Il compito principale della psicologia sociale è di analizzare come l’attività mentale delle persone viene condizionata dalla realtà sociale.
In questa prima parte del modulo, i temi dell’attribuzione e degli errori d’attribuzione (tra i quali la tesi disposizionale del male) e dell’obbedienza all’autorità, presentati attraverso alcuni celebri esperimenti americani del dopoguerra.
Indice
1. Gli studi di psicologia sociale nel secondo dopoguerra
2. L’attribuzione e l’origine del male
2.1 Gli studi sull’attribuzione
2.2 Philip Zimbardo, L’origine del male e l’effetto Lucifero
2.2.1 La visione corrente del crimine come errore fondamentale d’attribuzione e l’ideologia della «tolleranza zero»
2.2.2 La psicologia del male e l’esperimento carcerario di Stanford
2.2.3 Concezione disposizionale e situazionale del male
2.2.4 L’esperimento carcerario e il silenzio trentennale di Zimbardo
3. L’esperimento Milgram e l’obbedienza all’autorità
3.1 Il reality francese del 2010
3.2 L’esperimento Milgram
3.2.1 Eteronomia e ridefinizione della situazione
3.3 Come resistere al tempo della barbarie
3.4 La rosa bianca e la necessità della resistenza
3.5 Obbedienza e disobbedienza in filosofia politica
4. Il caso di Kitty Genovese e l’effetto bystander (indifferenza dello spettatore)
1. Il caso di Kitty Genovese
2. L’ignoranza pluralistica e la diffusione di responsabilità
3. Ignoranza pluralistica ed effetto spettatore (bystander effect)
4. Inerti di fronte a un dramma: le risposte della psicologia sociale
1. Gli studi di psicologia sociale nel secondo dopoguerra
Gli studi di psicologia sociale sono stati fortemente influenzati dagli avvenimenti della seconda guerra mondiale, dopo la quale si trattava di capire, come scrisse Max Horkheimer, come erano stati possibili
«la persecuzione e lo sterminio meccanizzato di milioni di esseri umani in quella che era considerata la cittadella della civiltà occidentale» [Premessa agli studi sul pregiudizio, in T. W. Adorno et al., La personalità autoritaria, 1949].
Fondamentali sono stati gli studi che Theodor W. Adorno (Scuola di Francoforte) ed Else Frenkel-Brunswik (scuola psicanalitica viennese), entrambi fuggiti negli Stati Uniti per sottrarsi alla persecuzione antiebraica, svolsero negli Stati Uniti con un gruppo di psicologi sociali sulla formazione della personalità autoritaria, un tipo umano che teorizza e pratica la violenza nei confronti delle minoranze [gli ebrei, gli stranieri – o i migranti -, gli “zingari”, gli omosessuali, come un tempo gli eretici e le streghe], e sulle ragioni profonde di questa aggressività.
Quello di Adorno è uno dei lavori che ha aperto il campo di studi della psicologia sociale, utilizzando le scoperte della psicanalisi e gli studi freudiani sui meccanismi di difesa dell’io.
Importante anche il testo di Kurt Lewin, Resolving Social Conflict (1946), un punto di svolta delle ricerche in psicologia sociale che diventano più organiche e strutturate.
2. L’attribuzione e l’origine del male
2.1 Gli studi sull’attribuzione
La psicologia sociale studia il modo in cui le persone costruiscono il proprio punto di vista sulla base delle esperienze e dei condizionamenti sociali.
Uno dei concetti di base della psicologia sociale è che il significato che diamo alle cose è il prodotto di operazioni mentali fortemente condizionate dalle rappresentazioni e interpretazioni sociali.
Uno degli aspetti che entrano in gioco nella costruzione sociale del significato è l’attribuzione, cioè l’operazione mentale con cui una certa proprietà viene attribuita a qualcuno (cioè a un responsabile) o a qualcosa (ad alcune circostanze o cause); un meccanismo studiato particolarmente dallo psicologo viennese Fritz Heider.
Nel suo Psicologia delle relazioni interpersonali (1958), Heider ha analizzato la “psicologia del senso comune” o “psicologia ingenua”, intesa come un insieme di principi impliciti – per lo più inconsapevoli e inespressi – che vengono comunemente utilizzati per rappresentare l’ambiente sociale e che guidano l’azione degli individui.
Nella vita quotidiana noi ci formiamo delle idee sugli altri individui e sulle situazioni sociali, interpretiamo le azioni degli altri e cerchiamo di prevedere come si comporteranno in determinate circostanze.
Ci comportiamo, insomma, come scienziati ingenui, cioè soggetti che, in ogni circostanza, raccolgono i dati necessari alla conoscenza di un certo oggetto e giungono a conclusioni logiche sui fenomeni, cercando di controllarli. È su questa base che andiamo alla ricerca delle cause di quanto avviene attorno a noi, compiendo delle attribuzioni di causalità.
L’attribuzione causale è quel processo che le persone mettono in atto quando cercano spiegazioni per il proprio e per l’altrui comportamento, cioè quando inferiscono le cause che stanno dietro specifiche azioni.
Il primo problema da risolvere per comprendere le ragioni di un evento o per interpretare il comportamento di qualcuno, riguarda il locus della causalità, cioè il distinguere fra cause di natura ambientale (locus of control esterno) o di natura personale (locus of control interno), stabilendo anche se queste cause siano transitorie o permanenti.
Numerose ricerche hanno concluso che le persone non usano modelli dettagliati e formali, ma fanno attribuzioni in modo veloce e semplificato, servendosi di “scorciatoie” e compiendo spesso errori di attribuzione (biases).
Gli errori di attribuzione o biases sono delle modalità di giudizio distorte in maniera sistematica allo scopo di fornire agili schemi di azione agli individui.
Tra gli aspetti studiati da Heider, sono particolarmente importanti le sue osservazioni sul cosiddetto errore fondamentale d’attribuzione, cioè sulla tendenza generale del senso comune (o psicologia ingenua) a sottostimare il peso dei fattori situazionali e sovrastimare quello dei fattori disposizionali nel determinare i comportamenti della gente.
