Un percorso guidato al pensiero e alla figura di Karl Marx.
Una filosofia che trova nel proletariato le sue armi materiali,
così come il proletariato trova nella filosofia le sue armi spirituali.
Karl Marx, Per la critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico
Indice
1. Dalla comprensione della realtà alla sua trasformazione
1.1 Il compito della filosofia nel giovane Marx
1.2 La demistificazione di Hegel e del liberalismo
1.3 Emancipazione politica ed emancipazione umana
2. Lavoro, alienazione, riappropriazione
3. La concezione materialistica della storia e il comunismo
4. Il Capitale
5. La morte e il lascito marxiano
Approfondimenti, integrazioni: Cultura e anticultura del lavoro (Loescher);
ll 14 marzo, alle due e quarantacinque pomeridiane, ha cessato di pensare la più grande mente dell’epoca nostra […]. Non è possibile misurare la gravità della perdita che questa morte rappresenta per il proletariato militante d’Europa e d’America, nonché per la scienza storica. Non si tarderà a sentire il vuoto lasciato dalla scomparsa di questo titano.
Così come Darwin ha scoperto la legge dello sviluppo della natura organica, Marx ha scoperto la legge dello sviluppo della storia umana […]. Ma non è tutto. Marx ha anche scoperto la legge peculiare dello sviluppo del moderno modo di produzione capitalistico e della società borghese da esso generata. La scoperta del plusvalore ha subitamente gettato un fascio di luce nell’oscurità in cui brancolavano prima, in tutte le loro ricerche, tanto gli economisti classici che i critici socialisti.
Due scoperte simili sarebbero più che sufficienti a riempire una vita. Fortunato chi avesse avuto la sorte di farne anche una sola. Ma in ognuno dei campi in cui ha svolto le sue ricerche — e questi campi furono molti e nessuno fu toccato da lui in modo superficiale — in ognuno di questi campi, compreso quello delle matematiche, egli ha fatto delle scoperte originali.
Tale era lo scienziato. Ma lo scienziato non era neppure la metà di Marx. Per lui la scienza era una forza motrice della storia, una forza rivoluzionaria. Per quanto grande fosse la gioia che gli dava ogni scoperta in una qualunque disciplina teorica, e di cui non si vedeva forse ancora l’applicazione pratica, una gioia ben diversa gli dava ogni innovazione che determinasse un cambiamento rivoluzionario immediato nell’industria e, in generale, nello sviluppo storico […].
Perché Marx era prima di tutto un rivoluzionario. Contribuire in un modo o nell’altro all’abbattimento della società capitalistica e delle istituzioni statali che essa ha creato, contribuire all’emancipazione del proletariato moderno al quale egli, per primo, aveva dato la coscienza delle condizioni della propria situazione e dei propri bisogni, la coscienza delle condizioni della propria liberazione: questa era la sua reale vocazione. La lotta era il suo elemento. Ed ha combattuto con una passione, con una tenacia e con un successo come pochi hanno combattuto […].
Come emerge dal discorso funebre pronunciato da Engels davanti a sole undici persone, Marx ebbe un destino unico nella storia del pensiero. La sua fu infatti una vita dedicata alla realizzazione del progetto politico contenuto nella sua filosofia.
Ne diedero conto i necrologi che comparvero sui quotidiani di tutto il mondo, definendo la morte di Marx
«una sciagura per tutta l’umanità» e sottolineando: «Il suo ricordo vivrà a lungo dopo che i re saranno stati dimenticati».
«Il suo nome vivrà nei secoli – concluse Engels nel discorso di commiato – e così la sua opera».
1. Dalla comprensione della realtà alla sua trasformazione
1.1 Il compito della filosofia nel giovane Marx
La confessione di Prometeo «francamente io odio tutti gli dèi», è la confessione della filosofia, la sua sentenza contro tutte le divinità, celesti e terrestri […] Nessuno può starle al fianco. Alle tristi lepri marzoline che gioiscono dell’apparentemente peggiorata condizione civile della filosofia, essa replica quanto Prometeo replica al servo degli dèi, Ermete: «Io ti assicuro, non cambierei la mia misera sorte con la tua servitù. Molto meglio stare qui incatenato a questa rupe piuttosto che essere fedele messaggero di Giove». Prometeo, questo personaggio indocile, ribelle, indisciplinato, che non accoglie la tirannide di Zeus, è il più grande santo e martire del calendario filosofico.
Marx, Differenza tra la filosofia naturale di Democrito e quella di Epicuro
Il rapporto tra la comprensione della realtà e la sua trasformazione è stato al centro degli interessi di Marx (5 maggio 1818 – 14 marzo 1883) fin dalla sua tesi di laurea dedicata alla Differenza tra la filosofia naturale di Democrito e quella di Epicuro e discussa a Jena il 15 aprile 1841.
In questo lavoro, il giovane filosofo indica in Epicuro «il più grande illuminista greco», in virtù dell’idea del clinamen, interpretato come il momento dell’autocoscienza individuale che afferma la propria libertà attraverso la negazione dell’esistente.
Già in questo testo giovanile, Marx mostra di aver superato l’idea hegeliana della filosofia intesa come «il proprio tempo appreso col pensiero», a vantaggio di una filosofia concepita come critica, libertà di pensare altrimenti e di negare la necessità della realtà per praticare il suo superamento.
La prima formulazione di questa tesi si trova nell’Introduzione alla Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, testo che il filosofo venticinquenne, già espatriato a Parigi, pubblica negli Annali Franco-tedeschi (Deutsch-Französische Jarbücher, 1843), dopo aver maturato una profonda riflessione sulla mistificazione hegeliana dell’eticità dello stato.
La critica non è una passione del cervello, essa è il cervello della passione – scrive. […] Essa non si pone più come fine a se stessa, ma ormai soltanto come mezzo. Il suo pathos essenziale è l’indignazione, il suo compito essenziale è la denuncia [Introduzione alla Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, 1843].
Si tratta della concezione di un nuovo ruolo della filosofia affidata, un anno dopo, alla celebre undicesima tesi su Feuerbach:
I filosofi hanno semplicemente interpretato il mondo in modo diverso, adesso è tempo di cambiarlo [Tesi su Feuerbach, 1844].
1.2 La demistificazione di Hegel e del liberalismo
Tra il 1839 e il 1842 Marx aveva stretto legami con i giovani hegeliani e letto le opere di Ruge, Bauer, Feuerbach ed Hess, proprio nel momento in cui la sinistra hegeliana si definiva come “movimento” e radicalizzava le proprie posizioni.
Dalla primavera del 1842 al marzo 1843, scrive sulla Rheinische Zeitung (Gazzetta renana), un foglio di orientamento liberale sostenuto dalla borghesia riformatrice renana, dove comincia a mettere la critica alla prova della realtà politica ed economico-sociale.
Oltre al dibattito sulla censura e sulla libertà di stampa, Marx segue quello relativo alla legge «contro i furti della legna», evidenziando nei suoi articoli il contrasto tra l’universalità del diritto e dello stato, chiamati a realizzare principi di libertà e giustizia, e la visione particolaristica della legge – nella quale cioè prevale l’interesse di una parte.
La pretesa, da parte dei proprietari terrieri, di punire come furto il secolare diritto dei contadini alla raccolta della legna caduta – sostiene Marx – è una manifestazione di questo abbassamento dell’universalità del diritto alle ragioni della proprietà e dell’interesse privato,
la cui meschina anima non fu mai illuminata e penetrata dall’idea dello stato.
Prendendo le difese della «massa povera, politicamente e socialmente diseredata», il filosofo arriva a difendere il diritto consuetudinario, come l’unico in grado di supplire, per quei ceti, alla «mancanza di forma», cioè alle deficienze del diritto legislativo.
Al contrario, non possono invocare il diritto consuetudinario le classi privilegiate che hanno trovato nella legge tutte le garanzie della loro condizione.
In questo modo, il Marx liberale della Gazzetta, hegelianamente convinto della natura razionale dello stato, si scontra con la palese “irrazionalità” di istituzioni che degradano l’idea dello stato inteso come totalità (eticamente al sevizio del bene generale), a strumento dell’interesse privato.
