel patrimonio psicologico di una civiltà i suoi ideali, cioè i suoi giudizi su quelle che sono le finalità più elevate e più degne di essere perseguite. A tutta prima sembra che questi ideali determinino le opere che si realizzano nell ’ambito della civiltà; il vero andamento delle cose potrebbe invece essere questo, che gli ideali si formano soltanto dopo le prime realizzazioni rese possibili dal concorso delle doti interiori con le circostanze esterne di una civiltà, dopo di che queste prime realizzazioni vengono incorporate in un ideale ai fini della loro prosecuzione. La soddisfazione che l’ideale dà ai membri della civiltà è quindi di natura narcisistica, riposa sull’orgoglio dell’opera già ben riuscita. Per essere completa, essa ha bisogno di essere paragonata con altre civiltà, le quali si sono dedicate ad altre realizzazioni e hanno sviluppato altri ideali. In forza di queste differenze, ogni civiltà si arroga il diritto di disprezzare le altre. In tal modo gli ideali delle varie civiltà diventano occasione di divisione e di inimicizia tra i loro diversi ambiti, come diventa chiaro soprattutto tra le nazioni.
La soddisfazione narcisistica derivante dall’ideale della civiltà è propria anche di quei poteri che, nell’ambito della civiltà stessa, si contrappongono con successo all’inimicizia per la medesima. Vi possono prendere parte non solo le classi privilegiate che godono i benefìci di questa civiltà, ma anche gli oppressi, in quanto l’essere autorizzati a disprezzare quelli che ne sono fuori li risarcisce del danno subito nel loro proprio ambito. Si è certo dei miserabili, dei plebei afflitti da debiti e servizio militare, ma in compenso si è romani, si partecipa [40] al compito di signoreggiare altre nazioni e di imporre loro delle leggi. Questa identificazione degli oppressi con la classe che li domina e li sfrutta è soltanto una parte di un contesto più ampio. D’altro canto quelli possono essere affettivamente legati a questi e vedere, nonostante l’ostilità, i loro ideali nei loro padroni. Se non sussistessero tali rapporti in fondo soddisfacenti, rimarrebbe incomprensibile come tante civiltà si siano conservate per tanto tempo nonostante la giustificata ostilità di grandi masse umane.
Di altra natura è la soddisfazione che l’arte dà a coloro che fanno parte di un determinato ambito di civiltà. Essa rimane però inaccessibile alle masse, che sono impegnate in lavori faticosi e non hanno avuto il bene di un’educazione personale. L’arte offre, come ormai sappiamo da tempo, soddisfazioni sostitutive per le rinunce più antiche imposte dalla civiltà, che sono ancor sempre sentite nel modo più profondo, perciò ha per effetto di riconciliare come nient’altro con i sacrifici fatti per essa. D’altra parte queste soddisfazioni promuovono i sentimenti di identificazione, di cui ogni ambito di civiltà ha tanto bisogno, dando occasioni di sensazioni vissute in comune e altamente apprezzate; ma servono anche alla soddisfazione narcisistica, quando rappresentano le conquiste di quella particolare civiltà e ricordano in modo suggestivo i suoi ideali. Ma quello che è forse il pezzo più significativo dell’inventario psichico di una civiltà non è stato ancora menzionato. Sono, nel senso più ampio, le sue rappresentazioni religiose e, in altri termini, che saranno giustificati in seguito, le sue illusioni.
3.
[41] In che cosa consiste il valore particolare delle rappresentazioni religiose?
Abbiamo parlato di ostilità alla civiltà, prodotta dalla pressione esercitata dalla civiltà stessa e dalle rinunce pulsionali da essa richieste. Se si immagina che i suoi divieti siano soppressi, allora chiunque può scegliersi come oggetto sessuale ogni donna che gli piaccia, può uccidere senza esitazioni il suo rivale in amore o chiunque gli sbarri il cammino, può prendersi anche un qualunque bene di un altro senza chiedergliene il permesso: che bello, che catena di soddisfazioni sarebbe allora la vita! Certo s’incontra subito la prima difficoltà. Ogni altro ha esattamente gli stessi miei desideri e non risparmierà me più di quanto io non risparmi lui. In fondo, dunque, una sola persona potrebbe diventare illimitatamente felice per tale soppressione delle restrizioni imposte dalla civiltà, un tiranno, un dittatore che abbia avocato a sé tutti i mezzi di coercizione; ma anche costui avrebbe ogni ragione di desiderare che gli altri osservassero almeno quest’unico comandamento della civiltà: non uccidere!
E però come sarebbe ingrato e soprattutto miope mirare alla soppressione della civiltà! Quel che allora resterebbe sarebbe lo stato di natura, e questo è di gran lunga più difficile da sopportare. È vero, la natura non richiederebbe da noi nessuna restrizione pulsionale, ci lascerebbe fare; ma essa ha un modo di tenerci a freno che è particolarmente efficace: ci ammazza freddamente, crudelmente, spietatamente, come a noi sembra, e magari proprio in occasione della nostra soddisfazione. È proprio a causa di questi pericoli con cui la natura ci minaccia che noi ci siamo messi insieme e abbiamo creato la civiltà, la quale deve fra l’altro rendere anche possibile la nostra convivenza, [42] in effetti il compito principale della civiltà, la sua vera ragion d’essere, è di difenderci dalla natura.
E noto che in molte cose essa lo fa già adesso sufficientemente bene, e chiaramente lo farà in seguito anche meglio. Ma nessuno si abbandona all’illusione di credere che la natura sia ormai soggiogata; pochi osano sperare che essa possa essere un giorno del tutto assoggettata all’uomo. Ecco qua gli elementi che sembrano irridere ogni atto di forza umano: la terra che trema, che squarcia e seppellisce tutto quanto è umano e opera umana, l’acqua che sollevandosi inonda e sommerge tutto, la tempesta che lo spazza via; ecco le malattie, che solo da poco conosciamo come gli attacchi di altri esseri viventi, e infine il doloroso mistero della morte, contro il quale finora nessuna medicina è stata trovata e probabilmente non lo sarà mai. Con queste potenze la natura ci si erge contro, grandiosa, crudele, inesorabile, ci rimette sotto gli occhi la nostra debolezza e impotenza, a cui avevamo creduto di sottrarci col lavoro della civiltà. È una delle poche impressioni gioiose ed esaltanti che si possono ricavare dall’umanità quando, di fronte a una catastrofe naturale, essa dimentica i dissesti della civiltà, tutte le difficoltà e ostilità interne, e si ricorda del grande compito comune, la sua conservazione contro la strapotenza della natura.
Come per l’umanità nel suo complesso, così pure per l’individuo la vita è difficile da sopportare. Una parte di privazione gliela impone la civiltà a cui appartiene, una certa dose di sofferenza gliela procurano gli altri uomini, o a dispetto dei comandamenti della civiltà o in conseguenza dell’imperfezione della civiltà stessa. A ciò si aggiungono i danni che gli arreca la natura indomita – egli la chiama destino. La conseguenza di questa situazione dovrebbe essere un continuo stato di angoscia, di attesa e una grave mortificazione del narcisismo naturale. Come l’individuo reagisca ai danni arrecatigli dalla civiltà e dagli altri individui lo sappiamo già: sviluppa una dose corrispondente di resistenza agli ordinamenti di questa civiltà, di ostilità alla civiltà stessa. Ma come si difende dallo strapotere della natura, del destino, i quali minacciano lui come tutti gli altri?
[43] La civiltà lo esime da questo obbligo, provvedendovi pei tutti allo stesso modo; è anche degno di nota che quasi tutte le civiltà l’anno più o meno lo stesso a questo riguardo. La civiltà non si ferma mai nel disbrigo del suo compito di difendere l’uomo contro la natura, si limita a proseguirlo con altri mezzi. Il compito è qui molteplice, l’orgoglio dell’uomo gravemente minacciato richiede consolazione, bisogna togliere al mondo e alla vita i loro terrori; oltretutto la stessa sete di sapere degli uomini, che certo è mossa dal più forte interesse pratico, vuole avere una risposta.
Con il primo passo si è già guadagnato moltissimo. Ed esso consiste nell’umanizzare la natura. Alle forze e ai destini impersonali non ci si può avvicinare, essi ci rimangono eternamente estranei. Ma se negli elementi infuriano passioni come nella nostra anima, se la morte stessa non è niente di spontaneo, ma una violenza perpetrata da una volontà maligna, se dappertutto nella natura abbiamo intorno a noi esseri come quelli che conosciamo nella nostra società, allora respiriamo, ci sentiamo familiari in un humus non familiare, possiamo intervenire psichicamente sulla nostra angoscia immotivata. Forse siamo ancora senza difesa, ma non più impotenti e paralizzati, possiamo almeno reagire, anzi forse non siamo neanche senza difesa: contro questi superuomini violenti là fuori possiamo usare gli stessi mezzi di cui ci serviamo nella nostra società, possiamo tentare di scongiurarli, placarli, corromperli, di strappar loro, influendo in tal modo su di loro, una parte del loro potere. Una tale sostituzione della scienza naturale con la psicologia non ci dà solo un sollievo immediato, ma mostra anche la via da percorrere per dominare ulteriormente la situazione.
Questa situazione, infatti, non è niente di nuovo, ha un modello infantile, è in realtà solo la continuazione di una precedente, giacché in un tale stato di impotenza ci si era già trovati, da bambini piccoli, di fronte a una coppia di genitori che si aveva motivo di temere, specie il padre, e della cui protezione però si era anche sicuri, contro i pericoli che allora si conoscevano. Fu quindi facile equiparare le due situazioni. Inoltre, come nella vita onirica, il desiderio vi trovò il proprio tornaconto. [44] Chi dorme è assalito da un presentimento di morte, che vuole portarlo nella tomba, ma il lavoro onirico sa scegliere la situazione in cui perfino questo avvenimento temuto si trasforma in appagamento di un desiderio: chi sogna si vede in un’antica tomba etrusca, in cui era sceso felicemente per soddisfare i suoi interessi archeologici. Allo stesso modo, l’uomo non trasforma semplicemente le forze della natura in persone con cui poter avere rapporti come con i suoi simili, ciò non renderebbe neanche conto dell’impressione schiacciante che egli ne ha; piuttosto attribuisce loro un carattere paterno, ne fa degli dèi, seguendo non solo un modello infantile ma anche, come ho cercato di mostrare, un modello filo-genetico.
Col tempo si fanno le prime osservazioni sulla regolarità e sulle leggi dei fenomeni naturali, e allora le forze naturali perdono i loro tratti umani. Ma l’impotenza degli uomini resta, e restano con essa la nostalgia del padre e gli dèi. Gli dèi mantengono il loro triplice compito, di esorcizzare i terrori della natura, di riconciliarci con la crudeltà del destino, specie quale si manifesta nella morte, e di risarcirci delle sofferenze e privazioni che sono imposte all’uomo dalla convivenza civile.
