Rebecca Ruiz, Burnout

by gabriella

Un articolo divulgativo sulle conoscenze attuali intorno al burnout, dal quale emerge il legame tra forme di vita (nello specifico, modernità e capitalismo, come mostra Anne Helen Petersen) e sofferenza psichica e l’efficacia della terapia cognitivo-comportamentale, l’antica epimèleia heautoù di Socrate e Platone.

Poiché Petersen insiste sulla relazione tra stili di vita-condizioni materiali di lavoro e burnout, l’articolo si conclude, piuttosto discutibilmente con l’invito ai datori di lavoro ad occuparsi del benessere dei loro dipendenti per poter trarre il massimo vantaggio dal loro lavoro. Tratto da Mashable.com.

Indice

1. I millennials saranno la generazione del burnout
2. Quello che sappiamo sul burnout
3. La terapia cognitivo-comportamentale come possibile soluzione
4. Perché i datori di lavoro devono dedicarsi alla cura delle persone

 

 

1. I millennials saranno la generazione del burnout

Quando il burnout bussa alla porta, non lo fa mai delicatamente. Ammanta di una cupezza inspiegabile anche le cose più banali: guidare nel traffico, presentarsi in orario al lavoro, compilare una nota spese. È come una pesante zavorra agganciata alla vita, che sottrae ogni scintilla di energia all’esistenza.

Il burnout è come una pesante zavorra agganciata alla vita, che sottrae ogni scintilla di energia all’esistenza

Lo si può confondere con la depressione – potrebbe benissimo trattarsi di quello – ma riflettendo su come e quando si presenta, il sospetto cade sul deterioramento delle condizioni di lavoro.

Arriva un momento in cui si capisce di aver superato il limite – o più d’uno: un nuovo capo che ha aumentato il carico di lavoro diminuendo le risorse, un altro anno passato senza ricevere un aumento, un manager accusato di atti illeciti senza pagarne le conseguenze. E a un certo punto vi sentite esauriti e non avete la minima idea di come risollevarvi.

millennials a rischio burnout

I ricordi di quando mi sono trovata io ad affrontare il burnout hanno iniziato a riaffiorare mentre leggevo il saggio che Anne Helen Petersen ha scritto per Buzzfeed sull’argomento, a gennaio. A giudicare da come quel pezzo, intitolato “Come i millennial sono diventati la generazione del burnout”, ha iniziato rapidamente a girare in Rete, ho capito di non essere stata l’unica a riconoscermi nelle sue parole.

In un primo momento mi sono trovata completamente d’accordo con le conclusioni dell’autrice.

“Il burnout”, scrive, “sarà la malattia dei millennial” – la “residenza permanente” di questa generazione – finché non faremo crollare l’intero sistema, o, in termini meno rivoluzionari, guariremo il capitalismo facendo in modo di premiare finalmente la qualità e non la quantità.

Eppure, più ci riflettevo, soprattutto dalla prospettiva di chi scrive (ossessivamente) di salute mentale, più mi convincevo che la diagnosi di Petersen, onesta ma fatalista, avrebbe potuto dare ad alcuni un’impressione fuorviante, spegnendo le speranze di poter guarire un giorno dal burnout.

Allora ho deciso di studiare il più possibile per capire che tipo di assistenza è disponibile per aiutare a guarire dal burnout. Con mia grande sorpresa, sono pochi gli studi accademici su questo argomento, perché, almeno negli Stati Uniti, il burnout non è riconosciuto ufficialmente come una malattia.

I ricercatori si sono focalizzati piuttosto sulle cause dello stress da lavoro e sulle sue conseguenze, ed è per questo che i suggerimenti su come affrontare il burnout che si trovano online o nei servizi giornalistici dedicati all’argomento sono ben poca cosa se paragonati alla gravità dell’esaurimento che può colpire una persona. Eppure, anche se le prove scientifiche sulle terapie per il burnout sono ancora lontane dall’essere conclusive, c’è un numero di studi sufficiente a far ritenere che alcune strategie possano ridurre i sintomi – e le sofferenze.

Se avete particolarmente apprezzato la stroncatura, legittima, che Petersen ha fatto della “cura di sé” etichettandola come l’inutile risultato di un’“ottimizzazione” personale, non vi piacerà quello che ho scoperto nelle mie ricerche, perché gran parte di quello che sappiamo su come curare il burnout ha a che fare con il prendersi cura di sé.

