Un saggio critico del postmodernismo dedicato da un nuovorealista al saggio di Franca D’Agostini Realismo? Una questione non controversa. Utile per la ricostruzione dei riferimenti classici del dibattito aperto dal Nuovo Realismo, se si riesce a tollerare lo stile polemico di una rissa accademica. Tratto da Micromega,
“Proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni”
Realismo? Una questione non controversa di Franca D’Agostini (Bollati Boringhieri, 2013) consta di una pars destruens e di una pars construens. Nella prima, si sostiene che il Nuovo Realismo non porta da nessuna parte. Nella seconda, si stabilisce qual è il realismo realmente nuovo di cui sarebbe invece proficuo discutere.
Secondo D’Agostini, il dibattito innescato dall’articolo di Maurizio Ferraris, “Manifesto del Nuovo Realismo” (8 agosto 2011) è viziato da un “fraintendimento capitale”, che consiste nella “sistematica confusione fra realismo metodologico e realismo metafisico” (p. 19). D’Agostini identifica il realismo metafisico con la tesi per cui
“qualcosa è reale, o anche: esistono fatti” (p. 166),
e ritiene che si tratti di una tesi “non controversa”, che nessuno ha mai preteso di mettere seriamente in discussione. Per capire come mai, basti considerare quel passo della Metafisica in cui Aristotele osserva che per un vero antirealista metafisico non farebbe nessuna differenza andare a Megara o buttarsi in un pozzo; dato che per tutte le persone sane di mente l’alternativa fra Megara e il pozzo è cospicua, se ne inferisce che non ci sono antirealisti metafisici (o, perlomeno, se ci sono, hanno gravi problemi mentali e farebbero meglio a curarsi invece che partecipare a un dibattito filosofico).
L’antirealista metafisico dunque non esiste e non è mai esistito – al limite, se mai è esistito, è caduto dentro a un pozzo, o è stato ricoverato in una casa di cura. Ma allora, com’è possibile che persista un dibattito come quello sul Nuovo Realismo, in cui alcuni filosofi criticano l’antirealismo metafisico attribuendolo ad altri filosofi? Ovvero:
“Quale ‛realismo’ è un realismo che si definisce contrapponendosi a un antirealismo inesistente, mai sostenuto da nessuno?” (p. 65).
Qui uno potrebbe obiettare: ma come? Non è stato proprio Nietzsche, uno dei filosofi più influenti nell’era contemporanea, ad aver sostenuto che “non ci sono fatti, solo interpretazioni”? Non era forse Nietzsche un antirealista metafisico? E non lo sono dunque, in qualche misura, quei filosofi come Heidegger, Deleuze e Vattimo che hanno convintamente sviluppato l’antirealismo nietzschiano?
La replica di D’Agostini si articola in due mosse. Primo, Nietzsche non faceva sul serio, perché nell’aforisma 22 di Al di là del bene e del male, in cui scrive “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, subito dopo precisa:
“voi direte: anche questa è un’interpretazione; e io vi risponderò: ebbene, tanto meglio!”.
Per D’Agostini si tratta di una “precisazione autoironica” (p. 35) che neutralizza la portata metafisica dell’asserto nietzschiano. Tuttavia nell’aforisma 22 di Al di là del bene e del male, dove si trova la “precisazione autoironica”, Nietzsche non enuncia la tesi “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, ma si limita a polemizzare, con toni humeani, contro la nozione di causalità usata dagli scienziati. La tesi “proprio i fatti non ci sono, bensì solo interpretazioni” si trova invece nei Frammenti postumi, asserita in tutta serietà, senza nessuna precisazione autoironica a smorzare l’antirealismo metafisico.
Sebbene Nietzsche non stesse scherzando nel sostenere che non ci sono fatti […], si potrebbe sempre sostenere che stavano scherzando i suoi seguaci novecenteschi. Scherzavano nel senso che non sostenevano davvero un antirealismo metafisico, bensì quello che D’Agostini chiama antirealismo metodologico, cioè il rifiuto del principio per cui “bisogna richiamarsi alla realtà, fare riferimento alle cose come stanno” (p. 19). Gli antirealisti metodologici, insomma, non negano che esista la realtà; mettono soltanto in discussione che sia opportuno occuparsene.
