Un modulo di otto lezioni dedicato alla nascita e alla specificità della società moderna (o industriale, o capitalistica), concepite come una storia economica [ruolo delle tecnologie e delle leggi del mercato, passaggio da un’economia di sussistenza a un’economia di produzione], una storia sociale [nascita del proletariato urbano e della povertà come condizione sociale], una storia culturale [crisi dell’autorità, rivoluzione scientifica, astronomica, politica] e una storia politica [nascita dello stato moderno e definizione moderna dei concetti di libertà, uguaglianza, tolleranza, laicità, sovranità popolare, cittadinanza].
Indice
1. Introduzione alla modernizzazione
1.1 Un cambiamento sociale globale
1.2 Il concetto di modernizzazione
1.3 Il concetto di Occidente
2. Le enclosure e la trasformazione del paesaggio rurale inglese
2.1 Dall’economia di autoconsumo all’economia di produzione
2.2 Lo sfruttamento intensivo delle risorse della terra e l’aziendalizzazione delle fattorie
3. L’industrializzazione e i suoi costi sociali
3.1 Il sistema di fabbrica
3.2 Il macchinismo
3.3 La formazione del proletariato industriale e agricolo
3.4 La trasformazione dei settori produttivi
3.5 Le conseguenze sociali della rivoluzione industriale
4. I cambiamenti demografici
4.1 L’esplosione demografica
4.2 L’urbanizzazione
4.2.1 L’esodo rurale e la nascita della povertà
4.2.2 L’attrazione urbana
5. Le premesse culturali della modernizzazione
5.1 La diffusione della stampa: democratizzazione del sapere e crisi d’autorità della modernità
5.2 La rivoluzione scientifica e tecnologica
6. La visione del mondo della modernità
6.1 I cambiamenti culturali
6.2 I cambiamenti politici
6.3 I nuovi soggetti sociali della modernità
Esercizi sulle videolezioni: 1. Introduzione alla modernizzazione 2. Le enclosure 3. L’industrializzazione 4. I cambiamenti demografici 5. Le premesse culturali della modernità 6. La nuova visione della modernità 7. I cambiamenti politici 8. I nuovi soggetti sociali
1. Introduzione alla modernizzazione
1.1 Un cambiamento sociale globale
«Sessanta, ottant’anni fa, l’Inghilterra era un paese come tutti gli altri, con piccole città, poche e primitive industrie ed una rada, sebbene relativamente numerosa, popolazione agricola; oggi è un paese che non ha pari, con una capitale di due milioni e mezzo di abitanti, gigantesche città industriali, un’industria che rifornisce il mondo intero e che fabbrica quasi tutto con l’aiuto delle macchine più complesse, con una popolazione laboriosa, intelligente, densa, i due terzi della quale sono occupati nell’industria, e che è composta da classi radicalmente diverse, che costituisce anzi, una nazione del tutto diversa, con costumi e bisogni diversi da quelli di una volta» [F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, 1845, Roma, Editori Riuniti, 1978, IV ed., p. 47].
La modernizzazione è un processo di cambiamento che, avviatosi in Inghilterra nel 1500, ha interessato per alcuni secoli l’Occidente, ridefinendo completamente la fisionomia delle sue società.
Si tratta quindi un cambiamento sociale globale (ha investito tutti gli ambiti della vita individuale e sociale) che, come tale, può essere paragonato alla rivoluzione neolitica (il passaggio dall’economia di caccia e raccolta), sebbene sia stato molto più rapido di questa.
La consapevolezza che un cambiamento di questa portata interessava l’insieme dei rapporti sociali e la natura delle istituzioni economiche, politiche, culturali europee, cioè ciò che con un nuovo concetto venne chiamato società, fu una delle condizioni di sviluppo della nascente sociologia.
I padri fondatori della sociologia cercarono, infatti, di capire e di dare un nome a ciò che gli uomini comuni avvertivano come un cambiamento irresistibile e profondo: i termini impiegati per descriverlo furono industrializzazione, capitalismo e modernizzazione, appunto.
1.2 Il concetto di modernizzazione
In sociologia e nelle altre scienze sociali il termine “modernizzazione” si è imposto nella seconda metà del ’900, sostituendo le nozioni di “industrializzazione“ o “capitalismo“, dichiarate parziali o eccessivamente connotate in senso critico. L’industrializzazione è infatti uno dei cambiamenti che si registrano nella modernizzazione, ma non l’unico, mentre il concetto di capitalismo, coniato da Karl Marx, ha un ruolo centrale nella critica marxiana dell’economia politica.
Si è sostenuto che la nozione di modernizzazione ha il vantaggio di raccogliere tutte le grandi trasformazioni che hanno portato alle società moderne, nonostante il riconoscimento che il termine è di per sé equivoco, perché induce a pensare che le società “moderne” siano migliori o più progredite delle società tradizionali.
Anche il termine di modernizzazione è quindi connotato (cioè portatore non dichiarato di significati ulteriori rispetto all’oggetto denotato), perché suggerisce implicitamente l’idea di un progresso verso il meglio che la sociologia, in quanto scienza, non accoglie.
Un esempio nelle immagini a sinistra che ritraggono Nairobi, la moderna capitale del Kenia, dotata di grattacieli e impianti sportivi d’avanguardia, ma anche circondata da una delle periferie più degradate del mondo, lo slum (baraccopoli) di Kibera. Gli esempi sottostanti di drammatica diseguaglianza sono, invece, di Città del Messico.
1.3 Il concetto di Occidente
Si è detto che la modernizzazione ha riguardato le società occidentali. Modernizzazione ed Occidente sono concetti speculari, infatti, in sociologia si parla di Occidente non in senso geografico, ma per intendere la civiltà europea, in contrapposizione alle altre civiltà, cioè all’Oriente, all’Africa e, in generale, a tutto ciò che ha caratteristiche culturali alternative alla civiltà nata in Europa e diffusasi poi in altre aree del pianeta: Stati Uniti, Canada, Australia e Nuova Zelanda.
Planisfero
Le società nate dalla modernizzazione sono occidentali nel senso che sono europee o di derivazione europea. L’America del nord e l’Oceania sono infatti, storicamente, filiazioni dell’Europa, cioè mondi creati oltremare dagli europei che vi hanno attuato una colonizzazione di popolamento.
Quei territori non erano infatti densamente popolati e le popolazioni autoctone (cioè originarie del luogo) sono state emarginate o sterminate dai colonizzatori bianchi. Di conseguenza, gli europei ne sono diventati i nuovi abitanti e hanno trapiantato in queste aree la propria civiltà.
Altrove, ad esempio in Africa o in India, le cose sono andate diversamente. Lì le popolazioni indigene erano consistenti e i colonizzatori europei sono stati una minoranza dominante che ha riorganizzato sotto il segno della propria cultura (religione, diritto, lingua ..) le società locali. Si parla, in questo caso, di colonizzazione di inquadramento.
Avviene, quindi, una colonizzazione quando un gruppo etnico, indipendentemente dalla sua incidenza numerica sul totale degli abitanti di una regione, è in grado di esprimere un dominio di fatto (economico e politico) e imporre un’egemonia culturale sul gruppo o sui gruppi di residenti originari (autoctoni).
Ecco quindi perché, nonostante siano stati deportati nel continente americano dai dieci ai venti milioni di africani (a seconda delle stime), gli afroamericani non sono stati protagonisti di una colonizzazione dell’America, così come non lo furono le centinaia di migliaia di italiani che sbarcarono ad Ellis Island dall’unità d’Italia agli anni ’20 e ’30 del ’900.
E’ bene quindi tenere ben presenti il ruolo del dominio e dell’egemonia culturale nel fenomeno della colonizzazione, per saper leggere gli errori grossolani di cui si serve la propaganda politica: il manifesto ritratto sopra identifica infatti arbitrariamente l’immigrato con il colonizzatore.
2. Le enclosure e la trasformazione del paesaggio rurale inglese
2.1 Dall’economia di autoconsumo all’economia di produzione
La modernizzazione è un cambiamento drastico dell’insieme dei rapporti sociali, indotto da una radicale trasformazione economica e tecnologica.
Ciò che avviene, sul piano economico, è il passaggio dall’economia di autoconsumo prevalente nelle società preindustriali all’economia di produzione tipica, invece, dell’epoca industriale.