2.2 Philip Zimbardo, L’origine del male e l’effetto Lucifero
La mente è il proprio luogo, e può in sé fare un cielo dell’inferno,
un inferno del cielo.
John Milton, Paradiso perduto
2.2.1 La visione corrente del crimine come errore fondamentale d’attribuzione e l’ideologia della «tolleranza zero»
Un buon esempio di «errore fondamentale di attribuzione» (la sopravvalutazione della responsabilità individuale e la corrispondente sottovalutazione delle cause ambientali nell’attribuzione delle cause di un fenomeno) che, secondo lo psicologo sociale Fritz Heider, caratterizza il modo di pensare del senso comune (1958) è la visione corrente del crimine, fondata sull’idea che i comportamenti delinquenziali e la violenza siano il prodotto di volontà malate o perverse.
Secondo questo punto di vista, il male è commesso da criminali che scelgono di esserlo e nient’altro.
Si tratta di un’attribuzione ingenua che fa presa sul senso comune perché, oltre ad essere una forte semplificazione, rassicura le persone circa l’eccezionalità del male e la sua presenza solo in certe persone (i criminali) e in certi ambienti (ad esempio, le periferie degradate), permettendo agli individui di proiettare il male sull’altro [vedi la lezione sulla psicanalisi, in particolare la sesta videolezione sui meccanismi di difesa dell’io], conservando una buona immagine di sé (l’esecrazione del comportamento altrui si conclude implicitamente con un «io non mi macchierei mai di un simile misfatto»).
Questo atteggiamento nei confronti del crimine è comune in società individualiste come la nostra, ma ha anch’esso una storia, cioè momenti di successo e di declino nella nostra società.
Storico, da questo punto di vista, è il discorso del 14 ottobre 1982 con cui Ronald Reagan annunciava la nuova politica criminale della propria amministrazione, rendendo familiare lo slogan della “tolleranza zero” (che ha quintuplicato in trent’anni il tasso di carcerazione) e attaccando esplicitamente le scienze e i saperi storico-sociali:
«La crescita di una classe criminale senza scrupoli è stata in parte il risultato di una filosofia sociale sbagliata, che in modo utopico considera l’uomo come prodotto del suo ambiente, mentre la trasgressione è vista sempre come conseguenza di condizioni socio-economiche svantaggiate.
Questa filosofia predica che dove si verifica un crimine è responsabile la società, non l’individuo. Ma il popolo americano sta finalmente riaffermando alcune verità indiscutibili: il bene e il male esistono, gli individui sono responsabili delle proprie azioni, il male è spesso frutto di una scelta, e la pena deve essere certa e immediata per chi si fa strada a danno degli innocenti».
2.2.2 La psicologia del male e l’esperimento carcerario di Stanford
Di psicologia del male si è occupato Philip Zimbardo, uno psicologo americano figlio di immigrati siciliani cresciuto nel Bronx, che ha raccolto trent’anni di ricerche iniziate con l’esperimento carcerario di Stanford del 1971 in Effetto Lucifero (The Lucifer Effect), testo del 2007 dall’illuminante sottotitolo Undersanding How Good People Turn Evil [interamente accessibile in lingua originale nell’Internet Archive].
Zimbardo riassume il problema nel modo seguente:
L’idea che un abisso invalicabile separi le persone buone da quelle cattive è consolante per almeno due ragioni. Anzitutto, crea una logica binaria, in cui il Male è essenzializzato. La maggior parte di noi percepisce il Male come un’entità, una qualità intrinseca di certe persone e non di altre. Alla fine, un cattivo seme dà cattivi frutti, come mostra il loro destino…
Inoltre, sostenere che esiste una dicotomia Bene-Male assolve “le persone buone” dalla responsabilità. Le libera dal dover prendere anche soltanto in considerazione il loro possibile ruolo nel creare, difendere, perpetuare o ammettere le condizioni che contribuiscono alla delinquenza, al crimine, ai vandalismo, alle molestie, al bullismo, allo stupro, alla tortura, al terrore e alla violenza. “Così va il mondo, non si può fare granché per cambiario, e certo non posso farlo io”.
2.2.3 Concezione disposizionale e situazionale del male
Nelle società individualiste come la nostra è radicata la convinzione che i comportamenti siano sempre il risultato delle disposizioni interiori delle persone (locus interno), mentre si sottovaluta il peso che hanno le situazioni in cui queste si trovano ad agire nel determinare i loro comportamenti.
La tesi situazionale sostenuta da Zimbardo porta invece a considerare determinante la situazione sociale in cui l’individuo si viene a collocare e che può portare un individuo ad agire in modo anche radicalmente difforme a quelli che sono i suoi valori e comportamenti abituali.
2.2.4 L’esperimento carcerario di Stanford e il silenzio trentennale di Zimbardo
L’Esperimento carcerario di Stanford o Stanford Prison Experiment fu ideato e condotto da un team di psicologi guidati dal prof. Philip Zimbardo dell’Università di Stanford dal 14 al 20 agosto del 1971, con l’intento di studiare il condizionamento operato dalle istituzioni sul comportamento dell’individuo.
Zimbardo riprese alcune idee dello studioso francese del comportamento sociale Gustave Le Bon, in particolare la teoria della deindividuazione, la quale sostiene che gli individui che costituiscono una folla tendono a perdere l’identità personale, la consapevolezza, il senso di responsabilità e ad avere impulsi antisociali.
Tale processo fu analizzato da Zimbardo nel celebre esperimento, realizzato nell’estate del 1971 nel seminterrato dell’Istituto di psicologia dell’Università di Stanford, a Palo Alto, dove fu riprodotto in modo fedele l’ambiente di un carcere.
L’esperimento consisteva in una simulazione di vita carceraria condotta su 24 volontari che dovevano ricoprire i ruoli di prigionieri (12) e di guardie (12) per un periodo di 2 settimane.
Fra i 75 studenti universitari che risposero a un annuncio apparso su un quotidiano che chiedeva volontari per una ricerca, gli sperimentatori ne scelsero 24, maschi, di ceto medio, fra i più equilibrati, maturi, e meno attratti da comportamenti devianti [i volontari furono ulteriormente selezionati con la somministrazione di test psico-attitudinali per eliminare tutti coloro che potevano presentare problemi di personalità, comportamenti devianti e violenti ecc.]; furono poi assegnati casualmente al gruppo dei detenuti o a quello delle guardie.
