Carlo M. Cipolla, Chi ha inventato il debito pubblico. Luigi Longo, Filippo II dissanguato dai banchieri genovesi

by gabriella

Tratto da Carlo M. Cipolla, Piccole cronache, Bologna, Il Mulino, 2010, pp.35-38 e pp.39-42.

L’antichità classica non conobbe il debito pubblico. Il debito pubblico fu un’invenzione dei Comuni medievali italiani. Il primo esempio di debito pubblico di cui abbiamo notizia risale al 1167 e si trattò di un prestito forzoso imposto dalla Repubblica di Venezia ai suoi cittadini abbienti. Venezia, Genova e Firenze furono i centri che più precocemente svilupparono ed affinarono le tecniche del debito pubblico. A Genova nel 1274 si decretò il consolidamento del debito pubblico che aveva raggiunto la somma di 305 mila lire genovesi del tempo. Sempre a Genova nel 1407 quando il debito pubblico aveva raggiunto la somma di circa 3 milioni di lire genovesi i creditori dello Stato si consorziarono in un ente chiamato Casa di San Giorgio che divenne praticamente il padrone dello Stato.

A Firenze nel 1303 il debito pubblico ammontava a circa 50 mila fiorini d’oro: una cifra ragionevole. Ma a partire da quella data il Comune di Firenze si trovò impelagato in una serie di conflitti proprio nel momento in cui per l’introduzione dell’artiglieria e la sostituzione delle milizie civiche con le bande mercenarie le guerre si facevano tremendamente più costose.

Lo Stato ha tre modi per sopperire alle sue spese: tassare i cittadini, svilire la moneta, ricorrere al credito. Firenze rispettò gelosamente l’integrità della sua moneta, andò cauta nell’imporre tasse e pertanto ricorse abbondantemente al credito. Il debito pubblico fiorentino che era come s’è detto di circa 50 mila fiorini d’oro nel 1303 passò a circa 600 mila fiorini nel 1343, a circa un milione cinquecentomila fiorini nel 1364, a circa 3 milioni di fiorini nel 1400.

Il crescente bisogno di denaro da parte dello Stato spingeva al rialzo il tasso d’interesse.D’altra parte vigeva in Firenze una disposizione emanata nel 1345 che fissava nel 5 per cento il tasso di interesse massimo da corrispondere ai creditori dello Stato. Per aggirare la difficoltà si arrivò nel 1358 ad autorizzare l’iscrizione dei prestiti sottoscritti per somme triple di quelle effettivamente versate. In altre parole se Tizio versava come prestito al Comune la somma di cento fiorini, sul gran libro del debito pubblico veniva indicato come creditore di trecento fiorini. Al tasso del 5 per cento Tizio veniva in effetti a percepire il 15 per cento (5 per cento per 3) sulla somma effettivamente versata (100 fiorini) ed inoltre faceva un eccezionale guadagno speculativo in conto capitale.

Non stupisce quindi apprendere dalla Cronica di Matteo Villani che in quel periodo molti uomini d’affari fiorentini cessarono di investire i loro capitali nella mercatura indirizzandoli invece sul debito pubblico. I privati con disponibilità liquide arricchivano mentre lo Stato si impoveriva.

Il fatto che i prestiti comportassero il pagamento di un interesse frenò il ricorso al credito da parte dello Stato Pontificio. Ma nel corso della prima metà del Cinquecento la spesa pubblica straordinaria ed ordinaria aumentò notevolmente. D’altra parte, le entrate pubbliche diminuirono drasticamente perché mezza Europa divenne protestante e quindi cessò di inviare a Roma rendite e tributi (primo fra tutti il cosiddetto «obolo di San Pietro»).

Il movimento a forbice di entrate calanti e uscite crescenti costrinse il Papa a vincere i suoi scrupoli. Il Primo ricorso al prestito pubblico ebbe luogo nel 1526 quando papa Clemente VII (notasi: un Medici di Firenze) lanciò un prestito per 200 mila ducati d’oro al tasso del 10 per cento. I successori di papa Clemente seguirono il suo esempio. Il debito pubblico dello Stato Pontificio ammontava a 5,6 milioni di scudi nel 1592, superava i 9 milioni nel 1604 e raggiungeva i 28 milioni nel 1657. Nel 1592 il pagamento degli interessi assorbiva il 30 per cento della spesa statale.