Ma c’è una buona notizia: non si tratta del concetto di cura di sé che ormai siete arrivati a detestare, legato più a consumi e marchi che non al recupero e alla guarigione. Invece, quest’idea di cura di sé ha più a che fare con l’apprendimento e la messa in pratica di competenze specifiche come la gestione dello stress, il rilassamento e la riduzione dell’ansia. Sono tutte azioni che richiedono uno sforzo. Dopo tutto, si tratta di formare nuove abitudini, un compito che può essere percepito come arduo e che comporta il rischio di un fallimento.

Probabilmente vi farà anche piacere scoprire che i ricercatori che studiano il burnout sono convinti che i datori di lavoro giochino un ruolo essenziale. Sanno che c’è poco da fare per cambiare le cose se un’azienda e i suoi manager rifiutano di ammettere che le proprie politiche e comportamenti possono portare i dipendenti all’esaurimento fisico ed emotivo.

Quindi, fino al giorno in cui trasformeremo il capitalismo – e la cultura dell’ottimizzazione e degli eccessivi carichi di lavoro che ne è figlia – in una forza più umana, lasciate che questa sia per voi una guida di navigazione per affrontare il processo di guarigione dal burnout.

 

2. Quello che sappiamo sul burnout

La tipica ricerca su Google su come superare, curare o affrontare il burnout spesso porta a link che propongono suggerimenti familiari: prendersi un giorno di pausa per recuperare, fare esercizio fisico, parlare a un superiore delle proprie preoccupazioni.

L’American Psychological Association offre una consulenza più approfondita per affrontare lo stress sul luogo di lavoro, volta, ad esempio, a individuare i fattori stressanti, stabilire confini chiari tra la vita personale e quella lavorativa e cercare aiuto, se necessario.

Le ricerche su come gestire lo stress da lavoro cronico indicano che passare una quantità di tempo sufficiente lontano dal lavoro aiuta, così come dedicarsi ad attività rilassanti e trovare interessi appaganti al di fuori del lavoro e dormire un numero di ore sufficiente riposando bene, spiega David Ballard, direttore senior dell’ufficio di psicologia applicata alla American Psychological Association.

Eppure, suggerimenti come “fare più sport” o “prendersi una vacanza” suonano vaghi o troppo complicati da mettere in pratica. L’ideale sarebbe poter accedere, come nel caso della depressione o dell’ansia, a cure già sperimentate e di provata efficacia per migliorare lo stato di salute mentale, ma sfortunatamente non esiste alcun protocollo simile, suffragato da dati certi, per il burnout.

nevrosi

Ciò che sappiamo è che il burnout è caratterizzato da una sensazione di esaurimento e di distacco a livello mentale, o da un atteggiamento di cinismo rispetto al proprio lavoro, che porta ad un calo di rendimento. Da studi sull’argomento sono emersi fattori che si associano al burnout quali un intenso carico di lavoro, la sensazione di essere trattati in modo ingiusto, e conflitti di ruolo o situazioni ambigue. Inoltre, per chi mostra tratti nevrotici o ha un carattere disponibile e coscienzioso e ha difficoltà ad esprimere le proprie emozioni il rischio di andare a sbattere contro il proverbiale muro è più alto.

L’Oms ha recentemente aggiornato la definizione di burnout, descrivendolo come un fenomeno occupazionale nella classificazione internazionale delle malattie ICD, una pubblicazione di riferimento utilizzata da Paesi, sistemi sanitari, assicurazioni, operatori del settore e ricercatori, per diagnosticare disturbi.

L’attenzione che la notizia ha ricevuto sui media nei mesi scorsi ha portato a titoli fuorvianti, che indicavano che il burnout era stato riconosciuto ufficialmente come una malattia. L’aggiornamento ha invece chiarito che

il burnout “non è una malattia”, ma è il risultato di uno “stress cronico sul luogo di lavoro”.

Se vivete in Svezia o Olanda, però, la notizia che il burnout non è una patologia potrebbe cogliervi di sorpresa. In questi Paesi si può diagnosticare ai pazienti un esaurimento correlato al lavoro e si viene curati da specialisti che utilizzano approcci diversi per aiutare chi soffre a stare meglio. Negli Stati Uniti gli specialisti riconoscono i sintomi del burnout ma ufficialmente si viene curati per depressione, ansia o disturbo generale dell’adattamento. Tutto quello che sappiamo su una possibile cura viene da studi condotti in Svezia, Olanda, Finlandia e in una manciata di altri Paesi.