Zimbardo impersonava il ruolo di direttore del carcere. I prigionieri furono obbligati a indossare ampie divise sulle quali era applicato un numero, sia davanti che dietro, un berretto di plastica, e fu loro posta una catena a una caviglia; dovevano inoltre attenersi a una rigida serie di regole.
Le guardie indossavano uniformi color kaki, occhiali da sole riflettenti che impedivano ai prigionieri di guardare loro negli occhi, erano dotate di manganello, fischietto e manette, e fu concessa loro ampia discrezionalità circa i metodi da adottare per mantenere l’ordine. Tale abbigliamento poneva entrambi i gruppi in una condizione di deindividuazione.
L’esperimento iniziò con la simulazione dell’arresto dei futuri prigionieri che furono prelevati dal dormitorio dell’Università di Stanford da una vera volante della Polizia che rispettò in ogni dettaglio ciò che accade realmente.
Zimbardo associò ad ogni ruolo dei simboli distintivi: i prigionieri vestivano una casacca numerata e fu loro posta una catena alla caviglia, così da preparare il terreno per un processo di deumanizzazione; alle guardie invece vennero consegnati dei simboli di potere quali uniformi anonimizzanti, occhiali a specchio (in modo da non poter essere guardati negli occhi), manganelli, fischietti e manette. Ai carcerieri fu concessa un’alta discrezionalità circa i metodi da adottare per mantenere l’ordine.
Dopo solo due giorni si verificarono i primi episodi di violenza: i detenuti si strapparono le divise di dosso e si barricarono all’interno delle celle inveendo contro le guardie che reagirono iniziando opere di intimidazione e umiliazione, cercando di spezzare il legame tra i prigionieri.
Questi vennero costretti a pulire le latrine a mani nude, a defecare in secchi che non avevano il permesso di svuotare, a simulare atti di sodomia, a cantare canzoni oscene e spesso venivano denudati. I detenuti tentarono di evadere e tale fuga venne sventata con difficoltà dalle guardie e dal direttore del carcere (Zimbardo).
Dopo 36 ore, delle crisi di nervi colpirono i prigionieri e uno di essi sentì la necessità di lasciare la sperimentazione.
Dopo 5 giorni i detenuti mostrarono sintomi evidenti di disgregazione individuale e collettiva: erano docili e passivi e il rapporto con la realtà si stava deteriorando, mostravano seri disturbi emotivi. L
e guardie continuarono a praticare comportamenti vessatori e sadici dimostrando un distacco dalla realtà anche nel loro ruolo.
Sia le guardie che i prigionieri si erano identificati in maniera forte e impressionante al proprio ruolo tanto che pur soffrendo, questi ultimi non presero in considerazione l’idea di lasciare l’esperimento ma continuarono a rimanere nella prigione intraprendendo continui tentativi di evasione.
Dati gli esiti drammatici, al sesto giorno Zimbardo decise di interrompere l’esperimento con grande sollievo dei prigionieri, ma rammarico da parte delle guardie [qui il racconto delle giornate].
Il problema da cui partiva Zimbardo può essere riassunto nella domanda:
Come è possibile che una persona abitualmente corretta, giunga a comportarsi in modo crudele in determinate circostanze?
A tale domanda, Zimbardo rispose che
«il male è l’esercizio del potere sugli altri in una situazione in cui non ci si sente responsabili delle proprie azioni».
Zimbardo sostenne che la trasformazione che avviene in un individuo e lo porta a commettere azioni mostruose, da lui chiamata Effetto Lucifero, è il risultato dell’interazione tra fattori disposizionali, situazionali e sistemici:
Individui dotati di scarso spirito critico e tendenti al conformismo, possono esercitare un potere violento sugli altri semplicemente calandosi in ruoli a cui attenersi, contando sul fatto che in società questo è considerato lecito, o giusto o inevitabile.
Secondo Zimbardo, l‘Effetto Lucifero scatta in un sistema politico-economico fortemente ideologizzato, burocratizzato e retto da un rigoroso sistema gerarchico e funzionale, determinando situazioni che fungono da bed barrel (contenitore malvagio) in cui gli individui si trasformano in “mele marce”, adottando un comportamento efferato, differente da quello abituale.
La dinamica è la seguente:
1. Deindividuazione (o anonimizzazione): il comportamento dell’individuo non è più espressione della sua personalità ma del suo essere parte di un gruppo.
La persona che si trova in questa condizione non si sente più responsabile delle sue azioni in quanto la sua condotta è dettata dalle norme della situazione specifica in cui agisce e non dalle proprie norme interne.
2. Deumanizzazione (o despecificazione): si relega in una sfera sub-umana l’individuo appartenente a un gruppo esterno, che viene ridotto al rango di oggetto o di essere inferiore.
In questo modo viene meno il legame di di empatia con l’altro e anche il senso di colpa viene disinnescato. Questo facilita l’esecuzione di atti di violenza nei confronti della “vittima”.
3. Conformismo: tendenza, per bisogno di approvazione, ad allineare totalmente il proprio comportamento a quello della maggioranza anche quando questa si caratterizza per una condotta riprovevole in base agli stessi parametri del soggetto che ad essa si adegua (esperimento di Asch).
4. Eterodirezione: allentamento o rimozione della responsabilità individuale che si ottiene in quanto l’individuo interpreta il suo comportamento non come proprio, ma come diretto dalle norme a lui esterne e imposte dalla situazione e/o dalla struttura gerarchica o funzione nella quale si trova inserito (esperimento di Zimbardo e di Milgram).
5. Obbedienza: propensione a sottomettersi agli ordini, anche immorali, di figure istituzionali dotate di autorità o status elevato in un determinato contesto gerarchico e/o funzionale (esperimento di Milgram).
6. Diffusione della responsabilità: il venire meno del dovere di intervenire dinanzi a una emergenza laddove siano presenti altri potenziali soccorritori, con i quali, per l’appunto, si divide la responsabilità e che conduce all’inazione o indifferenza (il caso Genovese).
