Pablo Pineda è un insegnante a attore spagnolo nato nel 1975 con la sindrome di Down. E’ stato il primo ragazzo europeo con Trisomia 21 a laurearsi (in Scienze della formazione).
Con il video Si podemos, girato con il gruppo di ragazzi down dell’Obra social di Madrid, la sua storia ha superato i confini della Spagna. Dall’età di sedici anni conduce trasmissioni televisive, rilascia interviste, gira film. La sua interpretazione in Yo tambien, una storia d’amore tra un ragazzo down e una ragazza normodotata, è stata premiata al Festival internazionale del film di San Sebastiàn. [Sottotitoli miei, traduzione di Greta Dormentoni. Attivarli cliccando sull’icona ]
In questa intervista, pubblicata da El Pais, il 12 dicembre 2003 e tradotta in italiano dal blog di Gigi Cortesi, Pablo Pineda ricostruisce la propria infanzia e la propria educazione. Il sevillano, ora trentanovenne, noto per essere stato il primo portatore di sindrome di Down a laurearsi, vi descrive la sua lotta per l’abbattimento del pregiudizio e dell’esclusione verso i ragazzi down, combattuta con il coraggio e l’abnegazione di chi ha qualcosa di più importante di se stesso a cui pensare [per approfondire, L’intelligenza].
La prima notizia che la mia era la sindrome di Down la ebbi a sei o sette anni. Un professore universitario che portava avanti il Progetto Roma¹, don Miguel Garcia Meleto, nell’ufficio del rettore mi domandò: ‘sai che cos’è la sindrome di Down?’. Io, innocentemente, gli dissi di si, anche se non ne avevo idea. Lui lo notò e si mise a spiegarmi che cosa fosse, anche se non era un genetista, ma un pedagogista. E io, siccome sono puntiglioso e ho una certa acutezza mentale, gli chiesi: ‘don Miguel, sono stupido?’ .
D. Perché glielo domandò?
Non so. E’ difficile saperlo. Chissà, se a sei anni ti associano ad una sindrome, tu lo associ al fatto di essere stupido o no. Lui mi disse che non ero stupido, e io gli domandai: “potrò continuare a studiare?”. Lui mi disse: “Si, certo”. Poi cominciò il processo della strada ; i bambini cominciarono a dirmi: “Poverino è malato”. E io mi infuriavo, perché non ero malato.
D. Però si vede che il suo viso è diverso.
Questo si. Che avevo gli occhi più distanti, che le mani non erano uguali. Non avevo mai visto altri bambini con la sindrome, però avevo la pulce nell’orecchio. Avevo una certa inquietudine. E questa cosa della sindrome che caspita sarà? In casa i miei genitori non avevano mai commentato nulla, però dopo quella prima notizia domandai a mia madre: “E’ vero che sono Down?”.
Ero con mio fratello Pedro, il maggiore, che a quell’epoca studiava medicina, e cominciò a spiegarmi cosa fosse la genetica, i geni; così mi resi conto. E tornai a fare loro la stessa domanda che feci al professore: “Posso continuare a studiare?” “Certo”, dissero tutti e due, “senza problemi”. Mi piaceva stare a scuola con i miei compagni. Quindi per un certo periodo, non mi interessò saperne di più; fino a quando studiando per diventare insegnante, a 21 anni, entrai nell’ambito dell’educazione speciale: lì mi rendo conto di che cosa è questo handicap. Anche se nel descriverla, i libri dicevano che era una malattia, parlavano della cultura del deficit, e di tutti i problemi che ne derivano. La sindrome era descritta come qualcosa di molto negativo. Quando incominciai a leggerlo mi dissi: io non sono così.
D. Pensò che fosse una sindrome di Down un po’ speciale?
Esattamente. Pensai anche che forse ero io speciale, e che altri affetti da sindrome di Down che avevo conosciuto, nemmeno loro erano come li descrivevano i libri. La letteratura ci descrive peggio di come siamo e ci esclude. Circa la capacità motoria, ti spiegano tutto ciò che dovrebbero invece trattare come capacità mentale. Il mentale si vende sempre peggio del corporeo. Dicono che siamo deficienti, che siamo ritardati. E che non c’è nessuna soluzione, il che è la cosa peggiore. Si limitano alle alterazioni visibili e associano il mentale con la pazzia, perché una volta non si distingueva tra deficienza mentale e malattia mentale. E tuttavia si confonde…Così quando la gente vede un handicappato mentale dice: questo è pazzo. Handicap si associa alla pazzia.
D. Le costava studiare più degli altri?
No. Bè, c’è da dire che i numeri e la matematica non mi piacciono per nulla; però ciò non è qualcosa di straordinario, né caratteristico della sindrome di Down.
D. Suppongo che l’adolescenza dovette essere una tappa più dura che l’infanzia.
Sono passato per periodi differenti. Quando incominciai, in prima liceo, nessuno si aspettava un affetto dalla sindrome di Down nell’istituto, e la gente mi guardava come dicendo : che ci fa questo, qui. Fecero una cosa illegale, i professori dovettero votare per la mia ammissione nell’istituto. Così che fu duro. Però poco a poco mi levai quell’aurea di magia o di tenerezza e conquistai i miei compagni, perché ero ben cosciente che dovevo farlo. Con i compagni sapevo che dovevo agganciarli parlando, mettendomi in mezzo a loro e fu ciò che feci. E reagirono molto bene; la prima liceo fu una bella esperienza. E i professori, al di là del fatto che avessero votato, li conquistai quasi tutti, anche se fu per la didattica. Ponevo domande in classe, mi interessavo, e ciò li destabilizzava. Poi, in seconda, fu il peggio. Chissà perché i bambini di 14 anni continuano ad essere bambini e invece quelli di 16 fanno i duri, sono crudeli, e allora cominciarono a guardarmi di traverso, a non parlarmi. La vita era impossibile.