La differenza essenziale tra i due modelli consiste nel fatto che nelle economie non industriali la produzione è strettamente finalizzata al consumo dei produttori e non invece allo scambio delle merci per l’accumulazione di denaro come avviene nell’economia manifatturiera.
Per questa ragione, la modernizzazione si accompagna a un forte aumento della produttività e dei traffici commerciali che le vale, quindi, anche la definizione di economia di sviluppo.
2.2 Lo sfruttamento intensivo delle risorse della terra e l’aziendalizzazione delle fattorie
Il passaggio dalla società preindustriale alla società moderna ha visto importanti cambiamenti in agricoltura. La rivoluzione agraria è consistita nell’introduzione di innovazioni capaci di sostenere lo sfruttamento intensivo delle risorse della terra.
Nei millenni di storia precedente, i metodi di coltivazione erano rimasti quasi immutati, ad eccezione di alcuni miglioramenti introdotti nel Medioevo, come la rotazione triennale delle colture.
Con la modernizzazione migliorano, invece, le tecniche agrarie e vengono meccanizzati i processi di coltivazione, rendendo meno gravoso, ma anche meno indispensabile il lavoro dell’uomo.
La produttività del lavoro agricolo, conseguentemente, aumenta, perché per ricavare la stessa quantità di prodotto servono meno ore di lavoro.
Allo sviluppo dell’agricoltura moderna contribuisce l’esistenza di nuovi mezzi di trasporto che facilitano la distribuzione e la commercializzazione di derrate alimentari che iniziano ad essere consumate in luoghi lontani dalla produzione.
Decisiva è stata l’aziendalizzazione delle fattorie che comincia in Inghilterra già nel XVI secolo e che sostituisce la vecchia gestione del latifondo, introducendo anche in agricoltura lo spirito imprenditoriale e l’orientamento al commercio e al profitto.
La concorrenza e la conseguente concentrazione della proprietà fondiaria riducono la presenza dei contadini indipendenti e aumentano il numero dei lavoratori salariati (mezzadri, braccianti).
Il momento iniziale è quello delle enclosure, le recinzioni delle terre comuni, già descritto in termini drammatici da Thomas More come l’accorpamento di molti piccoli fondi agricoli e la creazione di pascoli a vantaggio della nascente industria tessile inglese.
La cacciata dei fittavoli dalle terre è all’origine della prima pauperizzazione delle classi popolari, vale a dire la creazione di una folla di nullatenenti privi di strumenti autonomi di sopravvivenza, perché solo una parte di questi ex-contadini è inizialmente riassorbita dalla manifattura.
La velocità e la vastità degli effetti della meccanizzazione del telaio, allarmò la stessa Elisabetta I che ne proibì l’utilizzo ed emanò la prima legge sui poveri (Old Poor Law, 1601) per soccorre e controllare le masse di vagabondi e disoccupati creati dalle enclosure.
La concentrazione della proprietà terriera rese però possibili miglioramenti delle pratiche agricole, quali la nuova rotazione delle colture, il miglioramento e in seguito la meccanizzazione degli strumenti di lavoro, la selezione delle sementi e degli animali ed altre ancora che aumentarono la produzione di alimenti di cui cresceva la domanda.
Con le enclosure e l’aziendalizzazione delle fattorie, la proprietà privata perde i vincoli antichi e medievali che la legavano all’utilità sociale [ne rimarrà traccia nelle carte costituzionali moderne, tra le quali la nostra (art. 41)] e diventa ciò che conosciamo oggi: un diritto di godimento sostanzialmente assoluto sulla cosa posseduta.
Thomas More, Utopia, I, 1516
Adriano Prosperi, Dalla proprietà comune alla proprietà privata;
Cristina Cecchi, Il Neolitico e l’origine della diseguaglianza, in «Micromega», 5 dicembre 2017
3. L’industrializzazione and his discontents
3.1 Il sistema di fabbrica
«La nuova industria trasformò gli utensili in macchine, le officine in fabbriche, la classe media lavoratrice in proletariato lavoratore e i grandi mercanti in fabbricanti» [Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, op. cit., p. 48].
Con la modernizzazione compare e si diffonde un’attività produttiva nuova: l’industria che entra in competizione e soppianta gradualmente l’artigianato (domestico e di bottega) (domestic system), il modo precedente di trasformare le materie prime in prodotti finiti (vestiti, attrezzi agricoli, armi ecc.) dal quale differisce per la diversa organizzazione del lavoro.
L’industria è infatti basata sul sistema di fabbrica (factory system) che consiste nella concentrazione di molti lavoratori nello stabilimento in precisi orari perché applichino il loro lavoro a macchinari che funzionano a forza motrice inanimata (ad acqua o vento, in seguito a vapore ed elettricità) secondo programmi tecnici e modi di produrre stabiliti.
La meccanizzazione riduce considerevolmente i tempi di realizzazione delle merci, aumenta la produzione, diminuisce i costi, standardizza i prodotti.
3.2 Il macchinismo
Con il cosiddetto macchinismo, la prevalenza della macchina sulla precedente guida umana del processo produttivo, il cambiamento è tale da essere indicato come (prima) rivoluzione industriale.
La produzione industriale comincia in Inghilterra nella prima metà del settecento per diffondersi poi in altri paesi europei.
Le prime industrie sono del settore tessile e nascono da innovazioni tecnologiche scoperte anche un secolo e mezzo prima, come la tessitrice meccanica (Stocking Frame), inventata da William Lee nel 1589, ma a cui la regina Elisabetta e poi ancora Giacomo I, negarono il brevetto per timore della disoccupazione tecnologica che avrebbe causato.
Anche le successive innovazioni tecnologiche vennero guardate con ostilità dagli operai a cui le macchine toglievano status e qualità del lavoro. Nel 1733 un ex operaio, John Kay applicò una spoletta mobile al braccio meccanico del telaio per allungare la pezza di stoffa prodotta che prima di questa innovazione non poteva superare la lunghezza del braccio dell’operaio. La modifica della macchina permetteva di produrre meglio e con meno forza lavoro: Kay sfuggì al linciaggio rifugiandosi in Francia.
La più celebre tra le invenzioni del settore tessile fu la Spinning Jenny, filatrice con più fusi, brevettata nel 1770, a cui venne applicata la forza idraulica (1769), poi il vapore (1785).
Seguì la Mule filatrice automatica ad acqua con 30 fusi (1779). Tra Ottocento e Novecento la produzione industriale si estese ai settori siderurgico, meccanico ed altri.
3.3 La formazione del proletariato industriale e agricolo
Ecco come, uno dei primi rapporti sociologici della modernizzazione, il saggio di Engels sulla condizione operaia del 1845 presenta le trasformazioni sociali della società moderna, dietro la spinta delle innovazioni tecnologiche e delle dinamiche dei prezzi:
La prima invenzione che provocò un profondo mutamento nella situazione dei lavoratori inglesi fu la jenny del tessitore James Hargreaves (1764).
Questa macchina fu il primo rudimento della mule, inventata più tardi; era messa in movimento a mano, ma invece di un solo fuso, come il consueto filatoio a mano, ne aveva da sedici a diciotto che venivano azionati da un solo operaio. In questo modo diventava possibile fornire filo in quantità notevolmente maggiore che per il passato; mentre prima, quando un tessitore teneva sempre occupate tre filatrici, non vi era mai filo pronto a sufficienza e spesso il tessitore doveva attendere questo filo, ora si aveva più filo di quanto ne potessero tessere gli operai disponibili.
La domanda di tessuti, che già era in aumento, salì ancor più per la diminuzione del prezzo dei prodotti, provocata dalla riduzione dei costi di produzione del filo, resa possibile dalla nuova macchina; occorreva un maggior numero di tessitori e perciò i salari dei tessitori aumentarono.
Ora che poteva guadagnare di più col suo telaio, il tessitore abbandonò a poco a poco le sue occupazioni agricole e si dedicò interamente alla tessitura. […] Gradualmente, la classe dei tessitori-agricoltori scomparve del tutto e venne assorbita dalla nascente classe dei semplici tessitori che vivevano soltanto del loro salario, non avevano alcuna proprietà, neppure la proprietà apparente costituita da un terreno in affitto e divennero, così, proletari (working man). […]
Mentre così, con la prima macchina ancora tanto imperfetta, si sviluppava il proletariato industriale, la stessa macchina dava anche origine alla formazione del proletariato agricolo.