In conclusione, Zimbardo sottolinea il peso del sistema nel determinare l’effetto Lucifero.
La condizione di normalizzazione della violenza e la deumanizzazione dell’altro e di se stessi, sono il risultato delle situazioni, sono queste che creano le mele marce e non il contrario. Le situazioni sono prodotte dal contesto e sono i cattivi sistemi che creano le cattive situazioni, pertanto i cattivi comportamenti non sono il risultato del comportamento di mele marce:
i sistemi forniscono il supporto istituzionale, l’autorità e le risorse che permettono alle situazioni di funzionare.
La causa da cui dipendevano i comportamenti degli individui in tali esperimenti è dunque da ricercare nelle “variabili situazionali” e non nella disposizione a commettere atti crudeli da parte delle persone.
Conclusioni
Secondo l’opinione di Philip Zimbardo, la prigione finta, nell’esperienza psicologica vissuta dai soggetti di entrambi i gruppi, era diventata una prigione vera.
Assumere una funzione di controllo sugli altri nell’ambito di una istituzione come quella del carcere, assumere cioè un ruolo istituzionale, induce ad assumere le norme e le regole dell’istituzione come unico valore a cui il comportamento deve adeguarsi, induce cioè quella “ridefinizione della situazione” utilizzata anche da Stanley Milgram per spiegare le conseguenze dello stato eteronomico (assenza di autonomia comportamentale) sul funzionamento psicologico delle persone.
Il processo di deindividuazione induce una perdita di responsabilità personale, ovvero la ridotta considerazione delle conseguenze delle proprie azioni, indebolisce i controlli basati sul senso di colpa, la vergogna, la paura, così come quelli che inibiscono l’espressione di comportamenti distruttivi. La deindividuazione implica perciò una diminuita consapevolezza di sé, e un’aumentata identificazione e sensitività agli scopi e alle azioni intraprese dal gruppo: l’individuo pensa, in altri termini, che le proprie azioni facciano parte di quelle compiute dal gruppo.
L’ipotesi dello psicologo accentua e per certi aspetti estremizza quella di Milgram [vedi il paragrafo seguente] sulla forza del controllo in presenza di fattori predisponenti, quali la mancanza di senso critico e la propensione all’obbedienza.
Qui il sito (in italiano) dell’esperimento di Stanford.
Altre emergenze sociali da indagare
I frequenti casi di maltrattamenti agli anziani nelle case di riposo e sui bambini negli asili e nelle scuole materne e primarie, ci interrogano quanto le prigioni.
Maltrattamenti sugli anziani
Maltrattamenti sui bambini a scuola
Documenti e riflessioni sull’origine del male
Umberto Galimberti, Cattivi
Rudolf Hoess, Lettera al figlio
Test Kahoot
3. L’obbedienza all’autorità e l’esperimento di Stanley Milgram
Uno dei celebri esperimenti della psicologia sociale americana degli anni ’60, è stato quello in cui Milgram mostrò che l’obbedienza all’autorità davanti a ordini ingiusti o immorali dipende «dalla ridefinizione del significato della situazione» che porta il soggetto ad «accettare la situazione proposta dall’autorità», riconosciuta come legittima.
Figlio di ebrei fuggiti dall’Europa durante la seconda guerra mondiale, l’esperimento aveva per Milgram il significato personale di una ricerca delle ragioni della collaborazione dei tedeschi allo sterminio degli ebrei.
3.1 Il reality francese del 2010
Nel marzo 2010 è scoppiato il caso del reality, messo in onda da France 2, nel quale ad un gruppo di spettatori era stato chiesto di punire con scariche elettriche fino a 460 volts i concorrenti che avevano fornito una risposta sbagliata. Il canovaccio del programma era basato sul celebre esperimento del 1961 con cui Milgram aveva cercato di capire le dinamiche del conformismo e dell’obbedienza all’autorità.
Il regista ha difeso il reality, sostenendo di aver voluto attirare l’attenzione su quanto Stanley Milgram aveva osservato a suo tempo, ovvero quanto sia drammaticamente facile ottenere obbedienza in determinate circostanze:
È molto difficile uscire da un contesto – spiega il regista – saper dire di no non si improvvisa: nessuno nasce resistente o obbediente dalla nascita.
È questa la lezione della psicologia sociale. Perché la storia non si ripeta dobbiamo coltivare gli anticorpi dell’autonomia e dell’indipendenza intellettuale. I dati esibiti da questo reality mostrano che le nostre società sono molto lontane dall’obiettivo.
3.2 L’esperimento Milgram
Nel celebre esperimento del 1961 di cui si sta parlando, il ricercatore dell’Università di Yale Stanley Milgram selezionò un gruppo di individui a cui fu comunicato che avrebbero collaborato, dietro ricompensa, a un esperimento sulla memoria e sugli effetti dell’apprendimento.
L’obiettivo dello studioso era in realtà studiare il comportamento di individui a cui un’autorità chiede di compiere azioni contrarie ai propri principi. L’esperimento era cominciato tre mesi dopo l’inizio del processo a Gerusalemme contro Adolph Eichmann e, davanti al profilo grigio e burocratico del criminale nazista, Milgram si chiedeva infatti
«se fosse possibile che Eichmann e i suoi milioni di complici stessero semplicemente obbedendo a degli ordini» [S. Milgram, Obedience to Authority, 1974]
Nella fase iniziale della prova, lo sperimentatore, insieme a un complice, assegnava con un sorteggio truccato i ruoli di “allievo” e di “insegnante”: il soggetto ignaro era sempre sorteggiato come insegnante e il complice come allievo. I due soggetti venivano poi condotti nelle stanze predisposte per l’esperimento.
L’insegnante (soggetto ignaro) era posto di fronte al quadro di controllo di un generatore di corrente elettrica, composto da 30 interruttori a leva posti in fila orizzontale, sotto ognuno dei quali era scritto il voltaggio, dai 15 V del primo ai 450 V dell’ultimo. Sotto ogni gruppo di 4 interruttori apparivano le seguenti scritte: (1-4) scossa leggera, (5-8) scossa media, (9-12) scossa forte, (13-16) scossa molto forte, (17-20) scossa intensa, (21-24) scossa molto intensa, (25-28) attenzione: scossa molto pericolosa, (29-30).