D. E che fece?
All’inizio ne fui sorpreso. Mi scoraggiai e pensai di gettare la spugna. Non sapevo nemmeno come raccontarlo ai miei genitori, così che tacqui e tenni tutto per me. Quelli della prima erano professori giovani, ma in seconda erano più anziani e non credevano in me. Dicevano che quel ragazzo non poteva imparare, che non sapevano come fare per insegnarmi, che non avrei imparato nulla, che la matematica mi costava tantissima fatica. Non vedevano nessuna luce ed io cominciai a deprimermi.
D. Che materie preferiva?
– Adoravo la storia e le scienze sociali. Leggevo riviste. E mi piaceva pure il greco. Il professore era molto giovane, appena arrivato nell’istituto, e mi piaceva tantissimo come insegnava.
D. Siamo arrivata alla terza. Che succede allora?
Che tutto ritorna positivo. Ho molti amici, facciamo dei viaggi.
D. Quando si accettò del tutto?
Presto. Diedi conferenze, e in una di quelle, quando avevo 14 anni, una signora mi chiese se mi sarei mai sottoposto alla chirurgia estetica per cambiare i tratti del mio volto. E le risposi: “No, ci sono molto affezionato”. E rincarai: “Non le piace come sono? Sono stato molto esigente con me stesso”.
Uno dei problemi dei Down è che si tende a trattarli come bambini. Quella lotta per crescere, a volte si deve fare contro la propria famiglia. Per esempio, il mio fisico è lo stesso da anni, non vedo cambiamenti in me. Quando mi chiedono quanti anni ho e rispondo 29 dicono che non li dimostro. Ciò mi dà fastidio. So che è per il fisico, ma non mi piace che mi trattino come un bambino; è molto difficile però. E’ vero che la gente pensa che sei un bambino per sempre. Forse a qualche handicappato succede. Preferiscono non crescere, come tanti altri bambini, ed essere Peter Pan per non confrontarsi con un mondo che suppongono ostile. A me non successe. Quando avevo 14 o 15 anni era tanta la mia autostima che tutto ciò che fosse autocommiserazione non mi piaceva per nulla. Volevo uscire da tutto ciò, dimostrare chi ero e che lo potevo fare.
D. In realtà, la sua vita ha dovuto essere difficile, bisogna essere un bravo guerriero per affrontarla.
Si che è duro, se non altro per dimostrare sempre che puoi. Che puoi fare questo o quello, che puoi viaggiare. E’ molto faticoso, ti sfinisce. A volte pensi che i pregiudizi siano diminuiti, ma è solo che sono più sotterranei. Al liceo ci fu una rappresentazione di fine anno. Le ragazze si accaparrarono tutti i premi, meno due che furono uno per un altro ragazzo e l’altro per me. Nel discorso finale il preside disse: “E ora vi parlerò di un ragazzo che tutti conoscete, che ha fatto un grande sforzo, al quale però nessuno ha regalato nulla. Questo ragazzo si chiama Pablo Pineda”. Quando pronunciò il mio nome, tutto il teatro si alzò in piedi ad applaudire. Rimasi di sasso.
D. A cosa le serve questa attenzione che risveglia?
Per me non è nulla, per la collettività tutto. Lo faccio per la collettività. Debbo farlo, mi sento debitore di questa collettività fin da quando ero bambino. Fin dal programma “Oggi parla Pablo”, quando avevo 8 anni e apparsi per la prima volta in televisione, e là dissi che bisognava far frequentare la scuola ai Down con gli altri bambini e lasciarli giocare insieme durante la ricreazione.
D. E’ curioso che nel tempo lei si sia diventato la stella della sua famiglia. Si lo è. Ho due fratelli che percorrono carriere universitarie, e io che sono il minore e Down… Io non credo nel destino e tutto il resto; però, senza dubbio, fin da piccolo mi resi conto che il fatto di essere segnato dalla sindrome di Down mi obbligava a qualcosa. Non essere normale ti segna, la società ti domanda qualcosa per quello. A me è successo.
D. Una signora molto informata sulla sindrome di Down mi diceva che non tutti i Down sono uguali, e questo spiegava perché lei ha potuto studiare.
Questo è un discorso che non sta in piedi. Sì, perchè risulta che le differenze non si spiegano geneticamente, si spiegano culturalmente. Lì è dove si evidenzia la differenza tra un Down che può arrivare a studiare e un altro no. Invece ci dividono in bambini-mosaico, o Down per traslocazione, o puri; queste sono le tre classificazioni di Down esistenti, geneticamente parlando.
D. La signora di cui le parlavo mi disse che per essere arrivato all’università lei deve essere mosaico.
Sì, o bassorilievo…io sono puro, sono normale. Dicono che i mosaico hanno più capacità che gli altri, ma risulta che io non sono mosaico…Così che il mio caso lascia ben chiaro che il fatto genetico non spiega la differenza. Me l’hanno detto più volte che debbo essere mosaico, che non si spiegano in altro modo la mia riuscita. A volte la comunità scientifica e la gente sono ottusi, e non capiscono nulla di ciò che la genetica non spiega.