E’ l’esperienza di questa contraddizione che spinge Marx a scrivere, nella prima metà del 1843, la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico (la celebre Introduzione) prima opera di grande respiro nella quale la critica a Hegel si fonde con la ricerca di un nuovo modo di affrontare l’indagine nella sfera sociale e politica.
Il senso della critica marxiana è che Hegel fallisce nello spiegare la natura dello stato perché ha fatto dei soggetti reali (la famiglia, la società civile e appunto lo stato),momenti dell’Idea, tappe necessarie del suo sviluppo. Ha «volatilizzato [la realtà] in astratti pensieri».
1.3 Emancipazione politica ed emancipazione umana
La riforma della coscienza consiste solo nel rendere il mondo consapevole di se stesso, nel ridestarlo dal suo ripiegamento trasognato, nello spiegargli le sue proprie azioni. Come per la critica della religione di Feuerbach, il nostro scopo non è altro che condurre alla forma umana autocosciente tutte le questioni religiose e politiche.
Marx, Lettera a Ruge
Lasciata la Prussia e la sua oppressiva censura, nell’ottobre 1843 Marx si trasferisce a Parigi per lavorare agli Annali franco-tedeschi, rivista della quale esce solo il primo numero (marzo 1844) che contiene La questione ebraica e l‘Introduzione alla Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico.
È nella Questione ebraica che Marx comincia a prendere le distanze dalla soluzione liberale al problema della falsa universalità dello stato, sostenendo che
lo stato può essere uno stato libero senza che l’uomo sia un uomo libero.
Con un’implicita autocritica delle proprie posizioni precedenti, esclude che l’emancipazione umana possa avvenire all’interno della sfera politica, perché l’uguaglianza politica (cioè formale) lascia operare liberamente, sul piano sociale, ogni forma di diseguaglianza.
Come osserva l’anno dopo in Critica della critica critica o La sacra famiglia (settembre 1844), scritto con cui Marx affronta con Friedrich Engels – è l’avvio della loro collaborazione – la critica della filosofia degli hegeliani di sinistra – ancora astrattamente teorica – la rivoluzione francese ha abbattuto l’ancien régime istituendo un nuovo tipo di schiavitù, quella esercitata dalla borghesia sul popolo:
«Robespierre, Saint Just e il loro partito sono caduti perché hanno scambiato la comunità antica, realisticamente democratica, che poggiava sulla base di una schiavitù reale, con lo stato moderno rappresentativo e spiritualmente democratico, che si basa sulla schiavitù “emancipata”, sulla società civile.
Quale colossale illusione vedersi costretti a sanzionare nei diritti dell’uomo la società civile moderna, quella dell’industria, della concorrenza generalizzata, dell’interesse privato che persegue tranquillamente i suoi obiettivi. E insieme l’anarchia, l’individualità naturale e spirituale alienata a se stessa!» [Marx, Engels, La sacra famiglia, 1844].
Nell’Introduzione alla Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, oltre a portare a termine la critica feuerbachiana dei troni celesti ed iniziare quella dei regni terreni, Marx introduce due concetti che avranno un ruolo fondamentale nella sua dottrina, quello di proletariato e quello di rivoluzione, rispetto ai quali si definisce il ruolo della filosofia.
Marx dichiara infatti esaurito in Germania il compito della critica filosofica della religione, poiché si è compreso che l’alienazione religiosa non è che una conseguenza dell’alienazione nella società e nello stato.
La filosofia deve dunque rivolgere la sua critica smascherante al mondo, la critica al Cielo deve trasformarsi in una critica della Terra in vista di una trasformazione concreta della realtà. Infatti, se il risultato della critica alla religione è che l’essere supremo è l’uomo stesso, allora
«emerge l’imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti in cui l’uomo è un essere umiliato, assoggettato, abbandonato, spregevole».
Marx introduce queste tesi con le parole:
Per la Germania, la critica della religione nell’essenziale è compiuta, e la critica della religione è il presupposto di ogni critica. […]
La religione è la teoria generale di questo mondo, il suo compendio enciclopedico, la sua logica in forma popolare,il suo point d’honneur spiritualistico, il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo solenne compimento, il suo universale fondamento di consolazione e di giustificazione. Essa è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera. La lotta contro la religione è dunque mediatamente la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l’arma spirituale.
La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio dei popoli.
Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire esigerne la felicità reale. L’esigenza di abbandonare le illusioni sulla sua condizione è l’esigenza di abbandonare una condizione che ha bisogno di illusioni. La critica della religione, dunque, è, in germe, la critica della valle di lacrime, di cui la religione è l’aureola.
La critica ha strappato dalla catena i fiori immaginari, non perché l’uomo porti la catena spoglia e sconfortante, ma affinché egli getti via la catena e colga i fiori vivi. La critica della religione disinganna l’uomo affinché egli pensi, operi, configuri la sua realtà come un uomo disincantato e giunto alla ragione, affinché egli si muova intorno a se stesso e perciò, intorno al suo sole reale. La religione è soltanto il sole illusorio che si muove intorno all’uomo, fino a che questi non si muove intorno a se stesso.
È dunque compito della storia, una volta scomparso l’al di là della verità, quello di ristabilire la verità dell’al di qua. È innanzi tutto compito della filosofia, la quale sta al servizio della storia, una volta smascherata la figura sacra dell’autoestraneazione umana, quello di smascherare l’autoestraneazione nelle sue figure profane. La critica del cielo si trasforma così nella critica della terra, la critica della religione nella critica del diritto, la critica della teologia nella critica della politica.
La rivoluzione a cui si richiama Marx, definisce quindi un nuovo compito per la filosofia che deve farsi altrettanto radicale, cioè muovere dall’uomo e dalla sua emancipazione. Un compito che non può essere assolto da una teoria che si proponga un ideale di rischiaramento ad opera degli intellettuali, ma che richiede il rapporto con forze storiche concrete
la potenza materiale dev’essere abbattuta da potenza materiale, però anche la teoria diventa potenza materiale, non appena si impadronisce delle masse.
La filosofia non è più astratto lavoro accademico ma, come Marx affermerà nell’undicesima tesi su Feuerbach, prassi, attività di trasformazione dell’esistente.
2. Lavoro, alienazione, riappropriazione
Constatata l’insufficienza dell’emancipazione politica (si può avere diritto di voto e non essere liberi), Marx prende atto della necessità di un’analisi economico-sociale e inizia a confrontarsi con le elaborazioni del pensiero socialista e comunista.
Il primo risultato di questo lavoro sono i tre quaderni compilati tra il marzo e il settembre 1844, pubblicati postumi con il titolo di Manoscritti economico-filosofici.
Inizia qui quell’opera imponente di critica dell’economia politica che sfocia nel Capitale, nella quale Marx dimostra le contraddizioni di cui gli stessi economisti sono inconsapevoli: l’aumento delle ricchezze genera l’impoverimento dell’operaio, la concorrenza conduce all’accumulazione del capitale in poche mani, cioè al monopolio, e l’interesse del capitalista si mostra in conflitto con quello dell’intera società.
L’economia politica non mostra nessun interesse per l’uomo in quanto tale, concependo il lavoratore solo come «bestia da soma» e il lavoro stesso solo come «attività di guadagno».
Ma il punto centrale riguarda l’economia politica in quanto scienza, e dunque la sua capacità di comprendere la realtà. Il suo vizio di fondo, infatti, consiste nel presupporre ciò che deve spiegare, cioè nel partire dalla proprietà privata come se fosse un dato naturale, facendone valere le leggi come fossero leggi naturali.
Marx oppone a questa disciplina acritica una modalità dialettica di riferirsi alla realtà economica, il cui primo risultato è la celebre analisi del lavoro alienato:
Noi partiamo da un fatto economico attuale. L’operaio diventa tanto più povero quanto più produce ricchezza, quanto più la sua produzione cresce in potenza ed estensione. L’operaio diventa una merce a buon mercato quanto più crea delle merci. Con la messa in valore del mondo delle cose, cresce in rapporto diretto la svalutazione del mondo degli uomini. Il lavoro non produce soltanto merci, esso produce se stesso e il lavoratore come una merce, precisamente nella proporzione in cui esso produce merci in genere.