Fino ad allora c’era stata una grande quantità di piccoli proprietari, chiamati yeomen, i quali trascorrevano la vita vegetando nella stessa tranquillità e apatia dei loro vicini, i tessitori-agricoltori. Essi lavoravano il loro pezzetto di terra nel modo antiquato e trascurato dei loro padri,
opponendosi a ogni innovazione con la testardaggine propria di coloro che hanno conservato stabilmente le loro abitudini attraverso una serie di generazioni. Tra di essi vi erano anche molti piccoli affittuari, ma non nel senso moderno della parola, bensì gente che, o attraverso un contratto di enfiteusi o in forza di antiche consuetudini aveva ricevuto il suo pezzetto di terra dai padri e dai nonni e vi era rimasta fino allora stabilmente come fosse stato di sua proprietà.
Ora che gli operai dell’industria si andavano ritirando dall’agricoltura, molti appezzamenti rimanevano liberi e su di essi si stabiliva la nuova classe dei grandi affittuari, i quali prendevano in affitto cinquanta, cento, duecento e anche più jugeri di terra in una volta, come tenants-at-will, cioè affittuari il cui contratto poteva essere disdetto ogni anno e che mediante una migliore coltivazione e un lavoro su scala più vasta riuscivano ad aumentare il rendimento dei terreni. Essi potevano vendere i prodotti più a buon mercato del piccolo yeoman, al quale non rimase altro che vendere il pezzo di terra che non bastava a sfamarlo e procurarsi una jenny o un telaio, ovvero lavorare come giornaliero, come proletario [Introduzione a La situazione della classe operaia in Inghilterra, op. cit., pp. 33-35].
Friedrich Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra
3.4 La trasformazione dei settori produttivi
«Abbiamo già rilevato come l’industria accentri la proprietà nelle mani di pochi. Essa richiede grandi capitali con i quali fonda stabilimenti colossali, mandando così in rovina la piccola borghesia artigiana e per mezzo dei quali riduce al proprio servizio le forze della natura, cacciando dal mercato i lavoratori manuali isolati. La divisione del lavoro, lo sfruttamento della forza idraulica e soprattutto del vapore e il lavoro delle macchine, ecco le tre grandi leve con le quali l’industria si adopera a far saltare le connessioni del mondo» [Ivi, p. 53].
Dal punto di vista produttivo, modernizzazione significa, quindi, innovazione e meccanizzazione in agricoltura, nella pesca e nell’estrazione di minerali, cioè nello sfruttamento delle risorse naturali, il cosiddetto settore primario.
Nel settore secondario indica la graduale sostituzione dell’industria all’artigianato con la conseguente espansione dei servizi e dei commerci (banche, istruzione, informazione, sanità, ecc.) che costituiscono il terziario.
3.5 Le conseguenze sociali della rivoluzione industriale
Nel primo trentennio dell’800, la rivoluzione industriale si consolida in Inghilterra e negli Stati Uniti e si avvia in Francia, Belgio, Olanda e Germania: è l’epoca del trionfo della manifattura cotoniera, la nuova frontiera del tessile inglese che poteva disporre di materia prima d’importazione dalle lontane regioni dell’impero o da paesi terzi verso cui erano state abolite barriere doganali, dazi e monopoli corporativi che contenevano i prezzi e favorivano i commerci.
L’Inghilterra era, inoltre, ricca di giacimenti di carbone, il prezioso materiale con cui si alimentava la macchina a vapore, aveva una rete di porti e vie commerciali in espansione e godeva di una disponibilità di capitali unica al mondo: il prestito di denaro era quindi più conveniente che altrove.
La prosperità del paese aveva però costi sociali altissimi. La condizione del lavoro, con la giornata lavorativa di dodici/diciotto ore e l’impiego di donne e bambini sotto i sei anni, era drammatica.
3.5.1 Dal sistema Speenhamland alle Workhouse (1795 – 1834)
In un periodo in cui l’Inghilterra stava affrontando anni di raccolti scarsi, con il prezzo del grano che continuava a salire senza la possibilità di poterlo importare dall’Europa, a Speenhamland, un distretto a sud del paese, alcuni magistrati si riuniscono in una locanda del villaggio di Speen e decidono di riformare completamente l’assistenza ai poveri.
Si trattava di una innovazione sociale ed economica per quei tempi, fondata sul “diritto di vivere”.
Fino ad allora, infatti, secondo quanto regolamentato dall’Act of Settlement del 1662, il lavoratore era legato alla propria “parrocchia”.
La Speenhamland Law liberalizzava i lavoratori da queste “corporazioni” e contestualmente prevedeva un sistema di sussidi da aggiungere ai salari.
L’idea era di assicurare un reddito di base soprattutto ai poveri e alle loro famiglie indipendentemente dai loro guadagni per raggiungere un adeguato livello di sussistenza. Le quote da assegnare a ogni componente della famiglia sarebbero state quantificate sulla base del prezzo del pane.
In poco tempo il sistema si diffuse in tutto il sud dell’Inghilterra e, in particolare, nelle aree rurali e nei distretti manifatturieri.
Nel 1832 il governo di Londra avviò un’indagine a livello nazionale sulle condizioni di lavoro, sulla povertà delle zone rurali e sul “sistema Speenhamland” per quella che, scrive Rutger Bregman nel libro Utopia for Realists, è stata considerata la più ampia indagine governativa della storia.
Il rapporto finale di 13mila pagine giungeva alla conclusione che il piano sperimentato era stato disastroso perché aveva portato a un’esplosione demografica, alla riduzione dei salari e al degrado della classe operaia inglese.
Tra il 1960 e il 1970, il rapporto venne riletto da alcuni storici che scoprirono che buona parte del testo del rapporto finale era stata scritta prima della raccolta dei dati e che solo il 10% dei questionari distribuiti era stato compilato. Quasi nessuna delle persone intervistate era tra le beneficiarie del sussidio.
Tale falsificazione si legava evidentemente alla necessità di creare un mercato del lavoro libero da vincoli e a basso costo attraverso cui alimentare l’industrializzazione britannica.
Nel 1834 il “sistema Speenhamland” viene quindi smantellato definitivamente e, sulla base del rapporto, parzialmente truccato, venne approvato il Poor law amendment act, che segnò una netta inversione di tendenza nella gestione delle politiche assistenziali: l’assistenza veniva subordinata a condizioni così restrittive da renderla meno appetibile del lavoro salariato.
Lo sciopero divenne illegale (Combination Law, 1799) e l’organizzazione operaia considerata associazione a delinquere per commettere atti di vandalismo contro la proprietà.
Nel 1834, il Poor Law Amendament Act (o New Poor Law) istituisce le workhouse, luoghi di lavoro coatto dove venivano rinchiusi vagabondi, orfani, disoccupati.
Si realizzava, così l’idea, concepita oltre cento trent’anni prima da John Locke, che i poveri e i senza lavoro dovessero essere internati e forzati al lavoro, come misura di sicurezza pubblica e di moralizzazione individuale.
In questo contesto era nata, nei primi decenni dell’800, l’agitazione industriale detta luddismo (1811-16) dal nome di Ned Ludd, protagonista – probabilmente immaginario – dei primi sabotaggi, e il luddismo agrario che usava il nome del capitano Swing (1830-31).
Tali agitazioni che vengono represse con decine di impiccagioni e centinaia di deportazioni in Australia, rappresentavano una risposta a cambiamenti che avevano ripercussioni su tutto il loro stile di vita; cioè – come osservava un contemporaneo, al fatto
«che il lavoro adulto non abbia più valore di quello dei bambini o delle donne; [che] i lavoratori uomini sono ridotti a meri osservatori ed esecutori di voleri della macchina che non richiede per gran parte delle sue operazioni un impegno fisico o intellettuale; [così che] il maschio adulto ha iniziato ad andare via ed è stato sostituito da coloro che nell’ordine tradizionale delle cose dipendevano da lui per il loro sostegno. [Questo] ha preparato la strada alla rottura dei legami che tenevano insieme una società e che erano le basi della felicità domestica e del valore nazionale» [P. Gaskell, Artisans and machinery, 1836, cit. in K. Robins, F. Webster, Tecnocultura (1999), trad. it., 2003, p. 81].