D. Ma ciò non è ammettere, a priori, che non c’è quasi nulla da fare per voi?
Certo, come se non potessimo essere stimolati, come se non potessero insegnarci. In questo modo non si assumono le loro responsabilità. E come lo spiegano? Dicendo poi che quello era mosaico. Un altro argomento è dire che la mia sindrome è lieve, o che sono al limite. Invece no, sono puro.
D. La prima volta che parlai con sua madre mi resi conto che non era una madre comune.
Non lo è. Nulla di tutto ciò sarebbe successo se lei non avesse agito come fece. E da una madre non comune nasce un Down che per molti non è comune.
D. Ma nell’ambito del Progetto Roma, che è europeo, quanti sono andati all’università come lei?
Solo io. Ma anche fra i normali ci sono differenze e non tutti arrivano all’università, lo stesso succede a noi. Ognuno arriva dove arriva. E ciò mi da una responsabilità molto grande. Qualche tempo fa, dei genitori che andavano ad un congresso internazionale del Progetto Roma mi dicevano: “Pablo tu sei un pilastro fondamentale del progetto”. Me lo hanno detto molte volte, che ho segnato un percorso.
D. I suoi genitori l’hanno spinta perché facesse le cose da solo, consultarono i medici quando era piccolo?
Quando cominciammo, più che consultare i medici, erano loro che dicevano ai medici che cosa bisognava fare. Essi dicevano, questo bimbo non potrà imparare che le cose più semplici e i miei genitori non gli davano retta: tu occupati delle tonsille, che io mi occupo della sua educazione. Mai credettero che non potessi imparare, mai credettero al mio medico, e con tutto che era molto buono e mi voleva molto bene, ma la sua mentalità era di quell’epoca. I miei genitori pensarono sempre che dovevo essere autonomo e mi educarono per quello. Don Miguel Lopez Meleto è stato uno stimolo. Quando ero bambino, mi faceva delle piccole cattiverie. Dirmi per esempio che sarebbe venuto a prendermi e poi non venire. Lasciandomi solo, per vedere che facevo. Pensa che tipo. E io, oltre a maledire tutta la sua parentela e svenire dalla fame, dovevo arrangiarmi, prendevo un autobus.. Che avventura. Tutti, i miei genitori, mio fratello, mio zio, facevano i turni per spiarmi dietro un giornale, come dei detectives. Pure quando cadevano quattro gocce e domandavo a mio padre di accompagnarmi a scuola, mi diceva: “Mettiti l’impermeabile e vattene in autobus”. I miei genitori sono stati forti, non hanno mai ceduto, non gli ho mai trovato un punto debole.
D. Non è stato quindi superprotetto.
Ebbi però una figura protettrice. Era mia zia Encarna. Non aveva figli e mi amava molto. Fino a farmi male, nel senso che quando andavo a casa sua mi spalmava il burro sul pane, per esempio. Se mi sapeva solo in casa, mi diceva di andare a dormire da loro, non pensava che potevo dormire da solo. Quando morì fu una mazzata, però fu anche un momento di riflessione; smettevo di avere qualcuno che mi proteggesse in quel modo. Poco dopo la sua morte i miei genitori dovettero viaggiare, e quello fu per me una lezione di autonomia. Finalmente! Perché mia zia mi adorava, ma era un elemento destabilizzante. Non a caso quando essa morì sfruttai quell’autonomia. Dovevo fare acquisti, maneggiare denaro. Fu un grande cambiamento, cominciai a prepararmi la cena: l’uovo fritto, l’insalata, la bistecca, Cose facili, ma normalmente un Down non le fa; se ha dei genitori protettivi non lo fa. Perché c’è il fuoco, l’acqua che bolle, eccetera.
D. Lei ha un buon vocabolario.
Ho letto moltissimo, Giornali, riviste, periodici. Tutto.
D. E racconti?
Mia madre mi dice: “Devi leggere dei racconti invece di leggere le riviste”. Ma le riviste mi piacciono troppo. Non so, ma ho molta memoria e associo ciò che è successo un giorno con ciò che è successo a me lo stesso giorno. I racconti non mi dicono nulla. Preferisco ascoltare Los 40 Principales² che leggere una novella. Sembra una stupidaggine; di più, è una stupidaggine dire una cosa così, però che c’è di male? Perché Los 40 Principales è ciò che ascolta la gente della mia età, il mondo reale; è la musica che ascoltano i giovani. E i racconti non lo sono. I giovani non leggono i racconti, e forse proprio per questo, non li leggo nemmeno io. Cosa voglio? Ma essere un giovane, rivendico il mio diritto ad essere giovane. Questo è un argomento di discussione con i miei genitori, un dibattito filosofico. Quell’anno problematico al liceo, quella lotta con i ragazzi, tutto ciò mi fece maturare. Avevo 15 anni e l’influenza dei genitori ha molto peso a quell’età; mi introdussero quindi alla musica classica, alla cultura e io rimanevo nella bolla adulta della cultura, nello stereotipo del bravo ragazzo studioso. Quando restai solo in casa, mi dissi: ora devo far uscire la mia parte più giovane, tutto questo deve finire. Finì Beethoven. Mia madre dice che mi sono infantilizzato, che sono regredito, che prima la cultura mi interessava più che ora. Ma non è questo…ciò che sto facendo è mettermi nel mio posto. Mi manca la musica moderna, i gruppi. Il fatto è che studiavo Piaget con il canto gregoriano. Immaginate studiare Piaget con il canto gregoriano! Da morirne, andiamo; da prendere gli appunti e tirarli dalla finestra. Lo sostituii con Los 40 Principales, come mi rianimai! e imparavo più facilmente.