Questo fatto non esprime altro che questo: che l’oggetto prodotto dal lavoro, prodotto suo, sorge di fronte al lavoro come un ente estraneo, come una potenza indipendente dal producente. Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, che si è fatto oggettivo: è l’oggettivazione del lavoro. La realizzazione del lavoro è la sua oggettivazione. Questa realizzazione del lavoro appare, nella condizione descritta dall’economia politica, come privazione dell’operaio, e l’oggettivazione appare come perdita e schiavitù dell’oggetto, e l’appropriazione come alienazione, come espropriazione.
La realizzazione del lavoro palesa tale privazione che l’operaio è spogliato fino alla morte per fame […] Tutte queste conseguenze si trovano nella determinazione che l’operaio sta in rapporto al prodotto del suo lavoro come a un oggetto estraneo. Poiché è chiaro, per questo presupposto, che tanto più l’operaio lavora, tanto più acquista potenza il mondo estraneo, oggettivo, ch’egli si crea di fronte, e tanto più povero diventa egli stesso, il suo mondo interiore, e tanto meno egli possiede. […] Quanto maggiore dunque questo prodotto, tanto minore è egli stesso. L’espropriazione dell’operaio nel suo prodotto non ha solo il significato che il suo lavoro diventa un oggetto, un’esterna esistenza, bensì che esso esiste fuori di lui, indipendente, estraneo a lui, come una potenza indipendente di fronte a lui, e che la vita, da lui data all’oggetto, lo confronta estranea e nemica […].
L’economia politica occulta l’alienazione ch’è nell’essenza del lavoro per questo: ch’essa non considera l’immediato rapporto fra l’operaio (il lavoro) e la produzione. Certamente il lavoro produce meraviglie per i ricchi, ma produce lo spogliamento dell’operaio. Produce palazzi, ma caverne per l’operaio, produce bellezza, ma deformità per l’operaio. Esso sostituisce il lavoro con le macchine, ma respinge una parte dei lavoratori a un lavoro barbarico, e riduce a macchine l’altra parte. Produce spiritualità e produce l’imbecillità, il cretinismo dell’operaio […].
Nell’alienazione dell’oggetto del lavoro si riassume l’alienazione, l’espropriazione, dell’attività stessa del lavoro. In che consiste ora, l’espropriazione del lavoro? Prima di tutto in questo: che il lavoro resta esterno all’operaio, cioè non appartiene al suo essere, e che l’operaio quindi non si afferma nel suo lavoro, bensì si nega, non si sente appagato ma infelice, non svolge alcuna libera energia fisica e spirituale, bensì mortifica il suo corpo e rovina il suo spirito.
L’operaio quindi si sente con se stesso soltanto fuori del lavoro, e fuori di sé nel lavoro. Come a casa sua è solo quando non lavora e quando lavora non lo è. Il suo lavoro non è volontario bensì forzato, è lavoro costrittivo. Il lavoro non è quindi la soddisfazione di un bisogno, bensì soltanto un mezzo per soddisfare bisogni esterni ad esso. […] Il lavoro esterno, il lavoro in cui l’uomo si espropria, è un lavoro-sacrificio, un lavoro mortificazione. Finalmente l’esteriorità del lavoro al lavoratore si palesa in questo: che il lavoro non è cosa sua ma di un altro; che non gli appartiene, e che in esso egli non appartiene a sé, bensì a un altro. […] Il risultato è che l’uomo (il lavoratore) si sente libero ormai soltanto nelle sue funzioni bestiali, nel mangiare, nel bere e nel generare, tutt’al più nell’aver una casa, nella sua cura corporale ecc. e che nelle sue funzioni umane si sente più solo una bestia. Il bestiale diventa l’umano e l’umano il bestiale.
Come si vede, il lavoro alienato non è più un momento di realizzazione dell’uomo, ma di perdita dell’uomo stesso; non più fine, ma mezzo.
Hegel aveva visto correttamente che il lavoro realizza l’essenza dell’uomo, quale capacità di trasformare la natura secondo un progetto consapevole, ma nel lavoro alienato l’uomo è spogliato della sua iniziativa e diventa semplice mezzo per la produzione di cose, non il loro artefice.
L’operaio perde così non solo il proprio oggetto, ma anche se stesso, la sua stessa vita diventa proprietà di un altro, del capitalista, la cui proprietà è solo apparentemente il presupposto dell’economia politica, mentre è in realtà il risultato dell’espropriazione del lavoro operaio e, insieme, il mezzo attraverso cui questa espropriazione si attua:
Abbiamo considerato fino ad ora il rapporto solo dal lato del lavoratore, lo considereremo poi anche dal lato del non-lavoratore. Dunque, nel lavoro alienato, espropriato, l’operaio produce il rapporto a questo lavoro da parte di un uomo estraneo e che sta fuori. Il rapporto dell’operaio col lavoro genera il rapporto del capitalista – o come altrimenti si voglia chiamare il padrone del lavoro – col medesimo lavoro. La proprietà privata è dunque il prodotto, il risultato, la necessaria conseguenza del lavoro espropriato, del rapporto estrinseco dell’operaio alla natura e a se stesso.
La proprietà privata risulta così dall’analisi del concetto del lavoro espropriato, cioè dell‘uomo espropriato, del lavoro alienato, della vita alienata, dell’uomo alienato. Abbiamo certamente ricavato il concetto del lavoro espropriato (della vita espropriata) dall’economia politica come risultato del movimento della proprietà privata. Ma nell’analisi di questo concetto si mostra che, mentre la proprietà privata appare come ragione e causa del lavoro espropriato, essa è piuttosto una conseguenza di quest’ultimo, così come gli dèi sono in origine non causa me bensì effetto dello smarrimento dell’intelletto umano. Poi questo rapporto si rovescia in un effetto reciproco.
Solo all’ultimo punto culminante dello sviluppo della proprietà privata questa mostra di nuovo in risalto il suo segreto: cioè che da una parte essa è il risultato del lavoro espropriato, e secondariamente ch’essa è il mezzo col quale il lavoro si espropria, la realizzazione di questa espropriazione.
L’emancipazione operaia sarà dunque la riappropriazione di quanto si è perduto (il capitale è lavoro espropriato) per effetto dell’alienazione ed essa significherà
la generale emancipazione umana», perché «l’intera servitù umana è coinvolta nel rapporto dell’operaio alla produzione.
L’alienazione per Rahel Raeggi (la nuova teoria critica marxiana)
3. La concezione materialistica della storia e il comunismo
Essere radicale vuol dire cogliere le cose alla radice. Ma la radice, per l’uomo, è l’uomo stesso.
Marx, Per la critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico
La dialettica tra lavoro e capitale e il conflitto tra alienazione e riappropriazione hanno luogo sul terreno della storia.
Analizzare la storia significa per Marx indagare i fenomeni criticamente, senza presupporli in modo naturalistico e astratto.
Essa, inoltre, permette di impostare in modo nuovo il rapporto tra teoria e prassi, perché l’idea di una filosofia che si realizza nel mondo non viene più pensata da Marx in modo volontaristico come per i giovani hegeliani, ma come risultato di un processo storico.
Questo insieme di motivi e di esigenze trova espressione nella concezione materialistica della storia formulata nell’Ideologia tedesca (scritta con Engels nel 1845), nelle Tesi su Feuerbach [appunti manoscritti scritti durante la stesura dell’Ideologia tedesca e pubblicati postumi] e nel Manifesto del Partito comunista (Marx-Engels, 1848).
La critica a Feuerbach è di grande importanza per capire il materialismo storico.
Feuerbach, infatti, ha pensato l’uomo come un ente la cui coscienza è il prodotto della sua esistenza, ma non lo ha inteso come ente concreto che trasforma il mondo ed è esso stesso il prodotto della storia, cioè delle trasformazioni operate dalle precedenti generazioni.
Di conseguenza, la sua risulta una concezione statica e astratta, nella quale materialismo e storia restano separati.