Quando, nel 1812, il Parlamento inglese votò il Frame Breaking Bill che infliggeva la pena capitale a chi distruggeva i telai meccanici – reato allora punito con la deportazione da 7 a 14 anni – alla Camera dei Lord solo George Byron si espresse in modo contrario, sferzando i lord con ironia:
Gli operai, nella cecità della loro ignoranza, invece di rallegrarsi dei perfezionamenti in queste arti così vantaggiose per il genere umano, si considerarono vittime dei progressi meccanici. Nella loro follia immaginarono che l’esistenza e il benessere del popolo fossero questione di maggior importanza dell’arricchimento di alcuni individui, conseguenza del perfezionamento negli strumenti del lavoro che lasciano l’operaio senza collocamento. […]
Ma immaginiamo che una tale legge sia adottata; immaginiamo uno di quegli uomini, quali io ne ho visti … smunti dalla fame, immersi in una cupa disperazione, incuranti di una vita che le Signorie Vostre apprezzano forse meno di un telaio… immaginiamo quell’uomo circondato dai figli ai quali non può dare pane neppure a rischio della vita, in procinto di vedersi strappato per sempre da una famiglia che la sua pacifica industria aveva fino allora sostenuta, e per la quale non può più far nulla… immaginiamo un tal uomo, e ce ne sono delle migliaia in questa situazione fra i quali potete scegliere le vostre vittime; immaginiamolo trascinato dinanzi a un tribunale per esservi giudicato per questo nuovo misfatto in virtù di questa nuova legge; ebbene, mancheranno ancora due cose, secondo me, per giudicarlo e condannarlo, cioè… dodici becchini per giurì, e un Jefferies per giudice! [il giudice Jefferies, attivo sotto Giacomo II, nel XVII secolo, passò alla storia per la sua spietatezza unita al servilismo verso il sovrano, NDR].
Letture
Thomas More, Utopia, I, 1516
Friedrich Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, 1845
Angela Frulli Antiocchieno, La condizione delle operaie nella filanda, 2002
Karl Marx, La cacciata dei contadini dalla terra, ne Il Capitale, I, VIII, 24, 1867
Max Weber, L’ascesi intramondana e lo spirito del capitalismo, ne L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, 1905
Jack London, La proprietà privata contro la persona umana, ne Il popolo degli abissi, 1903
Adriano Prosperi, Dalla proprietà comune alla proprietà privata;
Cristina Cecchi, Il Neolitico e l’origine della diseguaglianza, in «Micromega», 5 dicembre 2017
4. I cambiamenti demografici
Per cambiamenti demografici si intendono quelli che riguardano le variazioni di entità e di distribuzione della popolazione. La modernizzazione si è legata a due cambiamenti molto marcati: l’esplosione demografica e l’urbanizzazione.
4.1 L’esplosione demografica
Con la modernizzazione si è assistito a un iniziale forte aumento demografico, stabilizzatosi poi nel Novecento [la stessa evoluzione si è verificata, di recente, nei paesi non occidentali, interessati dalla seconda metà del Novecento da una globalizzazione economica che ha generalizzato la modernizzazione all’intero pianeta: in questi paesi, dopo un boom demografico di ampiezza preoccupante, l’aumento della popolazione accenna ora a rallentare].
In particolare, il tasso di mortalità (numero dei morti ogni 1000 abitanti), che nelle società tradizionali si aggira intorno al 40 per mille, è sceso al 10 per mille – un record nella storia dell’umanità.
Carestie, epidemie e guerre, i tre grandi flagelli che falcidiavano periodicamente la popolazione europea sono stati quindi debellati o contenuti, ad eccezione delle guerre che sono diventate più sanguinose, grazie ai progressi dell’agricoltura e della medicina e al miglioramento delle condizioni igieniche.
Il calo di mortalità non avrebbe comunque prodotto l’esplosione demografica, se contemporaneamente fossero diminuite le nascite. Il tasso di natalità, però (cioè il numero di nuovi nati ogni 1000 abitanti), è rimasto a lungo lo stesso, intorno al 40 x 1000. Ciò si deve al fatto che i cambiamenti rispetto alla fertilità sono legati a fattori culturali (convinzioni personali e religiose, stili di vita, ecc.) che cambiano lentamente e che durante la modernizzazione sono cambiati più lentamente dei progressi materiali.
E’ quindi accaduto che la composizione e la struttura familiare siano rimasti inizialmente simili a quelli della famiglia patriarcale tipica dell’età premoderna, con un alto numero di figli che permetteva di affrontare il lavoro manuale nei campi, per poi scendere, con un ritardo di oltre un secolo, seguendo le drastiche trasformazioni sociali della modernizzazione (nella modernità i figli sono soprattutto un costo e un investimento di risorse, economiche, temporali e affettive).
L’effetto combinato della diminuzione del tasso di mortalità e del sostenuto tasso di natalità per oltre un secolo, è la causa del forte aumento della popolazione europea durante la modernizzazione.
4.2 L’urbanizzazione
«[Abbiamo già rilevato come l’industria accentri la proprietà nelle mani di pochi.] La tendenza accentratrice dell’industria tuttavia non si ferma qui. Anche la popolazione viene accentrata come il capitale e ciò è naturale perché nell’industria l’uomo, l’operaio, è considerato soltanto come una porzione di capitale che si mette a disposizione del fabbricante e alla quale il fabbricante paga un interesse sotto forma di salario.
Il grande stabilimento industriale richiede molti operai che lavorano insieme in un solo edificio. Essi devono abitare insieme e là dove sorge una fabbrica di una certa grandezza, formano già un villaggio. Essi hanno dei bisogni, per soddisfare i quali sono necessarie altre persone. Vi accorrono artigiani, sarti, calzolai, fabbri, muratori e falegnami. Gli abitanti del villaggio, specie quelli della generazione più giovane, si abituano al lavoro di fabbrica […] e se la prima fabbrica non può occupare tutti, il salario cade e di conseguenza vi si stabiliscono nuovi fabbricanti. Così dal villaggio nasce una piccola città, dalla piccola città una grande città» [Ivi, pp. 53-54].
Nelle società tradizionali le città sono i centri del potere, dell’economia e della cultura, ma la maggior parte della popolazione vive in campagna. Con la modernizzazione la popolazione urbana è cresciuta esponenzialmente – nel 2012 il numero di persone nel mondo che vivono in città ha superato i residenti in campagna – ed è parallelamente diminuita quella rurale.
4.2.1 L’esodo rurale e la nascita della povertà
Durante la prima modernizzazione, inizialmente l’urbanizzazione si è dovuta alla cacciata dalle campagne (esodo rurale) causata dalle perdute possibilità di lavoro verificatesi con la concentrazione delle proprietà e la meccanizzazione dell’agricoltura.
Questa popolazione si concentrò tendenzialmente nei centri urbani che riuscirono ad assorbire solo parzialmente la mano d’opera in eccesso: parte degli individui espulsi dalle campagne divenne dunque operaia (nascita del proletariato urbano), parte restò disoccupata o sottoocupata e continuò a vivere nelle periferie urbane ai margini della società.
Nasce qui il fenomeno del cosiddetto pauperismo, l’esistenza di una classe di persone in esubero, priva di risorse di sostentamento e di identità socioculturale che Marx ed Engels chiamarono lumpenproletariat, proletariato straccione.
Si tratta di un fenomeno ben diverso dalla povertà premoderna, sempre legata a cause specifiche quali la malattia e la carestia, accidenti inevitabili, nel caso della malattia, dell’invalidità o di una vecchiaia senza figli, o rimovibili, nel caso delle carestie seguite da annate di migliore produzione, laddove nella modernità la povertà è la condizione stabile di molte persone che non riescono a mettersi al servizio della produzione industriale.
4.2.2 L’attrazione urbana
Dopo la fase di esodo rurale, seguì una fase di attrazione urbana nella quale vennero generate migliori e maggiori opportunità di lavoro nell’industria e nei servizi.
In questa fase, i centri industriali aumentarono enormemente le loro dimensioni circondando le industrie manifatturiere con agglomerati urbani di dimensioni sempre maggiori, spesso prive di servizi essenziali sociosanitari. Crebbero fino alla dimensione di metropoli anche le città sedi di importanti snodi viari e ferroviari e delle istituzioni centrali della pubblica amministrazione, come Londra, Parigi, Berlino.
La crescita esplosiva delle città moderne è stata ed è fonte di disagi e della nascita di problematiche sociali del tutto nuove, particolarmente per la parte sfavorita della popolazione.