All’insegnante era fatta percepire la scossa relativa alla terza leva (45 V) in modo che si rendesse personalmente conto che non vi erano finzioni e gli venivano precisati i suoi compiti come segue:
1. Leggere all’allievo coppie di parole, per esempio: “scatola azzurra”, “giornata serena”;
2. Ripetere la seconda parola di ogni coppia accompagnata da quattro associazioni alternative, per esempio: “azzurra – auto, acqua, scatola, lampada”;
3. Decidere se la risposta fornita dall’allievo era corretta;
4. Nel caso fosse sbagliata, infliggere una punizione, aumentando l’intensità della scossa a ogni errore dell’allievo.
Quest’ultimo veniva legato ad una specie di sedia elettrica e gli era applicato un elettrodo al polso, collegato al generatore di corrente posto nella stanza accanto. Doveva rispondere alle domande, e fingere una reazione con implorazioni e grida al progredire dell’intensità delle scosse (che in realtà non percepiva), fino a che, raggiunti i 330 V, non emetteva più alcun lamento, simulando di essere svenuto per le scosse precedenti.
Lo sperimentatore aveva il compito, durante la prova, di esortare in modo pressante l’insegnante:
«l’esperimento richiede che lei continui», «è assolutamente indispensabile che lei continui», «non ha altra scelta, deve proseguire».
Il grado di obbedienza fu misurato in base al numero dell’ultimo interruttore premuto da ogni soggetto prima di interrompere la prova. Al termine dell’esperimento i soggetti furono informati che la vittima non aveva subito alcun tipo di scossa, che il loro comportamento era stato del tutto normale, che anche tutti gli altri partecipanti avevano reagito in modo simile.
Contrariamente alle aspettative, nonostante i 40 soggetti dell’esperimento mostrassero sintomi di tensione e protestassero verbalmente, una percentuale considerevole obbedì pedissequamente allo sperimentatore.
3.2.1 Eteronomia e ridefinizione della situazione
Questo stupefacente grado di obbedienza, che ha indotto i partecipanti a violare i propri principi morali, è stato spiegato in rapporto ad alcuni elementi, quali l’obbedienza indotta da un’autorità considerata legittima, la cui autorità induce uno stato eteronomico, caratterizzato dal fatto che il soggetto non si considera più libero di intraprendere condotte autonome, ma strumento per eseguire ordini.
I soggetti dell’esperimento non si sono perciò sentiti moralmente responsabili delle loro azioni, ma esecutori dei voleri di un potere esterno.
Alla creazione di questo stato eteronomico concorrono tre fattori:
– percezione di legittimità dell’autorità (nel caso in questione lo sperimentatore incarnava l’autorevolezza della scienza);
– adesione al sistema di autorità (l’educazione all’obbedienza fa parte dei processi di socializzazione);
– le pressioni sociali (disobbedire allo sperimentatore avrebbe significato metterne in discussione le qualità oppure rompere l’accordo fatto con lui).
Il grado di obbedienza all’autorità variava però sensibilmente in relazione a due fattori: la distanza tra insegnante e allievo e la distanza tra soggetto sperimentale e sperimentatore.
Furono infatti testati quattro livelli di distanza tra insegnante e allievo: nel primo l’insegnante non poteva osservare né ascoltare i lamenti della vittima; nel secondo poteva ascoltare ma non osservare la vittima; nel terzo poteva ascoltare e osservare la vittima; nel quarto, per infliggere la punizione, doveva afferrare il braccio della vittima e spingerlo su una piastra. Nel primo livello di distanza, il 67% dei soggetti andò avanti sino alla scossa più forte; nel secondo livello il 62,5%; nel terzo livello il 40%; nel quarto livello il 30%.
Con questo esperimento Milgram dimostrò che l’obbedienza dipende anche dalla ridefinizione del significato della situazione.
Ogni situazione è infatti caratterizzata da una sua ideologia (cioè da un insieme di attribuzioni) che definisce e spiega il significato degli eventi che vi accadono, e fornisce la prospettiva grazie alla quale i singoli elementi acquistano coerenza.
La coesistenza di norme sociali contrastanti (da una parte quelle che inducono a non utilizzare la forza e la violenza e dall’altra quelle che prevedono una reazione aggressiva a certi stimoli) fa sì che la probabilità di attuare comportamenti aggressivi venga di volta in volta influenzata dalla percezione individuale della situazione che determina quali norme siano pertinenti al contesto e debbano pertanto essere seguite.
Dal momento che il soggetto accetta la definizione della situazione proposta dall’autorità, finisce col ridefinire un’azione distruttiva, non solo come ragionevole, ma anche come oggettivamente necessaria.
Le numerose ricerche che hanno successivamente utilizzato il paradigma di Milgram, hanno tutte pienamente confermato i risultati ottenuti dallo studioso, che sono stati ampiamente discussi anche nell’ambito di quel cospicuo filone di studi interessati a ricostruire i fattori che hanno reso possibile lo sterminio ad opera dei nazisti.
Lo stesso esperimento di Milgram, figlio di ebrei fuggiti dall’Europa occupata dai nazisti, si inserisce in questo quadro. Fu, infatti, tra i migliori contributi alla comprensione di cosa avesse spinto i cittadini di uno dei paesi più colti e civili del mondo a seguire un capo, collaborando al massacro dei propri concittadini. Nel video seguente una ripetizione recente dell’esperimento con risultati simili a quello del 1963.
Meravigliosa scena in cui Hanna Arendt spiega, da intellettuale ebrea, in cosa consiste "La Banalità del Male".
Publiée par ilmiolibro.it sur Vendredi 30 septembre 2016
Come si è anticipato, risposte importanti su questo sono venute da Adorno nella sua inchiesta su La personalità autoritaria: rifiuta di obbedire ad un comando immorale l’individuo autonomo, capace di senso critico e indipendenza di giudizio. Solo questa condizione permette infatti di opporre alla pressione dell’autorità un’interpretazione divergente del frame ideologico che questa comunica.