Secondo D’Agostini, l’esistenzialismo di Heidegger, l’ermeneutica di Gadamer e il pensiero debole di Vattimo sono tutte varianti dell’antirealismo metodologico, le cui radici affondano nella filosofia trascendentale di Kant – della cosa in sé non è dato sapere, accontentiamoci di quel che passa il convento, ovvero i fenomeni, le apparenze, le interpretazioni.
Resta però la sensazione, avvertita in vari ambiti, che alcuni postmodernisti abbiano sostenuto in tutta serietà che non ci sono fatti ma solo interpretazioni. D’Agostini cerca di spiegare questa sensazione nei termini di una trama ordita da alcuni cospiratori, in particolare il fisico americano Sokal, il filosofo americano Rorty e il filosofo italiano Ferraris. Costoro avrebbero screditato il pensiero postmodernista attribuendogli un antirealismo metafisico che nessuno si era mai sognato di sostenere, e addirittura avrebbero influenzato alcuni filosofi postmodernisti sospingendoli verso posizioni equivoche. Ad esempio, segnala D’Agostini,
“dalla metà degli anni ottanta […] Vattimo, sotto l’influenza congiunta di Rorty e Ferraris […], sembra dimenticare le basi trascendentali della sua formazione” (p. 70).
Sotto l’influenza congiunta, le basi trascendentali si sfaldano, i fatti diventano interpretazioni, il mondo favola:
“La vera essenza, se si può dir così della volontà di potenza è ermeneutica, interpretativa. La lotta delle opposte volontà di potenza è anzitutto lotta di interpretazioni. Ciò corrisponde al divenire favola del mondo vero: non c’è altro che il mondo apparente, e questo è il prodotto delle interpretazioni che ciascun centro di forza elabora” (Vattimo 1985, p. 96).
L’antirealismo metafisico si rivela in tal senso il frutto di una cospirazione, con i pensatori postmodernisti travisati o addirittura plagiati dai dottor Mabuse di fine secolo. In questa spiegazione mabusiana del postmodernismo c’è però qualcosa che non torna. Prendiamo ad esempio quel brano di Il secolo breve in cui Eric Hobsbwam scrive:
“Tutti i postmodernisti hanno in comune uno scetticismo essenziale circa l’esistenza di una realtà oggettiva” (1994, p. 600).
Anche Hobsbawm era finito sotto l’influenza congiunta di Rorty, Sokal e Ferraris? Pare strano. Più probabile che il grande storico avvertisse qualcosa di profondamente nocivo in quegli atteggiamenti che, in un articolo successivo egli stesso caratterizzerà come
“mode intellettuali postmoderne nelle università occidentali, soprattutto nei dipartimenti di letteratura e antropologia, le quali insinuano che tutti i ‛fatti’ che pretendono di avere un’esistenza obiettiva sono soltanto costruzioni intellettuali” (1997, p. 18).
A volersi fidare di Hobsbawm, gli antirealisti metafisici nelle università occidentali c’erano per davvero, e probabilmente c’era anche qualche professore di filosofia che riforniva di antirealismo metafisico i colleghi letterati e antropologi che a loro volta spacciavano mode antirealiste ai propri studenti. È difficile stabilire con certezza se questo traffico di antirealismo è oggi del tutto concluso, ma se anche fosse, non sembra così deplorevole vigilare affinché non faccia ritorno.
“Le intuizioni senza concetti sono cieche”
L’argomento di D’Agostini contro il Nuovo Realismo segue questo schema: (1) nessuno ha mai sostenuto seriamente che non ci sono fatti; (2) il Nuovo Realismo si limita a criticare chi sostiene che non ci sono fatti; dunque (3) il Nuovo Realismo parla del nulla. Abbiamo visto che la premessa (1) è discutibile. Tuttavia, anche a volerla prendere per buona, resta comunque un problema ben più serio nella premessa (2), perché il Nuovo Realismo non si limita a criticare la tesi di Nietzsche per cui non esistono fatti, ma critica anche la tesi di Kant per cui le intuizioni senza concetto sono cieche.