Nel saggio engelsiano già citato sulla classe operaia inglese, si trova una vivida descrizione dello stile di vita e dei rapporti interpersonali nella grande metropoli: l’indifferenza, la competizione, la solitudine della «decomposizione dell’umanità in monadi»:
«Dopo aver calcato per qualche giorno il selciato dell strade principali, dopo essere penetrati con grande fatica nel brulichio umano, tra le file interminabili di carri e carrozze, dopo aver visitato i quartieri “brutti” della metropoli, soltanto allora si rileva che questi londinesi hanno dovuto sacrificare la parte migliore della loro umanità per compiere tutti quei miracoli di civiltà di cui la loro città è piena, che centinaia di forze latenti in essi sono rimaste inattive e sono state soffocate affinché alcune poche potessero svilupparsi più compiutamente e moltiplicarsi mediante l’unione con quelle di altri.
Già il traffico ha qualcosa di repellente, qualcosa contro cui la natura umana si ribella. Le centinaia di migliaia di individui di tutte le classi e di tutti i ceti che si urtano tra loro, non sono tutti esseri umani con le stesse qualità e capacità e con lo stesso desiderio di essere felici […] Eppure si passano accanto in fretta come se non avessero nulla in comune, nulla a che fare l’uno con l’altro, e tra loro vi è solo il tacito accordo per cui ciascuno sul marciapiede tiene la destra, affinché le due correnti della calca che si precipitano in direzioni opposte, non si ostacolino a vicenda il cammino; eppure nessuno pensa di degnare gli altri di uno sguardo. La brutale indifferenza, l’insensibile isolamento di ciascuno nel suo interesse personale, emerge in modo tanto più ripugnante ed offensivo quanto maggiore è il numero di questi singoli individui che sono ammassati in uno spazio ristretto; e anche se sappiamo che questo isolamento del singolo, questo angusto egoismo è dappertutto il principio fondamentale della nostra odierna società, pure in nessun luogo esso si rivela in modo così sfrontato e aperto, così consapevole come qui, nella calca della grande città. La decomposizione dell’umanità in monadi, ciascuna delle quali ha un principio di vita particolare e uno scopo particolare; il mondo degli atomi è stato portato qui alle estreme conseguenze. » [Ivi, p. 57].
5. Le premesse culturali della modernizzazione
5.1 La diffusione della stampa: democratizzazione del sapere e crisi d’autorità della modernità
Un’invenzione del XV secolo, la stampa, è lo strumento senza il quale la modernità resta impensabile. Con l’avvento della stampa cambia, infatti, il modo di produrre e far circolare il sapere e l’informazione, due elementi determinanti del cambiamento e dell’innovazione propri della modernizzazione.
La stampa rende economico il libro e il giornale, democratizzando perciò la conoscenza e rendendola potenzialmente accessibile a un numero maggiore di individui che hanno bisogno solo di saper leggere.
La sua invenzione porta inoltre il sapere fuori dei chiostri e dei conventi, dove in precedenza i codici venivano copiati e miniati, e lo consegna a nuove figure di dotti e studiosi che popolano accademie e università (laicizzazione del sapere).
L’editoria stampata produce effetti rivoluzionari, in quanto inaugura un sistema aperto di comunicazione. Circolando in ambienti aperti ed eteterogenei, le opere a stampa imprimono infatti un impulso formidabile alla produzione di opere nuove e non ortodosse, alimentando fermento intellettuale e scatenando le rivoluzioni culturali della modernità, tra le quali quella astronomica e scientifica e lo scisma protestante.
Per queste ragioni, la diffusione della stampa si lega alla crisi d’autorità della modernità, epoca nella quale tutte le autorità riconosciute in epoca premoderna, dal potere temporale e spirituale dei papi (Lutero), all’autorità del sovrano (calvinisti francesi), fino a quella di Aristotele (Galilei, Bacone), iniziano a declinare.
Sarà il secolo successivo a farle cadere. Come scrive Friedrich Engels in L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza:
I grandi uomini che in Francia, illuminando gli spiriti, li prepararono alla rivoluzione che si avvicinava, agirono essi stessi in un modo estremamente rivoluzionario. Non riconoscevano alcuna autorità esterna di qualsiasi specie essa fosse. Religione, concezione della natura, società, ordinamento dello Stato, tutto fu sottoposto alla critica più spietata; tutto doveva spiegare la propria esistenza davanti al tribunale della ragione o rinunziare all’esistenza. L’intelletto pensante fu applicato a tutto come unica misura.
Era il tempo in cui, come dice Hegel, il mondo venne poggiato sulla testa, dapprima nel senso che la testa dell’uomo e i princìpi trovati dal suo pensiero pretendevano di valere come base di ogni azione e d’ogni associazione umana; ma più tardi anche nel senso più ampio che la realtà che era in contraddizione con questi princìpi fu effettivamente rovesciata da cima a fondo.
Tutte le forme sociali e politiche che sino ad allora erano esistite, tutte le antiche concezioni che si erano tramandate furono gettate in soffitta come cose irrazionali; il mondo si era fino a quel momento lasciato guidare unicamente da pregiudizi; il passato meritava solo compassione e disprezzo. Ora per la prima volta spuntava la luce del giorno; da ora in poi la superstizione, l’ingiustizia, il privilegio e l’oppressione dovevano essere soppiantati dalla verità eterna, dalla giustizia eterna, dall’eguaglianza fondata sulla natura, dai diritti inalienabili dell’uomo.
5.2 La rivoluzione scientifica e tecnologica
Attraverso la rivoluzione scientifica, la scienza moderna sostituì con un edificio culturale completamente nuovo il sistema di conoscenze antico e medievale. Tale nuovo sapere si basò su una diversa visione del mondo e del cosmo, su un diverso metodo di acquisizione delle conoscenze e di elaborazione delle ipotesi, su un diverso metodo di verifica delle conoscenze acquisite, su un differente rapporto con la tecnica e le sue applicazioni empiriche.
Un tratto fondamentale del nuovo modo di fare ricerca fu l’antidogmatismo. Nella scienza tradizionale le conoscenze erano dogmi, cioè affermazioni indiscutibili, ritenute vere in forza dell’autorità della tradizione, perché i classici le avevano insegnate. Gli scienziati moderni invece partirono dall’idea che ciascuno possa mettere in discussione le affermazioni della tradizione, purché lo faccia con validi ragionamenti e prove documentate. È infatti proprio esercitando la critica e muovendo obiezioni, discutendo e vagliando il lavoro degli altri uomini di conoscenza che la scienza arriva a trarre le sue conclusioni. La nuova scienza fu quindi pensata come un sapere critico, cumulativo e intersoggettivo.
Dopo Bacone e Galilei, teorici nel 600 del nuovo metodo scientifico, Newton e van Leeuwenhoek scoprirono mondi nuovi. Galileo e Newton crearono la meccanica, una branca della fisica che spiega ogni movimento nell’universo sulla base di alcuni principi e dell’ipotesi che ci sia una forza gravitazionale che attrae i corpi. Attuarono anche la rivoluzione copernicana, dimostrando che l’astronomo polacco Niccolò Copernico aveva ragione a sostenere che, contrariamente a quanto si era pensato da Tolomeo in poi, non è la Terra il centro intorno al quale ruotano i corpi celesti, ma il Sole. Van Leeuwenhoek scoprì il mondo microscopico: descrisse i globuli rossi e altre cellule, i batteri, i protozoi, le alghe, i lieviti e dimostrò che il sangue circola nei capillari.
Anche se il XVII secolo fu decisivo, le trasformazioni della scienza stavano avvenendo già da qualche secolo e proseguirono nei secoli successivi. Galileo, Newton, van Leeuwenhoek e gli altri protagonisti della svolta del Seicento furono studiosi isolati, che imboccarono la via dell’innovazione e lottarono contro l’incredulità e l’avversione dei difensori della tradizione. Crearono un dibattito (quella che in epoca umanistica si sarebbe detta una repubblica delle lettere), si associarono in accademie (l’Accademia dei Lincei, l’Accademia del Cimento, la Royal Society, l’Académie des Sciences), ma non godettero di grande influenza e prestigio nella società del loro tempo. Fu nei due secoli successivi che la nuova scienza venne gradualmente riconosciuta e divenne il paradigma dominante.