Al contrario, Marx sostituisce alla categoria di “essenza” dell’uomo – di cui faceva ancora uso nei Manoscritti – gli “uomini” intesi come “individui determinati” che operano in condizioni date con la natura e con gli altri uomini.
Non c’è quindi una natura umana, se volessimo indicarla troveremmo infatti che l’unica essenza dell’uomo è l’assenza di una natura, cioè la mancanza di un modo universale e innato di rapportarsi all’ambiente e ai viventi che è invece propria di tutti gli animali – tranne l’uomo, appunto.
È quanto Marx deduce nella sesta Tesi su Feuerbach:
Feuerbach risolve l’essenza religiosa nell’essenza umana. Ma l’essenza umana non è qualcosa di astratto che sia immanente all’individuo singolo. Nella sua realtà essa è l’insieme dei rapporti sociali.
Feuerbach, che non penetra nella critica di questa essenza reale, è perciò costretto:
1. Ad astrarre dal corso della storia, a fissare il sentimento religioso per sé, ed a presupporre un individuo umano astratto – isolato.
2. L’essenza può dunque essere concepita soltanto come ‘genere’, cioè come universalità interna, muta, che leghi molti individui naturalmente.
Nell‘Ideologia tedesca, il primo aspetto da cui Marx ed Engels avviano la loro critica è il fatto che per vivere, gli uomini devono soddisfare i loro bisogni primari, dunque la produzione di mezzi di sussistenza è l’attività primaria, la prima «azione storica» e specificamente umana.
Essa è già una forma determinata di rapporto con la natura, cioè un modo di vita che definisce ciò che gli uomini, entro quel determinato modo di produzione, sono.
La coscienza nasce dalla relazione con altri individui: è dunque un prodotto sociale che si sviluppa in relazione allo sviluppo dei mezzi di produzione, cioè della popolazione, della produttività, della cooperazione, in una parola, dello sviluppo delle «forze produttive».
Un ruolo fondamentale in questo sviluppo è giocato dalla divisione del lavoro e dalla proprietà privata.
Delineando questa sorta di “storia originaria” della società e della coscienza, Marx ed Engels forniscono un’interpretazione delle relazioni esistenti in ogni situazione determinata. L’indicazione metodologica fondamentale è che la totalità dell’essere sociale va indagata a partire dalla sfera della vita produttiva:
non è la coscienza che determina la vita, ma è la vita che determina la coscienza.
Si tratta del rovesciamento del modo idealistico di concepire la storia.
La coscienza è dunque intessuta di materia [non si può non sottolineare l’importanza fondativa di questa tesi – enunciata nel modo più sintetico e preciso da Marx nella sesta tesi su Feuerbach – per le scienze sociali. Si veda, ad esempio, l’applicazione fattane in psicologia da Vygotskij e in sociologia da Bourdieu], negarlo è produrre ideologia.
Ideologia è infatti ogni forma di rappresentazione teorica inconsapevole o volutamente dimentica della propria condizionatezza storico-materiale. L’ideologia separa le idee dalle loro radici materiali, rendendo arbitrariamente autonomi, e (dunque) universali, valori, concezioni del mondo e idee che nascono invece dall’intreccio con una condizione storicamente determinata.
Questo atteggiamento teorico risponde a una funzione ben precisa: in ogni epoca corrisponde all’esigenza della classe dominante di presentare come naturali e universali i valori che le sono propri [si veda :
le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante.
Nello scritto più tardo Per la critica dell’economia politica (1859, lo scritto è anche noto come Grundrisse), Marx userà il termine di struttura per indicare l’insieme dei rapporti di produzione esistenti nella società, sostenendo che tale struttura costituisce
la base reale sulla quale si eleva la sovrastruttura giuridica e politica e alla quale corrispondono forme determinate di coscienza sociale.
È sul piano della struttura che agisce infatti la contraddizione fondamentale che produce il divenire storico, cioè il conflitto tra forze produttive e rapporti di produzione.
Il materialismo storico si propone quindi una comprensione della realtà che nasce dalla stessa prassi.
La prospettiva del comunismo, entro questa teoria, può essere pensata come risultato di un processo storico che va verso una sempre maggiore universalizzazione della cooperazione e dello scambio e, dunque, verso una contraddizione sempre più profonda tra borghesia e proletariato. Per questo, affermano Marx ed Engels,
il comunismo non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente.
Nel Manifesto del Partito Comunista nato come programma politico della Lega dei giusti nell’infuocato clima sociale alla vigilia del ’48, si trova un esempio della realizzazione della filosofia nel mondo di cui Marx aveva affermato l’esigenza fin dagli scritti giovanili.
Il Manifesto è un piccolo libro che nell’edizione originale contava appena ventitré pagine, tirato in mille copie che si dovettero stampare ricorrendo a una colletta e che è divenuto, insieme alla Bibbia, il libro più stampato al mondo e l’unico edito in tutte le lingue esistenti – nato come programma politico della Lega dei giusti nell’infuocato clima sociale alla vigilia del ’48, si trova un esempio della realizzazione della filosofia nel mondo di cui Marx aveva affermato l’esigenza fin dagli scritti giovanili.
Celebre il suo esordio:
Uno spettro s’aggira per l’Europa – lo spettro del comunismo. Tutte le potenze della vecchia Europa si sono alleate in una santa battuta di caccia contro questo spettro: papa e zar, Metternich e Guizot, radicali francesi e poliziotti tedeschi.
Quale partito d’opposizione non è stato tacciato di comunismo dai suoi avversari di governo; qual partito d’opposizione non ha rilanciato l’infamante accusa di comunismo tanto sugli uomini più progrediti dell’opposizione stessa, quanto sui propri avversari reazionari?
Da questo fatto scaturiscono due specie di conclusioni. Il comunismo è di già riconosciuto come potenza da tutte le potenze europee.
Il Manifesto sviluppa una visione dialettica della storia che ha al suo centro il concetto di lotta di classe che, a differenza del passato, nell’epoca presente si svolge tra le due sole classi della borghesia e del proletariato. Marx legge questa polarizzazione del conflitto come il risultato dell’azione rivoluzionaria della borghesia nella storia:
La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta.
Nelle epoche passate della storia troviamo quasi dappertutto una completa articolazione della società in differenti ordini, una molteplice graduazione delle posizioni sociali. In Roma antica abbiamo patrizi, cavalieri, plebei, schiavi; nel medioevo signori feudali, vassalli, membri delle corporazioni, garzoni, servi della gleba, e, per di più, anche particolari graduazioni in quasi ognuna di queste classi. La società civile moderna, sorta dal tramonto della società feudale, non ha eliminato gli antagonismi fra le classi. Essa ha soltanto sostituito alle antiche, nuove classi, nuove condizioni di oppressione, nuove forme di lotta.
La nostra epoca, l’epoca della borghesia, si distingue però dalle altre per aver semplificato gli antagonismi di classe. L’intera società si va scindendo sempre più in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente contrapposte l’una all’altra: borghesia e proletariato. […]
La borghesia ha avuto nella storia una parte sommamente rivoluzionaria. Dove ha raggiunto il dominio, la borghesia ha distrutto tutte le condizioni di vita feudali, patriarcali, idilliche. Ha lacerato spietatamente tutti i variopinti vincoli feudali che legavano l’uomo al suo superiore naturale, e non ha lasciato fra uomo e uomo altro vincolo che il nudo interesse, il freddo “pagamento in contanti”. Ha affogato nell’acqua gelida del calcolo egoistico i sacri brividi dell’esaltazione devota, dell’entusiasmo cavalleresco, della malinconia filistea. Ha disciolto la dignità personale nel valore di scambio e al posto delle innumerevoli libertà patentate e onestamente conquistate, ha messo, unica, la libertà di commercio priva di scrupoli. In una parola: ha messo lo sfruttamento aperto, spudorato, diretto e arido al posto dello sfruttamento mascherato d’illusioni religiose e politiche. La borghesia ha spogliato della loro aureola tutte le attività che fino allora erano venerate e considerate con pio timore. Ha tramutato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l’uomo della scienza, in salariati ai suoi stipendi. La borghesia ha strappato il commovente velo sentimentale al rapporto familiare e lo ha ricondotto a un puro rapporto di denaro.