 

3. La terapia cognitivo-comportamentale come possibile soluzione

Socrate è stato il primo a parlare della necessità della cura di sé: l’epimèleia heautoù

Anche se la ricerca è lontana dall’aver raggiunto conclusioni chiare, alcuni studi indicano che la terapia cognitivo-comportamentale (TCC), un tipo di trattamento centrato sullo sviluppo di competenze specifiche con lo scopo di cambiare gli schemi mentali negativi o dannosi del paziente e apprendere nuovi comportamenti positivi, riesce ad alleviare i sintomi da burnout.

Tra queste competenze figurano lo sviluppo di una maggiore fiducia nelle proprie capacità, imparare ad affrontare le proprie paure, rilassare corpo e mente, saper identificare e valutare diversamente distorsioni del pensiero come le generalizzazioni eccessive e le deduzioni inesatte.

Un aspetto critico della TCC consiste nell’adottare abitudini che in un primo momento possono sembrare difficili, come ad esempio sforzarsi di fare esercizio fisico quando ci si sente stanchi o prendersi una pausa durante un momento di intenso lavoro. A forza di pratica – e senza essere troppo severi con sé stessi quando ci sembra di non riuscire a mettere in atto i nuovi comportamenti – le sensazioni spiacevoli dovrebbero diminuire o diventare più gestibili col tempo.

Gli specialisti dei servizi di salute mentale che abbiano una formazione in questo campo possono insegnare al paziente le tecniche, ma ci sono anche altri modi per esplorare i principi e l’approccio usato dalla TCC attraverso libri. La Association for Behavioral and Cognitive Therapies, un’organizzazione professionale, mette a disposizione una guida pratica su come scegliere un terapista e come trovarne uno specializzato in TCC).

Quando Fredrik Santoft, psicologo professionista svedese e ricercatore al Karolinska Institutet, ha sperimentato la TCC in uno studio controllato randomizzato, ha scoperto che portava ad una riduzione significativa dei sintomi da burnout rispetto al trattamento standard per il reinserimento lavorativo che aiuta le persone a tornare al lavoro. Quel tipo di trattamento prevede una formazione preliminare sulla gestione dello stress ma si concentra principalmente sul lavoro con il terapeuta per formulare un piano per il rientro al lavoro che viene poi condiviso con il datore di lavoro.

A tutti i partecipanti allo studio sono stati illustrati i principi base della TCC, ma 42 di loro sono stati inseriti in un gruppo dove è stata seguita una terapia basata interamente sulla TCC, mentre 40 hanno seguito il programma di reinserimento lavorativo. Quelli del gruppo della TCC hanno imparato a monitorare le loro attività e il loro umore, a stabilire priorità nello svolgimento di compiti e a programmarli, a valutare le emozioni che scaturivano dai nuovi comportamenti adottati. I ricercatori si sono concentrati in particolare sul ruolo delle attività rigeneranti, partendo dal presupposto che chi soffre di burnout si sente in colpa o in ansia quando si dedica al proprio benessere.

I pazienti che hanno seguito il trattamento completo basato sulla TCC hanno riscontrato miglioramenti nel sonno e nella percezione della propria competenza, e, di conseguenza, anche il loro burnout è migliorato. I risultati, pubblicati a maggio sulla rivista Behavioral Therapy, indicano nella TCC un antidoto potente contro l’esaurimento da lavoro. La sfida è capire quando, perché e per chi è efficace, e poi formulare una cura sulla base di tali dati.

“In un certo senso, il nostro trattamento basato sulla TCC è una forma ampliata di cura di sé, che coinvolge ogni aspetto della vita”, dice Santoft, che è convinto che svagarsi ogni tanto, pagare per andare a un ritiro yoga o comprarsi uno smartwatch fitness non saranno d’aiuto per lo sviluppo di quei comportamenti fondamentali necessari nel tempo per riprendersi da un burnout conclamato.

Un altro studio svedese pubblicato nel 2018 ha concluso che la TCC, la TCC basata sulla mindfulness, e lo yoga tradizionale si sono tutti e tre rivelati ugualmente efficaci nel migliorare la qualità della vita di 94 partecipanti in congedo di salute a causa del burnout. Per lo studio controllato randomizzato sono stati utilizzati questi tre diversi approcci su gruppi distinti di partecipanti lungo un arco di 20 settimane. La TCC basata sulla mindfulness ha insegnato in particolare ai pazienti a riconoscere ed accettare pensieri e sentimenti dolorosi attraverso una maggiore accettazione o consapevolezza di sé.