D’Agostini concentra tutte le sue energie a mostrare che la critica nuovo-realista ai fatti inesistenti di Nietzsche va fuori bersaglio, ma trascura completamente la critica alle intuizioni cieche di Kant. Eppure è proprio su questo punto che si innesta la dimensione propositiva del Nuovo Realismo: l’esplorazione delle conseguenze ontologiche della psicologia ecologica di Gibson (1979) e della fisica ingenua di Bozzi (1990). La tesi fondamentale, in tal senso, è che la nostra esperienza condivisa del mondo non riguarda fenomeni, apparenze, interpretazioni, bensì fatti veri e propri. Kant aveva torto a sostenere che le intuizioni senza concetto sono cieche. La maggior parte delle intuizioni ci vede benissimo, senza bisogno di concetti di complemento. Dunque, per rispondere alla domanda ontologica fondamentale, ‛che cosa c’è?’, non occorre per forza rivolgersi ai fisici dei bosoni o ai metafisici dei tropi. Le nostre intuizioni ci informano con sufficiente approssimazione su come stanno le cose nel mondo reale. Per quel che riguarda le regioni dell’essere da cui dipende la nostra vita e la nostra felicità, la fonte primaria dell’ontologia può essere benissimo la nostra esperienza condivisa del mondo.
L’idea che l’esperienza non raffiguri il mondo ma piuttosto ci connetta al mondo svolge un ruolo cruciale anche in altri ambiti della filosofia contemporanea, ad esempio nelle teorie causal-informazionali della mente (Dretske 1981) e del significato (Evans 1982), ma soprattutto in quelle filosofie della percezione (Lowe 1996, Putnam 1999, Noë 2004) che, sviluppando le intuizioni di Gibson, sostengono il realismo diretto – la posizione per cui i sensi ci danno accesso direttamente ai fatti del mondo reale, senza bisogno di una mediazione da parte dei concetti. Di questi dibattiti, tuttavia, nel libro di D’Agostini non c’è traccia. Ad esempio si osserva che nel realismo interno di Putnam
“‘il pensiero del fuori’ resta metodologicamente escluso” (p. 133),
ma non si tiene conto che Putnam, muovendo dal realismo interno al realismo diretto, trova un modo per includere nella sua concezione della realtà il “pensiero del fuori”.
A scorrere le pagine di Realismo? sembra che la filosofia della percezione sia rimasta ferma alla vecchia, e ormai screditata, teoria dei sense data. In particolare, D’Agostini si sofferma su una forma di empirismo che a suo dire
“è considerata nella tradizione (e nella filosofia analitica) dominante, primaria”, e che “è la base del cosiddetto fenomenismo scettico”,
caratterizzandola nei termini seguenti:
“tutto quel che chiamo R [reale] sembra stare nel qui e ora della mia esperienza, dunque l’R non è realmente R, ma è piuttosto ‛mi risulta R’ o ‛credo che sia R’” (p. 130).
Ora, questo fenomenismo scettico era forse “dominante, primario” ai tempi di Cartesio o di Berkeley, magari lo era ancora ai tempi di Mach o di Russell, ma di sicuro non lo era più per Austin, Grice, Strawson e Sellars, come non lo è più per gran parte dei filosofi analitici contemporanei che si occupano di percezione. In particolare, il fenomenismo scettico non ha nulla a che spartire con il Nuovo Realismo, che ha come punti di riferimento imprescindibili il lavoro di psicologi come Gibson e Bozzi, per i quali il fenomenismo scettico era il principale obiettivo polemico. In tal senso suona madornale l’affermazione di D’Agostini per cui il Nuovo Realismo
“si presenta come una forma di empirismo settecentesco” (p. 192),
cioè come un avatar contemporaneo del fenomenismo scettico. Questa affermazione suona madornale perché la teoria della percezione su cui si basa il Nuovo Realismo è proprio agli antipodi dell’empirismo settecentesco e del fenomenismo scettico.