D. E pensa che, come gli adolescenti, lei si sta confrontando ora con i suoi genitori?
Si. Ho vissuto troppo con gli adulti. Me lo diceva pure il professore di sostegno: “Pablo ti stai isolando”. Perché restavo in casa con i libri e la musica classica. Ora c’è un’altra porta, che io la usi o no. Credo che questo faccia parte della lotta per l’autonomia, per la prima volta mi azzardo ad avere miei propri gusti. Quando vedo i miei nipoti, che incominciano ora con il violino, con il canto, penso: a 15 anni, guarda che sono proprio noiosi. A 15 anni ciò che uno vuole è uscire e divertirsi. Ma non lo dico mai, sto zitto, però lo penso. Se io avessi 15 anni, e mi mettessero in un coro a cantare il miserere….ma questo non vuol dire che io non stia bene con i miei genitori. Ma è un’altra cosa. Loro ci stanno facendo l’abitudine; mi considerano, credo, un caso perso. Prima, se volevo vedere Operazione Trionfo, mi dicevano: “Pablo che fai? Quello è una scemenza”. Ora sanno perfettamente che lo vedo lo stesso.
D. Prima diceva che il suo professore le diceva che si stava isolando. Fino a dove arrivava la sua confidenza con lui?
Con lui parlavo di tutto, di cose di cui non parlavo con mia madre: di sesso, per esempio.
D. A che età cominciarono a piacerle le ragazze?
Da sempre. Ero sempre innamorato. Ho avuto molti amori platonici. Quando vedo una ragazza molto bella, mi sto già innamorando. Mi piacciono molto le belle ragazze. Le compagne di classe mi trattavano con molta naturalezza, una mi mise in un gruppo dell’Azione cattolica. Uscivo con loro, dopo la messa ci trovavamo fuori. Un giorno, era il 1992, dopo natale, li aspettai come sempre. Dieci minuti, quindici, mezz’ora, tre quarti d’ora, e non usciva nessuno. Ero molto infastidito, fino a che non apparve qualcuno. “Scusi dov’è la gente?”. Rispose che se ne erano andati da tempo. Me ne andai piangendo a calde lacrime. Arrivai a casa dei miei zii con gli occhi arrossati. “Pablo, hai pianto?”. Da allora lasciai il gruppo. Poi mi misi con i boy scouts. A quell’epoca cercavo sempre amici e volevo sapere cosa succedesse con le ragazze, quale era il loro mondo. Allora mi era sconosciuto il concetto di disillusione. Apparve un’altra ragazza, la incontravo sempre, e mi infatuai. Era molto bella, io ci provai, “Come sei bella”, fino a quando un giorno vidi il fidanzato e amen …..Quando lo riferivo ai miei genitori, mi dicevano: “Ragazzo, Pablo, il fatto è che tu ti fissi con delle ragazze troppo belle”. In quell’epoca era un’innamoramento spirituale più che carnale.
D. E poi?
Fra gli scouts c’era un’altra ragazza. Ah, mio Dio! La stessa storia. Fino a che durante uno dei campeggi la tensione esplose. C’era il suo fidanzato, era un compagno, e lui scherzando disse: “Così ti piace tizia….”, Fu terribile, piansi, scappai, lei mi venne vicino “Pablo siamo dei buoni amici, non dobbiamo smettere di esserlo”. Come mi sentii male! Fu la cosa peggiore che potesse dirmi. E così mi resi conto che il tema delle ragazze era molto difficile…una difficoltà sconosciuta. Mi resi conto che la sindrome di Down avrebbe segnato la mia vita, che le ragazze non volevano innamorarsi di me perché ero un Down. Io comunque continuo a ribellarmi a questo pensiero. Ma so anche che questa ipotetica fidanzata dovrebbe essere così speciale che poche potrebbero esserlo. Le ragazze normali non mi vogliono; hanno molti pregiudizi, hanno paura, hanno una famiglia. Immaginati ciò che direbbe un padre che sapesse che sua figlia ha un fidanzato con la sindrome di Down…
D. Però lei dice che si ribella contro ciò. Potrebbe essere il suo prossimo obbiettivo incontrare una ragazza appropriata?
Anche se già baciarsi, sarebbe uno scandalo pubblico. Figurati. Gli adulti si scandalizzerebbero, andrebbero a chiamare un poliziotto, succederebbe un putiferio. Mi fa paura. Un paio d’anni fa stavo da solo sulla spiaggia, parlando al cellulare, e dopo cinque minuti avevo già un vigile accanto. “Che ti succede?”. “Nulla”. “ E’ che una persona mi ha riferito che ti eri perso”. Figurati, perché stavo parlando al cellulare… Se mi sto baciando con una ragazza, non viene un vigile, ne arrivano cinque.