Complessivamente, ogni partecipante ha ricevuto una formazione di tre ore settimanali per apprendere comportamenti specifici, che dovevano poi esercitare da soli per altre sette ore a settimana. Tra i compiti assegnati c’era quello di formulare “una tabella di auto-motivazione per le attività quotidiane”, che i partecipanti usavano per pianificare in anticipo i loro impegni.

Alla fine della giornata, riflettevano sulle emozioni che avevano provato, su come queste fossero cambiate, e valutavano se la giornata era stata o meno gestibile. Avevano istituito anche una “micropausa”, in cui per diversi minuti si focalizzavano sulle sensazioni fisiche ed emotive provate durante lo svolgimento di un breve compito di tipo pratico. La pausa aveva lo scopo di renderli consapevoli delle proprie emozioni.

 

4. Perché i datori di lavoro devono dedicarsi alla cura delle persone

Anne Helen Petersen

Questa tensione senza tregua, creata da un sistema che privilegia i datori di lavori e non gli impiegati, è esattamente ciò che Petersen ha colto alla perfezione nel suo saggio, e il motivo per cui una soluzione reale non sembra che pura fantasia.

Ballard, della APA, è convinto che ci si sia concentrati troppo esclusivamente ad insegnare ai dipendenti a gestire meglio certe situazioni, scagionando così i datori di lavoro, responsabili di questa cultura tossica e di certe prassi.

“Non è giusto scaricare l’onere sull’individuo”, dice. “È importante monitorare i carichi di lavoro e strutturare il lavoro in modo da prevedere un’adeguata varietà di compiti, così che le persone siano impegnate in attività utili e significative”.

La visione di Petersen è molto più cupa.

“Finché non ci sarà una rivoluzione che rovescerà il sistema capitalistico – o magari senza arrivare a tanto – come possiamo sperare di alleviare o prevenire il burnout, invece di intervenire solo in maniera provvisoria? Il cambiamento può venire dalla legislazione o da un’azione collettiva, da un sostegno continuo alle istanze femministe, ma è una follia pensare che possa venire dalle aziende stesse. La nostra capacità di “esaurirci” continuando però a lavorare è il nostro valore più grande”.

Se lo scetticismo di Petersen è comprensibile – e facile da condividere – esiste però un altro approccio per cercare di risolvere il problema del burnout. J.J. Miller, vicerettore per la ricerca e direttore del Self-care Lab al College of Social Work dell’Università del Kentucky, rifiuta la tesi secondo cui dovremo riformare il capitalismo prima di poter affrontare efficacemente la questione dell’esaurimento da lavoro.

“Quando si pensa al burnout, si dice che bisogna cambiare tutto, il che non è realistico”, dice Miller. “E non è detto che debba per forza essere così”.

Per Miller, prendersi cura di sé deve diventare una “competenza professionale”, che ogni dipendente deve sviluppare e su cui ogni datore di lavoro deve investire come elemento vitale e di grande valore. Perché ciò accada, dobbiamo però ammettere che le stesse qualità che i datori di lavoro apprezzano di più nei dipendenti (arrivare presto, andarsene tardi, non dire mai di no), sono quelle che portano generalmente al burnout.

Prendersi cura di sé deve diventare una “competenza professionale”, che ogni dipendente deve sviluppare e su cui ogni datore di lavoro deve investire

Miller è ben consapevole del gap generazionale quando si parla di cura di sé. I millennial sono considerati egoisti per il loro desiderio di avere una vita personale appagante invece di immolarsi sull’altare della nove ore di lavoro quotidiane. E se ormai prendere in giro i millennial è uno sport nazionale, è altrettanto chiaro che i datori di lavoro sono diventati avidi.

Per poter cambiare in modo significativo la prassi aziendale volta a prosciugare ogni più piccola particella di energia dei lavoratori a forza di incentivi è necessario far passare il principio che se un datore di lavoro vuole un alto livello di produttività e dei risultati, deve investire nella cura della persona ben oltre i normali programmi di wellness per il personale.

Miller, che fa da supervisore a diversi dipendenti universitari, recentemente ha iniziato a mettere in pratica questo principio a modo suo. La definizione di strategie efficaci per il benessere della persona ora è un processo formale che è diventato parte della valutazione annuale dei dipendenti, dal momento che Miller la vede come parte integrante del lavoro. (Non è però rilevante per ricevere una promozione o aumento di stipendio).

Print Friendly, PDF & Email


Comments are closed.


%d blogger hanno fatto clic su Mi Piace per questo: