Il dibattito sul Rasoio di Occam. Secondo Petrucciani, prima di Marx la critica sociale si reggeva principalmente su un impianto moralistico. Ecco perché Marx ha segnato un progresso enorme nel pensiero cui fanno riferimento le classi subalterne. Ma questo progresso nasconde anche un lato meno positivo: esso occulta il problema della giustificazione, dell’ancoraggio razionale o valoriale della critica e del conflitto. Panissidi spiega come e perché Marx non ne abbia mai avuto bisogno e anzi opponga esplicitamente la prospettiva materialistica a quella etica.
Stefano Petrucciani, Marx e la giustizia
Sono grato a Ernesto Screpanti per aver esaminato con tanta accuratezza e con una notevole acribia critica alcune questioni sulle quali ho provato a ragionare in un libro recente che ho intitolato A lezione da Marx. Questo titolo non sta a significare, come si potrebbe pensare, che io voglia rivendicare in modo un po’ acritico un valore imperituro della lezione marxiana. Vuol dire invece qualcosa di completamente diverso, e cioè che, se si ragiona seriamente e criticamente su Marx, si possono imparare moltissime cose, e si ricevono tanti stimoli che possono essere efficacemente fatti reagire anche con le discussioni più aggiornate della teoria sociale e politica del presente.
Questo punto emerge perfettamente dalle considerazioni che Screpanti dedica al mio lavoro: Marx può dialogare con Rawls, Harsanyi, Sen e tanti altri, e talvolta può essere anche usato per muovere ad essi delle critiche molto precise. Da questi confronti emerge anche, e la cosa mi pare ben comprensibile, che le riflessioni di Marx sulle questioni della giustizia e della libertà sono molto meno sofisticate e assai meno articolate di quelle che si possono trovare nel grande supermarket del pensiero filosofico-politico contemporaneo.
Questo per due ragioni. La prima è che, per fortuna, anche la ricerca teorica e filosofica (come quella scientifica) progredisce, e dunque è inevitabile che, a quasi duecento anni dalla nascita di Marx, l’apparato di concetti e di ragionamenti di cui disponiamo si sia notevolmente incrementato. La seconda ragione è che (su questo punto Screpanti e io concordiamo) Marx non era interessato a uno sviluppo sofisticato e “tecnico” di questi concetti, perché riteneva di avere cose più importanti da fare (studiare le leggi di movimento della produzione capitalistica) e perché era iperconvinto della sterilità di ogni approccio di tipo astratto e moralistico alla critica sociale.
Ed è proprio questo il vero nodo sul quale bisogna fermarsi a ragionare, e sul quale si misura anche la distanza che separa le posizioni di Ernesto Screpanti dalle mie. Per capirlo, Marx va contestualizzato; nei socialisti e comunisti premarxiani (anche in quelli da Marx apprezzati come Weitling, che nasce nel 1808, dieci anni prima di Marx, e pubblica le sue opere principali negli anni Quaranta) la critica sociale non si regge solo su un impianto moralistico, ma talvolta addirittura evangelico: Weitling, per esempio, sostiene che i suoi elementi di fondo sono tutti già contenuti nel principio cristiano “Ama il prossimo tuo come te stesso”.
Rispetto a simili prospettive Marx opera, come è evidente, un capovolgimento totale: ciò che conta è studiare “scientificamente” i meccanismi dello sfruttamento e dell’oppressione di classe e mettere in campo forme di conflitto organizzato che possano contrastarli. Questa rottura segna evidentemente un progresso enorme nel pensiero cui fanno riferimento le classi subalterne come orizzonte teorico delle loro lotte. Ma questo progresso nasconde anche un lato meno positivo: esso occulta il problema della giustificazione, dell’ancoraggio razionale o valoriale della critica e del conflitto; e questo occultamento, dal mio punto di vista, dà luogo a serissime aporie della teoria di Marx, delle quali penso che Screpanti sottovaluti sostanzialmente la portata. L’aporia di fondo, in sostanza, è questa: dalla descrizione di uno stato di fatto (il modo in cui funziona l’economia capitalistica, le contraddizioni e le miserie che produce ecc.) non si può ricavare alcuna prescrizione su come ci si debba rapportare ad esso. E poiché i testi di Marx sono pieni di esortazioni e di prescrizioni (per es.: abolire lo sfruttamento), non si sfugge al seguente dilemma: o queste prescrizioni si basano su una teoria prescrittiva o normativa sottostante (per esempio una implicita teoria della giustizia) oppure non si basano su nulla e dunque sono arbitrarie, e Marx non ha nessun titolo per formularle.
Nel mio libro si cerca di sondare la prima via, e si giunge alla conclusione, sulla quale anche il mio critico concorda, che in Marx si trovano tante suggestioni interessanti per una eventuale teoria normativa, ma nessuna teoria compiuta e coerente in proposito. La grande differenza sta nel fatto che per Screpanti questo non è un problema, mentre per me è un problema serissimo, in quanto quello che viene a mancare è proprio una giustificazione razionale e argomentativa degli aspetti non descrittivi ma prescrittivi che nei testi marxiani sono indubbiamente presenti.
Di fronte a questo problema si possono imboccare varie strade: la prima è quella di far finta di niente (come fanno Screpanti e molti altri marxisti), e a me sembra del tutto insoddisfacente. La seconda è quella di cercare, attraverso una strumentazione concettuale di tipo hegeliano, di scardinare la separazione tra descrizione e prescrizione: ci si può provare, ma dubito molto che ci si riesca. La terza è quella (weberiana o kelseniana) di rassegnarsi al fatto che le prescrizioni sono possibili, ma solo a partire da valori che vengono postulati: postulando i valori di libertà ed eguaglianza, in una qualche loro specificazione, possiamo certamente ricavarne una critica del capitalismo. E’ una strada possibile, ma a me sembra poco interessante: finché restiamo nel campo dei postulati, ognuno può assumere quelli che più gli aggradano, e il discorso finisce lì.
L’unica strada che a me sembra meritevole di essere perseguita è la quarta: cercare una giustificazione più profonda dei nostri assunti prescrittivi, per esempio risalendo, secondo le indicazioni fornite da pensatori come Jürgen Habermas o Karl-Otto Apel, alla normatività che è già implicita nel linguaggio umano; inteso come una dimensione dentro la quale è già contenuto il diritto di ciascuno all’eguale riconoscimento come partner dell’interazione sociale, le cui esigenze devono essere prese in considerazione al pari di quelle di tutti gli altri. E’ una via difficile, certamente, ma a me sembra quella filosoficamente più attraente; almeno per chi sia interessato a indagare in profondità quali siano le ragioni che sostengono la critica alle tante forme (anche oggi tutt’altro che superate) di ineguaglianza e oppressione sociale.
Una parola, per concludere, sulla questione della democrazia. Anche qui la teoria di Marx, se la guardiamo come una proposta in positivo, non offre soluzioni, ma ci consente di confrontarci con molte interessanti aporie. Se la guardiamo come teoria critica, invece, formula un asserto che merita di essere preso molto sul serio: ci dice in sostanza che, anche nelle forme della democrazia politica moderna, il bandolo della matassa sta nelle mani dei poteri economicamente dominanti; che il potere economico del grande capitale controlla il potere politico più di quanto quest’ultimo non riesca a controllare o ad arginare il primo. Sarebbe sbagliatissimo (anche se talvolta è successo) prendere queste considerazioni come argomento per svalutare quel poco (o tanto) di democrazia che grandi processi storici hanno consentito di conquistare. Ma resta difficilmente aggirabile la constatazione che, finché permangono enormi dislivelli di potere sociale (economico, mediatico, culturale ecc.) la democrazia resta gravata da limiti troppo pesanti e rischia di trasformarsi davvero in una democrazia apparente. Questo mi sembra un pezzo della lezione di Marx al quale non è il caso di rinunciare.