Ma un po’ per volta, all’interno di queste operazioni, l’accento si sposta. Si nota che i fenomeni naturali si svolgono da sé in base a necessità interne; certo gli dèi sono i signori della natura, l’hanno organizzata in quel modo e possono ormai lasciarla a se stessa. Solo occasionalmente interferiscono nel suo corso coi cosiddetti miracoli, come per assicurare di non aver rinunciato a niente della loro sfera di potere originaria. Per quanto riguarda i destini assegnati agli uomini, persiste il disagio e il presagio che nulla sia possibile per rimediare all’incertezza e all’impotenza del genere umano. È qui soprattutto che gli dèi vengono meno; se sono loro a creare il fato, bisogna dichiarare il loro decreto imperscrutabile; al popolo più geniale dell’antichità balenò l’idea che la moira sovrastasse gli dèi e che gli dèi stessi avessero i loro destini. E quanto più la natura diventa autonoma e gli dèi se ne ritraggono, tanto più seriamente tutte le aspettative si concentrano [45] sulla terza facoltà che è loro attribuita, tanto più la morale diventa il loro vero e proprio dominio. Il compito degli dèi diventa ora di compensare i difetti e i danni della civiltà, di occuparsi delle sofferenze che gli uomini si infliggono reciprocamente nella vita in comune, di vigilare sull’attuazione delle regole civili che gli uomini seguono tanto male. A queste stesse regole viene attribuita un’origine divina, esse vengono innalzate al di sopra della società umana ed estese alla natura agli accadimenti del mondo.
Così viene creato un patrimonio di rappresentazioni, nato dal bisogno di rendere sopportabile l’impotenza umana e costituito col materiale dei ricordi della propria infanzia e di quella del genere umano. È facile capire che questo possesso protegge l’uomo in due direzioni: contro i pericoli della natura e del destino e contro i danni inferti dalla stessa società umana. Nel complesso s’intende: la vita in questo mondo serve a uno scopo superiore, che veramente non è facile da indovinare, ma che certamente significa un perfezionamento dell’essere umano. Oggetto di questo innalzamento ed elevazione è probabilmente la parte spirituale dell’uomo, l’anima, che con tanta lentezza e riluttanza si è andata separando dal corpo nel corso dei tempi. Tutto quel che accade in questo mondo è attuazione degli intenti di un’intelligenza a noi superiore, la quale, anche se per deviazioni difficili da seguire, alla fine volge tutto in bene, cioè in ciò che ci allieta. Su ognuno di noi veglia una provvidenza amorevole, anche se apparentemente severa, che non permette che diventiamo il trastullo delle strapotenti e implacabili forze della natura; la morte stessa non è un annientamento, un ritorno alla materia inorganica senza vita, ma l’inizio di una nuova forma di esistenza che si trova lungo il percorso di uno sviluppo superiore. Se guardiamo dall’altra parte, vediamo che le stesse leggi morali che sono state istituite dalle nostre civiltà dominano anche tutto l’accadere universale. Solo che vengono custodite da un tribunale di suprema istanza, dotato di un potere e di una coerenza incomparabilmente superiori. Tutto il bene riceve alla fine il suo premio e tutto il male il suo castigo, se non già nella nostra forma di vita, nelle esistenze successive, che cominciano [46] dopo la morte. Quindi tutti i terrori, tutte le sofferenze e durezze della vita sono destinati ad essere estirpati: la vita dopo la morte, che continua la nostra vita terrena come la parte invisibile dello spettro si aggiunge a quella visibile, apporta tutta la perfezione che eventualmente qui ci è mancata. E la saggezza superiore che governa questo corso di eventi, l’infinita bontà che vi si manifesta, la giustizia che vi si attua: questi sono gli attributi degli esseri divini che hanno creato anche noi e il mondo nel suo complesso.
O invece dell’unico essere divino in cui, nella nostra civiltà, si sono condensati tutti gli dèi dell’antichità. Il popolo che per primo riuscì a concentrare in tal modo gli attributi divini fu non poco fiero di questo progresso. Esso aveva portato alla luce il nucleo paterno che da sempre era rimasto nascosto dietro ogni figura divina; in fondo si trattò di un ritorno alle origini storiche dell’idea di Dio. Ora, poiché Dio era uno solo, i rapporti con lui poterono riacquistare l’intimità e intensità del rapporto del bambino col padre. Dato comunque che si era fatto tanto per il padre, si volle anche esserne ricompensati, essere perlomeno i soli figli amati, il popolo eletto. Molto tempo dopo, l’America devota accampò la pretesa di essere God’s own country [il vero paese di Dio], e, per una delle forme in cui gli uomini venerano la divinità, essa era anche fondata.
Le rappresentazioni religiose che abbiamo sopra riassunte sono frutto naturalmente di una lunga evoluzione e sono state fatte proprie in varie fasi da varie civiltà. Io ho scelto solo una di tali fasi evolutive, che corrisponde all’incirca all’ultima forma assunta dalla nostra attuale civiltà bianca, cristiana. E facile notare che non tutti i pezzi di questo intarsio combaciano perfettamente fra loro, che non a tutte le domande pressanti viene data risposta, che solo a fatica si possono respingere le contraddizioni di cui si fa quotidianamente esperienza. Ma tali quali sono, queste rappresentazioni – rappresentazioni nel senso più lato religiose – sono apprezzate come il possesso più prezioso della civiltà, come il bene maggiore che questa può offrire ai suoi membri; il loro valore è ritenuto di gran lunga superiore a quello delle arti di carpire alla terra i suoi tesori, di provvedere al sostentamento del genere umano [47] o di preservarlo dalle malattie ecc. Gli uomini credono di non poter sopportare la vita se a tali rappresentazioni non attribuiscono il valore che viene per esse preteso. E allora si pone la questione: che cosa sono queste rappresentazioni alla luce della psicologia? Da dove si trae il loro grande apprezzamento? E, per continuare modestamente, qual è il loro valore reale?
4.
[48] Una ricerca che proceda indisturbata come un monologo non va esente da pericoli. Si cede troppo facilmente alla tentazione di mettere da parte i pensieri che vorrebbero interromperla, ricevendone in cambio un sentimento di insicurezza, che si cerca alla fine di superare con un eccesso di decisionismo. Immaginerò quindi un oppositore che segua con diffidenza le mie argomentazioni, e qua e là gli cederò la parola. Lo sento dire:
«Lei ha ripetutamente usato le espressioni: la civiltà crea queste rappresentazioni religiose, la civiltà le mette a disposizione dei suoi membri. C’è qualcosa in esse che suona strano; io stesso non saprei dire perché, ma ciò che si sente dire non appare così evidente come sentir dire che la civiltà ha creato disposizioni per la distribuzione dei proventi di lavoro o per i diritti della donna e del bambino».
Ritengo tuttavia che sia giustificato esprimersi così. Ho cercato di spiegare che le rappresentazioni religiose sono scaturite dallo stesso bisogno di tutte le altre conquiste della civiltà, dalla necessità di difendersi dallo strapotere schiacciante della natura. A ciò si aggiunse un secondo motivo: la spinta a correggere le imperfezioni della civiltà, avvertite dolorosamente. E anche particolarmente esatto dire che la civiltà dona queste rappresentazioni all’individuo, giacché egli se le trova davanti, esse gli vengono portate davanti bell’e pronte, ed egli non sarebbe in grado di trovarle da solo. Egli subentra nell’eredità di molte generazioni, che riceve come la tavola pitagorica, la geometria e altre cose. Certo, in questo caso c’è una differenza, che però si trova altrove e che ora non può essere ancora rischiarata. Al sentimento di stranezza di cui Lei parla può contribuire il fatto che questo possesso delle rappresentazioni religiose ci viene di solito presentato come una rivelazione divina. Solo che questo è già una parte del sistema religioso e trascura del tutto l’evoluzione storica, a noi nota, di queste idee e le loro diversità in epoche e civiltà differenti .
«Un altro punto, che mi sembra più importante. Secondo Lei, l’umanizzazione della natura scaturisce dal bisogno di porre fine alla perplessità e all’impotenza umana di fronte alle temute forze naturali, di mettersi in relazione con esse e di riuscire infine a influenzarle. Ma un tale motivo sembra superfluo. L’uomo primitivo, infatti, non ha scelta, non ha altro modo di pensare. Per lui è naturale, quasi innato, proiettare il suo essere nel mondo; tutti i fatti che osserva, li considera manifestazioni di esseri che in fondo sono simili a lui. Questo è l’unico metodo della sua facoltà di comprendere. E non è affatto ovvio, è anzi una coincidenza singolare se egli riesce, abbandonandosi alla sua disposizione naturale, a soddisfare uno dei suoi grandi bisogni».
Io non lo trovo tanto strano. Lei crede forse che il pensiero degli uomini non sia mosso da motivi pratici, sia solo espressione di una sete di sapere disinteressata? Ma ciò è ben improbabile. Invece io credo che l’uomo, anche quando personifica le forze della natura, segua un modello infantile. Egli ha appreso dalle persone del suo primo ambiente che, se stabilisce un rapporto con loro, ciò dà loro modo di influenzarle; di conseguenza egli tratta in seguito in tal modo ogni altra cosa in cui si imbatte allo stesso scopo. Dunque io non mi oppongo alla Sua osservazione descrittiva, per l’uomo è davvero naturale personificare tutto quello che vuole comprendere, per poi dominarlo – dominarlo psichicamente come preparazione al dominio fisico – ma io fornisco anche il motivo e la genesi di questa particolarità del pensiero umano.
«E adesso ancora un terzo punto. Lei ha già trattato una volta l’origine della religione, nel Suo libro Totem e tabù. Ma lì le cose sembrano diverse. Il rapporto figlio-padre è tutto, Dio è il padre che è stato innalzato, il desiderio bramoso del padre è la radice del bisogno religioso. In seguito, sembra, Lei ha scoperto il fattore della debolezza e dell’impotenza umana, a cui generalmente viene attribuito il ruolo più rilevante nella formazione della religione, e ora Lei riconduce a tale impotenza tutto ciò che prima attribuiva al complesso del padre. Posso chiederLe di fornire qualche spiegazione su questo cambiamento?».
Volentieri. Aspettavo solo questo invito. Sempre che, in effetti, un cambiamento ci sia. In Totem e tabù non si trattava di spiegare la nascita delle religioni [50] ma solo quella del totemismo. Può Lei, in base a uno qualunque dei punti di vista che conosce, far comprendere il fatto che la prima forma in cui la divinità protettrice si rivelò all’uomo era una forma animale, che esisteva un divieto di uccidere e di mangiare questo animale, e che però vi era anche l’usanza solenne di ucciderlo e mangiarlo in comune una volta l’anno? Proprio questo ha luogo nel totemismo. Ed è quasi inopportuno discutere se il totemismo si debba chiamare una religione. Esso ha rapporti intrinseci con le più tarde religioni degli dèi, gli animali totemici si trasformano negli animali sacri degli dèi. E le prime limitazioni della morale, che però vanno più in profondità – il divieto dell’omicidio e dell’incesto -, sorgono sul terreno del totemismo.
Che accetti o no le conclusioni di ., Lei converrà, spero, che in quel libro una quantità di fatti sparsi, molto singolari, sono riuniti in un insieme coerente. Il problema del perché alla lunga il dio animale non sia bastato più e sia stato sostituito da quello umano in Totem e tabù non è quasi neanche sfiorato, e altri problemi riguardanti la formazione della religione non vi trovano alcuna menzione. Lei ritiene una tale limitazione identica a una negazione? Il mio lavoro è un buon esempio di rigorosa individuazione del contributo che l’analisi psicologica può conferire alla soluzione del problema religioso. Se io ora cerco di aggiungere il resto, meno profondamente nascosto, Lei non mi deve accusare di contraddizione, come prima di unilateralità. Naturalmente è mio compito indicare i modi per collegare quanto detto prima con quanto esposto ora, la motivazione più profonda con quella manifesta, il complesso del padre con l’impotenza e il bisogno di protezione dell’uomo.