Letture
Bertold Brecht, Fulgenzio e Galilei: la fine del mondo antico e il significato sociale della nuova astronomia [da Vita di Galileo, 1943]
André Gorz, L’invenzione del lavoro [Metamorfosi del lavoro, 1992 pp. 21-32]
Esercitazione
L’obiezione di Fulgenzio: lettura in gruppi, poi discussione in plenaria.
6. La visione del mondo della modernità
6.1 I cambiamenti culturali
«La decomposizione dell’umanità in monadi, ciascuna delle quali ha un principio di vita particolare e uno scopo particolare; il mondo degli atomi è stato portato qui alle estreme conseguenze. È per questo che la guerra di tutti contro tutti è dichiarata qui, apertamente. […] gli uomini considerano gli altri soltanto come oggetti utilizzabili, ognuno sfrutta l’altro e ne deriva che il più forte mette sotto i piedi il più debole e che i pochi forti, i capitalisti, si impadroniscono di tutto, mentre ai molti deboli, ai poveri, ai malati, resta la nuda vita» [Ivi, p. 58].
Con la modernizzazione si fa strada un insieme di idee, convinzioni e valori che guidano i comportamenti degli individui e delle collettività, continuando a influenzare anche il punto di vista dei contemporanei.
Un pilastro della cultura moderna è l’individualismo, cioè la convinzione della centralità dell’individuo in ogni ambito della vita sociale.
Nelle società tradizionali l’individuo è un rappresentante anonimo dell’umanità o un membro di una comunità che conta per la posizione che occupa in società (se è servo o padrone, soldato o re ecc.) non per le sue caratteristiche personali ed è intercambiabile con altri suoi simili. Nella visione moderna, invece, l’individuo è unico e irripetibile.
Tale concezione è legata a quella di interiorità, un’idea dalla lunga gestazione che va da Agostino – «Noli foras ire, in te ipsum redi, in interiore homine habitat veritas» – a Lutero a Cartesio – «Ego cogito ergo sum, sive existo» e si presenta poi in forma matura in Locke, Mandeville e Hume.
Ciascuno è visto come un mondo interiore dominato da un io, vale a dire un centro cosciente che guida le azioni, al centro di un mondo fatto di cose, altre persone, affetti, progetti, ricordi ecc.
Fa parte del senso di individualità moderno anche l’idea di autonomia, in virtù della quale ogni individuo si sente libero di scegliere, è padrone della propria esistenza, è animato da spirito di iniziativa e possiede un senso morale grazie al quale è in grado di distinguere autonomamente il bene e il male.
L’individualismo poggia quindi sul primato dell’individuo, inteso come singolo astratto dalla propria collocazione sociale [il termine significa proprio astratto, staccato, dalla società].
Nelle società tradizionali il singolo conta nella misura in cui ha un ruolo ed è utile nella comunità; viceversa, nella visione moderna l’individuo è importante in sé ed è la comunità a contare in quanto funzionale ai bisogni degli individui. Il primato dell’individuo ha ispirato molte concezioni etiche, politiche ed economiche maturate in età moderna.
L’esempio principale, vista l’influenza dell’opera, è il discorso di Benjamin Constant sulla libertà dei moderni e degli antichi (1819) in cui il filosofo dichiara conclusa l’epoca in cui gli uomini si sottomettevano interamente al potere collettivo (si pensi al rapporto tra l’uomo greco e la polis) per diventare essi sovrani sugli affari pubblici dando inizio a una nuova forma di libertà che consiste proprio nel mantenere quanta più autonomia possibile da quel potere.
La libertà dei moderni, infatti, consiste nella possibilità per gli individui di scegliere, senza ingerenze e coercizione da parte di una autorità esterna, come vivere e chi essere entro i soli limiti della legge.
La società moderna si pensa quindi come scissa tra gli individui, da un lato, e la collettività dall’altro, il che implica che l’interesse privato sia o possa essere in conflitto con quello collettivo che ne rappresenta una limitazione.
L’individualismo attribuisce ai singoli una limitata capacità di occuparsi del bene comune, percepito come più distante ed astratto rispetto a quello egoistico e ne trae la conseguenza che l’amministrazione della sfera pubblica debba consistere essenzialmente nella creazione di regole e istituzioni che concilino le due sfere di interessi.
Un altro pilastro dell’ideologia moderna è il razionalismo, quale convinzione dominante che gli uomini debbano fare affidamento sulla ragione e su saperi certi, piuttosto che su credenze e procedure non controllabili.
Il razionalismo moderno si esprime concretamente nella vita sociale che viene organizzata secondo criteri razionali e prevedibili. La razionalizzazione domina la nostra esistenza a tutti i livelli, dai nostri rapporti con le istituzioni alla vita familiare, come mostra l’importanza assunta da termini quali organizzare, efficacia, efficienza, funzionale, divenuti autentici dogmi della società moderna.
Infine, sono parte della visione moderna del mondo anche gli ideali di uguaglianza e libertà [quaderno Loescher n. 22, Libertà va cercando ch’è si cara].
L’idea di libertà, non equivale ad arbitrio o licenza, ma alla possibilità di pensare, esprimersi e decidere senza costrizioni nei limiti di ciò che è lecito e nel diritto di resistere ad eventuali abusi dell’autorità.
L’idea moderna di eguaglianza valorizza essenzialmente gli elementi formali di tale condizione, vale a dire la concezione della parità di diritti e delle opportunità di tutti gli individui, senza distinzioni di sesso, età, famiglia, estrazione sociale, confessione religiosa, razza ed altre condizioni di partenza, delle quali si dichiara l’esistenza, ma non la legittimità a determinare il successo sociale e la dignità di un individuo.
Altre concezioni dell’idea di eguaglianza, come l’affermazione del diritto a un’eguaglianza sostanziale – cioè effettiva e non semplicemente possibile – sono sorte nella modernità, godendo di alterna fortuna: dall’ideale di fraternità enunciato dalla rivoluzione francese e poi riaffermato da Jacques Roux:
«La libertà non è che un vano fantasma quando una classe di uomini può affamarne un’altra impunemente. L’uguaglianza, non è che un fantasma, quando il ricco, attraverso gli accaparramenti, esercita il diritto di vita e di morte sui suoi simili».
a quello di eguaglianza sostanziale affermato nell’irrealizzato progetto costituzionale del 1793 di Maximilien Robespierre, dov’è scritto:
«l’uguaglianza dei diritti è stabilita dalla natura, la società, lungi dall’attentare ad essa, non fa che garantirla contro l’abuso della forza che la rende illusoria; la libertà è il potere che appartiene all’uomo di esercitare a suo agio, tutte le sue facoltà: ha la giustizia per regola, i diritti altrui per limite, la natura per principio e salvaguardia»;
e nel Manifesto degli eguali elaborato da Sylvain Marechal e Gracchus Babeuf nel contesto della congiura degli eguali (1796):
«Da tempo immemorabile ci sentiamo ripetere; gli uomini sono uguali, e da tempo immemorabile la più insolente, la più mostruosa ineguaglianza, pesa insolentemente sul genere umano. […] l’eguaglianza non è mai stata altro che una sterile finzione della legge. […] Ebbene, noi pretendiamo ormai di vivere e morire eguali come siamo nati. Vogliamo l’eguaglianza reale o la morte […] E l’avremo, non importa a quale prezzo […]».
quindi affermato dal socialismo e dal marxismo e contenuto nel comma secondo dell’art. 3 della Costituzione della Repubblica Italiana.
«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali [eguaglianza formale].
E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese [eguaglianza sostanziale]».
Questa formulazione frutto delle culture politiche emerse dalla Resistenza, la cattolico-liberale e la comunista, dà alla carta fondamentale dei diritti del nostro paese un impianto liberal-democratico, non esclusivamente liberale.
C’è infine una convinzione di fondo che accompagna l’ideologia moderna e che, seppure negata verbalmente è presente ancora oggi: l’idea della superiorità della società moderna, rispetto alle società occidentali del passato e a quelle non occidentali non ancora modernizzate.
Questa convinzione si fa strada nel Settecento con l’Illuminismo, che vedeva nella ragione la possibilità di rischiaramento della mente umana e di liberazione dall’ignoranza e dall’oscurantismo.