La borghesia ha svelato come la brutale manifestazione di forza che la reazione ammira tanto nel medioevo, avesse la sua appropriata integrazione nella più pigra infingardaggine. Solo la borghesia ha dimostrato che cosa possa compiere l’attività dell’uomo. Essa ha compiuto ben altre meraviglie che le piramidi egiziane, acquedotti romani e cattedrali gotiche, ha portato a termine ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le crociate.
La borghesia non può esistere senza rivoluzionare continuamente gli strumenti di produzione, i rapporti di produzione, dunque tutti i rapporti sociali. Prima condizione di esistenza di tutte le classi industriali precedenti era invece l’immutato mantenimento del vecchio sistema di produzione. Il continuo rivoluzionamento della produzione, l’ininterrotto scuotimento di tutte le situazioni sociali, l’incertezza e il movimento eterni contraddistinguono l’epoca dei borghesi fra tutte le epoche precedenti. Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra, e gli uomini sono finalmente costretti a guardare con occhio disincantato la propria posizione e i propri reciproci rapporti.
Il bisogno di uno smercio sempre più esteso per i suoi prodotti sospinge la borghesia a percorrere tutto il globo terrestre. Dappertutto deve annidarsi, dappertutto deve costruire le sue basi, dappertutto deve creare relazioni. Con lo sfruttamento del mercato mondiale la borghesia ha dato un’impronta cosmopolitica alla produzione e al consumo di tutti i paesi. Ha tolto di sotto i piedi dell’industria il suo terreno nazionale, con gran rammarico dei reazionari. Le antichissime industrie nazionali sono state distrutte, e ancora adesso vengono distrutte ogni giorno. Vengono soppiantate da industrie nuove, la cui introduzione diventa questione di vita o di morte per tutte le nazioni civili, da industrie che non lavorano più soltanto le materie prime del luogo, ma delle zone più remote, e i cui prodotti non vengono consumati solo dal paese stesso, ma anche in tutte le parti del mondo. Ai vecchi bisogni, soddisfatti con i prodotti del paese, subentrano bisogni nuovi, che per essere soddisfatti esigono i prodotti dei paesi e dei climi più lontani. All’antica autosufficienza e all’antico isolamento locali e nazionali subentra uno scambio universale, una interdipendenza universale fra le nazioni. E come per la produzione materiale, così per quella intellettuale. I prodotti intellettuali delle singole nazioni divengono bene comune. L’unilateralità e la ristrettezza nazionali divengono sempre più impossibili, e dalle molte letterature nazionali e locali si forma una letteratura mondiale.
Con il rapido miglioramento di tutti gli strumenti di produzione, con le comunicazioni infinitamente agevolate, la borghesia trascina nella civiltà tutte le nazioni, anche le più barbare. I bassi prezzi delle sue merci sono l’artiglieria pesante con la quale spiana tutte le muraglie cinesi, con la quale costringe alla capitolazione la più tenace xenofobia dei barbari. Costringe tutte le nazioni ad adottare il sistema di produzione della borghesia, se non vogliono andare in rovina, le costringe ad introdurre in casa loro la cosiddetta civiltà, cioè a diventare borghesi. In una parola: essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza.
La borghesia ha assoggettato la campagna al dominio della città. Ha creato città enormi, ha accresciuto su grande scala la cifra della popolazione urbana in confronto di quella rurale, strappando in tal modo una parte notevole della popolazione all’idiotismo della vita rurale. Come ha reso la campagna dipendente dalla città, la borghesia ha reso i paesi barbari e semibarbari dipendenti da quelli inciviliti, i popoli di contadini da quelli di borghesi, l’Oriente dall’Occidente. […]
Durante il suo dominio di classe appena secolare la borghesia ha creato forze produttive in massa molto maggiore e più colossali che non avessero mai fatto tutte insieme le altre generazioni del passato. Il soggiogamento delle forze naturali, le macchine, l’applicazione della chimica all’industria e all’agricoltura, la navigazione a vapore, le ferrovie, i telegrafi elettrici, il dissodamento d’interi continenti, la navigabilità dei fiumi, popolazioni intere sorte quasi per incanto dal suolo -quale dei secoli antecedenti immaginava che nel grembo del lavoro sociale stessero sopite tali forze produttive?
Ma abbiamo visto che i mezzi di produzione e di scambio sulla cui base si era venuta costituendo la borghesia erano stati prodotti entro la società feudale. A un certo grado dello sviluppo di quei mezzi di produzione e di scambio, le condizioni nelle quali la società feudale produceva e scambiava, l’organizzazione feudale dell’agricoltura e della manifattura, in una parola i rapporti feudali della proprietà, non corrisposero più alle forze produttive ormai sviluppate. Essi inceppavano la produzione invece di promuoverla. Si trasformarono in altrettante catene. Dovevano essere spezzate e furono spezzate. Ad esse subentrò la libera concorrenza con la confacente costituzione sociale e politica, con il dominio economico e politico della classe dei borghesi.
Sotto i nostri occhi si svolge un moto analogo. I rapporti borghesi di produzione e di scambio, i rapporti borghesi di proprietà, la società borghese moderna che ha creato per incanto mezzi di produzione e di scambio così potenti, rassomiglia al mago che non riesce più a dominare le potenze degli inferi da lui evocate. Sono decenni ormai che la storia dell’industria e del commercio è soltanto storia della rivolta delle forze produttive moderne contro i rapporti moderni della produzione, cioè contro i rapporti di proprietà che costituiscono le condizioni di esistenza della borghesia e del suo dominio. Basti ricordare le crisi commerciali che col loro periodico ritorno mettono in forse sempre più minacciosamente l’esistenza di tutta la società borghese.
Nelle crisi commerciali viene regolarmente distrutta non solo una parte dei prodotti ottenuti, ma addirittura gran parte delle forze produttive già create. Nelle crisi scoppia una epidemia sociale che in tutte le epoche precedenti sarebbe apparsa un assurdo: l’epidemia della sovraproduzione. La società si trova all’improvviso ricondotta a uno stato di momentanea barbarie; sembra che una carestia, una guerra generale di sterminio le abbiano tagliato tutti i mezzi di sussistenza; l’industria, il commercio sembrano distrutti. E perché? Perché la società possiede troppa civiltà, troppi mezzi di sussistenza, troppa industria, troppo commercio. Le forze produttive che sono a sua disposizione non servono più a promuovere la civiltà borghese e i rapporti borghesi di proprietà; anzi, sono divenute troppo potenti per quei rapporti e ne vengono ostacolate, e appena superano questo ostacolo mettono in disordine tutta la società borghese, mettono in pericolo l’esistenza della proprietà borghese. I rapporti borghesi sono divenuti troppo angusti per poter contenere la ricchezza da essi stessi prodotta. Con quale mezzo la borghesia supera le crisi? Da un lato, con la distruzione coatta di una massa di forze produttive; dall’altro, con la conquista di nuovi mercati e con lo sfruttamento più intenso dei vecchi. Dunque, con quali mezzi? Mediante la preparazione di crisi più generali e più violente e la diminuzione dei mezzi per prevenire le crisi stesse.
A questo momento le armi che son servite alla borghesia per atterrare il feudalesimo si rivolgono contro la borghesia stessa. Ma la borghesia non ha soltanto fabbricato le armi che la porteranno alla morte; ha anche generato gli uomini che impugneranno quelle armi: gli operai moderni, i proletari.
Nella stessa proporzione in cui si sviluppa la borghesia, cioè il capitale, si sviluppa il proletariato, la classe degli operai moderni, che vivono solo fintantoché trovano lavoro, e che trovano lavoro solo fintantoché il loro lavoro aumenta il capitale. Questi operai, che sono costretti a vendersi al minuto, sono una merce come ogni altro articolo commerciale, e sono quindi esposti, come le altre merci, a tutte le alterne vicende della concorrenza, a tutte le oscillazioni del mercato.
Con l’estendersi dell’uso delle macchine e con la divisione del lavoro, il lavoro dei proletari ha perduto ogni carattere indipendente e con ciò ogni attrattiva per l’operaio. Egli diviene un semplice accessorio della macchina, al quale si richiede soltanto un’operazione manuale semplicissima, estremamente monotona e facilissima da imparare. Quindi le spese che causa l’operaio si limitano quasi esclusivamente ai mezzi di sussistenza dei quali egli ha bisogno per il proprio mantenimento e per la riproduzione della specie. Ma il prezzo di una merce, quindi anche quello del lavoro, è uguale ai suoi costi di produzione. Quindi il salario decresce nella stessa proporzione in cui aumenta il tedio del lavoro. Anzi, nella stessa proporzione dell’aumento dell’uso delle macchine e della divisione del lavoro, aumenta anche la massa del lavoro, sia attraverso l’aumento delle ore di lavoro, sia attraverso l’aumento del lavoro che si esige in una data unità di tempo, attraverso l’accresciuta celerità delle macchine, e così via.
L’industria moderna ha trasformato la piccola officina del maestro artigiano patriarcale nella grande fabbrica del capitalista industriale. Masse di operai addensate nelle fabbriche vengono organizzate militarmente. E vengono poste, come soldati semplici dell’industria, sotto la sorveglianza di una completa gerarchia di sottufficiali e ufficiali. Gli operai non sono soltanto servi della classe dei borghesi, ma vengono asserviti giorno per giorno, ora per ora dalla macchina, dal sorvegliante, e soprattutto dal singolo borghese fabbricante in persona. Questo dispotismo è tanto più meschino, odioso ed esasperante, quanto più apertamente esso proclama come fine ultimo il guadagno.
Quanto meno il lavoro manuale esige abilità ed esplicazione di forza, cioè quanto più si sviluppa l’industria moderna, tanto più il lavoro degli uomini viene soppiantato da quello delle donne [e dei fanciulli]. Per la classe operaia non han più valore sociale le differenze di sesso e di età. Ormai ci sono soltanto strumenti di lavoro che costano più o meno a seconda dell’età e del sesso. Quando lo sfruttamento dell’operaio da parte del padrone di fabbrica è terminato in quanto all’operaio viene pagato il suo salario in contanti, si gettano su di lui le altre parti della borghesia, il padron di casa, il bottegaio, il prestatore su pegno e così via.
Quelli che fino a questo momento erano i piccoli ordini medi, cioè i piccoli industriali, i piccoli commercianti e coloro che vivevano di piccole rendite, gli artigiani e i contadini, tutte queste classi precipitano nel proletariato, in parte per il fatto che il loro piccolo capitale non è sufficiente per l’esercizio della grande industria e soccombe nella concorrenza con i capitalisti più forti, in parte per il fatto che la loro abilità viene svalutata da nuovi sistemi di produzione. Così il proletariato si recluta in tutte le classi della popolazione.
Il proletariato passa attraverso vari gradi di sviluppo. La sua lotta contro la borghesia comincia con la sua esistenza. Da principio singoli operai, poi gli operai di una fabbrica, poi gli operai di una branca di lavoro in un dato luogo lottano contro il singolo borghese che li sfrutta direttamente. Essi non dirigono i loro attacchi soltanto contro i rapporti borghesi di produzione, ma contro gli stessi strumenti di produzione; distruggono le merci straniere che fan loro concorrenza, fracassano le macchine, danno fuoco alle fabbriche, cercano di riconquistarsi la tramontata posizione del lavoratore medievale.
In questo stadio gli operai costituiscono una massa disseminata per tutto il paese e dispersa a causa della concorrenza. La solidarietà di maggiori masse operaie non è ancora il risultato della loro propria unione, ma della unione della borghesia, la quale, per il raggiungimento dei propri fini politici, deve mettere in movimento tutto il proletariato, e per il momento può ancora farlo. Dunque, in questo stadio i proletari combattono non i propri nemici, ma i nemici dei propri nemici, gli avanzi della monarchia assoluta, i proprietari fondiari, i borghesi non industriali, i piccoli borghesi. Così tutto il movimento della storia è concentrato nelle mani della borghesia; ogni vittoria raggiunta in questo modo è una vittoria della borghesia.
Ma il proletariato, con lo sviluppo dell’industria, non solo si moltiplica; viene addensato in masse più grandi, la sua forza cresce, ed esso la sente di più. […] Fra tutte le classi che oggi stanno di contro alla borghesia, il proletariato soltanto è una classe realmente rivoluzionaria. Le altre classi decadono e tramontano con la grande industria; il proletariato è il suo prodotto più specifico.
Gli ordini medi, il piccolo industriale, il piccolo commerciante, l’artigiano, il contadino, combattono tutti la borghesia, per premunire dalla scomparsa la propria esistenza come ordini medi. Quindi non sono rivoluzionari, ma conservatori. Anzi, sono reazionari, poiché cercano di far girare all’indietro la ruota della storia. Quando sono rivoluzionari, sono tali in vista del loro imminente passaggio al proletariato, non difendono i loro interessi presenti, ma i loro interessi futuri, e abbandonano il proprio punto di vista, per mettersi da quello del proletariato.
Il sottoproletariato, questa putrefazione passiva degli infimi strati della società, che in seguito a una rivoluzione proletaria viene scagliato qua e là nel movimento, sarà più disposto, date tutte le sue condizioni di vita, a lasciarsi comprare per mene reazionarie.
Le condizioni di esistenza della vecchia società sono già annullate nelle condizioni di esistenza del proletariato. Il proletario è senza proprietà; il suo rapporto con moglie e figli non ha più nulla in comune con il rapporto familiare borghese; il lavoro industriale moderno, il soggiogamento moderno del capitale, identico in Inghilterra e in Francia, in America e in Germania, lo ha spogliato di ogni carattere nazionale. Leggi, morale, religione sono per lui altrettanti pregiudizi borghesi, dietro i quali si nascondono altrettanti interessi borghesi. […]
Delineando le fasi più generali dello sviluppo del proletariato, abbiamo seguito la guerra civile più o meno latente all’interno della società attuale, fino al momento nel quale quella guerra erompe in aperta rivoluzione e nel quale il proletariato fonda il suo dominio attraverso il violento abbattimento della borghesia. Ogni società si è basata finora, come abbiam visto, sul contrasto fra classi di oppressori e classi di oppressi. Ma, per poter opprimere una classe, le debbono essere assicurate condizioni entro le quali essa possa per lo meno stentare la sua vita di schiava. Il servo della gleba, lavorando nel suo stato di servo della gleba, ha potuto elevarsi a membro del comune, come il cittadino minuto, lavorando sotto il giogo dell’assolutismo feudale, ha potuto elevarsi a borghese. Ma l’operaio moderno, invece di elevarsi man mano che l’industria progredisce, scende sempre più al disotto delle condizioni della sua propria classe. L’operaio diventa un povero, e il pauperismo si sviluppa anche più rapidamente che la popolazione e la ricchezza. Da tutto ciò appare manifesto che la borghesia non è in grado di rimanere ancora più a lungo la classe dominante della società e di imporre alla società le condizioni di vita della propria classe come legge regolatrice. Non è capace di dominare, perché non è capace di garantire l’esistenza al proprio schiavo neppure entro la sua schiavitù, perché è costretta a lasciarlo sprofondare in una situazione nella quale, invece di esser da lui nutrita, essa è costretta a nutrirlo. La società non può più vivere sotto la classe borghese, vale a dire la esistenza della classe borghese non è più compatibile con la società.
La condizione più importante per l’esistenza e per il dominio della classe borghese è l’accumularsi della ricchezza nelle mani di privati, la formazione e la moltiplicazione del capitale; condizione del capitale è il lavoro salariato. Il lavoro salariato poggia esclusivamente sulla concorrenza degli operai tra di loro. Il progresso dell’industria, del quale la borghesia è veicolo involontario e passivo, fa subentrare all’isolamento degli operai risultante dalla concorrenza, la loro unione rivoluzionaria, risultante dall’associazione. Con lo sviluppo della grande industria, dunque, vien tolto di sotto ai piedi della borghesia il terreno stesso sul quale essa produce e si appropria i prodotti. Essa produce anzitutto i suoi seppellitori. Il suo tramonto e la vittoria del proletariato sono del pari inevitabili.