Questi collegamenti non sono difficili da trovare. Sono i rapporti dell’impotenza del bambino con quella, che la prosegue, dell’adulto; sicché, com’era da aspettarsi, la motivazione che la psicoanalisi fornisce alla formazione della religione diventa il contributo infantile alla sua motivazione manifesta. Immettiamoci nella vita psichica del bambino piccolo. Si ricorda Lei della scelta oggettuale in base al tipo per appoggio di cui parla l’analisi? La libido segue la via dei bisogni narcisistici e si fissa sugli oggetti che ne assicurano il soddisfacimento. Così la madre, che soddisfa la fame, diventa il primo oggetto amato e certo anche la prima protezione contro tutti gli indistinti pericoli che minacciano nel mondo esterno, la prima protezione contro l’angoscia, possiamo dire.
In questa funzione, la madre viene ben presto sostituita dal padre, più forte, al quale ormai tale funzione rimane affidata per tutta l’infanzia. Ma il rapporto col padre è affetto da una peculiare ambivalenza. Egli stesso era un pericolo, forse a causa del precedente rapporto con la madre. E allora non lo si teme meno di quanto lo si desideri e lo si ammiri. I segni di questa ambivalenza del rapporto col padre sono profondamente impressi in tutte le religioni, come si spiega pure in Totem e tabù. Quando poi l’individuo, crescendo, nota che è destinato a rimanere sempre un bambino che non potrà mai fare a meno della protezione contro le potenze aliene superiori, egli conferisce a queste i tratti della figura patema, si crea gli dèi, che teme, che cerca di propiziarsi e a cui tuttavia affida la propria protezione. Così il motivo del desiderio bramoso del padre è identico al bisogno di protezione contro le conseguenze dell’impotenza umana; la difesa contro la debolezza infantile conferisce i suoi segni caratteristici alla reazione contro l’impotenza, che l’adulto è costretto a riconoscere, per l’appunto alla formazione della religione. Ma non è nostra intenzione studiare ulteriormente l’evoluzione dell’idea di Dio; qui abbiamo a che fare col patrimonio bello e pronto delle rappresentazioni religiose, quale è tramandato all’individuo dalla civiltà.
5.
Per riprendere il filo dell’indagine: quale è dunque il significato psicologico delle rappresentazioni religiose, in quali termini le possiamo classificare? A questa domanda, a tutta prima, non è facile rispondere. Dopo aver scartato diverse formulazioni, ci si atterrà alla seguente: sono assiomi, asserzioni su fatti e situazioni della realtà esterna (o interna), che comunicano qualcosa che non si è trovato da sé e che pretendono che si abbia fede in loro. Poiché forniscono ragguagli su ciò che per noi è più importante e più interessante nella vita, esse vengono particolarmente apprezzate. Chi non ne sa nulla è molto ignorante; chi le ha accolte nel proprio sapere può ritenersi molto arricchito.
Ci sono naturalmente molti assiomi del genere sulle cose più disparate di questo mondo. Ogni lezione, a scuola, ne è piena. Prendiamo la lezione di geografia. Sentiamo dire: «Costanza si trova sul lago omonimo». Una canzone studentesca aggiunge: «Chi non ci crede vada a vedere». Io per caso ci sono stato e posso confermare: la bella città si trova sulla riva di una vasta distesa d’acqua che tutti quelli che vi abitano intorno chiamano Lago di Costanza [Bodensee]. Adesso io sono pienamente convinto anche della correttezza di questa affermazione geografica. Ciò mi fa venire in mente un altro episodio molto singolare. Ero già uomo maturo quando mi trovai per la prima volta sulla collina dell’Acropoli di Atene, tra le rovine dei templi, con lo sguardo rivolto verso il mare azzurro. Al mio tripudio si mescolò allora un sentimento di stupore, che mi fece esclamare: ma allora è proprio così come abbiamo imparato a scuola! Come dev’essere stata superficiale e fiacca la fede che avevo concepito un tempo nell’effettiva verità delle cose che ascoltavo, se ora potevo essere così stupito! Ma non voglio insistere troppo sul significato di questo episodio; c’è anche un’altra spiegazione possibile del mio stupore, che allora non mi venne in mente, la quale è assolutamente di natura soggettiva ed è collegata alla particolarità del luogo.
Tutti gli assiomi siffatti esigono dunque la fede nei loro contenuti, ma non senza fondare la loro pretesa. Essi si presentano come il risultato abbreviato di un lungo processo di pensiero, fondato sull’osservazione e certo anche sul ragionamento. A chi ha l’intenzione di svolgere in proprio questo processo, invece di accettarne il risultato, essi indicano la via da seguire. Viene anche sempre aggiunto da dove si trae la conoscenza che l’assioma enuncia, quando esso non si intende da sé, come nelle affermazioni di carattere geografico. Per esempio la terra ha la forma di una sfera; come prove di ciò vengono addotti l’esperimento del pendolo di Foucault, il variare dell’orizzonte, la possibilità di circumnavigare la Terra. Poiché, come tutti coloro che vi hanno interesse riconoscono, non è praticamente possibile mandare tutti gli scolari a circumnavigare la Terra, ci si accontenta di far accettare gli insegnamenti della scuola “in fiducia e fede”, ma si sa che la via della convinzione personale rimane aperta.
Cerchiamo di misurare gli assiomi religiosi con lo stesso metro. Se noi solleviamo la questione su che cosa si basi la loro pretesa di essere creduti, riceviamo tre risposte, molto discordanti tra loro. Primo, meritano di essere creduti perché sono già stati creduti dai nostri antenati, secondo, possediamo prove che ci vengono proprio da questa epoca remota, e terzo, è assolutamente proibito porre la questione della loro prova, in passato, per quest’impresa temeraria, venivano comminate le pene più dure, e ancor oggi la società non vede di buon occhio che qualcuno ci si riprovi. Questo terzo punto è destinato a destare i nostri più forti dubbi. Un tale divieto può avere infatti la sola motivazione che la società conosce benissimo l’incertezza della pretesa che accampa per le sue dottrine religiose. Se così non fosse, certamente essa si affretterebbe a mettere a disposizione di chiunque volesse farsi una convinzione propria il materiale [54] necessario. Perciò passiamo ad esaminare le altre due prove con una diffidenza che non è facile mettere a tacere.
Dobbiamo credere perché hanno creduto i nostri antenati. Ma questi nostri antenati erano di gran lunga più ignoranti di noi, hanno creduto a cose che per noi oggi sono assolutamente impossibili da accettare. Si profila quindi la possibilità che anche le dottrine religiose siano di tale natura. Le prove che essi ci hanno tramandato sono depositate in scritti i quali recano essi stessi in sé tutti i caratteri dell’inattendibilità. Sono pieni di contraddizioni, passati per più mani, falsificati; dove parlano di effettive prove, ne sono essi stessi privi. Le cose non migliorano molto quando si afferma, per il loro tenore o anche solo per i loro contenutila loro provenienza dalla rivelazione divina, giacché questa affermazione fa già parte essa stessa di quelle dottrine che devono essere esaminate quanto alla loro credibilità, e d’altra parte nessuna proposizione può dimostrare se stessa.
Così arriviamo allo strano risultato che proprio quei ragguagli provenienti dal patrimonio della nostra civiltà, che potrebbero avere per noi la più grande importanza e a cui è demandato il compito di risolvere per noi gli enigmi del mondo e di riconciliarci con le sofferenze della vita, proprio essi sono provati nel modo più debole. Noi non ci risolveremmo ad ammettere un fatto per noi così indifferente, come quello che le balene partoriscono i loro piccoli invece di deporre uova, se esso non fosse suffragato da prove migliori. Questo stato di cose costituisce di per sé un problema psicologico molto particolare. Nessuno deve comunque credere che le osservazioni precedenti sull’indimostrabilità delle dottrine religiose contengano qualcosa di nuovo. Di essa si è avuto sentore in ogni tempo, di certo anche nell’epoca remota degli antenati che ci hanno tramandato tale eredità. Probabilmente molti di loro nutrivano gli stessi nostri dubbi, ma erano gravati da una pressione troppo forte perché osassero manifestarli . E da allora in poi innumerevoli uomini si sono tormentati con i medesimi dubbi, che hanno voluto reprimere in quanto si sono ritenuti obbligati a credere, molti intelletti brillanti sono naufragati per tale conflitto e molti caratteri hanno sofferto danni per i compromessi in cui hanno cercato una via di scampo.
Se tutte le prove che vengono date per la credibilità degli assiomi religiosi provengono dal passato, viene naturalmente fatto di guardarsi intorno per vedere se il presente, qualora sia giudicato meglio, non possa fornire a sua volta tali prove. Se si riuscisse in questo modo a sottrarre al dubbio anche solo una singola parte del sistema religioso, il tutto guadagnerebbe straordinariamente in credibilità. Qui interviene l’attività degli spiritisti, che sono convinti della sopravvivenza dell’anima individuale e vogliono dimostrarci, al riparo da ogni dubbio, quest’unica tesi della dottrina religiosa. Purtroppo però non riescono a confutare il fatto che le apparizioni e manifestazioni dei loro spiriti siano soltanto produzioni della loro propria attività psichica. Essi hanno evocato gli spiriti degli uomini più grandi, dei pensatori più eminenti, ma tutte le manifestazioni e informazioni che ne hanno ricevuto erano così sciocche, così desolatamente insignificanti, che non vi si può trovare nulla di credibile salvo la capacità degli spiriti di adattarsi alla cerchia degli uomini che li evocano.
Bisogna ora far parola di due tentativi, che danno l’impressione di uno sforzo spasmodico fatto per eludere il problema. L’uno, di natura violenta, è antico, l’altro è sottile e moderno. Il primo è il credo quia absurdum dei Padri della Chiesa. Ciò sta a significare che le dottrine religiose sono sottratte alle pretese della ragione, stanno al di sopra della ragione. Se ne deve sentire intimamente la verità, non c’è bisogno di comprenderle. Ma questo credo è interessante solo come confessione personale; come motto d’autorità non ha efficacia vincolante. Sono io obbligato a credere a ogni assurdità? E se no, perché proprio a questa? Al di sopra della ragione non c’è nessuna istanza. Se la verità delle dottrine religiose dipende da un’esperienza interiore che attesta tale verità, che fare dei tanti che non hanno questa rara esperienza? Si può esigere da tutti gli uomini che facciano uso del dono di ragione che hanno ricevuto, ma non si può fondare un’obbligazione valida per tutti su un motivo che esiste solo per pochissimi. Se uno, per uno stato di estasi che lo ha preso in profondità, si è formato [56] una convinzione incrollabile della verità effettiva delle dottrine religiose, che cosa significa ciò per un altro?
Il secondo tentativo è quello della filosofia del “come se”. Si asserisce che nella nostra attività di pensiero ci sono numerosi assunti, di cui vediamo chiaramente l’infondatezza, anzi l’assurdità. Essi vengono chiamati finzioni, ma per disparati motivi pratici dobbiamo comportarci “come se” credessimo a tali finzioni. Ciò si applicherebbe alle dottrine religiose per l’incomparabile importanza che esse hanno per il mantenimento della società umana. Questa argomentazione non è lontana dal credo quia absurdum. Ma io ritengo che la pretesa del “come se” sia tale da poter essere accampata solo da un filosofo. L’uomo che nel suo pensare non si fa influenzare dalle arti della filosofia non potrà accettarla: per lui, una volta ammessa l’assurdità e l’irrazionalità, il discorso è chiuso. Egli non può essere tenuto a rinunciare, proprio nel trattare i suoi interessi principali, alle sicurezze che altrimenti esige per tutte le sue attività abituali. Mi ricordo di uno dei miei figli che si distingueva precocemente per un particolare senso della concretezza. Quando ai bambini veniva raccontata una favola, che essi stavano ad ascoltare rapiti, veniva su e domandava: “E una storia vera?”. E una volta sentito che non lo era, si ritraeva con aria sprezzante. C’è da aspettarsi che ben presto gli uomini si comporteranno in modo simile con le favole religiose, nonostante l’intercessione del “come se”. Per il momento tuttavia si comportano ancora in tutt’altro modo, e nei tempi passati le rappresentazioni religiose hanno esercitato sugli uomini un influsso potentissimo, nonostante la loro indiscutibile mancanza di convalidazione. Questo è un problema psicologico nuovo. Occorre domandarsi in che cosa consista l’intima forza di queste dottrine e a quale circostanza debbano la loro efficacia, così indipendente dal riconoscimento della ragione.