Gli illuministi introdussero quindi la concezione della storia come progresso [voce Treccani, di Pietro Rossi] marcia inarrestabile verso sorti sempre migliori [le «magnifiche sorti e progressive» del Leopardi] e smisero di guardare al passato per trarne esempi o insegnamenti illustri, abbandonando l’idea della storia come magistra vitae.
Il passato serviva ora a far capire per contrasto, svelando la sua arretratezza, che il punto più alto della storia è il presente. È essenzialmente con l’Illuminismo che la parola moderno – che propriamente (dall’avverbio latino modo = ora) vuol dire odierno, di adesso – acquista connotazione positiva, in opposizione ad antiquato, arretrato.
Nell’Ottocento l’idea che le società moderne siano superiori si consolidò, grazie all’evoluzionismo sociologico di Herbert Spencer secondo il quale l‘umanità procede dalle forme di vita più primitive alle più evolute, che coincidono con le attuali e, sostanzialmente, con quelle occidentali. Si tratta degli anni in cui iniziano i viaggi degli esploratori e si avvia l’impresa dei primi antropologi al seguito delle imprese coloniali che impostano su questa base l’osservazione delle differenze culturali.
Letture
La dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789
Maximilien Robespierre, La nuova dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino
Note storiche sull’idea di uguaglianza
Pietro Rossi, Voce Treccani “Progresso“
6.2 I cambiamenti politici
Concetti chiave: sovranità, legittimazione, secolarizzazione, laicizzazione, limitazione del potere
Obiettivi della sezione: cogliere la fisionomia dello stato premoderno (auctoritates, rete organizzativa, legittimazione) capire la diversità dello stato moderno, identificare e imparare a usare categorie politiche
Il principale risultato politico della modernità è la nascita, tra il XV e il XIX secolo, dello stato moderno, una macchina di dominio molto più potente e, allo stesso tempo, più rispettosa degli individui, della forma statuale precedente.
Gli stati premoderni avevano una sovranità limitata (la sovranità è la fonte, l’origine, del potere) essendo costretti a convivere con altri poteri, con i quali condividevano la gestione politica. Per legittimarsi, cioè per ottenere il riconoscimento della propria autorità di governo della vita delle persone, facevano appello alla religione, alla morale, alle tradizioni, ai costumi e facevano dunque affidamento sulle chiese, sulle corporazioni e su altre entità che avevano un ruolo politico concorrente con quello del sovrano.
Questi stati non avevano l’organizzazione necessaria per riscuotere i tributi, garantire la sicurezza, arruolare eserciti e svolgere le altre attività di governo, erano quindi costretti ad appaltare buona parte di queste attività ad autorità locali, che le svolgevano, con mezzi e modalità propri, in cambio di compenso.
Gli stati moderni, al contrario, non condividono più il potere con le Chiese e con altri soggetti e sono automi dal punto di vista organizzativo.
Per quanto riguarda il primo aspetto, smettono di legittimarsi in nome della religione, della morale, delle tradizioni e dei costumi e presto si laicizzano. Il raggiungimento dell’autonomia organizzativa è invece conseguito, come vedremo, in risposta ai problemi di efficienza militare che si impongono tra cinque e seicento.
Con lo stato moderno, quindi, la legittimazione del potere statale si fonda non più su una visione religiosa del mondo, ma sulle necessità della popolazione che lo stato cerca di soddisfare in modo efficiente, razionale e autonomo, dotandosi di strutture e apparati (burocrazie, funzionari, esercito) in grado di conseguire questi risultati.
Gli stati moderni conquistarono così il monopolio della politica, diventando gli unici soggetti con autorità di governo della popolazione. Questo risultato fu conseguito già nella prima fase del processo di formazione dello stato moderno, che sfociò nella creazione degli stati assoluti: monarchie con il monopolio della politica su territori vasti e ben definiti e provviste di apparati militari e burocratici propri.
Il processo che porta alla nascita degli stati assoluti iniziò con la crisi del sistema feudale. Furono soprattutto la moltitudine dei poteri locali e la debolezza del potere centrale a rendere difficile il governo del mondo feudale e a scatenare guerre per la supremazia tra monarchi e signori locali e per la ridefinizione dei rapporti di forza tra monarchi. Tra 500 e 600, il mondo feudale si trovò quindi in una situazione di belligeranza endemica, aggravata dalle guerre di religione: nel cinquecento in Europa ci furono solo venticinque anni di pace, solo sette nel seicento.
Davanti a un’attività bellica continuativa e intensa, gli stati si dotarono di un apparato statale capace di sostenere lo sforzo ed esercitarono un controllo sempre più energico sulle loro popolazioni. Come ha evidenziato il sociologo Charles Tilly, le esigenze militari misero in moto un processo complesso, in cui vari fattori intrecciati a cascata portarono alla nascita degli stati assoluti.
Tra questi fattori, le guerre di religione favorirono la nascita degli stati assoluti perché, in alcuni casi [come quello francese], rafforzarono i sovrani in funzione di mediazione tra le fazioni in lotta, e, in generale, perché favorirono la secolarizzazione, inducendo popoli e sovrani a considerare favorevolmente un potere politico autonomo rispetto alle fedi religiose.
L’esigenza della tolleranza religiosa stabilì il principio della separazione tra sfera politica e sfera religiosa con un filone di scritti che vide impegnati impegnati per tre secoli autori quali Erasmo da Rotterdam, Grozio, Spinoza, Bayle, Locke, Voltaire. Nell’opera più celebre di questa letteratura, la Lettera sulla tolleranza (1689), John Locke sostenne che la Chiesa, proprio per rispettare fedelmente il proprio credo, non deve avvalersi del potere e della costrizione; che la fede è essenzialmente un fatto privato e che stato e chiesa devono restare separati. In questo modo, il pensiero del padre del pensiero liberale confinò la religione in uno spazio spirituale e privato, permettendo la secolarizzazione dello stato.
Una caratteristica importante degli stati moderni consiste nella limitazione del potere e nella subordinazione del potere politico alla legge. Negli stati premoderni, i governanti potevano esercitare il loro potere in modo arbitrario, anche se teoricamente sottomesso a Dio e al controllo delle autorità religiose con le quali condivideva il potere. Lo stato moderno invece esercita il proprio potere attraverso le leggi, così se da un lato assume il monopolio della forza di governo, dall’altro limita il proprio potere e non ricade, in via di principio, nel dispotismo. Nel cammino verso la formazione dello stato moderno, un aspetto fondamentale è quindi la nascita delle limitazioni costituzionali all’esercizio del potere e la fissazione dei diritti inviolabili del popolo.
Tra il XVII e XVIII secolo, l’autorità dei giovani stati assoluti entrò in crisi, contestata proprio dalle forze sociali che avevano maggiormente contribuito alla nascita delle monarchie assolute, la borghesia imprenditoriale, gli intellettuali e i burocrati.
Con la crescita del suo potere economico e la necessità di salvaguardare i patrimoni privati dalla voracità dei bilanci statali [esemplare il caso inglese], la borghesia rifiutò infatti l’idea di un sovrano legibus solutus, cioè di un sovrano non soggetto a vincoli di legge ed affermò il principio della limitazione costituzionale delle sue prerogative – un antecedente del costituzionalismo monarchico si trova nel calvinismo francese dove, alla fine del 500, si afferma la limitatezza dell’autorità e la natura contrattuale dell’autorità del del re a difesa dalle ingerenze in materia di fede.
Il XVII e il XVIII secolo videro la fioritura della letteratura giuridica costituzionalista. Scoppiarono le grandi rivoluzioni politiche: la prima rivoluzione inglese (1642-1646), la seconda rivoluzione inglese (1677-1689), la rivoluzione americana (1775-1782) e la rivoluzione francese (1787-1799).
Da queste rivoluzioni nacquero stati costituzionali, le cui carte dei diritti enunciano diritti dei cittadini che i governanti devono rispettare. Come si legge ne Lo spirito delle leggi [1748], di Montesquieu:
Chiunque abbia potere è portato ad abusarne, egli arriva sin dove non trova limiti […] Perché non si possa abusare del potere occorre che […] il potere arresti il potere.