II. Proletari e comunisti […] Voi inorridite perché vogliamo abolire la proprietà privata. Ma nella vostra società attuale la proprietà privata è abolita per i nove decimi dei suoi membri; la proprietà privata esiste proprio per il fatto che per nove decimi non esiste. Dunque voi ci rimproverate di voler abolire una proprietà che presuppone come condizione necessaria la privazione della proprietà dell’enorme maggioranza della società.
In una parola, voi ci rimproverate di volere abolire la vostra proprietà.
Certo, questo vogliamo.
Appena il lavoro non può più essere trasformato in capitale, in denaro, in rendita fondiaria, insomma in una potenza sociale monopolizzabile, cioè, appena la proprietà personale non può più convertirsi in proprietà borghese, voi dichiarate che è abolita la persona. Dunque confessate che per persona non intendete nient’altro che il borghese, il proprietario borghese. Certo questa persona deve essere abolita.
Il comunismo non toglie a nessuno il potere di appropriarsi prodotti della società, toglie soltanto il potere di assoggettarsi il lavoro altrui mediante tale appropriazione. […]
Abolizione della famiglia! Anche i più estremisti si riscaldano parlando di questa ignominiosa intenzione dei comunisti. Su che cosa si basa la famiglia attuale, la famiglia borghese? Sul capitale, sul guadagno privato. Una famiglia completamente sviluppata esiste soltanto per la borghesia: ma essa ha il suo complemento nella coatta mancanza di famiglia del proletario e nella prostituzione pubblica. La famiglia del borghese cade naturalmente col cadere di questo suo complemento ed entrambi scompaiono con la scomparsa del capitale.
Ci rimproverate di voler abolire lo sfruttamento dei figli da parte dei genitori? Confessiamo questo delitto. Ma voi dite che sostituendo l’educazione sociale a quella familiare noi aboliamo i rapporti più cari. E anche la vostra educazione, non è determinata dalla società? Non è determinata dai rapporti sociali entro i quali voi educate, dalla interferenza più o meno diretta o indiretta della società mediante la scuola e così via? I comunisti non inventano l’influenza della società sull’educazione, si limitano a cambiare il carattere di tale influenza, e strappano l’educazione all’influenza della classe dominante.
La fraseologia borghese sulla famiglia e sull’educazione, sull’affettuoso rapporto fra genitori e figli diventa tanto più nauseante, quanto più, per effetto della grande industria, si lacerano per il proletario tutti i vincoli familiari, e i figli sono trasformati in semplici articoli di commercio e strumenti di lavoro. Tutta la borghesia ci grida contro in coro: ma voi comunisti volete introdurre la comunanza delle donne. Il borghese vede nella moglie un semplice strumento di produzione. Sente dire che gli strumenti di produzione devono essere sfruttati in comune e non può naturalmente farsi venire in mente se non che la sorte della comunanza colpirà anche le donne. Non sospetta neppure che si tratta proprio di abolire la posizione delle donne come semplici strumenti di produzione.
Del resto non c’è nulla di più ridicolo del moralissimo orrore che i nostri borghesi provano per la pretesa comunanza ufficiale delle donne fra i comunisti. I comunisti non hanno bisogno d’introdurre la comunanza delle donne; essa è esistita quasi sempre. I nostri borghesi, non paghi d’avere a disposizione le mogli e le figlie dei proletari, per non parlare neppure della prostituzione ufficiale, trovano uno dei loro divertimenti principali nel sedursi reciprocamente le loro mogli.
In realtà il matrimonio borghese è la comunanza delle mogli. Tutt’al, più ai comunisti si potrebbe rimproverare di voler introdurre una comunanza delle donne ufficiale e franca al posto di una comunanza delle donne ipocritamente dissimulata. Del resto è ovvio che, con l’abolizione dei rapporti attuali di produzione, scompare anche quella comunanza delle donne che ne deriva, cioè la prostituzione ufficiale e non ufficiale.
Inoltre, si è rimproverato ai comunisti ch’essi vorrebbero abolire la patria, la nazionalità.
Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro quello che non hanno. Poiché la prima cosa che il proletario deve fare è di conquistarsi il dominio politico, di elevarsi a classe nazionale, di costituire se stesso in nazione, è anch’esso ancora nazionale, seppure non certo nel senso della borghesia. […]
Ma lasciamo stare le obiezioni della borghesia contro il comunismo. Abbiamo già visto sopra che il primo passo sulla strada della rivoluzione operaia consiste nel fatto che il proletariato s’eleva a classe dominante, cioè nella conquista della democrazia. Il proletariato adoprerà il suo dominio politico per strappare a poco a poco alla borghesia tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, cioè del proletariato organizzato come classe dominante, e per moltiplicare al più presto possibile la massa delle forze produttive. […]
Quando le differenze di classe saranno scomparse nel corso dell’evoluzione, e tutta la produzione sarà concentrata in mano agli individui associati, il pubblico potere perderà il suo carattere politico. In senso proprio, il potere politico è il potere di una classe organizzato per opprimerne un’altra. Il proletariato, unendosi di necessità in classe nella lotta contro la borghesia, facendosi classe dominante attraverso una rivoluzione, ed abolendo con la forza, come classe dominante, gli antichi rapporti di produzione, abolisce insieme a quei rapporti di produzione le condizioni di esistenza dell’antagonismo di classe, cioè abolisce le condizioni d’esistenza delle classi in genere, e così anche il suo proprio dominio in quanto classe.
Alla vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismi fra le classi subentra una associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti. […]
IV. Posizione dei comunisti di fronte ai diversi partiti d’opposizione. […] i comunisti appoggiano dappertutto ogni movimento rivoluzionario diretto contro le situazioni sociali e politiche attuali. Entro tutti questi movimenti essi mettono in rilievo, come problema fondamentale del movimento, il problema della proprietà, qualsiasi forma, più o meno sviluppata, esso possa avere assunto.
Infine, i comunisti lavorano dappertutto al collegamento e all’intesa dei partiti democratici di tutti i paesi. I comunisti sdegnano di nascondere le loro opinioni e le loro intenzioni. Dichiarano apertamente che i loro fini possono esser raggiunti soltanto col rovesciamento violento di tutto l’ordinamento sociale finora esistente. Le classi dominanti tremino al pensiero d’una rivoluzione comunista. I proletari non hanno da perdervi che le loro catene. Hanno un mondo da guadagnare.
PROLETARI DI TUTTO IL MONDO, UNITEVI!
4. Il Capitale
Essi hanno un solo pensiero, e danno la loro forza e il loro potere alla bestia. E che nessuno possa comprare o vendere,
se non chi abbia il carattere o il nome della bestia, o il numero del suo nome.
Marx cita l’Apocalisse per spiegare il carattere bestiale del capitale e del denaro
Nel capitale viene posta la perennità del valore […] Ma questa capacità il capitale l’ottiene soltanto succhiando di continuo l’anima del lavoro vivo, come un vampiro.
Grundrisse
A partire dal 1850, Marx concentra la sua attività teorica sull’economia politica e sulle strutture di funzionamento dell’economia capitalistica. Questo lavoro iniziato con i Manoscritti e proseguito con la dura critica al socialismo piccolo-borghese di Proudhon e al suo Filosofia della miseria (Miseria della filosofia, 1847), culmina con la stesura del Capitale, rimasto incompiuto, il cui primo libro esce nel 1867.
L’analisi del Capitale prende avvio dalla merce, la forma elementare della società borghese che ne racchiude molecolarmente in sé l’essenza e le contraddizioni.
Il carattere essenziale della merce è la sua duplicità: ogni singola merce è infatti, contemporaneamente, mezzo per soddisfare un bisogno e oggetto che viene scambiato sul mercato; ha un’esistenza naturale e un’esistenza sociale, un valore d’uso e un valore di scambio.