Spero di non far torto al filosofo del “come se” se gli attribuisco un’opinione che non è estranea neanche ad altri pensatori. Cfr. H. Vaihinger, La filosofia del “come se ”, settima e ottava edizione 1922, p. 68:
«Noi attiriamo nell’ambito delle finzioni non solo le operazioni teoretiche, ma anche formazioni concettuali che sono state create dagli uomini più nobili, che stanno a cuore alla parte più nobile dell’umanità e che non è possibile eliminare. Non è nostra intenzione far sì che tutto si riduca a una finzione pratica, ma – d’altra parte – la verità teoretica viene a cadere».
6.
Penso che abbiamo sufficientemente preparato la risposta alle due domande. Essa risulta chiaramente se consideriamo bene la genesi psichica delle rappresentazioni religiose. Queste, che si presentano come assiomi, non sono sedimenti dell’esperienza o risultati finali del pensiero, sono illusioni, appagamenti dei desideri più antichi, più forti, più pressanti dell’umanità; il segreto della loro forza è la forza di questi desideri. Sappiamo già che la terribile impressione dell’impotenza infantile ha suscitato il bisogno di protezione – protezione attraverso l’amore – che il padre ha soddisfatto; il riconoscimento della continuazione di questa impotenza per tutta la vita ha causato l’aggrapparsi all’esistenza di un padre – però ora più potente. Il governo amorevole della provvidenza divina placa l’angoscia di fronte ai pericoli della vita, l’introduzione di un ordine morale universale assicura la soddisfazione del bisogno di giustizia, che nell’ambito della civiltà umana è rimasto così spesso insoddisfatto, il prolungamento dell’esistenza terrena con una vita futura appronta la cornice spaziale e temporale in cui questi appagamenti si compiranno. Le risposte agli enigmatici interrogativi che scaturiscono dall’umana sete di sapere, come quelli circa l’origine del mondo e il rapporto tra anima e corpo, vengono sviluppate in base ai presupposti di questo sistema. Significa un grande sollievo per la psiche individuale che i conflitti mai del tutto superati dell’infanzia, i quali derivano dal complesso del padre, vengano ad essa sottratti e portati a una soluzione accettata da tutti. Quando dico che tutte queste sono illusioni, devo delimitare il significato della parola. Un’illusione non è la stessa cosa di un errore, non è neanche necessariamente un errore.
L’opinione di Aristotele che gli insetti si sviluppino dall’immondizia, come il popolo ignorante continua a credere ancora oggi, era un errore, quanto quella di una precedente generazione di medici, secondo cui la tabes dorsalis sarebbe conseguenza della dissolutezza sessuale. Sarebbe abusivo chiamare questi errori illusioni. Era invece un’illusione la credenza di Colombo di aver scoperto una nuova rotta per le Indie. In questo errore è molto chiara la parte del suo desiderio. Si può definire illusione l’affermazione di certi nazionalisti, che credono che gli indogermani siano l’unica razza umana capace di civiltà, o la credenza, che solo la psicoanalisi ha stroncato, che il bambino sia un essere senza sessualità. Per l’illusione rimane caratteristica la derivazione dai desideri umani, e sotto questo aspetto essa si avvicina al delirio psichiatrico, ma poi si differenzia anche da questo, a prescindere dalla più complicata formazione del delirio. Nel delirio rileviamo come essenziale la contraddizione con la realtà, l’illusione invece non è necessariamente falsa, cioè irrealizzabile o in contraddizione con la realtà. Una ragazza borghese può per esempio illudersi che verrà un principe e la sposerà. È una cosa possibile, alcuni casi del genere si sono verificati. Che il Messia verrà e fonderà un’età dell’oro è molto meno probabile; a seconda dell’atteggiamento personale di chi giudica, si classificherà questa credenza come illusione o come qualcosa di analogo a un delirio. Esempi di illusioni che si sono dimostrate vere non sono peraltro facili da trovare. Ma l’illusione degli alchimisti di poter trasformare tutti i metalli in oro potrebbe essere uno di tali esempi. Il desiderio di avere moltissimo oro, quanto più oro possibile, si è molto smorzato per la consapevolezza che abbiamo oggi delle condizioni della ricchezza; tuttavia la chimica non ritiene più impossibile una trasformazione dei metalli in oro. Noi dunque chiamiamo una credenza illusione quando nella sua motivazione viene in primo piano l’appagamento di un desiderio, a prescindere dal suo rapporto con la realtà, così come l’illusione stessa rinuncia alla sua convalidazione.
Se, in base a questo orientamento, ci volgiamo di nuovo alle dottrine religiose, possiamo dire, ripetendoci, che esse sono [59] illusioni, indimostrabili, e che nessuno può essere costretto a ritenerle vere e a credere in esse. Alcune di esse sono così inverosimili, talmente in contraddizione con tutto quanto abbiamo faticosamente appreso sulla realtà del mondo che – tenute nel debito conto le differenze psicologiche – possiamo paragonarle ai deliri. Sul valore di realtà della maggior parte di esse non è dato giudicare. Così come sono indimostrabili, sono anche inconfutabili. Si sa ancora troppo poco per poterle avvicinare in maniera critica. Gli enigmi del mondo si svelano alla nostra indagine solo lentamente; ancora oggi, a molte domande la scienza non può dare risposta. Ma il lavoro scientifico è per noi l’unica via che può condurci alla conoscenza della realtà esterna. E di nuovo soltanto un illusione aspettarsi qualcosa dall’intuizione e dall’introspezione; esse non possono darci niente se non indicazioni – difficili da interpretare – sulla nostra vita psichica, mai informazioni sulle domande a cui, alla dottrina religiosa, diventa così facile rispondere. Sarebbe sacrilego lasciar colmare la lacuna dal proprio arbitrio e, in base a un giudizio personale, dichiarare più o meno accettabile questa o quella parte del sistema religioso. Per questo quelle domande sono troppo piene di significato, si potrebbe dire: troppo sacre.
A questo punto ci si può aspettare l’obiezione: “Dunque, se perfino gli scettici incalliti ammettono che le affermazioni della religione non si possono confutare con l’intelletto, perché allora io non dovrei crederci, dal momento che esse hanno tante cose dalla loro parte, la tradizione, il consenso degli uomini e tutto ciò che contengono di consolante?”. Già, perché no? Così come nessuno può essere costretto a credere, nessuno può essere costretto a non credere. Ma non ci si compiaccia di illudersi di percorrere, con tali argomenti, le vie del retto pensare. Se c’è un caso in cui è al suo posto il biasimo di “magra scusa”, è questo. L’ignoranza è l’ignoranza; da essa non viene nessun diritto di credere qualcosa. Nessun uomo ragionevole si comporta nelle altre cose con tanta leggerezza e si accontenta di così misere giustificazioni dei suoi giudizi e delle sue prese di posizione; se lo permette solo nelle cose più alte e più sacre. In realtà si tratta solo di sforzi per far credere [60] a se stessi o agli altri di essere ancora saldamente ancorati alla religione, mentre da un pezzo ci si è staccati da essa. Quando si tratta dei problemi di religione, gli uomini si rendono colpevoli di tutte le possibili insincerità e scorrettezze intellettuali filosofi estendono il significato delle parole fino a che queste non serbano quasi più nulla del loro senso originario che chiamano “Dio” una qualunque vaga astrazione che si sono creata, e sono allora di fronte a tutti quanti anche deisti, credenli in Dio, potendo finanche vantarsi di aver scovato un concetto di Dio più elevato, più puro, sebbene il loro Dio sia soltanto un’ombra inconsistente e non più la possente personalità della dottrina religiosa. I critici insistono nel definire “profondamente religioso” uno che dichiara un sentimento di piccolezza e impotenza dell’uomo di fronte al complesso del mondo, sebbene a costituire l’essenza della religiosità non sia questo sentimento, ma solo il passo successivo, la reazione a tale sentimento, che cerca aiuto contro il medesimo. Chi non procede oltre, chi si rassegna umilmente alla parte insignificante dell’uomo nel vasto mondo, è invece irreligioso nel più vero senso della parola.
Non rientra nel piano di questa ricerca prendere posizione in merito al valore di verità delle dottrine religiose. Ci basta averle riconosciute, nella loro natura psicologica, come illusioni. Ma non vogliamo nascondere che questa scoperta in fluenza anche fortemente la nostra posizione sulla questione che a molti deve sembrare la più importante. Sappiamo all’incirca in quali tempi sono state create le dottrine religiose e da quali uomini. Se apprendiamo inoltre per quali motivi ciò accadde, il nostro punto di vista sul problema religioso subisce un notevole spostamento. Noi ci diciamo che sarebbe si molto bello che ci fosse un Dio quale creatore del mondo e un’amorevole provvidenza, un ordinamento morale del mondo e una vita nell’aldilà, ma è evidentissimo che tutte queste cose sono esattamente quelle che non possiamo non desiderare. E sarebbe ancora più strano che i nostri poveri, ignoranti e non liberi antenati fossero riusciti a risolvere tutti questi difficili enigmi del mondo una volta che abbiamo riconosciuto le dottrine religiose come illusioni, sorge subito l’altra questione, se anche altre parli del patrimonio della civiltà, che apprezziamo altamente e a cui facciamo governare la nostra vita, non siano di natura simile. Se non debbano essere chiamati illusioni anche i presupposti che regolano i nostri ordinamenti statali, se i rapporti tra i sessi nella nostra civiltà non siano turbati da un’illusione o da una serie di illusioni erotiche.
Una volta destatasi la nostra diffidenza, non indietreggeremo neanche di fronte alla questione: se la nostra convinzione di potere apprendere, con l’impiego dell’osservazione e della riflessione nel lavoro scientifico, qualcosa della realtà esterna, abbia un fondamenti migliore. Niente può trattenerci dal plaudire al convergere dell’osservazione sul nostro stesso essere e all’impiego del pensiero per la sua stessa critica. Si inaugura qui una serie di indagini, i cui risultati dovrebbero essere decisivi per la cosi razione di una “concezione del mondo”. Immaginiamo anche che un tale sforzo non sarà sprecato e fornirà almeno parzialmente una giustificazione al nostro sospetto. Ma la capacità dell’autore si rifiuta di affrontare un così vasto compito e, costrettavi dalla necessità, limita il suo lavoro allo studio di ima sola di queste illusioni, quella religiosa appunto.