Tecnicamente il debito pubblico pontificio fu gestito in maniera inappuntabile. Con tutta probabilità c’era dietro la consulenza dei fiorentini. Quanto ai Genovesi essi divennero i consulenti e gestori del debito pubblico spagnolo nella seconda metà del Cinquecento.

Delle grandi città italiane medievali quella che non riuscì ad organizzare un regolare servizio di debito pubblico fu Milano. Non per virtù e parsimonia dei Visconti e degli Sforza, bensì perché l’arbitrio e l’abuso che caratterizzavano il modo di governare dei duchi milanesi erano elementi tali che non ispiravano la fiducia di chi avesse disponibilità liquide. Per cui i Milanesi investivano volentieri i loro capitali nei titoli di debito pubblico di Genova o di Venezia.

Quando nella seconda metà del Quattrocento, stabilitasi l’alleanza tra Milanesi e Fiorentini, il duca Francesco Sforza convinse Lorenzo il Magnifico ad aprire una filiale della Banca Medici in Milano, si verificò un interessante fenomeno. I Milanesi dimostrarono una decisa propensione a depositare le loro disponibilità liquide presso la Banca Medici la quale a sua volta prestava le somme raccolte in larga parte al duca Francesco. Ma questi, debitore della Banca Medici per somme sempre più crescenti, non conosceva puntualità né nel pagare gli interessi pattuiti né nel rimborsare il capitale alle date promesse. La Banca Medici invece pagava puntualmente gli interessi ai suoi depositanti e rimborsava regolarmente i capitali depositati quando richiesti. Uno stato di cose del genere non poteva evidentemente durare. E nel 1478 Lorenzo ordinò la chiusura della filiale milanese della Banca Medici.

 

Luigi Longo, Filippo II dissanguato dai banchieri genovesi

Felipe IIQualche mese fa diedi ordine a una grossa banca di cui sono cliente di acquistare per mio conto «al meglio» un certo tipo di obbligazioni valutate in Ecu. La banca prontamente eseguì l’operazione e, giustamente, mi caricò di una data somma per diritti di commissione. Quando ricevetti tutti i documenti giustificativi dell’operazione notai peraltro che il prezzo caricatomi corrispondeva alla più alta quotazione del titolo verificatosi in Borsa nella giornata dell’operazione.

Guarda il caso, anche il cambio Ecu/Lira praticatomi era il più alto nella fascia registratasi nella stessa giornata. Ripetei l’operazione qualche settimana dopo ed i fenomeni sud descritti si ripeterono. Ne parlai ad un amico che aveva fatto la stessa operazione e mi assicurò che gli era successa la stessa cosa. Il campione è troppo piccolo per poterne trarre deduzioni valide, però la legge della probabilità alimentava il sospetto che la banca ci guadagnasse non solo con i regolari diritti di commissione ma anche sul prezzo del titolo e poi anche sul cambio. All’amico che irritato s’era messo ad imprecare contro il potere oligopolistico delle banche, per rasserenarlo, dissi che si trattava di una tradizione secolare e gli raccontai la storia di Filippo II e dei Genovesi: una storia che val forse la pena di essere raccontata anche a un pubblico più vasto.