D. Le piacerebbe vivere solo?
Per potere potrei, ma si sta molto bene in casa dei genitori, le cose stanno così. L’altro giorno ho visto un reportage sugli universitari e si diceva che la maggioranza vive con i genitori, perché la vita è molto cara e quant’altro… Io mi considero uno dei tanti, ho gli stessi problemi di qualsiasi universitario. Inoltre ho cominciato a lavorare a febbraio, nell’assessorato sociale del Comune. Mi dedico al settore dei disabili, sono quello che si chiama un mediatore. Arriva gente con disfunzionalità a chiedermi che può fare, e i loro genitori a consultarmi.
D. Dopo aver preso una laurea in magistero all’università, ora si sta laureando in psicopedagogia.
E’ un po’ più difficile, più astratto. Soprattutto la parte degli psicologi, come Piaget. E’ come un deserto. Spero di finire questo corso, allora mi laureerò ufficialmente. Il mio destino vuole andare per di lì, consigliando, orientando. Ora il direttore dell’ assessorato sociale mi ha incluso in un progetto dell’unione europea propedeutico all’impiego con sostegno, e per il quale c’è bisogno di fare un lavoro di sensibilizzazione molto importante, io andrò nelle imprese a quello scopo. Si vuole creare una rete di imprese solidali dove i disabili possano lavorare. In questo lavoro sto con un’équipe prevalentemente femminile, con Inés, Maria, Lola, e altri due ragazzi, Dani e Andrés. E’ un appoggio psicopedagogico, e sono contento, fa sì che mi senta utile.
D. Leggevo l’altro giorno in un libro che essere Down, come succede per altre cose, ti colloca in una categoria che pesa molto di più che delle potenzialità che abbiamo, dei talenti che si possano avere.
Ti etichettano e da lì non esci. Te lo terrai per tutta la vita. Così come chiamano David Bisbal il Triunfito³, a me, mi chiamano il Down. Ci sono delle consolazioni, come il fatto che il direttore dell’assessorato sociale dica ai miei compagni: “Sfruttate Pablo, ha molte capacità”. Come dire, io vedo che nel lavoro mi considerano utile, e questo mi piace. Ma ciò che più mi ricompensa è dimostrare che siamo capaci di fare, che lo vedano attraverso ciò che io faccio. Certo che tutto ciò si può capire solo se ti interessano gli altri, se sei un progressista.
D. Lei lo è?
Lo sono.
¹ Il progetto Roma nasce nel 1997 ed è conosciuto in Italia come Progetto Malaga perché frutto di una cooperazione tra l’Università di Malaga
2 ( prof.Miguel Meleto) e il Servizio Neuropsicopedagogico dell’Ospedale “Bambin Gesù” di Roma. Il progetto iniziale si chiamava “Competenze cognitive, culturali e Qualità della vita: un altro modo di educare le persone con sindrome di Down”.
² Los 40 Principales è una delle prime (1966) e più seguite emittenti radiofoniche in Spagna e America Latina con milioni di ascoltatori perlopiù giovani. Trasmette musica e permette tra l’altro al pubblico di votare i suoi cantanti preferiti.
³ El Triunfito è David Bisbal il tipico idolo delle ragazzine, il cui vero nome – Josè Maria- tradisce però la sua nascita nell’Andalusia più profonda, e concorrente con grande successo pare, alla trasmissione canora televisiva spagnola “Operacìon Triunfo”, da lì il soprannome citato da Pineda.
28 Ottobre 2013 at 20:14
A parte il fatto della laurea,mi ha colpito il come pablo si sia rialzato durante il periodo dell’adolescenza,meglio di un adolescente normale che si butta su droga e alcool,mentre quest’uomo prendeva la laurea nel 2003 io facevo la terza elementare,era arrivato un ragazzo down molto violento, io e i miei compagni ci siamo spaventati non sapevamo come fare,le maestre sapevano solo dirci:”POVERINO è DOWN”,ma con il passare del tempo ho capito che “loro” sono meglio di certe persone che si credono intelligenti padroni del mondo,ma non hanno la stessa fortuna di pablo ovvero una famiglia che ti dice alzati anche quando sei per terra e lo farà sempre fino alla fine dei suoi giorni.
28 Ottobre 2013 at 21:30
Non credi che un ragazzo down sia semplicemente se stesso, né migliore, né peggiore? Il punto era però commentare le caratteristiche dell’educazione di Pablo per fare qualche considerazione sul suoi successo formativo.
29 Ottobre 2013 at 13:52
In generale mi viene in mente subito di considerare importante la condizione familiare di Pablo. I genitori e chi ha contribuito alla sua educazione hanno saputo davvero scegliere bene il giusto mezzo per far acquisire autonomia al figlio. Ad esempio è stato importante avere davanti figure diverse, come i genitori, o ancora più importante la zia; nella quale lui vedeva l’entità “protrettrice” della famiglia. E’ stata importante la reazione di Pablo alla morte di quest’ultima, che ha fatto si che il giovane capisse di dover contare sulle proprie forze. A mio parere è giusto da parte sua difendere una collettività di cui fa parte, gli fa davvero onore. Notando come la sua mentalità fosse positiva verso il mondo e la vita e come fin da giovane, Pablo sapeva trovare un proprio posto all’interno del gruppo di compagni “normali”. In conclusione direi che mi ha molto colpito la sua storia proprio per questa voglia di capire il mondo e di viverlo che ha sempre mosso Pablo. Ma mi colpisce ancora di più il fatto che lui sa di aver avuto molta fortuna e condizioni favorevoli per rendere possibile la sua felicità, ed è ammirevole come lui voglia ricreare queste condizioni per tutti i giovani affetti da sindrome di Down nel presente, non rimanendo a godere per se stesso il frutto delle sue grandi fatiche.