Lo stato moderno si distingue, infine, dalle forme precedenti, perché legittima la propria esistenza come espressione del popolo. I sovrani degli stati tradizionali si appellavano, per legittimarsi, alla religione, alla morale e alle tradizioni. Il loro potere era concepito come un braccio esecutivo che faceva rispettare le regole, già date, alle quali ogni uomo doveva attenersi. La trasmissione del potere regio per via ereditaria veniva generalmente giustificata con la dottrina secondo la quale Dio aveva conferito il potere ad Adamo di cui tutti i sovrani erano discendenti, una tesi che non poteva più funzionare nella modernità liberale e che Locke, quindi, liquidò nel primo dei Due trattati sul governo del 1690.
Nonostante la sopravvivenza di forme arcaiche [come le monarchie costituzionali inglese, belga, olandese, spagnola ecc.], gli stati moderni si basano sul principio della sovranità popolare, in base al quale la fonte del potere politico e dell’autorità è il popolo e chi governa lo fa espressamente ed esclusivamente in suo nome e per suo conto. Nel processo di formazione degli stati moderni la sovranità popolare venne di fatto riconosciuta solo nel XIX secolo.
Nel XIX secolo si fece strada il concetto di nazione, cioè l’idea di un popolo che s’identifica in una cultura e in un’origine comune.
Quanto descritto identifica la fisionomia dello stato liberale, nella sua formazione plurisecolare e nella sua definizione concettuale [monopolio della politica, limitazione del potere statale e sovranità popolare] soggetta a forti trasformazioni nell’epoca contemporanea. La geografia dell’Europa venne ridisegnata a partire dall’idea di nazione, perché ogni entità statuale cercò di far coincidere il proprio territorio con l’area abitata dalla nazione [cioè dallo specifico popolo] di cui era espressione. Nella coscienza degli europei il principio di sovranità popolare trovò così espressione in un’altra astrazione concettuale, l’idea di nazione, che aveva però il vantaggio di essere facilmente identificata e riconosciuta dalle caratteristiche culturali delle genti: il popolo sovrano s’identificò quindi con la nazione sulla quale lo stato governava. Ancora nel XIX secolo, il principio di sovranità popolare trovò applicazione nelle elezioni democratiche, nelle quali il suffragio era però ancora limitato per genere [era esclusivamente maschile] e per censo.
6.3 I nuovi soggetti sociali della modernità
I cambiamenti economici fanno nascere, nuovi soggetti sociali, mentre vecchi soggetti tendono a scomparire:
«In una società che si industrializza il contadino diventa operaio, il signore feudale o scompare o si trasforma in uomo d’affari» [Charles Wright Mills, L’immaginazione sociologica].
Una nuova categoria sociale è quella dei lavoratori dipendenti. Nelle società premoderne buona parte della popolazione lavorava in proprio nei campi o nelle botteghe artigiane. Altri svolgevano il lavoro agricolo in condizioni di schiavitù o di cosiddetta servitù della gleba. I lavoratori salariati erano pochi e spesso effettuano prestazioni occasionali o comunque discontinue nei terreni dei proprietari maggiori, riservando la maggior parte del tempo alla cura del proprio orto. Nelle società moderne invece scompare il lavoro servile e la maggior parte della popolazione lavora alle dipendenze di altri, in modo continuativo, in cambio di un salario.
Un’altra categoria nuova è quella degli imprenditori. Uomini nuovi, secondo la visione di Max Weber o di Werner Sombart, ben diversi dai proprietari dei mezzi di produzione del passato. A differenza dei signori feudali – i grandi proprietari della terra che storicamente li hanno preceduti – provengono da tutti gli strati sociali: sono artigiani, commercianti, nobili terrieri, contadini benestanti che si sono trasformati in imprenditori.
Si riconoscono, secondo Sombart per i loro valori e uno specifico modo di pensare. Non si accontentano infatti di ricavare il reddito con le attività tradizionali, ma cercano forme nuove per tener testa alla concorrenza, si danno da fare, investono e rischiano per estendere continuamente il proprio giro di affari [un esempio è offerto dalla figura di Octave Mouret nel Bonheur des dames di Émile Zola]. I signori feudali si limitavano invece ad incamerare rendite senza introdurre innovazioni e senza investire emotivamente sull’attività borghese dell’accumulare denaro.
L’imprenditore si impegna per il profitto, ma, come ha osservato Max Weber, la ricerca capitalistica del profitto dei primi imprenditori non va confusa con la bramosia di ricchezza. Essi da un lato cercavano il profitto personale per remunerare gli investimenti effettuati, ma dall’altro erano interessati al profitto per sé, senza implicazioni edonistiche o desiderio di consumo lavoravano ad maiorem dei gloriam.
Questo aspetto, che Weber ricava dalla cultura calvinista del successo e della predestinazione, è stato, secondo il sociologo tedesco, il fattore essenziale della prima accumulazione di capitale.
Un’altra categoria che emerge con la modernità è quella del consumatore. Nelle società tradizionali i consumi sono scarsi e legati ai beni prodotti dagli stessi individui che se ne servono o dai loro servi. Producendo per lo scambio e l’accumulazione di denaro, non più per l’autoconsumo, la modernizzazione produce anche i consumatori che possono profittare di merci sempre nuove e a costi tenuti bassi dalla concorrenza.
Anche le trasformazioni politiche generano nuovi soggetti sociali. La figura del monarca o del signore è stata sostituita da quella dell’uomo di governo, soggetto alla legge e, almeno formalmente, al rispetto del popolo dal quale trae il diritto stesso di governare. Per questa ragione, il politico moderno ha bisogno del consenso che è ricavato attraverso meccanismi di informazione o propaganda e attraverso la diminuzione di distanza dei rappresentanti dai rappresentati[vediamo così uomini pubblici narratori di barzellette, cinguettanti su Twitter e dall’eloquio informale].
La formazione degli stati moderni produce gruppi di persone che lavorano come funzionari dello stato, dipendenti pubblici che si occupano di far funzionare l’apparato statale, soggetti caratterizzati almeno originariamente da un preciso ethos burocratico focalizzato sulla razionalità dell’azione amministrativa e sulla centralità dell’interesse pubblico. Diversamente dai collaboratori dello stato premoderno, vengono scelti in base alle competenze non della posizione sociale che occupano.
Il cambiamento politico più rilevante è però la trasformazione dei sudditi in cittadini, soggetti conosciuti solo per brevi periodi dell’antichità e costituenti una frazione minoritaria della popolazione. Diversamente dal suddito il cittadino ha diritti e doveri stabiliti dalla legge e partecipa al governo, nella misura consentita dalle norme. In altri termini, esso è
«titolare individuale di diritti entro la società politica, [condizione] che sorge nell’alveo delle grandi rivoluzioni borghesi e accompagna lo sviluppo del capitalismo industriale. In questo senso la nozione di cittadinanza si oppone anzitutto a quella di “sudditanza”, per la quale l’individuo non è titolare di alcun diritto nei confronti dell’autorità politica, ma è soltanto destinatario di doveri e comandi. […] Lo status di cittadino discende dalla rivendicazione borghese della libertà individuale contro lo Stato e, di conseguenza, dal carattere “limitato” del sistema politico, dal suo essere uno Stato costituzionale vincolato da meccanismi di divisione e di controllo del potere» [D. Zolo, La cittadinanza democratica nell’era del postcomunismo, “Discipline Filosofiche”, 1992/2, pp. 16-17].
Esercitazioni
La rivoluzione agraria [sottotitolazione]
testo 2 Una rivoluzione paragonabile al Neolitico: il Neolitico e la nascita della diseguaglianza (pp. 4) [Spark Teach a Lesson]
testo 3 Engels, La nascita di una classe di nullatenenti; la concentrazione della ricchezza (pp. 8+1) Spark Teach a Lesson]
testo 4 Engels, La nascita delle città industriali (pp. 10); [Spark Show and Tell o Teach a Lesson]
testo 5. Engels, Malattie e mutilazioni: “questo moderno proletariato è spesso simile a un esercito che torna da qualche campagna militare” (pp. 12) [Spark Show and Tell]
testo 6 Engels, In miniera, ovvero “morire prima di essere giovani” (pp. 6) [Spark Show and Tell]
testo 7 Jack London, La proprietà privata contro la persona umana; Engels, le sofisticazioni alimentari (pp. 6) [Spark video Show and Tell]
testo 8 Marx, L’espulsione dei contadini dalle campagne [PPT, Prezi, Spark Teach a Lesson]
testo 9 Thomas More, Le pecore carnivore
testo 10 Max Weber, L’ascesi intramondana e lo spirito del capitalismo
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