Filippo II di Spagna fu una figura tragica. Lo fu umanamente, lo fu politicamente, e lo fu anche finanziariamente: finanziariamente perché fu il re più ricco del suo tempo e paradossalmente anche il più indebitato. La sua ricchezza gli veniva dall’impero che aveva ereditato da suo padre, l’imperatore Carlo V: non solo sotto forma di imposte e tasse di cui caricò in rapida e continua progressione le varie province del suo vasto impero a cominciare dalla Castiglia, ma anche sotto forma di diritti di regalia prelevati sui tesori di oro e argento estratti dalle miniere del Messico e del Perù. Per dare un’idea di quel fiume di oro soprattutto di argento che si riversò allora sulla Spagna e di cui Felipe tenne per sé circa un quinto, basti dire che tra il 1556 (anno in cui Felipe salì al trono) e il 1598 (anno in cui Felipe morì) furono importate a Siviglia oltre settemila tonnellate di argento ed oltre settanta tonnellate di oro. Era metallo cavato dalla terra da torme di indios crudelissimamente sfruttati (sopratutto in Perù), trasportato poi dal Messico e dal Perù a Cuba e lì caricato su convogli di galeoni che sfidando pirati e tempeste lo trasportavano a Siviglia. Una vera saga di sangue, di oppressione, di coraggio, di bramosia di ricchezze.

Le somme raccolte da Felipe sotto forma di tasse, imposte, e regalie sui tesori americani andarono crescendo nel tempo e raggiunsero livelli per quei tempi assolutamente inusitati. Ma el Rey non ne aveva mai abbastanza. E più ne prendeva, più ne spendeva.

Le sue spese erano soprattutto militari: guerre contro il Turco, guerre contro l’Inghilterra, guerre contro la Francia, soprattutto guerre contro quelle Province Unite settentrionali che noi oggi chiamiamo l’Olanda. Il suo sogno di unificare l’Europa occidentale politicamente e religiosamente lo portò a una conflittualità continua e su fronti numerosi e lontani. Le sue entrate erano pingui. Ma lui riusciva a spenderle ancora prima di incassarle e le spendeva sui vari teatri di guerra che andavano dal Mare del Nord all’Atlantico, al Mediterraneo, dai Paesi Bassi alla Valtellina, al Regno di Napoli. Il suo problema finanziario era duplice, come farsi anticipare le enormi somme che gli occorrevano e come rendersele disponibili nelle unità monetarie e nelle aree dove i soldi gli abbisognavano per le proprie armate, di terra o di mare che fossero.

Chi gli risolse questi problemi furono i banchieri genovesi che tra il 1530 ed il 1620 dominarono la scena finanziaria internazionale. Glieli risolvettero da veri genovesi, cioè facendosi pagare salatamente. Gli chiedevano un interesse del 14-15 per cento che, dati i tempi, non era nemmeno un tasso troppo elevato. Ma poi gli caricavano tutta una serie di altri aggravi: per il cambio da un tipo di moneta in un’altra, per l’aggio sulla moneta richiesta, localmente, per il trasporto della moneta da un posto all’altro, per i giorni di valuta perduti nelle riscossioni, insomma quello che doveva essere un prestito diciamo al 15 per cento veniva in effetti a costare un buon 45 o 50 o più per cento. Nel febbraio del 1580 frustato e furibondo el Rey scriveva a un suo amico e consigliere una lettera disperata: «Esto de cambios y intereses nunca me ha podido entrar en la cabeza» («questa faccenda di cambi e interessi non sono mai riuscito a farmela entrare in testa»).

Più pagava di interessi e di commissioni, più gli aumentava l’ostilità sorda e rancorosa verso i banchieri che lo dissanguavano. Cercò di rifarsi in più maniere. Per esempio dichiarando ogni tanto bancarotta, che poi bancarotta propriamente non era bensì una rinnegazione del debito a condizioni più favorevoli. E poi, proprio attorno all’anno 1580, cercando di servirsi della banche fiorentine e cercando di mettere quest’ultime in concorrenza con le banche genovesi. Gli andò male perché i fiorentini non furono all’altezza della situazione e si dimostrarono incapaci di sostituire quei diavoli di genovesi.

Gli stupendi palazzi di Genova costruiti nella seconda metà del Cinquecento, l’opulenza dell’aristocrazia genovese nello stesso torno di tempo, tutta quella straordinaria ricchezza e grandezza ebbero origine da quei complicati «cambios y intereses» il cui meccanismo il povero don Felipe stentava a far entrare nella sua «cabeza».

Tratto da L. Longo, Alla ricerca del principe che non c’è

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