29 Ottobre 2013 at 22:49
Ti leggo per ultimo Edoardo, condivido integralmente, il che è un bene visto che ho esaurito la carica giornaliera :-). A domattina.
29 Ottobre 2013 at 18:14
Pablo dimostra di amare lo studio fin dall’età di sei anni, nel momento in cui un insegnante universitario lo rende veramente cosciente del suo handicap, e le prime domande che gli sorgono spontanee sono: “Sono stupido?” e “Potrò continuare a studiare?”…la prima ottenne una risposte negativa, mentre la seconda del tutto positiva. Nel momento in cui Pablo dovette iniziare le scuole superiori, e gli insegnanti dovettero votare per ammetterlo nell’istituto, lui invece di deprimersi per questo, che magari poteva essere considerato come un gesto discriminatorio, molto intelligentemente è riuscito a prendere in simpatia sia professori che compagni lasciandoli a bocca aperta per il suo interesse e la sua intelligenza inaspettata. Ciò che ha aiutato di più pablo, sono stati i genitori, i quali al contrario di medici, hanno sempre creduto in lui e combattuto perchè diventasse autonomo, e sono riusciti a fare tutto questo trattandolo come un ragazzo “normale” e non come un malato.
29 Ottobre 2013 at 22:08
Pensi quindi che questa educazione, così speciale, così ottimista, abbia modificato un deficit genetico, o che la sindrome di down non sia, di per sé, così invalidande come si crede?
29 Ottobre 2013 at 18:50
Principalmente mi colpiscono due aspetti del pensiero di questo ragazzo: il primo è che lui sa di essere normale, sono gli altri a non accorgersene, ed il secondo è che scherza sul suo aspetto fisico in una società in cui, anche se ad oggi sono passati alcuni anni, si da molta importanza all’estetica, e dice di essere stato molto esigente con se stesso, è notevole la voglia di abbattere un pregiudizio di questo ragazzo che non vuole arrendersi ad essere definito “poverino” ma vuole dimostrare che lui non è affatto distante dai ragazzi della sua età in quanto anche lui legge riviste. Quando il giovane si informa sulla sindrome di down afferma “io non sono così”, questa frase è cruciale per capire il suo punto di vista, e da lì è partita la sua battaglia con il mondo e con chi lo reputava diverso per dimostrare che anche lui riusciva, che nulla di ciò che si diceva sui diversi stadi della sindrome di down poteva essere considerato vero in quanto lui per la gravità certificata dai medici non sarebbe riuscito ad imparare nulla se non le basi per la vita in società mentre ha di gran lunga superato le aspettative con la sua laurea.
29 Ottobre 2013 at 22:11
Come te lo spieghi, dunque?
30 Ottobre 2013 at 16:39
penso che siano state le circostanze in cui è cresciuto ad averlo aiutato nella crescita e a non averlo fatto rimanere nello stadio in cui rimangono coloro che vengono presi per persone che purtroppo non riescono.
30 Ottobre 2013 at 16:44
Si, ma la storia di Pablo non si può considerare un semplice progresso: siamo davanti ad un ragazzo down che le “circostanze” hanno portato a superare la sua disabilità, che ne pensi?
30 Ottobre 2013 at 16:49
penso che non siano condizioni irreversibili prof..se vuole sapere cosa penso riguardo l’intelligenza penso che non sia un fattore finito alla nascita, nel senso parlo con quelle poche informazioni che ho a disposizione, secondo me alla nascita siamo tutti in grado di sviluppare o meno la nostra intelligenza, che può svilupparsi o meno in base agli stimoli che riceviamo dall’ambiente che ci circonda (secondo me)
30 Ottobre 2013 at 16:50
non penso che ci sia nulla di paranormale nello sviluppo di pablo
30 Ottobre 2013 at 17:08
di paranormale sicuramente no, di eccezionale, piuttosto.
30 Ottobre 2013 at 17:07
e meno male che hai poche informazioni .. il tuo è un costruttivismo radicale (un’informazione in più 🙂 ) Anche se sei agli antipodi del senso comune, anche questa tesi presenta delle difficoltà. Se ti interessa approfondire, ti scansiono l’introduzione (di Piero Angela) al dibattito americano sul Q.I.
30 Ottobre 2013 at 17:17
🙂 ho visto che c’è anche un testo sul q.i ma a dire la verità non l’ho letto..mi sono basata su questo testo, comunque va bene
30 Ottobre 2013 at 17:33
allora se vuoi leggerlo e presentarlo in classe ai tuoi compagni te lo preparo.
30 Ottobre 2013 at 17:56
quando dovrei leggerlo?
30 Ottobre 2013 at 18:19
prof io non ho capito se me lo porta domani in classe oppure..
30 Ottobre 2013 at 22:37
oppure eccolo qui: https://gabriellagiudici.it/hans-eysenck-leon-kamin-il-dibattito-americano-sullintelligenza/
30 Ottobre 2013 at 18:28
per la fine della prossima settimana, lo sto pubblicando, si tratta di una decina di pagine.