D’Agostini insiste giustamente sul fatto che per il Nuovo Realismo
“quel che conta è la lettera, e non lo spirito […] quel che conta è l’apparenza” (p. 67),
ma non si rende conto che, nella prospettiva di Gibson e Bozzi (come d’altra parte in quella di Strawson e Evans) l’apparenza non si riduce a mera impressione soggettiva, e costituisce invece la connessione fondamentale che lega i soggetti al mondo. Dunque interrogare il mondo partendo da quel che ci dice l’esperienza non significa, contrariamente a quanto suggerisce D’Agostini,
“confondere e sovrapporre epistemologia e ontologia” (p. 153).
Sarebbe così soltanto se si adottasse una concezione fenomenista scettica dell’esperienza, in base alla quale – come nota D’Agostini stessa – risulta impossibile
“‛uscire’ dal campo definito dell’esperienza, per esplorare che cosa c’è fuori” (p. 132).
Invece l’ontologia nuovo-realista, nel fondarsi sulle teorie della percezione di Gibson e Bozzi, sostiene esattamente il contrario: la percezione non consiste nel proiettare un film ingannevole dentro la mente, ma proprio nell’esplorare che cosa c’è fuori.
In questa prospettiva, le intuizioni senza concetti non sono cieche, dunque le apparenze che condividiamo mediante la percezione sono la strada maestra verso l’ontologia (verso l’esplorazione di quel che c’è fuori). L’esperienza ci mette in contatto con la realtà con un’immediatezza che sfugge alla logica, al linguaggio e alla scienza. D’Agostini presuppone che ogni ontologia che si basi sull’esperienza si riduca a epistemologia empirista o peggio ancora a fenomenismo scettico. Ma questa non è un’argomentazione, bensì una petizione di principio che trascura il dibattito contemporaneo in psicologia e filosofia della percezione, nel quale risulta cruciale la tesi per cui i sensi ci forniscono un accesso diretto e non-concettuale alla realtà. Insomma, D’Agostini attribuisce erroneamente al Nuovo Realismo una teoria della percezione antiquata per poi concludere che il Nuovo Realismo è antiquato per colpa di questa teoria della percezione.
Metà fisica e metà logica
La debolezza della pars destruens di Realismo? non ne inficia tuttavia la pars construens, che consiste nella proposta di un realismo “realmente nuovo” (p. 191) – quel che si potrebbe definire un Nuovissimo Realismo. Sebbene la critica al Nuovo Realismo vada fuori bersaglio, nulla esclude che il Nuovissimo Realismo rechi in sé virtù tali da renderlo preferibile rispetto al suo rivale. Ma in che cosa consiste la novità?
Il Nuovo Realismo si proponeva come un’ontologia, cioè una catalogazione del dominio dell’essere, una schedatura delle entità delle quali la nostra esperienza condivisa ci assicura l’esistenza; invece il Nuovissimo Realismo ha le parvenze di una metafisica, cioè un’indagine sulle strutture ultime di quel che esiste. Il nuovo-realista vedeva un tavolo (o un documento, o un telefonino) e si chiedeva che genere di oggetto fosse, quale ruolo svolgesse, a quali altri oggetti assomigliasse; insomma, cercava di collocarlo nella propria mappa, come fa un cartografo quando si imbatte in una nuova isola. Invece il nuovissimo-realista non è interessato alle mappe, e vuole sapere piuttosto come è fatto il tavolo, se sia davvero un tavolo o piuttosto uno sciame di particelle “a forma di tavolo”, e quali siano i costituenti ultimi del tavolo, quelli per cui è davvero il caso di parlare di realtà in senso stretto.