A voce alta del nostro oppositore ci ordina ora di fermarci. Siamo chiamati a rendere conto del nostro fare proibito. Egli ci dice:
«Gli interessi archeologici sono certo lodevolissimi, ma non si intraprendono scavi se minano le abitazioni dei vivi in modo da farle crollare seppellendo le persone sotto le loro macerie. Le dottrine religiose non sono un oggetto su cui si possa arzigogolare come su qualunque altro. La nostra civiltà [62] è basata su di esse, la preservazione della società umana ha come presupposto che gli uomini, nella loro maggioranza, credano alla verità di queste dottrine. Se si insegna loro che non c’è un Dio onnipotente e giustissimo, che non ci sono un ordine divino del mondo e una vita futura, essi si sentiranno esenti da ogni obbligo di osservare le prescrizioni della civiltà, ognuno seguirà, senza ostacoli e senza più paura, le sue pulsioni asociali, egoistiche, cercherà di far valere la sua potenza, e così ricomincerà il caos, che è stato bandito con il lavoro millenario della civiltà. Anche se si sapesse e si potesse dimostrare che la religione non è in possesso della verità, bisognerebbe tacerlo e comportarsi così come richiede la filosofia del “come se”. Nell’interesse della conservazione di tutti! Prescindendo dalla pericolosità dell’impresa, si tratterebbe anche di una crudeltà inutile. Innumerevoli uomini trovano nelle dottrine della religione la loro unica consolazione, solo col loro aiuto riescono a sopportare la vita. Ora si vuole privarli di questo loro sostegno e non si ha niente di meglio da dar loro in cambio. È stato riconosciuto che per ora la scienza non fa molto, ma anche se fosse molto più progredita, agli uomini essa non basterebbe. L’uomo ha ancora altri bisogni imperativi, che non potranno mai essere soddisfatti dalla fredda scienza, ed è molto strano, è anzi il colmo dell’incoerenza, che uno psicologo, che ha sempre insistito su come l’intelligenza passi in second’ordine rispetto alla vita pulsionale, si sforzi ora di defraudare gli uomini della preziosa soddisfazione di un loro desiderio e voglia risarcirli con nutrimento intellettuale».
Quante accuse tutte in una volta! Ma sono pronto a controbatterle tutte, e inoltre sosterrò la tesi che, a mantenere l’attuale rapporto con la religione, la civiltà corre un pericolo maggiore che non se lo si interrompe. Soltanto non so bene da che parte devo cominciare a replicare. Forse dall’assicurazione che, quanto a me, ritengo la mia impresa del tutto innocua e niente affatto pericolosa. Questa volta non sono io che sopravvaluto l’intelletto. Se gli uomini sono così come gli oppositori li descrivono – e su ciò non voglio contraddirli – non sussiste alcun pericolo che un credente devoto, sopraffatto dai miei ragionamenti, si lasci strappare la sua fede.
Oltretutto io non ho detto niente che altri uomini migliori di me non abbiano detto prima di me in modo più completo, più vigoroso e più efficace. I nomi di questi uomini sono noti; io non li menzionerò, perché non voglio dare l’impressione di volermi intrufolare nella loro schiera. Io ho soltanto aggiunto alla critica dei miei grandi precursori – e questa è la sola novità della mia esposizione – un certo fondamento psicologico. Non c’è da aspettarsi che proprio quest’aggiunta sortisca gli effetti che sono rimasti negati ai tentativi precedenti. Certo adesso mi si potrebbe domandare perché si scrivono tali cose, quando si è sicuri della loro inefficacia. Ma su ciò torneremo in seguito.
La sola persona a cui questa pubblicazione può far danno sono io stesso. Avrò da sentire i rimproveri più astiosi per la mia superficialità, ottusità, mancanza di idealismo e di comprensione per i più alti interessi dell’umanità. Ma da un lato tali rimostranze non mi sono nuove, e dall’altro se uno già in gioventù si è messo al di sopra dello sfavore dei contemporanei, che danno gliene può venire da vecchio, quando è sicuro di essere sottratto tra breve a ogni favore e sfavore? Nelle epoche passate era diverso; allora, con tali ragionamenti, si rimediava di sicuro un’abbreviazione della propria esistenza terrena e una buona anticipazione dell’occasione di fare esperienze personali sulla vita nell’aldilà. Ma ripeto, quei tempi sono passati, e oggigiorno una tale scribacchiatura è anche per l’autore senza pericoli. Tutto quel che gli può capitare è che il suo libro non possa essere tradotto e diffuso in questo o quel paese. E naturalmente proprio in qualche paese che si sente sicuro dell’alto livello della sua civiltà. Ma chi in genere perora la causa della rinuncia al desiderio e della rassegnazione al destino deve saper sopportare anche questo danno. Poi mi è venuto fatto di domandarmi se per caso la pubblicazione di questo scritto non possa far del male a qualcuno. Magari non a una persona, bensì a una causa, alla causa della psicoanalisi. Non si può infatti negare che essa è una mia creazione, che è stata accolta con molta diffidenza e malanimo; se ora mi faccio avanti con propositi così sgradevoli, si sarà fin [64] troppo pronti a passare dalla mia persona alla psicoanalisi. Adesso si vede, si dirà, dove porta la psicoanalisi.
La maschera è caduta; essa porta alla negazione di Dio e dell’ideale morale, come in realtà avevamo sempre sospettato. Per impedirci di scoprirlo ci si è dato a intendere che la psicoanalisi non avesse una concezione del mondo e non potesse formarsene una. Questo chiasso mi riuscirà effettivamente spiacevole, a causa dei miei molti collaboratori, parecchi dei quali non condividono affatto il mio atteggiamento nei confronti dei problemi religiosi. Ma la psicoanalisi ha già retto a molte tempeste, è giocoforza esporla anche a questa. In realtà la psicoanalisi è un metodo di ricerca, uno strumento imparziale, come per esempio il calcolo infinitesimale. Se a un fisico, con l’aiuto di questo, dovesse risultare che la Terra, dopo un determinato periodo di tempo, si estinguerà, si esiterà ad attribuire al calcolo stesso tendenze distruttive e a metterlo perciò al bando. Tutto quello che ho detto qui contro il valore di verità delle religioni non aveva bisogno della psicoanalisi, ed è stato detto da altri molto prima che la psicoanalisi esistesse. Se dall’applicazione del metodo psicoanalitico si può trarre un nuovo argomento contro il contenuto di verità della religione, tant pis per la religione, ma con lo stesso diritto i difensori della religione si serviranno della psicoanalisi per avvalorare pienamente il significato affettivo della dottrina religiosa.
E ora, per proseguire nella difesa: la religione ha reso manifestamente grandi servigi alla civiltà umana, ha molto contribuito a domare la pulsioni asociali, però non abbastanza. Ha dominato la società umana per molti millenni; ha avuto tempo per far vedere di che cosa è capace. Se fosse riuscita a rendere felice la maggior parte degli uomini, a consolarli, a riconciliarli con la vita, a farne dei portatori di civiltà, a nessuno verrebbe in mente di darsi da fare per mutare la situazione attuale. Che cosa vediamo invece? Che un numero spaventosamente grande di uomini sono scontenti della civiltà e sono in essa infelici, la sentono come un giogo che bisogna scrollarsi di dosso; che questi uomini o impiegano tutte le loro forze per cambiare questa civiltà oppure, nella loro inimicizia [65] per essa, giungono fino a non voler sapere più nulla di civiltà e di limitazioni pulsionali. Qui ci si obietterà che questo stato di cose deriva appunto dal fatto che la religione ha perduto una parte del suo influsso sulle masse umane proprio in conseguenza degli effetti infausti dei progressi della scienza. Noi prendiamo nota di questa ammissione e della sua motivazione, per servircene in seguito per i nostri fini, ma quanto all’obiezione, essa non ha forza. È dubbio che gli uomini, al tempo del dominio illimitato delle dottrine religiose, siano stati in complesso più felici di oggi; di certo non sono stati più morali. Hanno sempre saputo esteriorizzare i precetti religiosi vanificandone gli intenti. In ciò i preti, che dovevano vigilare sull’obbedienza alla religione, sono venuti loro incontro. La bontà di Dio ha dovuto trattenere il braccio della sua giustizia: si peccava, poi si facevano sacrifici o si faceva penitenza, e poi si era liberi di peccare nuovamente.
L’interiorità russa ha finito per decretare che il peccato è indispensabile per godere di tutte le beatitudini della grazia divina, e quindi in fondo è opera grata a Dio. È notorio che i preti hanno potuto mantenere la sottomissione delle masse alla religione soltanto a prezzo di cosi grandi concessioni fatte alla natura pulsionale degli uomini. Rimaneva fermo che solo Dio è forte e buono, e che l’uomo invece è debole e peccaminoso. In tutti i tempi l’immoralità ha trovato nella religione non meno sostegno della moralità. Se i risultati della religione per quanto riguarda la felicità degli uomini, il loro appropriarsi della civiltà e le loro limitazioni etiche non sono migliori di quel che sono, sorge la domanda se non abbiamo sopravvalutato la necessità della religione per l’umanità e se facciamo cosa saggia fondando su di essa le nostre esigenze di civiltà.
Si rifletta sulla non disconoscibile situazione attuale. Abbiamo sentito l’ammissione che la religione non ha più sugli uomini lo stesso influsso di prima (si tratta qui della civiltà europeo-cristiana). E ciò non per il fatto che faccia meno promesse, ma perché queste appaiono agli uomini meno credibili. Concediamo che la ragione di questa trasformazione è il rafforzamento dello spirito scientifico negli strati superiori della società umana (forse non è la sola). La critica ha intaccalo la forza probatoria dei documenti religiosi, la scienza della natura ha mostrato gli errori in essi contenuti, la ricerca comparata ha scorto la fatale somiglianza delle rappresentazioni religiose da noi venerate con le produzioni spirituali dei popoli e dei tempi primitivi.
Lo spirito scientifico produce un modo particolare di atteggiarsi nei confronti delle cose di questo mondo; di fronte alle cose della religione, per un po’ sosta, esita, ma infine anche qui varca la soglia. In questo processo non ci sono interruzioni: quanto maggiore è il numero degli uomini a cui divengono accessibili i tesori del nostro sapere, tanto più si diffonde il distacco dalla fede religiosa, dapprima solo dai suoi rivestimenti antiquati e incongrui, ma poi anche dalle sue premesse fondamentali. Solo gli americani che a Dayton hanno celebrato il “processo della scimmia” [a Dayton, nel Tennessee, nel 1925, un insegnante di scienze fu processato per aver insegnato che l’uomo discende da animali inferiori] si sono dimostrati coerenti. Altrimenti l’inevitabile trapasso si compie fra mezze misure e insincerità.
La civiltà ha poco da temere dalle persone colte e da quelle dedite al lavoro intellettuale. La sostituzione dei motivi religiosi con altri, mondani, per il comportamento civile, può compiersi senza chiasso, inoltre queste persone sono in buona parte esse stesse portatrici di civiltà. Altrimenti stanno le cose per quanto riguarda la grande massa degli incolti, degli oppressi, che hanno tutte le ragioni per essere contrari alla civiltà. Le cose vanno bene finché costoro non si rendono conto che non si crede più in Dio. Poi però se ne rendono conto, immancabilmente, anche se questo mio scritto non viene pubblicato. E sono pronti ad accogliere i risultati del pensiero scientifico, senza tuttavia che si sia prodotto in loro il mutamento che il pensare scientifico induce nell’uomo. Non sussiste allora il pericolo che l’ostilità alla civiltà di queste masse si precipiti sul punto debole da loro individuato in colei che le tiene sotto con la coercizione? Se non si può ammazzare il prossimo soltanto perché il buon Dio lo ha proibito e lo punirà severamente in questa o quell’altra vita, e però poi si vede [67] che il buon Dio non c’è e il suo castigo non è da temere, allora lo si ammazza certo senza esitare, e se ne può essere trattenuti solo da una forza terrena. Dunque o tenere rigidamente a freno queste masse pericolose, tenerle lontane con ogni attenzione da tutte le occasioni di risveglio intellettuale, o rivedere radicalmente i rapporti tra civiltà e religione.