29 Ottobre 2013 at 18:53
il video sembra la dimostrazione in fatti del pensiero di pablo comunque
29 Ottobre 2013 at 19:23
Pablo è un ragazzo affetto da sindrome down e, nonostante tutto, è riuscito a laurearsi. Inizialmente, quando si era iscritto alla scuola superiore, i professori dubitavano delle sue capacità infatti in questa intervista ci dice che i docenti per poterlo far entrare nell’istituto fecero una votazione. Pablo non si è mai arreso anzi, ha sempre cercato di smentire le notizie che si procurava riguardo alla sindrome dicendo di non essere la persona che veniva descritta e inoltre è anche stato molto stimolato dai suoi genitori dato che gli facevano fare delle cose che mai nessun adolescente avrebbe fatto a quella età.
29 Ottobre 2013 at 22:12
Secondo te, come ha potuto questa educazione, superare un handicap genetico?
29 Ottobre 2013 at 21:14
Credo che la cosa più rilevante di Pablo sia la sua forza di volontà e di dedizione per arrivare ad essere considerato una persona normale e dimostrare perciò che anche un individuo affetto da sindrome di down può essere considerato al pari degli altri. Dalla sua intervista emerge un altro fattore importante che è l’ottusità della nostra società sempre legata a pregiudizi che ha rallentato in qualche modo la crescita di Pablo. Al contrario invece l’educazione ricevuta da parte della sua famiglia ha avuto un ruolo decisivo nella sua formazione. In conclusione il caso di Pablo rappresenta una lezione importante che ci aiuta a comprendere come bisognerebbe superare questi dannosi pregiudizi che non ci permettono di dare speranze a chi, come le persone affette da sindrome di down, viene considerato al disotto della normalità facendogli credere che mai niente potrà cambiare.
29 Ottobre 2013 at 22:23
L’aspetto che cogli è il più importante, infatti ci stiamo interessando alla storia di Pablo per capire l’intelligenza, non la disabilità. A rigore, ogni apprendimento è un cambiamento inspiegabile e inatteso (non si vede, infatti, come ciò che non c’era prima possa esserci dopo): quindi questa esperienza parla proprio a noi.
29 Ottobre 2013 at 22:09
La grande fortuna di Pablo è stata quella di avere dei genitori che lo hanno educato in modo da non fargli pesare la sua malattia; infatti non lo hanno tenuto in una campana di vetro proteggendolo, ma lo hanno lasciato libero di cavarsela da solo, e grazie alla sua grande forza di volontà, Pablo, è riuscito a dimostrare al mondo le sue capacità, riuscendo persino a laurearsi. Ha dimostrato che essere “geneticamente diverso” non vuol dire essere diverso dagli altri, che avere dei cromosomi in più, non gli impedisce di poter studiare e apprendere come fanno i suoi coetanei. Pablo Pineda è un ragazzo che ha avuto il coraggio di guardare in faccia la propria malattia, per poi capire e accettare che il suo corpo rimarrà sempre quello di un bambino, ma che la sua mente non ha limiti condizionati dalla genetica e può arrivare ovunque.
29 Ottobre 2013 at 22:39
Credo che tu abbia espresso nel modo migliore il significato di quel “si podemos”. Se Pablo tornerà a leggere queste pagine, credo che il tuo commento sarà il suo preferito 🙂
30 Ottobre 2013 at 23:12
La vita di Pablo non è di certo stata facile, a partire dall’infanzia. Gli è stata diagnosticata la sindrome di Down a sei o sette anni, ma nonostante questo non si è arreso. La cosa che più interessava a Pablo era studiare e avere una vita normale. Possiamo dire che c’è riuscito e meglio di molte persone. E’ stato un ragazzo forte,della sua storia mi ha colpito soprattutto il fatto che i suoi genitori, esattamente come lui, non si sono persi d’animo e l’hanno trattato esattamente come un ragazzo in grado di fare qualunque cosa, ma in fondo era lui il primo a volercela fare. Il suo atteggiamento positivo nei confronti della sua sindrome è sicuramente da ammirare, voleva dimostrare di essere esattamente come tutti. Ha avuto una figura protettiva, sua zia Encarna e la sua morte per lui è stato uno spunto in più e ha capito che doveva e poteva fare ogni cosa. contro i Down, e per motivare tutti i ragazzi affetti da questa sindrome. Pablo crede che la società non accetti i Down, E’ stato il primo portatore di Down a laurearsi, e l’ha fatto innanzi tutto per se stesso,ma anche per abbattere i pregiudizi questo perchè la mentalità è chiusa e non si riesce ad accettare il fatto che siano persone normali, perchè spesso si associa questa sindrome alla pazzia. La storia di Pablo mi ha molto colpito perchè mi ha dimostrato che qualsiasi persona può riuscire in ogni cosa, pur avendo una sindrome incurabile. Persone così sono da ammirare, e soprattutto se ne può prendere spunto ed esempio.
2 Novembre 2013 at 12:23
Pablo è un ragazzo molto forte che nonostante la sindrome di down non si è lasciato andare e ha continuato a lottare. Questo non arrendersi e continuare a combattere è avvenuto anche grazie la famiglia che lo ha trattato come un qualsiasi altro bambino.
E’ importante, oltre la figura dei genitori che lo hanno aiutato a crescere da solo, quella della zia che era molto apprensiva nei confronti di Pablo. La morte della zia lo ha aiutato a crescere “abbandonando” una figura che lo proteggesse in quel modo. Pablo ha dimostrato che nella vita si può superare tutto persino i limiti posti dalla genetica.