Il valore di scambio prescinde dalle caratteristiche qualitative della merce e dalla sua utilità ed è relativo solo al valore proporzionale della stessa merce rispetto alle altre. Il denaro, quale equivalente universale, ne è il mediatore perfetto, esso infatti non è altro che
«la forma in cui tutte le merci si eguagliano, si paragonano, si misurano».
Ma da dove viene il valore di scambio? Marx osserva che il riferimento al valore di una merce presuppone il riferimento a una terza entità: il lavoro umano in essa oggettivato.
Se si prescinde dal valore d’uso (l’effettività utilità delle cose) resta alle merci solo il fatto di essere state realizzate con lavoro umano. Il valore di scambio di una merce è dunque dato dal lavoro necessario a produrlo, intendendo per “lavoro” non soltanto l’opera del singolo lavoratore, ma la durata del lavoro sociale erogato per produrre la generalità delle merci scambiate.
Questo aspetto è però occultato e le merci appaiono come cose che hanno in se stesse il loro valore, restando nascosti i processi e i rapporti reali di valorizzazione. Si tratta del feticismo della merce, quel fenomeno di rovesciamento per cui le cose dominano sull’uomo, attraverso
«la personificazione della cosa e la reificazione della persona».
Valorizzazione significa che le merci prodotte hanno un valore di scambio maggiore del valore dei mezzi di produzione (capitale+lavoro). E’ qui (nella sfera della produzione, non della circolazione delle merci) che Marx individua la creazione del plusvalore, consistente nella parte del valore di scambio delle merci non corrisposto al lavoratore.
Poiché nel sistema capitalistico anche il lavoro è una merce, la forza lavoro venduta dal lavoratore ha un valore d’uso e uno di scambio: il capitalista compra questa merce al suo valore di scambio – che tende a identificarsi con il costo dei beni di pura sussistenza del lavoratore e della sua famiglia – e la consuma per il suo valore d’uso che permette di produrre merci di valore superiore al salario.
La forza lavoro viene quindi applicata per un tempo superiore (pluslavoro) a quello necessario per pagare il salario del lavoratore, generando un plusvalore che viene appropriato dal proprietario dei mezzi di produzione.
Il capitale non ha inventato il plusvalore, osserva Marx, ma ha fondato un sistema basato sulla sua estrazione sistematica e sulla sua separazione dei mezzi di produzione dall’attività del lavoratore.
Questa forma di dominio presuppone precise condizioni non puramente economiche, ma insieme sociali e giuridiche, quali la separazione dei mezzi di produzione (terra e strumenti) dal lavoro (operaio) e la necessità dunque di vendere sul mercato la propria forza lavoro ad una condizione di parità formale (nella società capitalistica è abolita la schiavitù e il lavoro è formalmente libero).
Proprio quando la maturazione delle forze produttive porta a dissoluzione le condizioni operanti nei modi di produzione antichi, ha inizio la cosiddetta accumulazione originaria, erroneamente collocata dagli economisti borghesi nel risparmio e nata invece
«dalla conquista, dal soggiogamento, dalla rapina, in breve dalla violenza»,
ovvero dalla costituzione di un rapporto sociale basato sul dominio di una classe sull’altra, chiamato capitale.
Marx individua alcune tendenze fondamentali del sistema capitalistico: la caduta tendenziale del saggio di profitto e la natura strutturale delle crisi. Il primo è la tendenza del profitto a diminuire sulla base del conflitto di classe e della concorrenza intercapitalistica, la seconda legata all’eccesso di produzione delle merci rispetto alle capacità di consumo.
Marx si è sempre rifiutato di «prescrivere ricette per le osterie dell’avvenire», cioè di teorizzare le caratteristiche economiche e giuridiche della futura società comunista, ma nella Critica del programma di Gotha ha espresso l’idea che la transizione dalla società borghese richiedesse un periodo caratterizzato sotto il profilo politico dalla dittatura del proletariato (il debole controllo politico era stata infatti per Marx la causa della sconfitta della Comune di Parigi) e, sotto quello economico, dalla proprietà collettiva dei mezzi di produzione.
In quanto prodotto dell’opposizione alla società borghese, essa conservava alcune delle sue caratteristiche negative, in primo luogo il diritto uguale nella distribuzione che fatalmente riproduce le diseguaglianze di attitudini e capacità tra gli individui. Questo «angusto orizzonte giuridico borghese» potrà essere superato solo in una seconda fase, quando gli individui non saranno più asserviti e avranno potuto realizzarsi integralmente, accrescendo insieme le forze produttive sociali. Solo allora il motto di questa società sarà
«Ognuno secondo le sue capacità, ad ognuno secondo i suoi bisogni».
L’orizzonte entro il quale Marx pensa la società del futuro rimane, in tutto l’arco del suo pensiero, quello della realizzazione della libertà, intesa come sviluppo di tutte le facoltà umane.
Nel video seguente, la lettura del feticismo delle merci di Umberto Galimberti [da 8:29].
5. La morte e il lascito marxiano
Il 14 marzo 1883, a poco più di un anno da quella di Jenny e a due mesi dalla figlia Karl Marx muore, fiaccato dalla perdita degli affetti più cari. Si è addormentato nella sua poltrona, alle due del pomeriggio, dopo aver parlato con Friedrich e Lenchen (Helène Demuth).
Il suo funerale si tenne il 17 marzo 1883 davanti a sole undici persone, tra le quali la figlia Laura detta Tussi, la governante Helène Demuth, un sarto e un falegname compagni di lotta del 1848, i due generi Charles Longuet e Paul Lafargue, Wilhelm Liebknecht, padre di Karl, fondatore e leader del partito socialdemocratico tedesco e lo stesso Engels che pronuncia l’orazione funebre.
Marx è seppellito nella sezione riservata agli indigenti del cimitero di Highgate, accanto alla moglie Jenny von Vestphalen. Il pesante monumento funebre che oggi lo ricorda è stato eretto solo nel 1952, reca incisa la chiusa del Manifesto
Proletari di tutto il mondo unitevi!
e l’undicesima tesi su Feuerbach:
The philosophers have only interpreted the world in various ways. The point, however, is to change it
I filosofi hanno soltanto interpretato in modo diverso il mondo, ora è tempo di cambiarlo.
Esercitazioni
1. Illustra il ruolo della critica nel giovane Marx.
2. Illustra la critica di Marx alla proposta di legge sui furti della legna, spiegando perché si tratta della prima demistificazione della filosofia hegeliana.
3. Illustra l’analisi di stampo hegeliano con cui Marx dimostra l’alienazione del lavoro salariato dal punto di vista esistenziale, economico e della relazione sociale.
4. Illustra i concetti di borghesia e proletariato, indicando quali sono i loro rapporti nell’epoca moderna e quale ruolo storico ha avuto la borghesia in se stessa.
5. Illustra la concezione materialista della storia, evidenziando il rapporto stabilito da Marx tra coscienza e condizione materiale.
6. Illustra il concetto marxiano di ideologia, spiegando perché è funzionale ai rapporti di dominio.
7. Illustra la critica al feticismo delle merci sviluppata da Marx nel primo libro del Capitale.
8. Illustra i concetti di plusvalore e di caduta tendenziale del saggio di profitto.
Sul Manifesto
1. Spiega perché, per Marx, la borghesia ha avuto un ruolo rivoluzionario nella fondazione dell’epoca moderna e in cosa è consistita la sua azione.
2. Benché la storia universale sia vista da Marx come storia di lotte di classe, la borghesia e la modernità evidenziano una loro specificità. Indica in cosa si distinguono, portando qualcuno degli esempio formulati da Marx.
3. Nel Manifesto, Marx fornisce una precisa definizione delle “crisi” che ciclicamente scuotono l’economia capitalistica e delle soluzioni con le quali la borghesia le affronta. Illustra il problema, specificando quale esito producono le strategie capitalistiche di uscita dalle crisi economiche.
4. Illustra sinteticamente la condizione del proletariato tratteggiata da Marx nel Manifesto.
5. Spiega perché Marx sostiene nelle conclusioni del Manifesto che «l’esistenza della borghesia non è più compatibile con la società».
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