A questo punto uno potrebbe dire: d’accordo, Nuovo Realismo ontologico e Nuovissimo Realismo metafisico sono due generi di ricerca differente, che possono benissimo coesistere e cooperare nell’analisi dell’essere, come l’architetto e il fabbricante di mattoni cooperano nella costruzione di un edificio. Perché mai creare una contrapposizione conflittuale dove potrebbe esserci, e di fatto c’è, complementarietà e cooperazione? Filosofi come Achille Varzi sostengono proprio una posizione siffatta, per cui fra ontologia e metafisica sussiste una forma di cooperazione virtuosa. Ma a D’Agostini questa divisione del lavoro filosofico non sta bene:
“Non condivido del tutto alcune conclusioni di Varzi: per esempio, ‛che uno possa limitarsi e esplicitare il proprio credo ontologico senza imbarcarsi in speculazioni metafisiche di sorta’. Ho l’impressione che sia difficile dire: ‛ci sono P’ senza preoccuparsi di come siano effettivamente fatti i P” (p. 189).
In questo modo, Realismo? mette l’ontologia di fronte a un bivio: o confluire nella metafisica oppure ridursi a epistemologia, a teoria della conoscenza. Questo aut-aut sembra però basarsi su un presupposto che abbiamo già visto essere inaccettabile: la svalutazione dogmatica dell’intuizione e della percezione, ridotte al rango di fenomenismo inaffidabile, mero sfarfallio della soggettività. Se le intuizioni senza concetti sono cieche, allora per parlare di quel che c’è (cioè fare ontologia), occorre andare a vedere da che cosa è composto quel che c’è (cioè fare metafisica). Tuttavia questo esito è inevitabile solo se si presuppone, come fa D’Agostini, il dogma fenomenista per cui la percezione non è uno strumento affidabile di conoscenza della realtà. Se invece si rifiuta il dogma fenomenista, e si riconosce che le nostre intuizioni ci forniscono un accesso diretto a regioni importanti della realtà, allora l’ontologia può tracciare le sue mappe del mondo senza bisogno di ricorrere al microscopio della metafisica.
Occorre poi aggiungere che la riduzione dell’ontologia alla metafisica mediante il dogma fenomenista, su cui si regge tutto il discorso di Realismo?, sembra risultare problematica non solo per l’ontologia che viene ridotta, ma anche per la metafisica che la riduce. Se le intuizioni non sono affidabili, allora la metafisica, nell’indagare i costituenti ultimi della realtà, dovrà fare affidamento su qualcos’altro. Su che cosa? Ecco la risposta:
“quando chiedo se e come questi oggetti esistano, e quale sia la loro costituzione interna, in base alla quale possiamo dire che sono esistenti, allora è naturale che io faccia riferimento alla fisica, o ad altre scienze […] Se domando: ‛come è fatta la realtà?’ e voglio dare una risposta filosofia, ma scientifica (intendendo per scienza una ricerca basata sul ‛mondo in comune’, come dice Kant, e non sulle mie esperienze individuali), allora devo certamente confrontarmi con la realtà così come è essenzialmente esaminata dalle altre scienze, ed essenzialmente dovrò dare fiducia alla fisica” (p. 153).
Nel ridurre l’ontologia alla metafisica, il Nuovissimo Realismo finisce per ridurre la metafisica alla fisica. Il realismo “realmente nuovo” scolora così nel fisicalismo, la tesi per cui l’unica metafisica degna di nota è la fisica – tutto quel che c’è da dire sulla realtà, ce lo può dire la fisica. È arduo però capire che cosa ci sia di “realmente nuovo” in questa tesi, che è stata il principale Leitmotiv filosofico del Novecento, sia sul versante neopositivista-pragmatista, per cui la fisica liquidava la metafisica, sia sul versante esistenzialista-ermeneutico, per cui fisica e metafisica si rivelavano le due facce di una stessa medaglia della quale ci si voleva sbarazzare.