2 Novembre 2013 at 12:28
Certo, Pablo ha mostrato soprattutto il valore dell’educazione in senso ampio (istruzione+formazione): è l’educazione, più che la forza di volontà ad abbattere gli ostacoli.
3 Novembre 2013 at 12:41
Sicuramente Pablo a parte il suo handicap e un ragazzo molto fortunato, fortunato soprattutto per l ambiente in cui vive, per i suoi genitori che perfettamente hanno capito come tirar fuori da lui il meglio e per la figura della zia molto protettiva che grazie alla sua dolcezza e gentilezza gli ha potuto dare sicurezza. Pero questo di Pablo e un caso eccezionale e secondo me non e solo grazie al contesto in cui e cresciuto che lui e diventato cosi. Lui afferma di essere un ”puro”, ma davvero lui e un down come tutti gli altri? io non credo, perche se davvero le cose stessero cosi, se davvero come lui sostiene intelligenti ci si diventa, allora perche e lui l unico down a essersi laureato? Perche ha avuto una buonissima educazone, ma sicuramene alla nascita gia aveva una marcia in piu, e questo, unito agli sforzi dei suoi genitori gli ha permesso di diventare una persona che nulla ha da invidiare a coloro che non sono affetti da questa patologia.
3 Novembre 2013 at 13:55
E’ praticamente impossibile giudicare dai risultati di un adulto quale ruolo abbia giocato l’eredità (il DNA, la “natura”) e quale l’ambiente (l’educazione, la “cultura”), visto che le due componenti si intrecciano e si condizionano a vicenda dai primi vagiti, non ti pare?
3 Novembre 2013 at 13:07
Questa intervista mi ha colpito molto.
Pablo Pineda è noto come il primo ragazzo Down che è riuscito a laurearsi. Mi ha colpito specialmente la sua lotta contro i pregiudizi delle persone e la voglia di non mollare. Egli parla dell importanza dei suoi genitori, di quanto ha inciso l educazione che gli hanno dato e riesce a capire che ,anche se dolorosa, la morte della zia gli ha permesso di rendersi conto di potersi autogestire da solo.
A un certo punto dice “a me, mi chiamano il Down […] Come dire, io vedo che nel lavoro mi considerano utile, e questo mi piace. Ma ciò che più mi ricompensa è dimostrare che siamo capaci di fare”.
Dalla prima parte della frase si capisce come le persone attribuiscono varie caratteristiche a persone Down (come per esempio il fatto di non capire, di essere diversi, ecc..), dalla seconda si capisce tutta l’autostima che Pablo si è costruito negli anni, trapassando quei momenti di depressione che lo facevano sentire DIVERSO e incapace di fare.
Anche se si rende conto che ci sarà sempre un qualcosa diverso dalla vita “normale” (come per esempio non poter avere una ragazza normale) non si arrende, ma anzi, continua a lottare per farsi valere e per dimostrare al mondo che LUI è capace delle stesse cose degli altri, se non più !
5 Novembre 2013 at 18:52
Leggendo la sua storia sembra di capire che le frustrazioni personali che ha subito siano compensate dall’idea di contribuire a qualcosa di più importante della vita di una sola persona: l’abbattimento del pregiudizio e la soddisfazione di contribuire a realizzare una società più giusta.
4 Novembre 2013 at 17:32
La storia di Pablo è davvero significativa perché punta l’attenzione sulla sua determinazione e la fermezza nel perseguire il suo obiettivo cioè laurearsi, la sua volontà oltre all’ambiente ricco culturalmente ed economicamente sono stati determinanti per il suo sviluppo intellettivo. I genitori hanno dato a Pablo tutti i mezzi a loro disposizione per accrescere in lui il desiderio di imparare, queste situazioni favorevoli lo hanno fatto sì che diventasse la persona che nel video parla, incita e mostra una gestualità che non si vede negli altri ragazzi del video. Infatti Pablo ha un grado di ritardo mentale meno grave rispetto agli altri, ciò lo si evince dalla fluidità muscolare (la mimica facciale e l’articolazione delle parole) meno compromessa dalla malattia. (cit. da “Testo teorico ragionato di grafologia Morettiana” del prof. Sergio Deragna
4 Novembre 2013 at 17:41
Non saprei dire se Pablo ha conservato “un certo grado ” di ritardo mentale ma, a giudicare dalla sua storia (oltre che dagli aspetti che anche tu sottolinei), credo proprio che abbia superato ogni difficoltà. Quelle restano, in realtà, soprattutto in chi lo guarda e non riesce a vedere altro che un ragazzo down.
4 Novembre 2013 at 19:55
Sicuramente come ha detto Pablo l unica differenza che ha avuto nei confronti degli altri down è l educazione ricevuta dai suoi genitori. vedendo il loro figlio diverso solo dal punto di vista fisico, hanno lottato andando addirittura contro i medici e contro il pensiero di molte persone per ottenere poi dei risultati che anche una persona “normale” si sognerebbe. Pablo sicuramente ha avuto tanta forza e tanta volontà che gli ha permesso di non fermarsi difronte a degli ostacoli, diventando cio che è ora. Questa è la dimostrazione che con la volontà e l impegno si può sopperire a dei deficit che la natura a volte creA.
4 Novembre 2013 at 20:27
Certo, l’idea che la volontà può tutto (il “self made man”) non è nuova, ciò che emerge dalla storia di Pablo è che “volontà, impegno” e fiducia, funzionano applicati alla propria formazione.