Stefano Petrucciani è Professore ordinario di Filosofia politica alla “Sapienza” – Università di Roma. Fra i suoi libri più recenti: A lezione da Marx (Manifestolibri, 2012) e Marx (Carocci, 2009).
Giuseppe Panissidi, Marx, il caso e la giustizia
Il processo di estrazione del plusvalore non interpella nessuna questione di giustizia e non richiede nessun principio morale per essere “corretto”. “Giusta” è solo la società che riesce a sviluppare appieno le potenzialità che le sono intrinseche. Ed è su questo terreno che il capitalismo, specie quello finanziarizzato della nostra contemporaneità, sta mostrando la corda
Chi trova un operaio, trova un tesoro. Una boutade solo apparente, se si considera che racchiude il valore e il significato che Marx annette alla sua analisi critica del modello di produzione con capitale.
“Il fatto che dall’impiego del lavoro salariato il capitalista, quale semplice agente del capitale, ricavi più di quanto investe, costituisce una particolare fortuna per lui, non un’ingiustizia per il lavoratore”.
Il senso del discorso non potrebbe essere più chiaro. L’intero fenomeno del “plus-lavoro”, dunque del profitto, non inerisce alla dimensione morale. Non integra violazioni dell’etica. Non interpella questioni di giustizia. Astrazioni indeterminate. Il capitalista è semplicemente un uomo “fortunato”. Come funzionario del capitale, si trova ad agire in condizioni sommamente vantaggiose, che gli consentono di ottenere il più dal meno, e nel modo più “naturale”. Da qui, a ben vedere, la ferma opposizione di Marx alle distorsioni ottiche di ogni reverie utopistica, a ogni versione teorica della società capitalistica che si ispiri all’idea di giustizia. E qui, altresì, il limite radicale, se non il divieto, del ricorso al principio morale nell’analisi delle “contraddizioni di struttura” del sistema. Qui, insomma, il discrimine, aspro e forte, tra lo slancio lirico e sofferto dell’anima bella e il volo alto della morale evangelica, da una parte, e il rigore laico e umano dell’intelletto scientifico, o che tale si presuma, dall’altra. S’impone, perciò e una volta di più, l’esercizio del Rasoio di Occam.
Ne discende un’idea di “società giusta” profondamente diversa dalle immagini sottese all’ampia costellazione delle filosofie politiche contemporanee, tutte più o meno classicamente, ancorché talora inconsapevolmente, intrise dell’”idea del bene”, pur declinata, in modo spesso raffinato, come ciò che è socialmente “necessario” o “utile” o “giusto” tout court. L’idea, per intendersi, di un’economia sociale “etica”. “Giusta”, invero, non è la società conforme a questo o quel modello “separato” ed astratto, normativo o empirico che sia, e più o meno razionale e sofisticato. “Giusta” è la società che riesca a realizzarsi e svilupparsi in conformità ai suoi propri meccanismi di working, in modo corretto ed efficiente. Marxiana precondizione, quest’ultima, del transito a una forma storica più evoluta di organizzazione sociale. Indefettibile presupposto, in assenza del quale non c’è “grande riforma”, men che mai “rivoluzione”, che tenga. Se, nel corso dello sviluppo storico, il capitalismo, anziché evolvere verso la sua piena realizzazione “progressiva”, ha attraversato, inabissandosi, ogni possibile inferno, ciò non è dovuto all’”ingiustizia” o “immoralità” della sua configurazione sistemica. Perversioni siffatte sono imputabili unicamente alla dissennata gestione del sistema, dei sistemi, da parte dei suoi stessi “amministratori”, a quel conflitto, sovente carsico, del e nel capitale capace di generare esiti estremi – non solo guerra – se non, a dir poco, tragicomici. Basti pensare alle grottesche avventure dell’odierna finanza speculativa e virtuale, magicamente pari a dieci volte il prodotto globale dell’economia reale. Altro che “bolle” keynesiane. Potente produzione di Storia, comunque, almeno pari a quella storicamente emersa dal conflitto di classe, seppure ontologicamente cieca alla luce sublime della ragion pratica. Senza escludere dalla contabilità, va da sé, le fatali, “naturali” negatività della Storia.
Sul punto, Marx è esplicito. I modi di produzione evolvono sempre nella relazione che li stringe con l’assetto dinamico delle forze produttive. Perché
“la società non è fatta di uomini. Essa consiste piuttosto nella trama delle relazioni che gli uomini intrecciano reciprocamente”.
Il vizio, dunque, non risiede tanto o soltanto nell’ossimoro pratico della legale estorsione di plus-lavoro, in contesti di potere di comando sul lavoro, quanto piuttosto nelle modalità empiriche di un utilizzo che continua a rivelarsi incapace di assicurare uno sviluppo delle forze produttive, se non “razionale”, almeno ad un “accettabile” tasso di alienazione, “mediamente normale”, per usare la terminologia freudiana. Ed è proprio questo corno dello sviluppo che è mancato, a vantaggio non indispensabile di quello materiale ed acquisitivo, limitato e ridotto a una sola dimensione. Con previa e conseguente distorsione/amputazione della crescita delle condizioni favorevoli alla grande trasformazione, il marxiano “ingresso nella Storia”, appunto, volano di una fase di Storia e di Cultura opportunamente scevra da idealistiche nostalgie e da improbabili cariche millenaristiche e messianiche. Il grande salto qualitativo. Quando, allora, e solo allora, l’Angelo di Klee e di Benjamin potrebbe (ri)volgere lo sguardo in avanti. Enfin.
Il monotono refrain del “non è giusto” ha finora prodotto soltanto, e nel migliore dei casi, rimpianti e tristezza, rabbia e impotenza. Grande “cultura”, indubbiamente, ma, altresì, involontario viatico e sostegno alla dissennata gestione di cui sopra. Eterogenesi dei fini. Queste le specifiche che rendono a Marx del tutto estranei, nelle condizioni date, un interesse e un’attenzione salienti per il tema classico della giustizia e della moralità, perciò annesso allo spazio della ”interpretazione”, necessaria certo, ma impotente, di per sé. Finanche nella prospettiva della devianza sociale e antigiuridica, egli opportunamente osserva che anche “questo è lo Stato”, nell’insieme dei suoi apparati regolativi e repressivi. I quali, in mancanza di quel fenomeno, non avrebbero ragione di esistere. Questo Stato non avrebbe ragione di esistere.
L’universo del capitale ha già la sua “legge morale”, ontologicamente soggiacente, che perciò si erode, si è erosa sempre più: la “morale del pagamento in contanti”. L’”altra moralità” è finora apparsa soltanto come sogno e aspirazione, desiderio e pulsione. Non poteva che essere così. Perché una nuova, effettuale moralità può sorgere esclusivamente sul terreno di mondi sociali, culturali e umani, nuovi, non mai come pura contrapposizione/sovrapposizione all’esistente di idee e sentimenti “superiori” e allotri. Disancorati da “ciò che è”, interfacce, tutt’al più. Sempre che non si versi in tema di conclamata e, purtroppo, anche esaltata ipocrisia, naturalmente. Perché, come Hegel conclusivamente argomenta, al riguardo:
“Chi si crede migliore di questo suo mondo, non può che esprimerlo nel modo più alto”.
Incarnare l’idea di giustizia e la pura coscienza morale, pur nell’intera gamma del dolore universale, non cambia, non ha mai cambiato il corso del mondo. No, fuori dal mondo non è possibile (neppure) cadere.
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