D’Agostini stessa sembra rendersi conto che il Nuovissimo Realismo non può limitarsi a riproporre il fisicalismo, e nella parte conclusiva del libro corre ai ripari proponendo una serie di rimedi. Il primo tentativo, in tal senso, consiste nell’introduzione della nozione di scienza totale:
“il concetto di ‛scienza totale’ ci spiega bene quale sia la ‛scienza’ di cui parliamo in metafisica quando diciamo che la scienza ci offre informazioni sulla realtà. La scienza totale è semplicemente l’impresa scientifica nella sua totalità […] Dunque quando parliamo di scienza in metafisica ci confrontiamo nei singoli casi con la scienza attuale, ma la concepiamo (idealtipicamente) come ‛scienza completa’” (p. 155).
In questo modo però il Nuovissimo Realismo rischia di trasformarsi in un fisicalismo messianico: la metafisica come attesa speranzosa della fisica dell’avvenire, o come profezia dell’avvento dell’idealtipo della scienza completa. Non sembra una prospettiva particolarmente entusiasmante per i filosofi, ai quali si attribuisce una vago ruolo di “mediazione fra senso comune e scienza” (p. 154), una “mediazione dialettica” (p. 155) di cui si stenta a scorgere l’incidenza effettiva. La fisica, incompleta o completa che sia, va avanti per proprio conto, e il massimo che possono fare i metafisici nuovissimo-realisti è aggiornarsi sulle nuove teorie dei fisici, e prenderne atto.
Un’altra strada percorsa da D’Agostini nel tentativo di ritagliare uno spazio per la filosofia nel quadro del fisicalismo consiste nel richiamarsi allo “spirito della logica” (p. 182): se anche la metafisica si riduce alla fisica, la fisica deve comunque basarsi sulla logica. Qui però sembra esserci un problema lessicale. La logica su cui si basano la matematica e la fisica contemporanee è fondamentalmente quella di Hilbert, cioè una logica i cui termini dipendono dalla scelta arbitraria degli assiomi, senza nessun riferimento alla realtà. Nel celebre esempio di Hilbert, lo stesso termine logico potrebbe essere trattato a piacimento come punto, retta, piano, oppure boccale di birra; l’unica cosa che conta, dal punto di vista della logica, è che sia usato conformemente agli assiomi. Non sembra però che questo genere di logica abbia molto a che fare con la metafisica e con il realismo – e, in effetti, D’Agostini si guarda bene dal menzionare Hilbert. La “logica” il cui “spirito” è invocato in Realismo?, sembra corrispondere piuttosto a quella disciplina che di solito viene chiamata “semantica formale”, e che si può caratterizzare come il tentativo di ricondurre il significato delle proposizioni a condizioni di verità calcolabili in base ai concetti che compongono le proposizioni.
Una volta chiarito che lo “spirito della logica” non è altro che la semantica formale, tuttavia, l’affermazione di D’Agostini:
“la semantica formale […] è precisamente quella semantica che è alla base della logica moderna” (p. 184)
si riduce all’ovvietà per cui la semantica formale è alla basa di se stessa. Inoltre non si capisce bene che cosa ci sia di “realmente nuovo” in tutto questo. La semantica formale è un imponente programma di ricerca epistemologico, inaugurato da Frege (il cui carteggio, assai conflittuale, con Hilbert testimonia che la semantica non è alla base della logica), proseguito da Tarski, Carnap, Montague e Kaplan, ed entrato in crisi verso la metà degli anni ottanta – grossomodo negli stessi anni in cui Vattimo finiva sotto l’influenza congiunta di Rorty e Ferraris. Qui però non si tratta di una cospirazione. A mettere in crisi la semantica formale è piuttosto l’esigenza di
“ricondurre la semantica dal cielo alla terra” (Marconi 1997, p. 7),
ovvero la consapevolezza che la semantica non può essere soltanto formale, e che gli strumenti della logica non sono sufficienti per ancorare il significato alle cose reali. Se si vuole passare dalla dimensione inferenziale (infra-linguistica) a quella referenziale (extra-linguistica), integrando la cultura libresca con un sapere che verta sulla realtà, allora occorre rivolgersi alle scienze cognitive, alla psicologia e alla filosofia della percezione, ovvero a quelle teorie e quei dibattiti di cui, nelle pagine di Realismo? Una questione non controversa, non si trova traccia.
Nulla esiste, tutto esiste
Al di là dei miti della “scienza idealtipica” e dello “spirito della logica”, il Nuovissimo Realismo consiste nell’accostamento di tre celebri dottrine metafisiche: la teoria dell’oggetto di Meinong (1904), la teoria degli universali di Armstrong (1978) e la teoria dei mondi possibili di Lewis (1986). D’Agostini presenta queste teorie in maniera altisonante. Ad esempio la teoria degli universali di Armstrong viene introdotta da un paragrafo intitolato “la disfatta del nominalista” che si apre nel modo seguente:
“Dopo una prima fase realista, nella filosofia analitica dominano diverse versioni di nominalismo. Ma la situazione si ribalta, quasi all’improvviso, con lo sviluppo della ricerca in metafisica […] Il rilancio in grande stile della prospettiva realista viene effettuato nell’opera di Armstrong Universals and Scientific Realism” (p. 200).
Sullo stesso tema, tuttavia, Varzi fornisce un resoconto un po’ diverso: “
Nell’ambito della filosofia analitica, la corrente realista è stata sicuramente dominante. Da Frege a Russell, da Strawson a Bergmann, da Armstrong a Mellor, la tesi per cui i predicati (o certi predicati) devono corrispondere a universali di qualche tipo è stata fatta propria da filosofi anche molto diversi fra loro, e sulla base di considerazioni molteplici” (da Storia della filosofia analitica, a cura di D’Agostini e Vassallo, 2001, p. 185).
Varzi non attribuisce al nominalismo né una fase di egemonia né una successiva disfatta; anche quando ritorna sull’argomento in alcuni testi successivi (2005, pp, 52-66; 2008, pp. 329-332), egli si guarda bene dal ricostruire il dibattito analitico sulle proprietà come una vicenda di ascesa e caduta del nominalismo; anzi, è sempre molto attento a evidenziare che il dibattito fra universalisti e nominalisti è tutt’ora in corso, e dall’esito incerto. Ma se le cose stanno così, perché allora D’Agostini sostiene che “nella filosofia analitica dominano diverse versioni di nominalismo” finché, “quasi all’improvviso”, arriva Armstrong a provocarne la “disfatta”? Qui la ricostruzione storiografica sembra adottare un registro stilistico un po’ enfatico e tendenzioso, allo scopo di far passare per realismo “realmente nuovo” una rispettabilissima teoria metafisica che tuttavia proprio nuova non è.
Per quanto riguarda gli altri due assi nella manica del Nuovissimo Realismo, la teoria dell’oggetto di Meinong (nella variante “noneista” di Priest) e la teoria dei mondi possibili di Lewis, c’è innanzitutto un problema lessicale. Non si capisce bene per quale ragione si debba chiamare realismo una concezione della realtà nel cui inventario non ci si accontenta di includere il quadrato rotondo e l’attuale re di Francia, che già pare un’enormità, ma si asserisce persino che “esistono realmente infiniti mondi possibili” (p. 204), compresi quelli in cui gli agnelli mangiano i lupi o gli ebrei sterminano i nazisti. Certo, sempre di realismo si tratta, nel senso che si sostiene che qualcosa sia reale, però lungo questa china anche l’astrologia si potrebbe caratterizzare come realismo sui segni zodiacali.
D’Agostini mostra contezza del problema e cerca di arginare l’inflazione di realtà sostenendo che reale significhi innanzitutto
“stare-essere presente nel mondo attuale […] descritto dalla fisica come mondo-spazio temporale” (p. 180).
Così però si torna al fisicalismo, al reale come ciò di cui parla la fisica, e le regioni di realtà di cui la fisica non parla si riducono a “realtà”. Una realtà fra virgolette, come ai tempi d’oro del postmodernismo: una collezione di “fatti leggeri” (p. 189), un Kindergarten del reale dove si parcheggiano i filosofi mentre gli scienziati lavorano.
Il Nuovissimo Realismo si rivela, in ultima analisi, un postmodernismo soft. Non ci si spinge più ad asserire che nulla esiste, o che non ci sono fatti ma solo interpretazioni. Ci si limita a constatare che gli unici fatti che esistono in senso stretto sono quelli di cui si occupa la fisica. Al di fuori del dominio della fisica, la realtà è “pane vivente della ragione”, i fatti sono “leggeri”, e in fin dei conti tutto esiste, anche i mondi in cui gli asini volano e la luna è fatta di formaggio.
Realismo? Una questione libresca
Realismo? Una questione non controversa è un libro assai postmodernista anche per quanto riguarda lo stile di scrittura, che consiste in un uso metodico, sistematico, quasi ossessivo, della citazione, dell’ipse dixit, e della nota a piè di pagina, per cui l’effetto complessivo è un assemblaggio di pezzi di teorie di vari luoghi ed epoche, un patchwork filosofico, un realismo libresco. Aprendo una pagina a caso di Realismo? si ha quasi la certezza di imbattersi in una mezza dozzina di titoli di libri e nomi di filosofi.
Spesso le citazioni svolgono un ruolo meramente decorativo, per cui, ad esempio, si mette il lettore al corrente del fatto che una certa formula nietzschiana “sarebbe piaciuta molto a Paul Feyerabend” (p. 89). Altre volte il rimando erudito non è solo pletorico ma anche impreciso, come quando si attribuisce a Ryle l’individuazione di una presunta “fallacia Fido-Fido (vale a dire il cane linguistico come ritratto del cane reale)” (p. 169), sebbene Ryle parlasse invero di una fallacia ‛Fido’-Fido (con il primo termine rigorosamente virgolettato), che consiste nell’estendere a tutte le parole quel peculiare riferimento diretto agli oggetti che caratterizza il modo di significare dei nomi propri. Oppure si attribuisce al Wittgenstein del Tractatus la tesi per cui
“il mondo è fatto-di-stati-di-cose, ovvero combinazioni di oggetti (per esempio il gatto di Gilles) + proprietà-relazioni (per esempio essere sul divano)” (p. 185),
sebbene Wittgenstein dica chiaramente che “lo stato di cose è un nesso di oggetti” (TLP, 2.01) punto e basta. O ancora si trasforma lo zombie di Chalmers (che invero è un argomento anti-fisicalista riguardante un mondo possibile in cui vi sono creature fisicamente indiscernibili dagli esseri umani ma sprovviste di coscienza fenomenica) in un argomento scettico sulla mente degli altri:
“Tutti gli altri (tranne me) sono zombie, ossia individui privi di interiorità, che simulano emozioni ma non ne provano affatto” (p. 132).
Nel proporre a colpi di citazioni un solo grande realismo che passa da Kant e Hegel e arriva sino a Saul Kripke e David Lewis passando da Russell e Frege attraverso Hannah Arendt e Simone Weil, Realismo? Una questione non controversa sembra ispirarsi a uno dei testi fondativi del postmodernismo, Imparare da Las Vegas, in cui si valorizzava uno stile citazionista ed eclettico, basato sull’accostamento disinvolto degli elementi più disparati della tradizione e della contemporaneità. Non ci sono argomenti, solo citazioni.
Riferimenti bibliografici
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Wittgenstein, Ludwig (1922) Tractatus logico-philosophicus (trad. it. Einaudi, 1964).
Enrico Terrone è dottorando in filosofia presso l’Università di Torino. Si occupa di ontologia ed estetica. Ha pubblicato di recente i saggi “The Digital Secret of the Moving Image” (Estetika: The Central European Journal of Aesthetics, LI/VII, 1, 2014 ) e “Traces, Documents, and the Puzzle of ‘Permanent Acts’” (The Monist, 97, 2, 2014). I suoi ultimi libri sono “Filosofia delle serie TV” (con Luca Bandirali, Mimesis, 2012) e “Filosofia del film” (Carocci, 2014).
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