8.
Si potrebbe pensare che l’attuazione di quest’ultima proposta non dovrebbe incontrare ostacoli particolari. È vero che allora si rinuncerebbe a qualcosa, ma si guadagnerebbe forse di più e si scanserebbe un grande pericolo. Ma se ne ha paura, come se in tal modo si esponesse la civiltà a un pericolo ancora maggiore. Quando san Bonifacio abbatté l’albero che i sassoni veneravano come sacro, le persone circostanti si aspettavano un evento pauroso come conseguenza del sacrilegio. Esso non si verificò e i sassoni accettarono il battesimo.
Se la civiltà ha istituito il comandamento di non ammazzare il prossimo, che si odia, che è di ostacolo o di cui si agognano gli averi, ciò è avvenuto manifestamente nell’interesse della convivenza umana, che sarebbe stata altrimenti irrealizzabile. Giacché l’assassino attirerebbe su di sé la vendetta dei familiari dell’assassinato e la sorda invidia degli altri, i quali provano dentro di sé la medesima propensione per tale atto di violenza. Quindi egli non gioirebbe a lungo della sua vendetta o della sua rapina, avrebbe anzi ogni probabilità di essere ben presto ucciso a sua volta. Anche se si proteggesse contro il singolo avversario con forza e prudenza straordinaria, sarebbe destinato a soccombere a un’alleanza anche di persone più deboli. Qualora una tale alleanza non si formasse, l’assassinio continuerebbe all’infinito e gli uomini finirebbero con lo sterminarsi a vicenda. Vigerebbe tra gli individui la stessa situazione che vige ancora in Corsica tra le famiglie, ma normalmente solo tra le nazioni. Il pericolo, uguale per tutti, dell’insicurezza della vita, unisce quindi gli uomini in una società che vieta all’individuo di uccidere e si riserva il diritto di giustiziare in nome della comunità chi trasgredisce il divieto. Ed ecco che abbiamo giustizia c punizione.
[69] Ma noi non parliamo di questo fondamento razionale del divieto di uccidere, noi affermiamo che è stato Dio a proclamarlo. Ci azzardiamo dunque a indovinarne gli intenti e troviamo che anch’egli non vuole che gli uomini si sterminino a vicenda. Cosi facendo, rivestiamo il divieto della civiltà di una solennità tutta particolare, rischiando però di farne dipendere l’osservanza dalla fede in Dio. Se ci traiamo indietro da questo passo, non attribuiamo più a Dio la nostra volontà e ci accontentiamo del fondamento sociale; così avremo certo rinunciato a quella trasfigurazione del divieto della civiltà, ma avremo anche evitato di metterlo a repentaglio. Ci guadagniamo tuttavia anche qualcos’altro. Per una specie di diffusione o infezione, il carattere di santità, inviolabilità e si potrebbe dire di trascendenza si è esteso da alcuni pochi divieti importanti a tutti gli altri ordinamenti, leggi e regolamenti civili. A questi però spesso mal si addice l’aureola; non solo perché essi stessi si svalutano tra loro, in quanto si prendono a seconda del tempo e del luogo decisioni contrapposte, ma perché anche altrimenti mettono in mostra tutti i sintomi della pochezza umana. Sotto vi si riconosce subito ciò che può essere soltanto prodotto di un’ansia miope, espressione di interessi gretti o conclusioni tratte da premesse insufficienti. La critica che si deve esercitare nei loro confronti riduce anche, in misura indesiderata, il rispetto per altre esigenze di civiltà meglio giustificate. Poiché è compito scabroso separare quello che Dio stesso ha richiesto da quello che deriva dall’autorità di un parlamento con pieni poteri o di un alto magistrato, sarebbe un indubbio vantaggio lasciare in genere Dio fuori dal gioco e ammettere onestamente l’origine puramente umana di tutti gli ordinamenti e i precetti civili. Insieme con la loro pretesa sacertà, questi comandamenti e leggi perderebbero anche la loro rigidità e immutabilità. Gli uomini potrebbero capire che essi sono fatti non tanto per tiranneggiarli quanto per servire i loro interessi; ne guadagnerebbero un rapporto più benevolo con essi e si proporrebbero come fine, invece clic la loro abolizione, soltanto il loro perfezionamento. Questo sarebbe un progresso importante sulla strada della riconciliazione con la pressione della civiltà.
[70] Il nostro plaidoyer per una fondazione puramente razionale dei precetti della civiltà, cioè per la loro derivazione dalla necessità sociale, viene però qui improvvisamente interrotto da una preoccupazione. Abbiamo scelto come esempio l’origine del divieto di uccidere. Ma corrisponde l’esposizione che ne abbiamo data alla verità storica? Temiamo di no, essa sembra solo una costruzione razionalistica. Abbiamo studiato proprio questo tratto di storia della civiltà umana con l’aiuto della psicoanalisi e, sulla base dei risultati ottenuti, dobbiamo dire che in realtà le cose sono andate diversamente. Anche nell’uomo odierno i motivi puramente razionali possono ben poco contro gli impulsi passionali. Quanto più impotenti essi devono essere stati nell’animale-uomo della preistoria! Forse ancora oggi i suoi discendenti si ammazzerebbero tra loro senza inibizioni, se fra quegli assassinii non ce ne fosse stato uno, l’assassinio del padre primitivo, che ha provocato una reazione emotiva irresistibile, gravida di conseguenze. Da questa proviene il comandamento: «Non uccidere», che nel totemismo era limitato al sostituto del padre, ma che venne in seguito esteso ad altri e neppure oggi è osservato senza eccezioni.
Ma per considerazioni che non starò qui a ripetere, quel padre primigenio è stato l’immagine originaria di Dio, il modello che è servito alle generazioni successive per formarsi la figura di Dio. Quindi la versione religiosa ha ragione, Dio ha preso veramente parte alla formazione di quel divieto, è stato il suo influsso a crearlo, non il riconoscimento della necessità sociale. E l’attribuzione a Dio della volontà umana è pienamente giustificata: gli uomini sapevano bene di aver eliminato il padre con un atto di violenza e, nel reagire al sacrilegio commesso, avevano formato il proponimento di rispettare da allora in poi la sua volontà. La dottrina religiosa ci comunica quindi la verità storica, anche se alquanto trasformata e travestita; la nostra versione razionale la nega.
Noi osserviamo ora che il tesoro delle rappresentazioni religiose non contiene soltanto appagamenti di desideri, ma anche significative reminiscenze storiche. Quale incomparabile pienezza di forza deve conferire alla religione questo concorrere [71] di passato e futuro! Ma forse, con l’aiuto di un’analogia, si fa già luce in noi un altro aspetto. Non è bene trasportare i concetti molto lontano dal terreno su cui si sono formati, ma noi dobbiamo dare espressione alla concordanza. Dell’essere umano sappiamo che non può compiere bene il suo sviluppo verso la civiltà senza passare attraverso una fase ora più ora meno chiara di nevrosi. Ciò viene dal fatto che il bambino non può reprimere col lavoro razionale tante delle esigenze pulsionali inservibili per il futuro, ma deve domarle con atti di rimozione, dietro i quali di solito si nasconde un motivo di angoscia. La maggior parte di queste nevrosi infantili vengono spontaneamente superate durante la crescita; hanno questo destino in particolare le nevrosi ossessive dell’infanzia. Le restanti devono essere eliminate, anche in seguito, col trattamento psicoanalitico. In maniera del tutto simile bisognerebbe supporre che l’umanità come un tutto abbia attraversato, nel suo sviluppo secolare, stati che sono analoghi alle nevrosi, e per le stesse ragioni, cioè perché nelle epoche della sua ignoranza e debolezza intellettuale ha compiuto le sue rinunce pulsionali indispensabili alla convivenza umana solo con forze puramente affettive. I sedimenti dei processi analoghi alla rimozione svoltisi nei tempi più remoti sono poi rimasti ancora per molto tempo attaccati alla civiltà. La religione sarebbe la nevrosi ossessiva universale dell’umanità; come quella del bambino, essa derivò dal complesso di Edipo, dalla relazione col padre. In base a questa concezione, si può prevedere che l’allontanamento dalla religione avverrà con la fatale inesorabilità di un processo di crescita, e che noi proprio adesso ci troviamo in mezzo a questa fase di sviluppo.
Il nostro comportamento dovrebbe allora conformarsi al modello di un educatore intelligente, che non si oppone a un rinnovamento imminente, ma cerca di promuoverlo e di arginare la violenza della sua irruzione. Con questa analogia l’essenza della religione non è comunque esaurita. Se da un lato apporta limitazioni ossessive, come una qualunque nevrosi ossessiva individuale, essa contiene dall’altro un sistema di illusioni del desiderio con la negazione della realtà, che isolatamente noi troviamo soltanto nell’amenza, una beata confusione allucinatoria. Questi sono appunto soltanto paragoni con cui procuriamo di comprendere il fenomeno sociale; la patologia individuale non ci fornisce alcun riscontro pienamente valido.
È stato ripetutamente indicato (da me e specialmente da Th. Reik) fino a che punto si può proseguire l’analogia della re li gione con la nevrosi ossessiva, e quante delle particolarità e delle vicende della formazione della religione si possono ca¬pire per questa via. Ben si accorda anche con ciò il fatto che il credente devoto è protetto in alto grado dal pericolo di certe malattie nervrotiche; l’accettazione della nevrosi universale lo dispensa dal compito di formarsi una nevrosi individuale.
Il riconoscimento del valore storico di talune dottrine religiose accresce il nostro rispetto per esse, ma non toglie valore alla nostra proposta di ritirarle dalla motivazione dei precetti della civiltà. Al contrario! Con l’aiuto di questi residui storici, siamo arrivati a concepire gli assiomi religiosi alla stregua per così dire di relitti nevrotici, e ora possiamo affermare che è probabilmente giunto il momento, come nel trattamento analitico del nevrotico, di sostituire le conseguenze della rimozione con i risultati del lavoro razionale. Che in questa sostituzione non ci si limiti a rinunciare alla trasfigurazione solenne delle prescrizioni della civiltà, che una revisione gene-rale delle medesime debba avere per conseguenza, per molte, l’abolizione, è da prevedere, ma non esattamente da deplorare. Il compito postoci della riconciliazione degli uomini con la civiltà sarà in tal modo ampiamente assolto. Quanto alla rinuncia alla verità storica a causa della motivazione razionale delle prescrizioni della civiltà, essa non può farci dispiacere. Le verità che le dottrine religiose contengono sono così deformate e sistematicamente travisate che la massa degli uomini non può riconoscerle come verità. È un caso simile a quello del bambino a cui raccontiamo che è la cicogna a portare i neonati. Anche allora noi diciamo la verità in veste simbolica, perché sappiamo che cosa significhi il grande uccello. Ma il bambino non lo sa, coglie soltanto l’aspetto del travisamento, si crede ingannato, e noi sappiamo quanto spesso la sua diffidenza nei confronti degli adulti e la sua insubordinazione siano legate proprio a questa impressione. Siamo giunti alla convinzione che è meglio rinunciare a parlare di tali vela- menti simbolici della verità e non nascondere al bambino la conoscenza dello stato reale delle cose, adattata al suo grado di sviluppo mentale.
9.
«Lei si permette contraddizioni che è difficile conciliare tra loro. Prima afferma che uno scritto come il Suo non è affatto pericoloso. Nessuno si lascerebbe defraudare della propria fede religiosa da tali dissertazioni. Ma poiché è Sua intenzione turbare questa fede, come viene fuori in seguito, Le si può domandare: perché in realtà lo pubblica? In un altro punto però Lei ammette che esso può diventare pericoloso, anzi addirittura pericolosissimo, se qualcuno apprende che non si crede più in Dio. Egli era stato fino allora sottomesso, ma adesso getta via l’obbedienza ai comandamenti della civiltà. Tutto il Suo argomento, che la motivazione religiosa dei comandamenti civili rappresenti un pericolo per la civiltà, riposa infatti sull’assunto che il credente possa essere trasformato in miscredente, e questa è però una flagrante contraddizione. Un’altra contraddizione si trova nel fatto che da un lato concede che l’uomo non possa essere guidato dall’intelligenza, che sia dominato dalle sue passioni e pretese pulsionali, ma dall’altro propone di sostituire le basi affettive della sua obbedienza alla civiltà con basi razionali. Chi ci capisce è bravo. A me sembra che sia vera o l’una o l’altra cosa.
Del resto, non ha imparato niente dalla storia? Un tale tentativo di rimpiazzare la religione con la ragione è stato in realtà già fatto una volta, ufficialmente e in grande stile. Si ricorda certamente della Rivoluzione francese e di Robespierre. Ma anche della breve durata e del misero fallimento dell’esperimento. Ora esso viene ripetuto in Russia, ma non c’è bisogno di chiederci come andrà a finire. Non è dell’avviso che possiamo ammettere che l’uomo non possa fare a meno della religione?
Lei stesso ha detto che la religione è più di una nevrosi ossessiva. Ma di quest’altra parte di essa non ha trattato. Le basta sviluppare l’analogia con la nevrosi. Bisogna liberare gli uomini da una nevrosi. Tutto quel che in questo caso va perduto non la preoccupa».
L’apparenza della contraddizione è sorta probabilmente perché ho trattato troppo in fretta cose complicate. Possiamo in parte rimediare. Sostengo ancor sempre che il mio scritto sot¬to un certo aspetto è del tutto innocuo. Nessun credente si la- scerà sviare nella sua fede da questo o simili argomenti. Il credente ha coi contenuti della religione determinati legami affettivi. Ci sono certamente innumerevoli altre persone che non sono credenti allo stesso senso. Esse sono osservanti dei precetti della civiltà perché si lasciano intimidire dalle minacce della religione, e temono la religione finché sono costrette a ritenerla una parte della realtà che le limita. Sono costoro che si scatenano, non appena possono rinunciare a credere al suo valore di realtà, ma neanche su di loro le argomentazioni hanno influsso. Essi cessano di temere la religione quando notano che anche altri non la temono, ed è di loro che io ho affermato che si sarebbero accorti del declino dell’influsso religioso anche se io non avessi pubblicato il mio scritto.
Ma credo che Lei stesso attribuisca maggior valore all’altra contraddizione che mi rinfaccia. Gli uomini sono così poco accessibili ai ragionamenti, sono completamente dominati dai loro desideri pulsionali. Perché si deve allora togliere loro un soddisfacimento pulsionale e volerlo sostituire con dei ragionamenti? Certamente gli uomini sono così, ma si è chiesto Lei se debbano essere così, se sia la loro natura più intima a costringerli a ciò? Può l’antropologo indicare l’indice cranico di un popolo che ha per costume di deformare con fasciature fin dall’inizio le testoline dei suoi bambini? Pensi all’avvilente contrasto che c’è tra la radiosa intelligenza di un bambino sano e la debolezza mentale dell’adulto medio. Sarebbe così del tutto impossibile che una grossa parte di colpa per questa relativa atrofizzazione l’avesse proprio l’educazione religiosa? Penso che ci vorrebbe molto tempo prima che un bambino non influenzato cominciasse a farsi delle idee su Dio e sulle cose che sono al di là di questo mondo. Forse queste idee prenderebbero poi la stessa strada ehe hanno preso presso i loro antichi antenati, ma non si aspetta questo sviluppo, gli si inculcano le dottrine religiose in un tempo in cui egli non ha né interesse per esse né la capacità di compren derne la portata. Ritardare lo sviluppo sessuale e anticipare l’influsso della religione: sono questi i due punti chiave nel programma dell’odierna pedagogia, non è vero?
Quando poi il pensiero del bambino si risveglia, le dottrine religiose sono già divenute inattaccabili. Ma crede Lei che per rafforzare la funzione cerebrale sia molto vantaggioso che un campo tanto significativo le venga precluso con le minacce dei castighi infernali? Di uno che si sia ormai spinto fino al punto di accettare senza critiche tutte le assurdità che le dottrine religiose gli trasmettono, ignorandone finanche le contraddizioni, la sua debolezza mentale non può meravigliarci più di tanto. Ora, però, noi non abbiamo altro mezzo per dominare le nostre pulsioni se non l’intelligenza. Come ci si può aspettare, da persone che stanno sotto l’imperio di divieti imposti al pensiero, che raggiungano l’ideale psicologico, il primato dell’intelligenza? Lei sa anche che alle donne viene in genere attribuita la cosiddetta “debilità mentale fisiologica”, cioè un’intelligenza inferiore a quella dell’uomo. Il fatto in sé è controverso, la sua interpretazione dubbia, ma un argomento a favore della natura secondaria di questo rattrappimento mentale sarebbe che le donne soffrono per la durezza del divieto ben presto fatto loro di rivolgere i loro pensieri a ciò a cui sarebbero più interessate, cioè ai problemi della vita sessuale. Finché, oltre a quella dei pensieri sessuali, l’inibizione religiosa e quella lealistica da essa derivante agiscono sulla persona nei suoi primi anni, non possiamo veramente dire come l’uomo sia propriamente fatto.
Ma voglio moderare il mio zelo e ammettere la possibilità che anch’io corra dietro a un’illusione. Forse gli effetti del divieto religioso di pensare non sono così brutti come io li dipingo, forse verrà fuori che la natura umana rimane la stessa anche se non si abusa dell’educazione per assoggettarla alla religione. Io non lo so e neppure Lei può saperlo. Non soltanto i grandi problemi di questa vita sembrano per il momento [77] irrisolvibili, ma anche molte questioni minori sono difficili da decidere. Mi conceda però che qui si è autorizzati a sperare per il futuro, che forse si può scoprire un tesoro che può arricchire la civiltà, e che vale la pena di fare il tentativo di un’educazione irreligiosa. Qualora questo si rivelasse insoddisfacente, sono pronto a rinunciare alla riforma e a tornare al giudizio precedente, puramente descrittivo: l’uomo è un essere di intelligenza debole, che è dominato dai suoi desideri pulsionali.
Su un altro punto concordo con Lei senza riserve. È certamente un inizio insensato voler eliminare la religione forzosamente e d’un colpo. Soprattutto perché è un’impresa disperata. Il credente non si lascia strappare la sua fede né dai ragionamenti né dai divieti. E se anche la cosa riuscisse con qualcuno, sarebbe una crudeltà. Chi per decenni ha preso sonniferi, non riesce naturalmente più a dormire se gli si toglie il sonnifero. Che gli effetti delle consolazioni religiose possano essere equiparati a quelli di un narcotico, è bellamente illustrato da quanto accade in America [allusione al proibizionismo]. Lì attualmente si vogliono togliere alle persone – manifestamente per l’influsso del potere femminile – tutti i prodotti eccitanti, inebrianti e voluttuari, saziandole a titolo di risarcimento col timor di Dio. Anche di questo esperimento è inutile domandarsi come andrà a finire.
La contraddico dunque là dove successivamente Lei sostenga che in genere l’uomo non può fare a meno del conforto dell’illusione religiosa, che senza di essa non sopporterebbe il peso della vita, la crudele realtà. Sì, non può farne a meno l’uomo al quale Lei ha istillato fin dall’infanzia il dolce – o dolceamaro – veleno. Ma l’altro, che è stato allevato sobriamente? Forse chi non soffre di nevrosi non ha neanche bisogno di intossicarsi per metterla a tacere. Certo l’uomo verrà allora a trovarsi in una situazione difficile, dovrà confessare a se stesso tutta la sua impotenza, la sua insignificanza nell’ingranaggio dell’universo, non sarà più il centro della creazione, non sarà più oggetto di tenere cure da parte di una Provvidenza amorevole. Sarà nella stessa situazione di un bambino che ha lasciato la casa paterna, dove trovava tanto calore e tanto conforto. Ma l’infantilismo è destinato ad essere supe rato, non è vero? L’uomo non può rimanere eternamente bambino, alla fine deve lanciarsi nella “vita nemica”. Si può chiamare ciò “educazione alla realtà”. Devo ancora rivelar Le che scopo esclusivo di questo mio scritto è di attirare l’at-tenzione sulla necessità di compiere questo progresso?
Lei teme probabilmente che l’uomo non sopporti la grave prova? Ebbene, ce lo lasci sperare lo stesso. E già qualcosa sapere che si può contare solo sulle proprie forze. Allora si impara a usarle bene. L’uomo non è del tutto senza risorse, la sua scienza gli ha insegnato, dai tempi del diluvio, molte cose, e continuerà ad accrescere il suo potere. E per quanto riguarda le grandi necessità del fato, contro le quali non esiste rimedio, egli imparerà appunto a sopportarle con rassegnazione. Che senso può avere per lui il miraggio di una grande proprietà terriera sulla Luna, del cui ricavato nessuno ha mai visto niente? Come un piccolo agricoltore onesto su questa Terra, saprà invece coltivare la sua zolla in modo che essa lo nutra. Distogliendo le sue aspettative dall’aldilà e concentrando tutte le sue forze liberate sulla vita terrena, otterrà probabilmente che la vita diventi sopportabile per tutti e la civiltà non schiacci più nessuno. Allora potrà dire senza rimpianti, insieme con uno dei nostri compagni miscredenti:
Il cielo, l’abbandoniamo
Agli angeli ed ai passeri2.[Heinrich Heine, Germania, 1. Il «compagno miscredente» è, per Heine, Spinoza].
10.
«Ciò suona davvero grandioso. Un’umanità che ha rinunciato a tutte le illusioni divenendo capace di sistemarsi sulla Terra in maniera sopportabile! Ma io non posso condividere le Sue aspettative. Non perché sia il reazionario cocciuto per il quale Lei forse mi prende. No, ma a ragion veduta. Credo che ora ci siamo scambiati i ruoli: Lei si presenta come il sognatore che si lascia trasportare dalle illusioni e io rappresento le pretese della ragione, il diritto della scepsi. Ciò che Lei ha appena esposto mi sembra fondato su errori che, secondo il Suo modo di procedere, posso chiamare illusioni, dato che rivelano abbastanza chiaramente l’influsso dei Suoi desideri. Lei ripone le Sue speranze sulla possibilità che generazioni, che nella prima infanzia non hanno subito l’influsso delle dottrine religiose, raggiungano facilmente l’agognato primato dell’intelligenza sulla vita pulsionale. Questa è proprio un’illusione! Su tale punto decisivo la natura umana difficilmente cambierà. Se non sbaglio – si sa tanto poco delle altre civiltà – anche oggi ci sono popoli che non si sviluppano sotto il peso di un sistema religioso, ma che non per questo si avvicinano al Suo ideale più degli altri [cfr. la ricognizione di Victor Hugo sugli effetti dell’insegnamento cattolico in Italia e Spagna, nota mia]. Se Lei vuole eliminare la religione dalla nostra civiltà europea, Io può fare solo mettendo al suo posto un altro sistema di dottrine, e questo assumerebbe fin dall’inizio, per la propria difesa, tutti i caratteri psicologici della religione, la stessa santità, rigidezza, intolleranza, lo stesso bavaglio al pensiero. Lei deve avere qualcosa di questa specie per soddisfare le esigenze dell’educazione. Ma all’educazione Lei non può rinunciare. La via che va dal lattante all’uomo civile è lunga, troppe persone vi si smarrirebbero e non affronterebbero al tempo giusto i compiti della vita, qualora fossero abbandonate al loro sviluppo senza guida [80].Gli insegnamenti che sarebbero impiegati nella loro educazione porrebbero sempre limiti al pensiero dei loro anni più maturi, esattamente come Lei rimprovera oggi alla religione di fare. Non si rende conto che il difetto congenito e incancellabile della nostra e di ogni civiltà è di imporre al bambino, prono alle pulsioni e debole di testa, di prendere decisioni che possono essere giustificate soltanto dalla matura intelligenza dell’adulto? Ma essa non può fare altrimenti, a causa, da un lato, del concentrarsi della secolare evoluzione umana su un paio d’anni dell’infanzia, e dall’altro, del fatto che il bambino può essere spinto ad affrontare il compito assegnatogli solo da forze di natura affettiva. Queste sono dunque le prospettive per il Suo “primato dell’intelletto”.
Ora non deve meravigliarsi se mi dico a favore del mantenimento del sistema di insegnamento religioso come base dell’educazione e della vita associata. Si tratta di un problema pratico, non di una questione di valore-di-realtà. Poiché nell’interesse della conservazione della nostra civiltà non possiamo aspettare, per influenzare l’individuo, che egli diventi maturo per la civiltà stessa – molti non lo diventerebbero mai; poiché siamo costretti a inculcare a chi sta crescendo un qualche sistema di dottrine che in lui deve agire come presupposto sottratto alla critica: mi sembra che il sistema religioso sia a tal fine di gran lunga il più idoneo. Naturalmente proprio per la sua forza di appagamento dei desideri e di consolazione, in cui Lei afferma di riconoscere l’“illusione”. In considerazione della difficoltà di riuscire a sapere qualcosa della realtà, anzi del dubbio se ciò sia per noi anche solo possibile, non dobbiamo trascurare il fatto che pure i bisogni umani sono una parte della realtà, e una parte importante, una parte che ci riguarda molto da vicino.
Un altro vantaggio della dottrina religiosa, io lo trovo in una delle sue peculiarità che sembrano scandalizzarLa particolarmente. Essa permette una purificazione e una sublimazione concettuale, in cui si può cancellare la maggior parte di quanto reca in sé le tracce del pensiero primitivo e infantile. Ciò che poi resta è un contenuto di idee che non sono più contraddette dalla scienza e che neanche possono essere da questa confutate. Tali nuove formulazioni della dottrina religiosa, che Lei ha condannato come mezze verità e compromessi, danno la possibilità di evitare la frattura tra la massa incolta e il pensatore filosofico, e mantengono tra loro il legame di comunanza, che ò tanto importante per la tutela della civiltà. Allora non c’è da temere che l’uomo del popolo venga a sapere che gli strati superiori della società “non credono più in Dio”. E con ciò credo di aver dimostrato che i Suoi sforzi si riducono al tentativo di sostituire un’illusione sperimentata e ricca di valore affettivo con un’altra, non sperimentata e indifferente».
Lei non mi trova sordo alla Sua critica. So quanto sia difficile evitare le illusioni; forse anche le speranze che ho confessato di nutrire sono di natura illusoria. Ma insisto su una differenza. Le mie illusioni – a prescindere dal fatto che non minacciano castigo a chi non le condivide – non sono incorreggibili come quelle religiose, non hanno il loro stesso carattere delirante. Se l’esperienza dovesse dimostrare – non a me, ma ad altri dopo di me, che pensano come me – che ci siamo sbagliati, rinunceremo alle nostre aspettative. Prenda dunque il mio tentativo per quello che è. Uno psicologo che non si illude su quanto sia difficile raccapezzarsi in questo mondo si sforzerà di giudicare lo sviluppo dell’umanità in base a quel po’ di discernimento acquisito nello studio dei processi psichici che avvengono nell’individuo durante il suo sviluppo dall’infanzia all’età adulta. Allora si impone in lui l’idea che la religione è paragonabile a una nevrosi infantile, ed egli è abbastanza ottimista da credere che l’umanità supererà questa fase nevrotica così come, crescendo, molti bambini superano la loro analoga nevrosi. Queste conclusioni ricavate dalla psicologia individuale possono essere insufficienti, il trasporle al genere umano può non essere giustificato, l’ottimismo infondato; Le concedo tutte queste incertezze. Ma talvolta non ci si può astenere dal dire quello che si pensa, e ci si scusa dandolo per non più di ciò che vale.
E su due punti devo ancora dilungarmi. Primo, la debolezza della mia posizione non significa un rafforzamento della Sua. Io credo che Lei difenda una causa persa. Possiamo ribadire ancora molte volte che l’intelletto umano è privo di forza a paragone della vita pulsionale, avendo in eiò ragione. Ma questa debolezza presenta una certa particolarità; la voce dell’intelletto è sommessa, ma non si dà pace prima di essersi procurata ascolto. E alla fine, dopo rinnovati, innumerevoli rifiuti, lo trova pure. Questo è uno dei pochi punti sui quali si può essere ottimisti per il futuro dell’umanità, ma già di per sé non è di poco conto. Si possono collegare ad esso anche altre speranze.
Il primato dell’intelletto è certo ancora molto, molto lontano, ma probabilmente non a infinita distanza. E poiché si proporrà presumibilmente gli stessi scopi di cui Lei si attende la realizzazione dal Suo Dio – entro i limiti umani naturalmente, per quanto lo consente la realtà esterna, l’Avαγνη, l’amore tra gli uomini e la riduzione delle sofferenze, possiamo dirci che il nostro antagonismo è soltanto provvisorio, non irriconciliabile. Noi speriamo la stessa cosa, ma Lei è più impaziente, ha più pretese – e, perché non dovrei dirlo? – è più egoista di me e di quelli che pensano come me. Lei vuole che la beatitudine cominci subito dopo la morte, esige da quella l’impossibile e non vuole rinunciare alle pretese degli individui. Il nostro dio Λóγoς [la coppia di dèi Logos-Ananke [Ragione-Necessità] teorizzata dall’olandese Multatoli] attuerà di questi desideri ciò che la natura fuori di noi permette, ma molto gradualmente, solo in un futuro incalcolabile e per nuove generazioni di uomini. Un risarcimento per noi che soffriamo gravemente della vita non lo promette. Sul cammino verso questa lontana meta le Sue dottrine religiose dovranno essere lasciate cadere, anche se i primi tentativi falliranno, anche se le prime formazioni sostitutive si dimostreranno incapaci di reggere. Lei sa perché: alla lunga niente può resistere alla ragione e all’esperienza, e il contrasto della reli¬gione con entrambe è fin troppo tangibile. Neanche le idee religiose purificate potranno sottrarsi a tale destino, finché vorranno salvare ancora qualcosa del contenuto consolatorio della religione. Certo, se si limitano ad affermare l’esistenza di un essere spirituale superiore, le cui proprietà sono indefinibili, i cui intenti sono inconoscibili, allora sono al riparo dalle obiezioni della scienza, ma allora vengono anche abbandonate dall’interesse degli uomini.
[83] E secondo: consideri la diversità del Suo e del mio atteggiamento nei riguardi delle illusioni. Lei deve difendere con tutte le Sue forze l’illusione religiosa; se viene screditata – ed essa è in realtà minacciata abbastanza – allora il Suo mondo crolla e a Lei non resta altro che disperare di tutto, della civiltà e del futuro dell’umanità. Da questa schiavitù io sono, noi siamo liberi. Dal momento che siamo pronti a rinunciare il buona parte dei nostri desideri infantili, possiamo sopportare che alcune delle nostre aspettative si rivelino illusioni.
L’educazione liberata dalla pressione delle dottrine religiose non cambierà forse di molto il valore psicologico dell’uomo, il nostro dio Logos; non è forse così onnipotente, può adempiere solo una piccola parte di quello che i suoi predecessori hanno promesso. Se dovremo riconoscere ciò, lo accetteremo con rassegnazione. Non perderemo per questo interesse al mondo e alla vita, giacché abbiamo in un punto un sicuro sostegno che a Lei manca. Noi crediamo che sia possibile, col lavoro scientifico, apprendere sulla realtà del mondo qualcosa che ci permetterà di accrescere il nostro potere e indirizzare la nostra vita. Se questa credenza è un’illusione, allora siamo nella Sua stessa situazione, ma la scienza ci ha fornito la prova, con numerosi e significativi successi, di non essere un’illusione. Essa ha molti aperti nemici e anche più nemici camuffati tra coloro che non riescono a perdonarle di aver svigorito la fede religiosa e di minacciare di abbatterla. Le si rimprovera il poco che ci ha insegnato e il moltissimo di più che ha lasciato nel buio. Ma così si dimentica quanto essa sia giovane, quanto ardui siano stati i suoi inizi e quanto piccolo fin quasi a svanire è il tempo passato da quando l’intelletto umano si è irrobustito abbastanza per affrontare i suoi compiti. Non pecchiamo tutti nel basare i nostri giudizi su periodi di tempo troppo brevi? Dovremmo prendere esempio dai geologi. Ci si lamenta dell’incertezza della scienza, per il fatto che essa enuncia oggi come legge ciò che la prossima generazione riconoscerà come errore, sostituendolo con una nuova legge di durata altrettanto scarsa. Ma ciò è ingiusto e in parte falso. I mutamenti delle opinioni scientifiche sono sviluppo, progresso e non sovvertimento. Una legge che a tutta prima è stata ritenuta incondizionatamente valida si dimostra poi un caso speciale di una legge più comprensiva, o viene delimitata da un’altra legge, che si scopre solo più tardi. Un’approssimazione alla verità viene sostituita da un’altra più attentamente adattata, che a sua volta attende un ulteriore perfezionamento. In vari campi non si è ancora superata la fase di ricerca in cui si sperimentano ipotesi, che ben presto devono essere rifiutate come insufficienti; ma in altri c’è già un nucleo di conoscenze accertate e quasi immutabili. Si è infine cercato di negare radicalmente valore allo sforzo scientifico, argomentando che esso, legato com’è alle condizioni del nostro organismo, non può fornire se non risultati soggettivi, mentre la vera natura delle cose al di fuori di noi gli resta inaccessibile. Ma in tal modo si saltano alcune cose che per la concezione del lavoro scientifico sono decisive, cioè che il nostro organismo, vale a dire il nostro apparato psichico, è stato sviluppato proprio nello sforzo di esplorare il mondo esterno, dunque deve aver realizzato nella sua struttura un certo grado di congruenza, che è esso stesso una parte costitutiva di quel mondo che dobbiamo investigare, e che esso consente benissimo tale investigazione, che il compito della scienza è del tutto circoscritto, se lo limitiamo all’esame di come il mondo debba apparirci in conseguenza della conformazione del nostro organismo, che i risultati finali della scienza sono condizionati, proprio a causa del modo della loro acquisizione, non soltanto dal nostro organismo, ma anche da ciò che ha agito su questo organismo, e infine che il problema di una conformazione dell’universo senza riferimento al nostro apparato psichico che lo percepisce è una vuota astrazione, senza interesse pratico.
No, la nostra scienza non è un’illusione. Un’illusione sarebbe invece di credere che possiamo prendere da un’altra parte quello che essa non può darci.
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