3.4 La rosa bianca e la necessità della resistenza
[Dal secondo volantino, di Hans Scholl e Alexander Schmorell]
E’ questo forse il segno che i tedeschi si sono imbarbariti nei loro più elementari sentimenti umani,
che nessuna corda vibra in loro stridendo alla vista di tali azioni,
che sono ormai sprofondati in un sonno mortale da cui nessun risveglio sarà mai possibile.
Così sembra e così certamente sarà se i tedeschi non si sveglieranno da questa indifferenza,
se non protesteranno dovunque essi possano contro questa cricca di criminali,
se non parteciperanno al dolore di queste centinaia di migliaia di vittime
e non solo essi devono provare compassione per loro ma molto di più:
devono sentirsi corresponsabili.
Infatti è soltanto a causa del loro comportamento apatico
che pochi uomini malvagi hanno la possibilità di agire così.
Essi sopportano questo governo che si è macchiato di una colpa infinitamente grande
non solo, ma essi sono anche colpevoli che un tale governo si sia potuto instaurare.
Ciascuno è colpevole, colpevole, colpevole.
Hume notava che «la libertà non si perde tutta in una volta», e quel che vale per la libertà vale anche per la dignità e la giustizia. E siccome il prezzo della libertà è l’eterna vigilanza, uomini pronti a pagare di persona per la denuncia dell’ingiustizia, rappresentano il sale della terra.
“Come resistere al tempo della barbarie”, è stato il titolo della puntata del 9 novembre 2014 di Uomini e profeti, condotta da Gabriella Caramore, purtroppo non più reperibile.
3.5 Obbedienza e disobbedienza in filosofia politica
Con la frattura della cristianità, tra cinque e seicento, sia sul fronte protestante che su quello cattolico si riflette sull’obbedienza e sulla legittimità della ribellione.
Mentre infuriavano le guerre di religione, i calvinisti francesi teorizzano la sovranità popolare e la legittimità della ribellione e del tirannicidio. Spettatore terzo del conflitto religioso, Étienne de La Boétie scrive il Discorso della servitù volontaria, una riflessione classica sulla rinuncia degli uomini alla libertà e la loro sottomissione ad un sovrano.
Il problema posto da La Boétie, ovvero quello della scelta di servire, il cattivo incontro con la sottomissione che caratterizza la vita associata, è stato ripreso in antropologia da Pierre Clastres il quale, ne La socièté contre l’État, ha notato come alcune società tradizionali, come quelle degli uomini «senza fede, senza legge e senza re» incontrati dai conquistadores, abbiano concepito la loro vita comune in modo totalmente alternativo.
Un altro saggio fondamentale è Disobbedienza civile (Civil Disobedience) scritto da Henry David Thoreau nel 1849 in cui l’autore parla espressamente di disobbedienza civile; un testo destinato ad ispirare, successivamente, le battaglie per i diritti civili dei neri e la lotta per l’indipendenza indiana di Mohandas K. Gandhi.
Di fatto, non è dovere di un individuo dedicarsi all’estirpazione del male, anche del più grande; giustamente, egli potrebbe avere altre faccende che lo occupano; ma è suo dovere, almeno, tenersene fuori e, se non vi pensa oltre, non dargli il suo supporto praticamente. H. D. Thoreau, Civil Disobedience.
Così, infatti, Gandhi teorizza la resistenza passiva:
Noi cessiamo di collaborare coi nostri governanti quando le loro azioni ci sembrano ingiuste. [M. K. Gandhi, Teoria e pratica della nonviolenza].
In Italia fece scandaolo il saggio del 1965 L’obbedienza non è più una virtù di Don Lorenzo Milani, che sosteneva l’obiezione di coscienza contro il servizio militare.
Henri David Thoreau, Disobbedienza civile
4. Il caso di Kitty Genovese e l’indifferenza dello spettatore
Le orribili circostanze dell’omicidio di Kitty Genovese, avvenuto nel Qeens di New York nel 1964, avviarono le ricerche sull’indifferenza del passante e l‘effetto spettatore.
1. Il caso di Kitty Genovese
La ventinovenne italo-americana Catherine Susan Genovese fu uccisa alle tre di notte del 13 marzo 1964, mentre tornava a casa dopo la chiusura del bar in cui lavorava.
Il suo assassino le inferse due coltellate alla schiena e si allontanò quando da una finestra qualcuno rispose alle grida della donna urlando di lasciarla in pace. Mentre Kitty cercava di raggiungere strisciando il proprio appartamento, l’uomo tornò indietro per accoltellarla nuovamente e rubarle il portafoglio, quindi mentre la ragazza era ormai agonizzante, la violentò. La durata complessiva dell’aggressione fu di circa mezz’ora.
Pochi minuti dopo la fine dell’aggressione, un testimone chiamò la polizia. Kitty Genovese fu portata in Ospedale da un’ambulanza, ma morì durante il tragitto. Due settimane dopo l’omicidio, il New York Times dedicò uno scandalizzato articolo ai fatti titolandolo 37 Who Saw Murder Didn’t Call the Police, per sottolineare che, tra le trentotto persone che avevano udito le grida d’aiuto di Kitty, solo una aveva cercato soccorso. L’articolo si apriva con l’osservazione che
Per più di mezz’ora trentotto rispettabili cittadini, rispettosi della legge, hanno osservato un killer inseguire e accoltellare una donna in tre assalti separati a Kew Gardens,
ed evidenziava inorridito che uno dei testimoni « aveva alzato il volume della radio per non sentire le urla della Genovese », mentre un altro aveva visto la prima aggressione, ma non aveva chiamato la Polizia per non « restare coinvolto ».
Le indagini disposte dalla polizia e dal pubblico ministero rivelarono che approssimativamente una dozzina di persone (invece di trentotto) avevano avuto modo di udire o vedere momenti dell’aggressione dell’attacco e che almeno due si erano rese conto che la ragazza era stata pugnalata.
Il servizio del New York Times diede avvio a una serie di ricerche di psicologia sociale sull’effetto bystander (effetto spettatore), tra le quali quelle di Bibb Latané e John Darley indagarono le ragioni per cui non sempre le persone intervengono di fronte alle emergenze.
I risultati dei loro studi, pubblicati nel libro The unresponsive bystander: Why doesn’t he help?, portarono all’elaborazione di concetti come l’ignoranza pluralistica e la diffusione di responsabilità.
2. L’ignoranza pluralistica e la diffusione di responsabilità
Latané e Darley parlarono dell’ignoranza pluralistica come di un processo che coinvolge le persone quando sono in un gruppo.
Davanti a un evento ambiguo, ciascuno pensa che gli altri abbiano più informazioni sulla situazione e si pongono in osservazione del comportamento altrui per cercare di interpretarlo, paralizzando (in molti casi) l’azione.
A causa dell’ignoranza pluralistica le persone tendono a conformarsi a quella che percepiscono come opinione consensuale invece che agire in base alle proprie percezioni e convinzioni.
In un esperimento del 1970, Latané e Darley dimostrarono come le informazioni utilizzate da un soggetto per definire un evento insolito non derivino soltanto dall’osservazione diretta da parte del soggetto stesso, ma anche dal comportamento delle altre persone che assistono alla scena.
L’esperimento prevedeva la convocazione di alcuni studenti in una sala d’aspetto per compilare un questionario. Come condizione variabile era prevista la presenza di un solo soggetto ignaro, la presenza di più soggetti ignari o la presenza di un soggetto ignaro e due complici. Mentre i partecipanti erano concentrati nel rispondere alle domande un fumo bianco veniva fatto uscire da una fessura sotto la porta cominciando a riempire la stanza.
Quando i soggetti sperimentali erano soli, entro i primi minuti uscivano in corridoio per avvertire qualcuno. Nei casi in cui erano in gruppo, invece, soltanto il 38% di loro cercava di avvisare qualcuno entro i primi 6 minuti, percentuale che non mutava nel caso in cui nella stanza ci fossero soltanto soggetti ignari oppure i complici debitamente istruiti a fingere disinteresse per quanto avveniva intorno a loro.
3. Ignoranza pluralistica ed effetto spettatore (bystander effect)
L’ignoranza pluralistica può parzialmente spiegare l’effetto spettatore ossia il fatto che le persone siano più propense a intervenire in una situazione di emergenza quando sono sole.
Siccome i soggetti osservano le reazioni degli altri, anche in situazioni di emergenza possono concludere dall’inazione altrui che non sia necessario intervenire. Ciò può comportare che nessuno intervenga sebbene, a livello individuale, qualcuno pensi che sarebbe giusto farlo. D’altra parte, nel caso in cui qualcuno intervenga gli altri sono più propensi a imitarlo e aiutarlo.
4. Inerti di fronte a un dramma: le risposte della psicologia sociale
L’articolo seguente sull’indifferenza del passante è stato scritto all’indomani dell’aggressione di una donna rumena nella metropolitana di Roma da parte di un uomo. Pubblicato su La Stampa del 19 ottobre 2010.
Niente ferisce di più dell’indifferenza degli altri verso chi è in difficoltà. Lo sapeva bene Madre Teresa che raccoglieva feriti, malati, moribondi, abbandonati per strada, pressoché invisibili agli occhi di tutti. Era quella la prima ferita da lenire, con un abbraccio, una carezza silenziosa, prima ancora del dolore fisico o dei morsi della fame o della sete.
La stessa ferita che strazia i familiari di Maricica Hahaianu – la donna romena di 32 anni colpita da un pugno in faccia, sferrato da un giovane durante una colluttazione seguita ad un banale diverbio, e stramazzata a terra priva di sensi, venerdì 8 ottobre 2010 alla stazione Anagnina della metropolitana di Roma e scuote gli spettatori che hanno visto il filmato dell’aggressione risultata fatale per la donna. Il video mostra i passanti che fanno finta di niente, svicolando a passo svelto.
Passerà almeno un minuto prima che qualcuno “decida” di fermarsi e chiamare i soccorsi. Solo l’aggressore che si allontana incurante viene bloccato prontamente da un sottufficiale della Capitaneria di porto in borghese che ha assistito a tutta la scena: la lite, il pugno e il tonfo del corpo della donna che cade.
Perché è così difficile entrare in contatto con un estraneo che in quel momento è esanime, per terra? I risultati di alcune ricerche nel campo della psicologia sociale indicano che si tratta proprio di un processo decisionale, una scelta consapevole tra diverse e a volte contrastanti opzioni. Le forze situazionali, più di altre, condizionano il nostro comportamento. In che modo si combinano? Possiamo difendercene?
Le ricerche in questione presero le mosse da un fatto di cronaca avvenuto a New York il 13 marzo 1964 che destò molto scalpore ed un coro di polemiche sull’insensibilità di coloro che avevano modo di sentire o di vedere momenti diversi di una aggressione: alle tre del mattino, di ritorno dal lavoro, Kitty Genovese viene accoltellata. Ancora viva, disperata, chiede aiuto. Molti la sentono. Si accendono le luci negli appartamenti vicini. L’aggressore scappa. Ma nessuno interviene. A questo punto l’aggressore ritorna, la violenta. Kitty morirà mentre viene portata in ospedale.
A partire dal dramma di Kitty, due psicologi sociali, John Darley e Bibb Latané avviarono uno studio sperimentale, ricreando in laboratorio delle situazioni di emergenza. I risultati mostrarono che la maggior parte dei partecipanti all’esperimento era soggetta a forti dinamiche situazionali che avevano ostacolato il comportamento di aiuto. La variabile più importante sembra essere la diffusione della responsabilità (ci si sente meno in dovere di intervenire qualora siano presenti altri potenziali soccorritori).
Ciò “mette in crisi la convinzione – radicata trasversalmente nelle varie culture – secondo cui, trovandoci in difficoltà, un elevato numero di astanti assicurerebbe una maggiore probabilità di ricevere aiuto – commenta Piero Bocchiaro, psicologo sociale formatosi alla Stanford University, nel saggio Psicologia del male (Editori Laterza). E’ sorprendente inoltre scoprire che non c’è alcuna differenza tra maschi e femmine nel soccorrere una vittima”.
E cosa prova chi non ha soccorso una donna sapendo che avrebbe potuto? Lo psicologo Albert Bandura individua dei dispositivi mentali di “sicurezza” che realizzano una sorta di disimpegno morale e liberano dal senso di autocondanna. Meccanismi psicologici difensivi quali la diffusione della responsabilità (che spiegherebbe anche il maggior numero di episodi di mancato soccorso registrati nelle grandi città rispetto ai piccoli centri); distorsione delle conseguenze (il video della stazione della metropolitana di Roma mostra che coloro che non hanno prestato soccorso potevano anche essere caduti in un equivoco perché avevano visto solamente una donna a terra e non la colluttazione che ha preceduto il pugno in pieno volto.
O non si sono rese conto della gravità delle condizioni della donna); attribuzioni di colpa (attribuire alla vittima la colpa dell’accaduto, come frasi del tipo “l’aggressore è stato provocato ed è stata la sua vittima a cercarsi i guai”. In particolare, l’aggressore può reinterpretare il suo comportamento come reazione obbligata ad un torto vero o presunto, ritenendosi bersaglio di un evento minaccioso.
Esaminiamo adesso l’incidente di Mario M, un uomo di mezza età, caduto, forse per uno sbandamento provocato dal caldo o da un improvviso colpo di sonno, dalla propria moto. E’ un pomeriggio domenicale di estate in una grande città.
Poca gente in giro. Una cosa scomposta si muove debolmente sul ciglio della strada. Sembra un fagotto di stracci. Le auto e gli autobus gli scorrono attorno, qualcuno lo guarda indifferente senza fermarsi. Ad un certo punto giunge una donna, Anna S. alla guida di un’auto: rallenta, osserva con attenzione quel mucchio indistinto, riconosce una mano e frena per fermarsi. Anna è una psicologa che sta tornando dal mare, con il figlio adolescente. Il figlio prova a protestare:
“Mamma, perché proprio tu? Non abbiamo tempo da perdere, sono stanco, ho sonno, voglio andare a casa”.
Ma la madre non lo ascolta.
“Io resto in macchina”,
dice deciso il ragazzo. La donna posteggia in una stradina laterale e corre verso l’uomo a terra. Vedendola arrivare, anche un altro passante si ferma, armeggia con il telefonino e chiama l’ambulanza. Ben presto intorno all’uomo si raccoglie un gruppetto di persone – parlano di lui ed in sua presenza, senza rivolgergli direttamente lo sguardo o la parola, come di un qualcosa che attrae ed allo stesso tempo quasi disgusta e ripugna, aspettando che giunga l’ambulanza – né lui osa rivolgersi a loro.
Per l’uomo a terra, isolato in un mondo estraneo e capovolto, il tempo sembra essersi fermato, mentre gli altri gli si agitano confusamente intorno. E’ pallidissimo, con lo sguardo attonito, la bocca socchiusa, la lingua scomposta tra i denti, ma non mostra segni evidenti di ferite. Tiene la mano sinistra raccolta sul petto, mentre l’altra è più rigida, forse dolorante.
La donna lo valuta attentamente: sembra più che altro confuso, scioccato, spaventato. Si siede accanto a lui sul ciglio della strada, lo guarda negli occhi, lo rassicura ripetendo più volte “Stia tranquillo”, poi avvicinando la sua mano alla mano sinistra di Mario gli dice “mi dia la mano”.
Lui esegue e quel contatto lo riconnette con il mondo. Riprende un colorito normale, alza il busto, sedendosi sul bordo della strada, a ridosso del marciapiede. Solo allora gli altri spettatori trovano il coraggio di parlargli direttamente. Anche Mario parla, risponde alle domande – cosa è successo, dove sente dolore – tutti sembrano animati dal desiderio di fare qualcosa, un uomo gli offre un bicchiere d’acqua, un altro sposta la moto di Mario in un angolo più riparato. Anna comprende che il peggio è passato, che può fare ritorno alla macchina dove il figlio la sta aspettando.
Ma chi è il soccorritore, questo “eroe”, spesso anonimo, che non può restare indifferente e varca la frontiera decisionale tra inerzia e azione? “Gli eroi sono in genere eroi della vita quotidiana, i quali in particolari situazioni si coinvolgono in azioni straordinarie – osserva Zimbardo, una delle figure più autorevoli della psicologia sociale contemporanea, nella prefazione al saggio di Bocchiaro.
“Si tratta naturalmente di minoranze, individui peraltro ancora poco noti alla psicologia”.
Negli esperimenti analizzati una minoranza di partecipanti agiva in modo opposto agli altri, intervenendo a favore della vittima.
“Possiamo affermare che qualcosa ha attivato in loro i canali dell’empatia, del pensiero critico, del senso di giustizia”, commenta Bocchiaro.
Seguendo la teoria dello sviluppo morale elaborata da Martin Hoffman, professore di psicologia alla New York University, nell’individuo adulto l’obbligo etico ad aiutare qualcuno in difficoltà nasce spontaneamente dall’interno come espressione di principi interiorizzati di cura, di giustizia.
Tuttavia “l’empatia trasforma i principi morali in cognizioni prosociali calde: rappresentazioni cognitive cariche di affetto empatico, e pertanto di forza motivazionale”. (Martin Hoffman, Empatia e sviluppo morale, il Mulino Saggi). La “sofferenza empatica” (l’affetto empatico suscitato direttamente dalla vittima) costituisce dunque la motivazione primaria che spinge all’azione, non consentendo di sottrarsi dalle responsabilità, e quasi “obbliga” ad intervenire concretamente in aiuto. “Non potevo sopportare di vederlo a terra come un oggetto” dirà Anna, commentando l’accaduto.
Al di là del valore speculativo, questi studi sono importanti per comprendere le motivazioni psicosociali dell’inazione, stigmatizzata come indifferenza, ma ancor di più a contrastarla, in modo da indurci ad aiutare il prossimo quando se presenterà l’occasione.
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